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    Una cena nella stratosfera per 500mila dollari

    Caricamento playerSpaceVIP, un’azienda statunitense che offre viaggi nello spazio, ha annunciato di voler organizzare viaggi di lusso di sei ore nella stratosfera, uno degli strati più bassi dell’atmosfera, che comprenderanno un pasto cucinato dallo chef di un ristorante premiato con due stelle della guida Michelin. L’esperienza di fine dining, come viene definito nel mondo anglosassone il settore dei ristoranti di alto livello, a 30 chilometri di altitudine, costerà 500mila dollari (circa 450mila euro) a persona e nel primo viaggio sarà riservata a sei clienti.
    L’azienda ha detto all’agenzia Bloomberg che già nel primo giorno dopo l’annuncio ha ricevuto manifestazioni di interesse per la proposta superiori ai posti a disposizione. Lo chef coinvolto è il danese Rasmus Munk, del ristorante di Copenaghen Alchemist, che nell’ultima edizione della guida World’s 50 Best Restaurants era considerato il quinto migliore al mondo. SpaceVIP ha detto che la prima cena di questo tipo sarà organizzata a fine 2025.
    Un rendering della SpaceVIP (YouTube/SpaceVIP)
    L’esperienza culinaria si aggiunge all’offerta di un viaggio nella stratosfera in una capsula pressurizzata sollevata da un pallone spaziale, una tecnologia sviluppata dalla NASA che non prevede l’utilizzo di un razzo, ma è più simile a una mongolfiera. Lo Space Perspective Neptune balloon è alimentato a idrogeno e secondo quanto promesso dall’azienda partendo da Cape Canaveral, in Florida, salirà fino a un’altitudine di 30 chilometri, per poi viaggiare per una trentina di chilometri prima di iniziare la discesa verso l’oceano. Per partecipare al viaggio non servono allenamenti o specifici addestramenti, e il viaggio permetterà di osservare dall’alto la Terra al momento del sorgere del sole. La cabina sarà dotata di connessione wi-fi, principalmente per permettere ai clienti di trasmettere in diretta sui social momenti dell’esperienza.
    L’interno della capsula in un rendering della SpaceVIP (Youtube/SpaceVIP)
    Tecnicamente non sarà un viaggio nello Spazio: anche se non è possibile definire in modo esatto dove finisca la Terra e inizi lo Spazio, molti scienziati che ne dibattono da tempo tendono a considerare che si possa parlare di Spazio a partire dalla termosfera, il quarto dei cinque strati in cui si suddivide convenzionalmente l’atmosfera, che si trova assai più in alto della stratosfera (che invece è il secondo strato dell’atmosfera).
    La Terra è circondata dall’atmosfera, che protegge gli esseri umani da una serie di radiazioni solari che si rivelerebbero mortali per moltissime specie viventi. Questo scudo atmosferico è costituito da cinque strati. La troposfera è lo strato più basso, arriva tra i 9 e i 17 chilometri di altitudine dal suolo. È ideale per i voli di linea perché è abbastanza densa e stabile. Finita la troposfera inizia la stratosfera – quella dove sarà organizzata la cena di SpaceVIP – che arriva più o meno fino ai 50 chilometri di altitudine. Subito dopo c’è la mesosfera, lo strato dove secondo gli Stati Uniti inizia lo Spazio, che arriva fino a circa 80 chilometri di altitudine. L’esosfera, lo strato più grande, inizia a 690 chilometri al di sopra del suolo terrestre e prosegue fino a 10mila chilometri: è poco densa e non ha moltissime cose in comune con gli strati più bassi dell’atmosfera. Fra mesosfera e esosfera c’è la termosfera: è dove si trova la a Stazione Spaziale Internazionale (ISS), dove volavano gli Shuttle della NASA e dove si trovava la MIR, la stazione spaziale russa.

    – Leggi anche: Dove finisce la Terra e inizia lo Spazio?

