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    Dazi, un boomerang sul Pil degli Usa

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    Perché Donald Trump si è fissato con i dazi? E perché il Pil americano del primo trimestre 2025, cioè l’inizio della presidenza Trump, è stato addirittura negativo: -0,3%? Rispondere a queste due domande è l’occasione per chiarire alcune relazioni contabili tra le grandezze economiche aggregate. Può essere utile per comprendere anche le prossime mosse tra Usa ed Europa. E dovete crederci: non sono questioni troppo tecniche o complesse.Partiamo dal Pil, di cui si parla sempre per misurare la salute dell’economia nazionale. Ebbene si può dire che il Pil è il reddito nazionale (Y), cioè la somma di tutti i redditi prodotti nel Paese. Il Pil è uguale alle spese che genera, che sono di tre tipi: i consumi (C, per semplicità uniamo quelli privati delle famiglie e quelli pubblici dello Stato); gli investimenti (I); e la differenza tra export e import (X, cioè tra la parte di produzione nazionale che viene venduta all’estero, meno quella parte di consumi prodotti però oltre confine). In altri termini X è la bilancia commerciale. Contabilmente: Y=C+I+X. Nello stesso tempo, con un’altra equivalenza, il Pil (Y) cioè il nostro reddito, è uguale alla somma di quello che spendiamo (C) con ciò che invece risparmiamo (S). Se del reddito nazionale avanza qualcosa, allora significa che è stato generato risparmio. Quindi, S=Y-C: il risparmio è uguale al reddito meno i consumi. Infine, si può concludere che – sostituendo il risparmio nella formula del reddito nazionale – S=I+X: il risparmio nazionale finanzia gli investimenti, più o meno la bilancia commerciale.Basta aver presente queste semplici formule contabili per capire cosa vuole fare Trump e cosa sta succedendo nel mondo.In Usa le importazioni superano di gran lunga le esportazioni: la bilancia commerciale è negativa, X è negativo. Ma il Pil invece no, cresce (almeno fino al 2024) a ritmi sostenuti. Quindi, se Y è positivo nonostante il deficit commerciale, significa che negli Usa si consuma più di quanto si produce e si risparmia meno di quanto si investe. La differenza viene colmata dalle importazioni, che contabilmente sono un debito verso l’estero. Ecco perché Trump mette i dazi: vuole abbassare le importazioni e alzare in valore di X. Quello che non è chiaro è come possa pensare che questo accada senza una parallela contrazione dei consumi, che quindi annullerebbe l’effetto dazi rispetto al Pil. Ma questa è un’altra storia, che riguarda gli effetti futuri.Si può però dire che un’idea degli effetti futuri si è avuta con il dato del Pil del primo trimestre 2025 uscito a fine aprile e risultato negativo. E’ stato l’esito del boom delle importazioni accumulate in vista dei dazi, annunciati in aprile ma attesi dal mercato già da gennaio. In pratica quell’X della formula del reddito nazionale ha mandato il rosso l’intero Y, anche a parità di consumi e investimenti. Mentre in Europa e in Italia è successo l’esatto opposto: per noi la X della bilancia commerciale è esplosa in positivo, grazie al boom delle esportazioni. E infatti abbiamo registrato un Pil più alto delle previsioni grazie al saldo super positivo della bilancia commerciale. LEGGI TUTTO

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    Ops Bpm, Orcel fermo davanti al guado

