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    Tim scivola sul canone. I giudici dilatano i tempi

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    Tempi più lunghi per la restituzione del miliardo di canone concessorio dallo Stato. Per Tim la doccia fredda è arrivata dalla Corte di Cassazione che ha sollevato d’ufficio una questione relativa alla correttezza dell’impugnazione della società guidata dall’ad Pietro Labriola nella sentenza di primo grado sulla restituzione del canone versato nel 1998 dall’allora Telecom. Gli ermellini hanno chiesto di verificare se, all’epoca dei fatti, fosse stato corretto presentare l’appello come fece Tim oppure se si sarebbe dovuto ricorrere al cosiddetto regolamento di competenza (lo strumento previsto dal codice civile per risolvere i conflitti sulla competenza dei giudici). Quello che è sicuro, al momento, è che il tutto slitta per lo meno di un mese, perché questo è il lasso di tempo concesso alle parti per depositare le proprie osservazioni. Difficile prevedere come andranno poi le cose, un’incertezza che è risultata essere indigesta al mercato. Proprio la speranza di un incasso a breve termine del miliardo aveva fatto correre il titolo di Tim, che in mattinata era arrivato a balzare oltre 0,40 euro per azione (ai massimi da febbraio 2022) dopo che il Procuratore generale della Cassazione aveva chiesto il rigetto del ricorso dello Stato contro la restituzione del canone. La notizia del possibile vizio di proceura, però, è arrivata a far crollare il titolo fino a -4,9% che ha poi ritracciato a -2,1% a 0,383 euro.La vicenda è per lo più tecnica. In origine, nel 2018, il Tribunale di Roma si era dichiarato incompetente a giudicare, ritenendo applicabile l’articolo che attribuisce la competenza alla Corte d’Appello territorialmente più vicina in caso di procedimenti relativi alla responsabilità civile dei magistrati, individuando in questo caso la Corte d’Appello di Perugia. Tim però aveva ottenuto, con sentenza passata in giudicato, che si trattava di un’azione di risarcimento del danno promossa nei confronti dello Stato. Quindi la competenza, secondo il giudice di Perugia, spettava alla Corte d’Appello di Roma. Da quel momento, la causa ha proseguito il suo iter a Roma, dove si è infine conclusa con la sentenza favorevole a Tim per la restituzione del canone. L’attuale intervento riguarderebbe esclusivamente un aspetto procedurale e non sul merito della questione. Qualora la Corte, al termine dei 30 giorni, ritenesse necessario un regolamento di competenza, la procedura riprenderebbe da Roma (ma c’è anche il rischio di ripartire dal primo grado). Ma ben difficilmente il miliardo potrà fluire nelle casse dell’ex monopolista entro quest’anno. LEGGI TUTTO

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    Orcel: “Escludo scalate alle Generali”

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    «Se Unicredit volesse scalare Generali, farei una telefonata a Orcel e gli direi di fermarsi», aveva detto lunedì l’ad di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, al Consiglio della Fabi in corso a Milano. Questa telefonata ci sarà? Ieri, dallo stesso palco, è arrivata la risposta di Andrea Orcel: «La possiamo escludere». Il ceo di Unicredit, al centro del risiko per l’Ops sul Banco Bpm e per la scalata a Commerzbank di cui ha già il 30%, ha dunque escluso di voler muovere le sue pedine sulla compagnia triestina di cui il gruppo da lui guidato detiene il 6,7 per cento. Escluse anche manovre su Banca Generali (sotto Ops di Mediobanca) perché, ha detto Orcel, «non verrà chiesto agli azionisti questo passaggio, passa direttamente in consiglio». Per il Leone «credo che Banca Generali sia un ottimo canale di distribuzione. Ridurre la distribuzione, io come banca non lo farei mai», ha aggiunto.Il focus dell’intervento del banchiere romano resta per ora sul Banco Bpm. Con la battaglia dei tribunali, i tempi rischiano infatti di scavalcare il 23 luglio, ovvero il termine posticipato da Consob con la sospensiva dell’offerta. Il 4 giugno si terrà la prima udienza al Tar del Lazio in seguito all’appello di Unicredit contro le condizioni imposte dal governo per permettere l’acquisizione dell’istituto di Piazza Meda. «Il percorso Tar-Consiglio di Stato non arriverà in tempo per darci certezza della chiusura dell’operazione» ha detto ieri Orcel, ammettendo che quindi l’offerta «potrebbe» decadere. Poi «può essere sempre riproposta. Il nostro ricorso al Tar è una questione di chiarezza, non di combattimento». L’aggregazione è «un’operazione valida industrialmente e strategicamente, però si scontra su visioni diverse che rendono l’operazione de facto non economica», ha proseguito il ceo di Unicredit riferendosi ai paletti fissati dal governo con il golden power.Strumento, che ha sottolineato Messina lunedì dando un consiglio di realpolitik al collega, deve essere considerato nel nuovo contesto geopolitico di sicurezza nazionale. Su questo punto l’ad Unicredit ieri è stato diplomatico: «L’influenza degli Stati sulle operazioni di mercato è diventata molto significativa e bisogna tenerne conto. Da un altro punto di vista, se guardiamo alle istituzioni europee, queste hanno una visione diversa perché vogliono un sistema monetario più forte». LEGGI TUTTO