    SpaceVIP organizza anche viaggi spaziali, quindi oltre la termosfera. La cena cucinata dallo chef Munk invece sarà nella stratosfera: i viaggi di prova cominceranno nel prossimo mese e il menù proposto dallo chef, che parteciperà al primo viaggio, non è ancora stato definito. L’azienda vorrebbe poi organizzare viaggi successivi a un prezzo più contenuto. Non è la prima comunque a proporre un’esperienza di questo genere: l’anno scorso l’azienda francese Zephalto, che si occupa di turismo spaziale, pubblicizzò la possibilità di un viaggio con un pasto nella stratosfera per 120mila euro a persona, ma a partire dal 2025. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Il crisocione è un parente molto lontano dei cani ed è originario del Sudamerica. Chiamati anche “lupi dalla criniera”, gli adulti raggiungono un’altezza di circa 85 centimetri: le gambe sono molto lunghe rispetto al resto del corpo, ma risultano utili  per muoversi più agilmente nell’erba alta. Tra gli animali fotografati in settimana c’è uno dei due cuccioli di crisocione nati a febbraio al Parco Natura Viva di Bussolengo, in provincia di Verona. Al momento il suo pelo è ancora tutto nero: in questo modo se fosse in natura potrebbe proteggersi dai predatori confondendosi tra le zampe degli adulti. Poi ci sono Messi, il cane del film Anatomia di una caduta, tra il pubblico degli Oscar, una farfalla sulla spalla di una persona, capretti che si spingono e anatre parigine. LEGGI TUTTO

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    Tra i mammiferi sono più grandi i maschi o le femmine?

    Caricamento playerNel suo trattato L’origine dell’uomo e la selezione sessuale del 1871, il celebre naturalista britannico Charles Darwin scrisse che nel regno animale «in generale i maschi sono più forti e più grandi delle femmine», occupandosi poi in particolare dei mammiferi per spiegare alcune caratteristiche degli esseri umani. Darwin non era l’unico a pensarla in quel modo e a 150 anni di distanza quella convinzione continua a essere piuttosto condivisa non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche nel senso comune.
    Eppure, secondo una ricerca da poco pubblicata, quella convinzione è probabilmente errata e non ci sono elementi per sostenere che tra i mammiferi i maschi siano più grandi delle femmine. Nella maggior parte dei casi, almeno.
    Il nuovo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, è stato guidato da Kaia J. Tombak, una ricercatrice della Princeton University (Stati Uniti) che alcuni anni fa aveva partecipato a un seminario online sui livelli di aggressività in alcune specie i cui maschi e femmine hanno la medesima stazza. Discutendo con i colleghi del corso, Tombak si era accorta che mancavano dati per formulare ipotesi credibili e decise quindi di dedicarsi all’argomento, provando in primo luogo a capire se esistessero effettivamente differenze nella stazza tra varie specie di mammiferi.
    Man mano che cercava il materiale insieme a due colleghi, Tombak notò quanto fosse difficile avere dati coerenti e come la questione fosse stata tutto sommato trascurata in passato, fatta eccezione per qualche studio risalente a una cinquantina di anni fa. Il suo lavoro di ricerca era quindi consistito nel raccogliere dati dalla letteratura scientifica tenendo in considerazione le informazioni sulla massa che mediamente raggiungono gli individui adulti in determinate specie. La massa non è l’unico indicatore per determinare la grandezza di un mammifero, ma è il dato che ricorre più spesso (banalmente perché è più semplice pesare o fare la stima del peso di un animale rispetto a valutarne il volume).
    Non potendo valutare tutte le 6.400 specie di mammiferi esistenti di cui siamo a conoscenza (le stime variano in base alle classificazioni), il gruppo di ricerca ha seguito un approccio statistico, costruendo un campione basato sul 5-6 per cento delle specie per ciascuno dei 16 ordini di mammiferi che contengono almeno una decina di specie; all’elenco sono state poi aggiunte altre specie, selezionate per rendere ancora più equilibrato e rappresentativo il campione. La lista finale conteneva 429 specie con informazioni sulla massa corporea di individui adulti sia di sesso maschile sia di sesso femminile.
    L’analisi finale ha tracciato una situazione diversa da quella descritta un secolo e mezzo fa. Tra le 429 specie di mammiferi prese in considerazione, i maschi avevano una stazza più grande delle femmine solo nel 45 per cento dei casi. Nel 39 per cento dei casi gli individui appartenenti ai due sessi avevano sostanzialmente la stessa massa e nel 16 per cento dei casi erano le femmine ad avere una massa superiore a quella dei maschi. I dati, dice lo studio, sembrano indicare che la maggiore grandezza degli individui di sesso maschile non sia la norma, o per meglio dire che non ci sia una regola unica attraverso le specie di mammiferi sulla differenza di stazza tra i sessi.