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    La decisione definitiva non è ancora stata presa. Ma al momento il numero uno di Unicredit, Andrea Orcel, è più orientato a gettare la spugna sull’Offerta pubblica di scambio lanciata su Banco Bpm piuttosto che a proseguire. A frenare Piazza Gae Aulenti è il combinato disposto tra la mancata concessione dello Sconto Danese a Piazza Meda sull’operazione Anima (che pesa per 1 miliardo) e le stringenti prescrizioni del Golden Power. Certo è che, prima di rinunciare, Orcel non lascierà nulla di intentato. Essenziale, dunque, sarà il confronto con le autorità competenti per cercare di smussare gli aspetti più discutibili (non certo il problema Russia, sul quale il Golden Power è irremovibile) delle prescrizioni.Unicredit, quindi, si prenderà tutto il tempo necessario, visto che può legittimamente tirarsi indietro fino al 30 giugno. Quando il quadro sarà finalmente chiaro, allora arriverà il verdetto definitivo (tra l’altro, al momento le adesioni all’Ops stanno andando molto a rilento). Certo è che per Orcel sarebbe un grosso smacco dover rinunciare. Nel mercato italiano, infatti, non esiste altra preda che sia allo stesso tempo aggredibile in termini dimensionali e attraente sul fronte delle fabbriche prodotto di fondi e assicurazioni (che Unicredit non ha). Di colpo, infatti, Piazza Gae Aulenti si ritroverebbe con undici milioni di clienti e una quota di mercato nel credito del 15%, concentrata in particolar modo nelle regioni più ricche del Nord Italia. Non finisce qui, perché Banco Bpm ha in pancia i fondi d’investimento di Anima, le assicurazioni di Bpm Vita, una quota di peso nel credito al consumo di Agos e nella società di pagamenti Numia. Oltre a Banca Aletti e Banca Akros. A fare gola è anche un’altra constatazione: entro il 2027 Bpm punta a realizzare il 50% dei propri ricavi (stimati a circa 5,9 miliardi in totale per quell’anno) attraverso le sue fabbriche prodotto. Non male in un contesto di mercato in cui la politica monetaria sembra orientata a normalizzarsi, con tassi che dovrebbero essere più bassi rispetto ai picchi degli scorsi anni. E, soprattutto, un’occasione irripetibile per una banca ambiziosa che deve trovare un modo per conservare e accrescere le performance sorprendenti degli ultimi anni. C’è, nei mercati core, ovvero Italia e Germania, un target in grado di garantire prospettive analoghe? La risposta è no, ed è ancora più indigesta la possibilità – dopo l’eventuale rinuncia di Unicredit – che porterebbe a un matrimonio tra Bpm e Mps, che potrebbe essere completato da un perimetro destinato a espandersi a Mediobanca e Banca Generali. Ne nascerebbe un gruppo integrato, una piccola Jp Morgan italiana, che guarda caso è proprio il progetto accarezzato da Orcel fin da quando era merchant banker.Il dubbio è sui margini di trattativa con il Golden Power. In larga parte le prescrizioni – che hanno una durata di 5 anni – sono ispirate a un’idea di Unicredit che probabilmente va precisata negli ambienti di governo. In un’Italia dove l’azionario ha avuto ottime performance e i Btp hanno beneficiato di promozioni delle agenzie di rating e politiche di bilancio prudenti, mantenere l’esposizione di Anima a titoli italiani non è certo una iattura. E se è vero, come fa sapere Unicredit, che il mantenimento della rete di sportelli non è mai stato un problema e c’è una disponibilità ad aumentare il supporto alle imprese (incontrandosi a metà strada sulla richiesta di mantenere il rapporto depositi/impieghi di Bpm), allora l’unico nodo resta l’addio a Mosca. Ostacolo che col passare del tempo può farsi più piccolo (Unicredit sta riducendo le attività). LEGGI TUTTO

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    Webuild batte l’Argentina in tribunale. Salini ottiene rimborso da 147 milioni