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    La Perla salva, spunta un investitore

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    Dopo anni di lotte delle operaie e le complicate vicende che sono seguite al fallimento, uno dei simboli della moda Made In Italy è salvo: La Perla, marchio bolognese della lingerie di lusso, ha un acquirente che nelle prossime settimane presenterà il nuovo piano industriale per rilanciare un’azienda diventata simbolo della crisi del lavoro, ma anche dell’orgogliosa difesa di una manifattura super specializzata che dell’azienda è uno degli asset insostituibili.L’annuncio è arrivato dal ministro per le Imprese Adolfo Urso, che ha partecipato a un tavolo che si è tenuto nello stabilimento di via Mattei, alla periferia di Bologna. «Grazie all’impegno straordinario dei commissari – ha detto Urso – dei curatori italiani, dei liquidatori inglesi e dello staff del Mimit, abbiamo individuato una soluzione industriale per una delle crisi più emblematiche del settore moda, tra le più complesse mai affrontate dal ministero, per la prima volta alle prese con più procedure in diversi Paesi, con una complessità legale che appariva inestricabile. Un grande successo frutto di un lavoro di squadra». LEGGI TUTTO

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    Papa: con Sondrio 6 milioni di clienti. Maioli: da Agricole nessuna ostilità

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    «Noi non siamo leoni, accogliamo ma non mangiamo. Vogliamo fare crescere. Crediamo molto nell’operazione sulla Popolare di Sondrio» perché «ha una valenza industriale forte». Il ceo di Bper, Gianni Franco Papa, al Consiglio nazionale della Fabi ieri ha ricordato che «l’operazione con Sondrio è la conclusione del processo trasformativo di una banca il cui dna resta Popolare». E ha ribadito che «il prezzo offerto, con il relativo premio, è giusto». Con Sondrio «raggiungeremo 6 milioni di clienti, confermeremo il nostro ruolo di banca numero tre nel sistema italiano». Poi ha aggiunto: con un «azionariato stabile, mi riferisco a Unipol come maggiore socio della banca, abbiamo una stabilità che – mai dire mai – ci protegge dal diventare gazzella».Rispondendo a una domanda sui dieci anni dalla riforma Renzi sulle Popolari (era gennaio 2015 quando il governo di allora ha cancellato il voto capitario per le banche con oltre 8 miliardi di asset), Papa ha sottolineato che «il voto capitario a volte è anche sinonimo di debolezze del sistema perché può portare, in certe situazioni, ad essere autoreferenziali, creando un rapporto col territorio che, è giusto che ci sia, ma noi rispondiamo al mercato, non alle singole congregazioni del territorio. Da questo punto di vista, la riforma ha funzionato».Ieri sul palco del congresso del sindacato guidato da Lando Sileoni, è salito anche Giampiero Maioli, presidente di Crédit Agricole Italia che è coinvolta nel risiko come azionista di peso del Banco Bpm (ha poco meno del 20%). Le operazioni di M&A annunciate o in corso sono «tutte locali. Io da manager italiano sarei anche felice di vedere m&a cross border», ha esordito Maioli. LEGGI TUTTO

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    Orsini: “Subito un Piano Straordinario: imprese italiane a rischio tenuta”