    (Nature Communications)
    I maschi con massa superiore a quella delle femmine sono risultati più frequenti tra i carnivori, gli ungulati e alcune specie di primati. Questi animali sono di solito più studiati di altri quando si tratta di valutare le differenze dovute al sesso, di conseguenza questa potrebbe essere una delle cause del perdurare della convinzione sulla maggiore dimensione dei maschi in generale tra i mammiferi.
    Roditori e pipistrelli sono relativamente meno studiati, nonostante tutte le loro specie messe insieme costituiscano circa la metà di quelle di mammiferi. Dallo studio è emerso che nel 48 per cento delle specie di roditori prese in considerazione non c’erano differenze di stazza, mentre nel 44 per cento i maschi erano più grandi. Nel caso dei pipistrelli il gruppo di ricerca ha notato che nel 46 per cento delle specie analizzate le femmine erano più grandi.
    La differenza tra individui appartenenti alla medesima specie ma di sesso diverso (“dimorfismo sessuale”) è studiata da tempo, proprio perché attraverso lo studio delle differenze si possono comprendere alcune caratteristiche tipiche di una specie. Le ricerche si sono dedicate anche alle differenze di stazza e una delle teorie più condivise dice che in molte specie i maschi dei mammiferi sono più grandi perché devono competere tra loro per contendersi le femmine. La competizione implica spesso un confronto fisico, di conseguenza nel corso dell’evoluzione sarebbero stati avvantaggiati gli individui casualmente nati di stazza maggiore. Per alcune specie di grandi carnivori è probabilmente vero, anche sulla base delle osservazioni del comportamento animale, ma è difficile applicare la medesima ipotesi a molte altre specie di mammiferi.
    Tra i roditori e i pipistrelli le cose funzionano diversamente e la minore quantità di studi sul dimorfismo sessuale di questi animali forse spiega in parte perché sia ancora diffusa la convinzione che in generale tra i mammiferi i maschi siano più grandi. Nel caso dei pipistrelli, per esempio, avere una stazza maggiore è probabilmente un vantaggio per le femmine che devono volare anche durante la gravidanza, quando la loro massa è più grande (gli uccelli non hanno questo problema, visto che depongono le uova): hanno bisogno di più forza e capacità alare.
    Il nuovo studio cita il lavoro della biologa statunitense Katherine Ralls che negli anni Settanta pubblicò una ricerca dove metteva in dubbio la convinzione sulla maggiore stazza degli individui maschi tra i mammiferi, arrivando a conclusioni simili a quelle del gruppo di ricerca di Tombak. All’epoca Ralls aveva analizzato i dati su alcune specie di mammiferi segnalando come fossero comuni femmine di maggiori dimensioni rispetto ai maschi. Ralls aveva ipotizzato che gli individui di sesso femminile fossero più grandi in alcune specie perché questo aumentava la probabilità di produrre nuovi nati più resistenti, dunque con minori rischi di morire nelle prime fasi dello sviluppo. L’ipotesi è discussa da tempo e finora non sono emersi elementi per confermarla.
    La ricerca di Tombak è stata accolta con interesse da chi si occupa di evoluzione, ma alcuni esperti hanno fatto notare che per quanto statisticamente rilevante lo studio è basato su una quantità limitata di specie di mammiferi e saranno quindi necessari ulteriori studi. La questione sarà ancora discussa a lungo e contribuirà a comprendere meglio diversità e somiglianze tra le tante specie nella grande classe dei mammiferi, di cui facciamo parte. LEGGI TUTTO

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    Perché le femmine di alcuni mammiferi marini vanno in menopausa

    Caricamento playerUna delle cose che distinguono gli esseri umani dagli altri animali è la menopausa. Nella stragrande maggioranza delle specie, le femmine rimangono fertili e possono generare figli per tutta la vita. Fanno eccezione, oltre agli esseri umani, solo cinque specie di mammiferi marini, tra cui le orche, e, secondo uno studio recente, gli scimpanzé. Non c’è una spiegazione ampiamente condivisa su come si sia sviluppata la menopausa, ma un nuovo studio appena pubblicato su Nature rinforza l’ipotesi che, almeno per quanto riguarda i cetacei, sia un vantaggio evolutivo perché riduce la competizione tra le femmine e facilita la vita quotidiana dei branchi.