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    Si risolve a favore di Webuild una vicenda durata oltre 27 anni. Un arbitrato internazionale decennale, infatti, ha assegnato al gruppo delle costruzioni guidato da Pietro Salini la somma di 147 milioni di dollari a seguito di una controversia con l’Argentina in merito al progetto per la realizzazione e concessione del collegamento autostradale Rosario-Victoria, che comprende anche un ponte di oltre 600 metri.Il gruppo, come riportato da GAR – Global Arbitration Review, ha visto riconosciuti i propri diritti riguardo al progetto argentino, i cui lavori sono stati completati nel 2004 e la cui concessione è stata rescissa nel 2014, davanti al Centro Internazionale per la Risoluzione delle Controversie sugli Investimenti, un organo della Banca Mondiale che risolve le controversie tra Stati e investitori esteri, secondo quanto previsto dai trattati bilaterali di investimento. Nel 1998, infatti, il governo argentino che stava intraprendendo un piano di privatizzazioni per attrarre investitori esteri aveva firmato con Webuild un contratto di concessione di 25 anni. Il progetto, tuttavia, ha dovuto affrontare notevoli difficoltà, coincise in particolare con la crisi economica dell’Argentina, a cui sono seguiti ritardi nei pagamenti, il fallimento di un accordo di finanziamento con la Banca Interamericana di Sviluppo e l’emanazione della Legge di Emergenza nel 2002. La legge aveva sganciato il valore del peso argentino dal dollaro statunitense, convertito in pesos i contratti pubblici originariamente stipulati in dollari e congelato le tariffe dei pedaggi, con un impatto significativo sulla sostenibilità finanziaria della concessione. Fatti, quest’ultimi, davvero pesanti per un’azienda, soprattutto se si considera che nel 2002 l’Argentina registro un’inflazione annua di circa il 41%, secondo i dati ufficiali dell’Instituto Nacional de Estadistica y Censos. LEGGI TUTTO

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    Urge trasparenza su Mediobanca-Generali

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    Gentile direttore, le considerazioni di Osvaldo De Paolini pubblicate dal Giornale sull’Ops Mediobanca-Banca Generali sono, come molto spesso accade, ampiamente condivisibili. Negli altri interventi di stampa non viene rilevata la straordinarietà del progetto di dismissione del 13,1% di Generali che Enrico Cuccia considerava la «pupilla dell’occhio», per la difesa della quale aveva ingaggiato numerosi scontri, mentre si poneva spesso un problema di autonomia di quella che era ritenuta l’unica multinazionale italiana. Si pensi, per tutti, ai non facili rapporti con Cesare Merzagora, che fu anche presidente del Senato, per un certo periodo pure al vertice della compagnia. Il cordone ombelicale con quest’ultima, benché sui generis dura da circa settant’anni; l’ingente contributo agli utili di Mediobanca è noto, così come note sono le resistenze, negli anni, alle argomentazioni di opinionisti e semplici osservatori sull’opportunità, nel dopo-Cuccia, di recidere o attenuare quel legame. Tuttavia, queste riflessioni sulla non opportunità della banca tricefala – istituto di credito a medio termine, merchant bank e holding di partecipazioni – mancava poco che fossero considerate eversive. Prima che si arrivasse al «Compromesso danese», sui rapporti tra banche e assicurazioni, era vista come una iattura la necessità che, sulla base dell’allora vigente normativa europea, la partecipazione di Mediobanca nelle Generali dovesse scendere sotto il 10%. Insomma, un pilastro delle politiche cucciane che si esplicavano pure consingolari norme statutarie, quale la durata in carica del presidente della compagnia per un solo anno, in modo da renderne possibile l’agevole revocabilità, viene ora dismesso.I tempi cambiano e anche teorie e prassi – scatole cinesi, assetti societari piramidali, partecipazioni incrociate, patti di sindacato, salotti buoni, gli strumenti preferiti dalla strategia di Cuccia – sono superate o riviste, ma ciò avviene purtroppo senza doverose critiche e autocritiche anche da parte degli epigoni. Il segno dei tempi è anche dato dal fatto che Piazzetta Cuccia lancia oggi un’Ops che, per ammissione del suo ad Alberto Nagel, è oggetto di studio da cinque anni, incredibili dictu, senza che nel frattempo sia accaduto alcunché. E comunque ora è fondamentale che sia chiaro, non solo agli azionisti, ma anche al mercato in generale e ai risparmiatori, nonché agli investitori, come l’operazione realizzi interessi di Mediobanca, delle Generali e della stessa Banca Generali. Del resto, è quanto prospetta Francesco Milleri, presidente di Delfin, chiedendo informazioni dettagliate e sottolineando che comunque dovrebbe trattarsi di un’operazione win-win, senza vincitori e vinti. Ma non meno importante è che egli abbia detto che l’Ops non disturberebbe l’altra Ops, alla quale molti guardano vedendovi un collegamento con l’iniziativa di Mediobanca. Intanto, però, poiché si tratta di due banche coinvolte, non è sufficiente la pur fondamentale prova dell’eventuale creazione di valore per i soci; dev’essere chiaro che non si tratta di una mera strategia difensiva da parte di PiazzettaCuccia, ma che l’aggregazione risponda meglio alla ragion d’essere di una banca: tutelare il risparmio e sostenere imprese e famiglie. È quanto discende dall’art. 47 della Costituzione sulla protezione del risparmio che fa delle banche – e mutatis mutandis anche delle assicurazioni – imprese particolari, per la loro regolamentazione e il loro controllo, a cominciare dai profili di stabilità e della sana e prudente gestione, quindi in primis dal piano industriale. LEGGI TUTTO