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    nostro inviato a BolognaUn Piano Industriale Straordinario per salvare la manifattura italiana e rimettere in moto la crescita del Paese. È la proposta lanciata dal presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, dall’assemblea annuale (che ieri si è tenuta per la prima volta non a Roma ma a Bologna per «valorizzare i territori») rivolgendosi direttamente al premier Meloni e alla presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola. «Servono almeno 8 miliardi l’anno per tre anni da destinare agli investimenti produttivi, utilizzando le risorse del Pnrr che non potranno essere spese entro il 2026», ha detto Orsini sottolineando che solo in questo modo si può evitare il rischio di deindustrializzazione in Italia. L’obiettivo è ambizioso: «raggiungere almeno il 2% di crescita del Pil nel prossimo triennio».«O si potenzia l’Ires premiale o si ripristina un’Ace (l’aiuto alla crescita economica abolito da quest’anno; ndr) per l’industria, strumenti più che mai essenziali per patrimonializzare e incrementare gli investimenti del sistema produttivo italiano», ha rimarcato il numero uno degli industriali. La produzione cala da due anni, e la crisi sta bloccando gli investimenti in impianti e macchinari. L’occupazione tiene solo grazie allo sforzo delle imprese. «Tra le grandi imprese industriali associate a Confindustria, due su tre (67,9%) stanno trattenendo i propri dipendenti nonostante il calo dell’attività. Di queste, oltre un terzo (34,8%) lo fa per mantenere le competenze già presenti in azienda, consapevole delle difficoltà nel reperire nuovo personale qualificato. Ma per quanto potremo ancora farlo?», si è chiesto retoricamente.Un’ampia parte del discorso è stata dedicata alla critica delle disfunzionalità delle regolamentazioni europee. «Non possiamo indebitare i costruttori europei costringendoli ad acquistare le quote di CO2 da Byd e Tesla per rispettare i vincoli europei che ci siamo autoimposti. È una vera pazzia», ha ribadito Orsini. «Non vogliamo buttare via gli investimenti miliardari fatti per trasformare il diesel in un motore pulito e performante. Come non vogliamo costringere gli automobilisti ad usare auto elettriche di altri continenti», ha affermato.Anche «il Patto di Stabilità deve consentire un grande piano di sostegno agli investimenti dell’industria, in ogni Paese europeo. Altrimenti, non è un patto per la crescita. È un patto per il declino dell’Europa», ha detto Orsini. Per questo, serve un nuovo orizzonte comune. «Bisogna lavorare seriamente alla creazione del mercato unico degli investimenti e dei risparmi, a maggior ragione visto che oggi importanti flussi finanziari potrebbero abbandonare gli Stati Uniti.Perché serve un nuovo patto per l’Europa? Se con la nuova temperie trumpiana, «anche solo 300 medie imprese decidesserodi spostare la produzione all’estero, le ricadute negative riguarderebbero almeno 100mila occupati», ha spiegato Orsini. Di qui l’appelloi a Metsola. «Mentre negoziamo con l’amministrazione americana, dobbiamo accelerare sugli accordi di libero scambio con altre aree del mondo per diversificare gli sbocchi del nostro export», ha rilevato. LEGGI TUTTO

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    Washington avverte Pirelli: “A rischio le vendite in Usa”

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    Pirelli Cyber Tyre, ovvero la tecnologia basata su pneumatici sensorizzati che, per la prima volta, è in grado di far dialogare le gomme con l’intelligenza dei veicolo, finisce al centro dell’ennesimo battibecco tra Stati Uniti e Cina. Il governo americano, infatti, avrebbe avvertito Pirelli sulla possibilità che i veicoli contenenti gli pneumatici con sistema hardware e software Cyber Tyre potrebbero essere soggetti a restrizioni nella vendita sul suo mercato. Il motivo: le preoccupazioni di Washington legate all’influenza del socio cinese, Sinochem, azionista al 37% del gruppo della Bicocca, davanti a Camfin (recentemente salita al 27% circa).Tutto questo solleva, infatti, interrogativi da parte dell’Authority americana a proposito della potenziale influenza cinese sulla tecnologia e sui dati raccolti dal sistema Cyber Tyre.L’avviso informale, descritto in una lettera datata 25 aprile dal Bureau of Industry and Security (Bis) del Dipartimento del commercio e riportato dall’agenzia Bloomberg, sostiene che i costruttori di vetture, che integrano la tecnologia Pirelli Cyber Tyre nei loro prodotti connessi, potrebbero dover richiedere un via libera specifico per poter vendere tali mezzi nel Paese.L’avviso del «Bis», per il gruppo capeggiato da Marco Tronchetti Provera, conferma la preoccupazione per i piani di sviluppo negli Stati Uniti. Dalla Bicocca, per ora, nessun commento. Da tempo il management di Pirelli aveva avvisato i soci dei possibili rischi derivanti dalle normative americane e avviato trattative con gli stessi soci per trovare una soluzione anche a livello di governance. Trattative che, in occasione della trimestrale, Pirelli aveva fatto sapere che si erano concluse senza esito positivo.Era stato Andrea Casaluci, amministratore delegato di Pirelli, a illustrare lo scorso anno al «Festival of Speed» di Goodwood, la nuova iniziativa della Bicocca, una vera rivoluzione hi-tech per il mondo degli pneumatici. «Tale sistema – le parole del top manager – aggiunge alle funzioni degli pneumatici, che rappresentano l’unico punto di contatto tra il veicolo e l’asfalto, quella di dialogare con i sistemi di controllo di stabilità del mezzo, tra i quali l’Abs, l’Esp e il controllo della trazione».La tecnologia Cyber Tyre, già proposta sperimentalmente su McLaren Artura e Audi Rs3 Anniversary, riguarda anche gli pneumatici P Zero Corsa, P Zero Trofeo Rs e P Zero Winter sviluppati appositamente per l’hypercar Pagani Utopia, prima auto al mondo ad avere di serie questa soluzione.Un caso al contrario, rispetto a quello che interessa Pirelli, ha riguardato l’americana Tesla di Elon Musk. Alle auto elettriche a stelle e strisce, che vengono prodotte anche nello stabilimento di Shanghai, il governo di Pechino aveva proibito il passaggio attraverso alcune zone definite sensibili. In questo caso le autorità cinesi non avevano digerito la presenza di troppi sensori e telecamere a bordo delle vetture. LEGGI TUTTO