    L’evoluzione dovrebbe favorire quelle specie i cui individui riescono a far nascere e prosperare un maggior numero di discendenti. Per questo intuitivamente dovrebbero essere favoriti quegli animali le cui femmine possono continuare a fare figli per tutta la vita, e del resto è ciò che accade nella maggior parte dei casi. La menopausa è quindi un fenomeno tutt’altro che scontato.
    Oltre alle orche (Orcinus orca) i mammiferi marini tra cui esiste la menopausa sono le pseudorche (Pseudorca crassidens), i globicefali di Gray (Globicephala macrorhynchus), i beluga (Delphinapterus leuca) e i narvali (Monodon monoceros). Le femmine di orca ad esempio si riproducono fino a 40 anni di età circa, ma possono vivere fino a 90: se sopravvivono a lungo passano la maggior parte della vita senza riprodursi o senza avere figli giovani di cui occuparsi.
    Lo studio confronta i dati disponibili sulla durata media della vita nelle cinque specie in questione con quelli degli altri odontoceti, cioè degli altri cetacei con i denti, di cui esistono decine di specie (compresi tutti i delfini). In base a questo confronto il gruppo di scienziati che ha condotto la ricerca, guidato dal biologo dell’Università di Exeter Samuel Ellis, ha dedotto che la menopausa non accorcia la vita delle femmine, ma la allunga: le femmine di cetacei che vanno in menopausa vivono in media 40 anni in più rispetto alle femmine delle specie che invece no, a parità di stazza. Sempre a parità di stazza la durata della vita fertile è analoga tra le specie con la menopausa e quella senza.
    Gli odontoceti sono animali sociali, che vivono in branchi. Ellis e i suoi colleghi ritengono che tra orche, beluga e le altre specie che hanno la menopausa le femmine smettano di avere figli quando diventano nonne, cioè quando anche le loro figlie raggiungono l’età della riproduzione. Così prima di tutto eviterebbero di competere con la propria discendenza nella ricerca di cibo per sfamare la prole: il vantaggio evolutivo della menopausa sarebbe un’ottimizzazione delle risorse in pratica, perché a lungo termine evitare i conflitti tra madri e figlie garantirebbe la sopravvivenza di un maggior numero di discendenti di una stessa orca.
    In secondo luogo, visto come sono organizzate le comunità degli odontoceti, in cui spesso una femmina anziana guida i branchi nella ricerca di cibo, le femmine più anziane potrebbero di fatto aiutare le figlie nell’allevamento dei piccoli, condividendo con loro il cibo, proteggendo i giovani mentre le madri sono impegnate nella caccia e guidandole verso zone con maggiori risorse alimentari grazie alla loro maggiore esperienza. È la cosiddetta “ipotesi della nonna”, considerata anche per provare a spiegare la menopausa umana, per cui si parla anche di “selezione parentale”.
    Per spiegare come mai la menopausa non si sia sviluppata tra tutte le specie di odontoceti il gruppo di ricerca ha ipotizzato che le differenze tra le strutture sociali tra i diversi animali riducano il vantaggio fornito dalle “nonne”.

    – Leggi anche: Pure le scimpanzé vanno in menopausa LEGGI TUTTO

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    SpaceX ci riprova con Starship

    Dopo due tentativi non riusciti, oggi la società spaziale privata statunitense SpaceX proverà a raggiungere lo Spazio con la sua enorme astronave Starship e a farla poi rientrare nell’atmosfera fino alla sua distruzione nell’oceano Indiano.Salvo rinvii, il test sarà effettuato intorno alle 14 (ora italiana, inizialmente era previsto per le 13) e servirà a verificare i nuovi progressi nello sviluppo del sistema di lancio e dell’astronave, entrambi essenziali per il programma lunare Artemis della NASA per tornare a esplorare la Luna con esseri umani, a più di 50 anni dall’ultimo allunaggio delle missioni Apollo. Come i precedenti, anche questo lancio è sperimentale e svolto senza persone a bordo: potrebbe finire con un grande successo, o con una nuova gigantesca esplosione.