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    Auto, immatricolazioni in ripresa ad aprile. La quota di Stellantis in flessione al 30,6%

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    Il dato delle immatricolazioni di auto in Italia ad aprile è positivo (+2,7%), anche se sotto di 3,5 punti rispetto a marzo. Ancora giù, invece, le vendite di furgoni: -9,2%. È comunque grazie al noleggio a lungo (+25,8%) e a breve termine (+12,8%), insieme alle aziende che acquistano privatamente, che il mercato resta sopra la linea di galleggiamento. Il canale dei privati segna, invece, una flessione del 4,9%. Tutti numeri che portano Dataforce a prevedere, per quest’anno, vendite per 1,605 milioni di auto, in crescita del 2,3% sul 2024. Più pessimista, invece, il Centro studi Promotor che stima un volume di immatricolazioni di 1,485 milioni. «Un livello decisamente infimo – commenta il presidente Gian Primo Quagliano- rispetto alla situazione ante-crisi e che non consente la regolare sostituzione delle auto di un parco circolante che, nel 2023, aveva toccato quota 40.915.229 unità».Secondo Quagliano, «il miracolo di un circolante che cresce, mentre le vendite restano su livelli infimi, si spiega con il fatto che gli italiani, per continuare a usare l’auto, mantengono in esercizio un numero notevole di vetture usate che in tempi normali sarebbero state già rottamate. In aprile sono state acquistate 475.733 auto usate (+6,5%), quasi 2 milioni (+5,2%) nel quadrimestre». Resta sempre impietoso il raffronto con il 2019 pre-Covid e crisi varie: -20,5% sull’aprile di quell’anno. Salgono le auto elettriche (+108%), ma la quota resta sempre bassa (4,8% ad aprile). Bene, sottolinea Dataforce, le full hybrid e le plug-in: +33%. Quasi invariate le benzina (-0,88%) e male l’opzione con motori Diesel (-18%).Tra i gruppi, Stellantis rimane stabile (-0,1%), ma quota in calo al 30,6% in aprile. Positivi questi marchi: Peugeot +48,2%, Jeep +30,1%, Opel +4,4%%, Alfa Romeo +42,3%, Ds +229,1%; sempre male Lancia (-77,4%) e Maserati (-18,4%), mentre Fiat (-19,7%) attende l’«effetto Grande Panda» e Citroën segna -19,5%.Continua l’avanzata cinese sul nostro mercato: Saic con Mg fa +50,6% per una quota nel mese del 3,9%, Byd consolida l’1,2% di penetrazione, mentre Omoda si avvicina all’1%. Giù Dr, che importa veicoli dalla Cina e li omologa per l’Europa con i suoi marchi. Il calo del 18,6% sarebbe da inquadrare nel momento di espansione dell’azienda guidata da Massimo Di Risio nel Vecchio continente. LEGGI TUTTO

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    I progetti di Nagel su Medio-Generali