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    Occhio a commettere questa infrazione stradale, rischi 2mila euro di multa

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    In questo periodo si parla spesso di autovelox e di sanzioni comminate per eccesso di velocità; per quanto la questione relativa alla validità di certe multe abbia portato alcuni automobilisti a non prestare più l’attenzione di un tempo ai dispositivi di rilevazione elettronica, è bene ricordare che in strada bisogna sempre spostarsi con cautela, e che a seconda del tipo di infrazione si possono rischiare sanzioni molto salate.Non rispettare i limiti di velocità rimane al primo posto fra le ragioni per le quali è possibile ricevere una multa. Si tratta, fra l’altro, di una delle infrazioni ritenute più gravi nel Codice della Strada. In alcuni casi specifici si possono addirittura superare i 2mila euro di multa, e non solo.Un eccesso superiore a 40 km/h ha come conseguenza una sanzione di oltre 2mila euro, a cui si accompagna il ritiro della patente. I provvedimenti sono severi perché stiamo parlando di una situazione di poteziale pericolo sia per gli automobilisti che per gli altri. Lo scopo è quello di indurre il guidatore a rispettare certi limiti di velocità, e non esporsi a situazioni a rischio. Secondo un recente studio condotto da Anas, il 51% dei cittadini italiani non ritiene pericoloso superare i limiti di velocità, mentre il 16,4% è convinto che i guidatori esperti possano tranquillamente superarli. Sono convinzioni sbagliate: superare i limiti di velocità comporta seri rischi, con conseguenze potenzialmente letali.Venendo alle sanzioni, superare il limite di velocità oltre i 40 km/h ma entro i 60 km/h può portare a una multa dai 543 ai 2.170 euro. Non è consentito neppure lo sconto del 30% che viene generalmente garantito in caso di pagamento del verbale entro 5 giorni. Se l’infrazione viene commessa nelle ore notturne (22.00-7.00) la multa parte da 724 euro. Prevista, inoltre, la decurtazione di 6 punti dalla patente e la soppressione della patente da 1 a 3 mesi. LEGGI TUTTO

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    Immatricolazioni auto, ad aprile Tesla dimezza le vendite rispetto un anno fa

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    In Europa immatricolazioni di auto in aprile pressoché stabili rispetto al medesimo mese del 2024 (-0,3%) e lo stesso vale se si prende in considerazione il primo quadrimestre dell’anno: -0,4%, in volumi 4.459.077 veicoli complessivi. Il mese scorso, solo due dei cinque major market (incluso il Regno Unito) registrano un rialzo: +7,1% la Spagna e +2,7% l’Italia. La Germania resta stabile (-0,2%), mentre calano la Francia (-5,6%) e il Regno Unito, in contrazione a doppia cifra (-10,4%).Confermato dai dati resi noti da Acea, l’Associazione dei costruttori europei di auto, il tracollo dell’americana Tesla (-49%) con 7.261 vetture immatricolate (erano state ben 14.228 nell’aprile 2024) e male, per la società di Elon Musk, anche i primi quattro mesi dell’anno: -38,8%, ovvero 61.320 auto acquistate (dalle precedenti 100.255). Leader nelle vendite di auto elettriche fino al 2024, Tesla e stata superata in questa categoria in Europa nel mese di aprile da ben dieci marchi, tra cui Volkswagen, Bmw, Renault e, soprattutto, dall’agguerrito concorrente cinese Byd. A danneggiare Tesla sono, in particolare, le posizioni assunte dal suo numero uno Musk e le sue azioni all’interno del «Doge», la Commissione dell’amministrazione Trump incaricata di operare drastici tagli alla spesa federale.Nel primo trimestre del 2025, le vendite di Tesla sono così diminuite del 13% su base annua a livello mondiale, con un calo particolarmente marcato nell’Ue. Da segnalare la crescita continua in Europa di Saic, gruppo cinese presente con il marchio britannico Mg: +24,5% ad aprile (21.677 auto vendute) e +31,2% da gennaio, ovvero 100.011 unità. La quota mercato complessiva di Saic in Europa è del 2,2%. LEGGI TUTTO