    SpaceX sta lavorando a Starship ormai da una decina di anni, con l’obiettivo di avere un sistema di lancio e un’astronave molto più potenti dei razzi che attualmente utilizza per portare satelliti in orbita ed equipaggi e rifornimenti verso la Stazione Spaziale Internazionale. Lo sviluppo si è rivelato molto più lungo e complesso rispetto a quanto previsto da Elon Musk, il CEO di SpaceX, che inizialmente aveva prospettato la possibilità di raggiungere Marte nei primi anni di questo decennio. Le cose sono andate molto diversamente e si sono accumulati ritardi che potrebbero condizionare anche il programma Artemis, i cui obiettivi lunari non sono da poco, ma comunque meno ambiziosi di quelli marziani.
    Starship è un’astronave alta 50 metri, quanto un palazzo di 16 piani, e ha un diametro di 9 metri circa: utilizza sei motori alimentati con ossigeno liquido e metano liquido, che a pieno carico raggiungono circa 300 delle mille tonnellate della massa dell’astronave. Quando sarà funzionante potrà essere impiegata per il trasporto in orbita di satelliti di grandi dimensioni, di moduli per le stazioni spaziali e degli equipaggi verso la Luna. Starship è progettata per raggiungere l’orbita terrestre o altri corpi celesti e tornare sulla Terra con un atterraggio controllato, per poter essere riutilizzata.
    Starship sulla rampa di lancio a Boca Chica in Texas (Brandon Bell/Getty Images)
    L’astronave non ha però la potenza sufficiente per superare da sola l’atmosfera terrestre. Per darle la spinta necessaria viene utilizzato Super Heavy, un grande razzo alto quasi 70 metri e dotato di 33 motori, sempre alimentati da ossigeno liquido e metano liquido. Super Heavy è stato progettato per spingere Starship oltre l’atmosfera ed effettuare una manovra per tornare in seguito sulla Terra, come fanno già i Falcon 9, i razzi parzialmente riutilizzabili di SpaceX. Con questa soluzione non è necessario costruire nuovi razzi per ogni lancio e si possono ridurre molto i costi per i lanci e renderli più frequenti.
    Se nella teoria tutto questo funziona senza problemi, nella pratica il sistema si è rivelato complesso da sviluppare e gestire sia per le grandi sfide tecniche, sia banalmente per avere elaborato una soluzione completamente nuova che deve essere sperimentata. I due lanci svolti finora sono serviti proprio a questo: due test su grande scala per scoprire che cosa funziona, cosa no e cosa deve essere cambiato. Soprattutto grazie a un appalto da 2,9 miliardi di dollari affidato dalla NASA per realizzare Artemis, SpaceX può permettersi di sperimentare sul campo i propri sistemi e vederli distruggere raccogliendo nel frattempo quanti più dati possibili per migliorare le versioni successive dei propri razzi dal costo di svariate centinaia di milioni di dollari.
    Il primo test effettuato nell’aprile del 2023 era stato in questo senso molto istruttivo. I motori Raptor di Super Heavy avevano danneggiato la rampa di lancio, poi diversi di loro avevano smesso di funzionare correttamente rendendo necessaria la distruzione del razzo e di Starship per motivi di sicurezza. I dati raccolti avevano portato alla costruzione di una piattaforma di lancio rinforzata, con getti d’acqua per attutire l’onda d’urto generata all’accensione dei motori, e alla revisione del funzionamento stesso dei motori e dei tempi di accensione di quelli che si trovano su Starship quando questa si separa da Super Heavy per proseguire il proprio viaggio verso lo Spazio.
    Starship poco dopo l’esplosione nell’aprile del 2023 (AP Photo/Eric Gay)
    Il secondo test a novembre 2023 aveva mostrato importanti progressi: la prima fase del lancio si era svolta regolarmente, con la separazione tra Super Heavy e Starship. Un problema ai motori rese però necessaria l’autodistruzione di Super Heavy quando era ancora negli strati più alti dell’atmosfera, annullando quindi il rientro previsto nelle acque del Golfo del Messico. A causa di una perdita fu necessario interrompere anche il volo di Starship, che nei piani avrebbe dovuto raggiungere un punto dell’oceano Pacifico non molto distante dalle isole Hawaii.