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    Il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, ha pensato nel dettaglio la manovra difensiva nei confronti dell’Offerta pubblica di scambio lanciata dal Montepaschi. Secondo indiscrezioni, qualora l’offerta riuscisse a superare le non poche forche caudine che ha davanti, il capo di Piazzetta Cuccia vorrebbe fondere le due società e far sedere sulla poltrona di ceo Gian Maria Mossa, attuale timoniere di Banca Generali; mentre per sé avrebbe pensato alla presidenza del nuovo gruppo, che punterebbe a diventare un leader nel comparto del risparmio gestito unendo la rete di Mediobanca Premier con quella di Banca Generali. Un’operazione che ha un senso industriale, a maggior ragione se alla fine dovesse comprendere anche Mps. Tant’è che gli analisti di Barclays hanno alzato il prezzo obiettivo di Banca Generali, incrementandolo a 60,6 euro da 52,2 euro (ieri il titolo della società è salito del 2,1% a 53,2 euro) raccomandando agli investitori di «sovrappesarla» nei portafogli. Valutazione che però non considera il contributo al conto economico di Intermonte. L’accento degli esperti viene posto sui benefici del rinnovo dello scorso 17 aprile – pochi giorni prima dell’Ops di Mediobanca su Banca Generali – della partnership con la controllata del Leone, Generali Italia. Per Barclays, si tratta addirittura di «un punto di svolta», che consentirà al gruppo di «raggiungere un bacino di clienti più ampio e di creare opportunità di cross-selling».L’entusiasmo degli analisti, peraltro, lascia più di qualche perplessità sulla valutazione riconosciuta da Mediobanca a Banca Generali. Del resto, l’addio alla costola guidata con un certo successo da Mossa provocherebbe a Trieste una voragine da centinaia di milioni di utili, a fronte di un 6,5% di azioni proprie – peraltro bloccate per un anno – destinate a svalutarsi proprio in ragione dello scambio con Mediobanca. L’operazione, che vista da Piazzetta Cuccia ha certamente il pregio di preservare ai vertici Nagel, sarebbe una mina di non poco conto sulla tanto difesa (dal ceo di Generali Philippe Donnet) joint venture sul risparmio gestito tra Natixis e Generali. C’è da scommettere che in Francia non vedrebbero più di così buon occhio la jv, soprattutto se venisse a mancare una rete da migliaia di consulenti nella distribuzione dei fondi (o comunque lo facesse dovendo pagare le commissioni a Mediobanca). E allora la già fragile architettura del deal sarebbe destinata a schiantarsi.Nel frattempo, il cda di Generali è convocato per mercoledì 7 maggio. All’ordine del giorno c’è la composizione dei Comitati interni, a partire da quello sulle Parti correlate, che giocherà un ruolo cruciale rispetto all’Ops di Mediobanca su Banca Generali, dal momento che il suo compito è istruire la discussione, che toccherà poi al board, sull’operazione. I consiglieri valuteranno, probabilmente più avanti, anche l’opportunità di passare attraverso l’assemblea dei soci. LEGGI TUTTO

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    La coscienza del capitale