    In un certo senso il lancio di novembre era stato un grande fallimento, ma di successo: Starship aveva raggiunto per la prima volta lo Spazio, seppure per pochissimo tempo, dimostrando la tenuta di molti sistemi.
    Per il lancio di oggi SpaceX ha previsto diverse novità, a cominciare da come sarà gestito il rifornimento di Super Heavy e Starship a Boca Chica, la base di lancio che la società ha costruito e via via espanso in questi anni in Texas. Il rifornimento sarà effettuato a ridosso del lancio, terminando pochi minuti prima dell’accensione dei motori, grazie a un sistema più rapido e potente per trasferire metano liquido e ossigeno liquido nei grandi serbatoi.
    Quando mancheranno tre secondi alla fine del conto alla rovescia, Super Heavy accenderà i motori in modo da raggiungere la potenza necessaria a 0 secondi. Il razzo con in cima Starship sarà diretto verso est e dopo poco meno di 3 minuti si separerà dall’astronave, che a quel punto avrà già acceso i propri motori e proseguirà la salita per superare l’atmosfera terrestre. Raggiunto lo Spazio, non compirà comunque un giro completo intorno alla Terra, ma una lunga parabola che la porterà a rientrare quando si troverà sopra l’oceano Indiano.
    (SpaceX)
    Prima del rientro, SpaceX proverà a sperimentare l’apertura e la chiusura del grande portellone dell’astronave, che in futuro servirà per depositare in orbita satelliti e altro materiale. Saranno anche testati alcuni sistemi per effettuare il rifornimento in orbita di Starship, con altre astronavi simili, necessario per le missioni verso la Luna e oltre. Un rifornimento orbitale di questo tipo non è mai stato sperimentato prima e aggiunge ulteriori complicazioni per i piani lunari della NASA (qui è spiegato più estesamente). SpaceX proverà inoltre a far accendere nuovamente alcuni dei motori Raptor di Starship nell’ambiente spaziale, per verificare il loro funzionamento visto che non sono mai stati sperimentati oltre l’atmosfera terrestre.
    Terminati i test nello Spazio, Starship orienterà la parte dell’astronave dotata di uno scudo termico, formato da migliaia di piccole piastrelle per resistere alle alte temperature che si sviluppano durante il rientro nell’atmosfera. Se tutto procederà secondo i piani, l’astronave raggiungerà intera l’oceano Indiano disintegrandosi nell’impatto ad alta velocità con l’acqua (SpaceX non recupererà né Starship né Super Heavy).
    Il piano per il lancio di oggi è quindi molto più ricco e articolato di quelli dei precedenti due test, finiti con spettacolari esplosioni. I responsabili della missione sperano che il lancio di oggi sia spettacolare in altro modo. LEGGI TUTTO

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    Il cromosoma Y sta scomparendo?

    Per quanto piccolo e diverso dagli altri, il cromosoma Y è fondamentale nella determinazione del sesso degli esseri umani, di molti altri mammiferi e perfino di alcuni insetti. Quando è presente, alcuni suoi geni determinano lo sviluppo del sesso maschile (XY) rispetto a quello femminile (XX), ma nonostante il ruolo centrale per la nostra esistenza sappiamo ancora relativamente poco di questo particolare cromosoma. A dirla tutta, non sappiamo nemmeno se continuerà a farci compagnia per sempre: secondo alcune ipotesi molto dibattute, il cromosoma Y si starebbe impoverendo sempre di più e prima o poi potrebbe sparire, portando a profondi cambiamenti nella riproduzione della nostra specie.Un passo indietro, cosa sono i cromosomiUn cromosoma è formato da un’intera catena di DNA e da un gruppo di proteine che lo rendono stabile. Questa catena è costituita da tanti pezzetti (sequenze) che delimitano i geni contenenti le istruzioni per produrre le proteine, che a loro volta insieme alle molecole formano le cellule e i tessuti degli organi. Gli individui sono quasi tutti diversi in buona parte per via dei cambiamenti che si verificano nel loro codice genetico, spesso a causa di mutazioni dovute a errori casuali di trascrizione del DNA quando questo viene ereditato dalle nuove cellule.
    Tendiamo a immaginare i cromosomi come piccole capsule che contengono al loro interno il DNA, ma in realtà un cromosoma passa buona parte della propria esistenza nel nucleo in una forma piuttosto disordinata che ricorda quella di un piatto di spaghetti. Solo quando avviene la riproduzione cellulare i cromosomi si organizzano in piccole matasse, in modo da avere una struttura più resistente e adatta per la loro duplicazione.