    L’evento del Giornale: clicca qui per iscrivertiLe aziende hanno un limite etico? No, non è una domanda di questo secolo. È un interrogativo che ci accompagna da sempre, da quando l’uomo ha deciso di barattare, commerciare, produrre, accumulare. Non è un caso se il padre dell’economia politica classica è, prima di tutto, un filosofo morale. Adam Smith scrive La ricchezza delle nazioni, ma prima ancora ci regala La teoria dei sentimenti morali. È lì che si nasconde la chiave: il mercato non funziona senza una bussola interiore, senza una coscienza.Questa coscienza, oggi, si chiama Terra. Non il pianeta in sé, ma l’idea della Terra. L’immagine simbolica di un mondo che non possiamo più trattare come un magazzino a perdere. Non è questione di ideologia, ma di sopravvivenza. L’etica del capitalismo contemporaneo si gioca tutta sulla sostenibilità. È il nuovo termometro del profitto. Non basta più vendere: bisogna raccontare una storia, una visione, un futuro. E quel futuro, inevitabilmente, passa dalla materia prima più contesa del nostro tempo: i minerali rari.È un paradosso. Per costruire un mondo sostenibile, abbiamo bisogno di scavare nelle viscere del pianeta. Per liberarci dal petrolio, ci servono litio, cobalto, terre rare. Per produrre auto elettriche, batterie, pannelli solari, turbine eoliche, dobbiamo aprire miniere, spesso in Paesi dove le regole del gioco sono truccate, o dove il gioco non ha regole.Qui si apre il cuore del problema: il capitalismo ha imparato a parlare la lingua dell’ecologia, ma ha cambiato davvero grammatica? Oppure ha semplicemente riformulato lo stesso discorso in modo più accattivante? C’è una differenza sottile tra etica e marketing etico. La prima impone dei limiti, la seconda li aggira, li trucca, li rende vendibili.La corsa ai minerali rari è l’emblema di questa ambiguità. Prendiamo il Congo. Il sottosuolo congolese è un forziere di cobalto, fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici. Ma dietro ogni tonnellata estratta si nasconde un costo che non compare nel bilancio: sfruttamento minorile, inquinamento delle acque, conflitti armati. Lo stesso vale per il litio in America Latina o le terre rare in Cina. Il capitalismo verde ha un lato oscuro che non vuole guardare troppo a lungo negli occhi.Eppure, qualcosa si muove. Le imprese hanno iniziato a percepire che l’etica non è solo un freno, ma un investimento. Non è (solo) idealismo, è anche realismo. I consumatori sono cambiati. Vogliono sapere da dove arriva ciò che acquistano, chi lo ha prodotto, in quali condizioni. Vogliono sentirsi parte di un’economia che non divora il futuro. Questo ha costretto il capitalismo a una metamorfosi. L’impresa del XXI secolo non può più essere solo efficiente: deve essere anche decente.La differenza la fa la narrazione. Un prodotto etico ha un valore aggiunto che il mercato riconosce. Le aziende si contendono certificazioni, etichette, standard ambientali. Alcune davvero ci credono, altre si adeguano per convenienza. Ma il risultato è che l’etica è entrata nel perimetro del profitto. È diventata una variabile strategica. E questo, per quanto cinico possa sembrare, è già un passo avanti.Ma non basta. Serve una mappa, una bussola. Serve capire dove stiamo andando. Il rischio è che la nuova utopia verde diventi l’alibi perfetto per un neocolonialismo tecnologico. I Paesi ricchi salvano il pianeta, mentre quelli poveri pagano il conto ecologico. È una narrazione comoda, ma falsa. Non esiste sostenibilità senza giustizia. Non esiste futuro senza equità.Adam Smith lo direbbe meglio di chiunque altro. Il mercato funziona solo se è incastonato dentro un sistema di valori. Se perde il legame con la comunità, con la fiducia, con la reciprocità, implode su se stesso. L’avidità, da sola, è una cattiva consigliera. La ricchezza delle nazioni non si misura solo in PIL, ma in benessere condiviso.Forse il capitalismo è a un bivio. Può scegliere se diventare maturo o restare adolescente. Maturare significa accettare dei limiti. Non quelli imposti da una burocrazia ideologica, ma quelli suggeriti dalla realtà. Il limite ecologico è il nuovo orizzonte dell’economia. Non possiamo più vivere come se la Terra fosse infinita. Né possiamo affidarci a una tecnologia miracolosa che ci salverà all’ultimo minuto.La vera sfida è politica. È immaginare un sistema che premi le imprese virtuose, che penalizzi lo sfruttamento, che tuteli i diritti umani lungo tutta la filiera produttiva. Non possiamo lasciare che siano solo i consumatori a guidare il cambiamento. Occorre una visione collettiva. Una responsabilità condivisa.Il futuro si costruisce anche con i minerali rari, ma non deve diventare una nuova corsa all’oro. La lezione, semmai, è che non esistono scorciatoie. Ogni innovazione ha un prezzo. La domanda è: chi lo paga?Il capitalismo può avere un limite etico, ma solo se noi glielo imponiamo. Non con la forza, ma con la scelta. Con l’educazione, con la trasparenza, con la vigilanza. Non dobbiamo affidarci alla bontà delle aziende, ma alla nostra capacità di chiedere conto. Di leggere le etichette. Di premiare chi rispetta le regole. Di immaginare un’economia che non sia solo efficiente, ma anche giusta.Alla fine, la vera ricchezza delle nazioni è questa: la capacità di costruire un futuro in cui il profitto non sia nemico del bene comune, ma suo alleato. È un compito difficile, certo. Ma è l’unico che valga la pena di affrontare. LEGGI TUTTO