    Rappresentazione schematica dei cromosomi nel nucleo di una cellula, a sinistra, e disposizione dei cromosomi a coppie (“cariotipo”) durante la riproduzione cellulare, a destra (Zanichelli, Wikimedia)
    Il genoma umano, cioè l’intero insieme di geni che determinano come è fatto ciascuno di noi, è raccolto in 23 paia di cromosomi: queste sono presenti in praticamente tutte le cellule dell’organismo, che contengono quindi ognuna una copia di tutto il materiale genetico. Naturalmente ogni cellula utilizza solo la parte necessaria a svolgere le proprie funzioni, quindi per esempio una cellula del fegato utilizzerà i geni che riguardano quell’organo, mentre “spegnerà” tutti gli altri geni di cui non ha bisogno.
    Varianti e mutazioniOgni coppia di cromosomi è formata da un cromosoma proveniente dalla femmina e da uno proveniente dal maschio. Due organismi non imparentati della stessa specie hanno cromosomi pressoché identici, ma se li si analizza con maggiore attenzione a livello genetico si possono notare piccole varianti in alcune sequenze del loro DNA. Queste mutazioni nel codice possono fare una grande differenza in come appare e funziona un organismo rispetto a un altro. Alcune differenze sono più evidenti, come il colore degli occhi o dei capelli, altre sono nascoste e possono riguardare il rischio di essere più esposti a certe malattie.
    Le mutazioni sono il frutto di cambiamenti o errori di trascrizione avvenuti tantissimo tempo fa e trasmesse di generazione in generazione: possono essere comuni a un’intera popolazione, oppure uniche e specifiche per ogni individuo. Si possono essere verificate negli spermatozoi o nelle cellule uovo, che si sono poi fuse insieme per portare a un nuovo organismo, oppure possono essere avvenute nelle prime fasi dello sviluppo. In un modo o nell’altro, queste mutazioni diventano parte integrante del materiale genetico di un individuo e saranno presenti in tutte le cellule, costituendo in alcuni casi nuove informazioni genetiche che faranno funzionare in un modo lievemente diverso alcuni tipi di cellule.
    X e YNei mammiferi placentati (cioè dotati di una placenta che consente all’embrione di nutrirsi e respirare nella sua fase di sviluppo) e in alcuni altri animali ci sono due cromosomi che si distinguono dagli altri: X e Y. Sono cromosomi sessuali (“eterosomi”) e, come suggerisce il nome, sono responsabili della determinazione del sesso di un individuo (si distinguono quindi da tutti gli altri cromosomi che sono detti “autosomi”). Mentre le coppie normali di cromosomi contengono gli stessi geni, gli eterosomi contengono ciascuno geni specifici che determinano i caratteri legati al sesso.
    Capire che esistessero cromosomi sessuali non fu semplice. Il primo ad accorgersi del caso particolare del cromosoma X fu il biologo cellulare tedesco Hermann Henking, che nel 1891 si era accorto del particolare comportamento in un insetto di un cromosoma che non prendeva parte a un processo di divisione cellulare (meiosi). Non essendo sicuro di che cosa avesse osservato, Henking lo aveva chiamato “elemento X” e solo in seguito divenne chiaro che si trattava effettivamente di un cromosoma, che conservò quindi quel nome: X.
    Da quell’incognita si sarebbe generato uno dei più grandi fraintendimenti della genetica. La maggior parte delle persone è infatti convinta che il cromosoma X sia chiamato così per via della sua somiglianza alla lettera X, ma in realtà come abbiamo visto i cromosomi appaiono informi nel nucleo e si organizzano solamente al momento della riproduzione cellulare.
    All’inizio del Novecento fu proposto per la prima volta che il cromosoma X fosse coinvolto nella determinazione del sesso, ma con la scorretta ipotesi che determinasse il sesso maschile. Le cose cambiarono nel 1905 quando la genetista statunitense Nettie Stevens identificò il cromosoma Y. Sapendo che i cromosomi funzionano in coppia, ipotizzo che Y fosse il compagno di X, scoperto quattordici anni prima. Per questo motivo decise di chiamarlo Y, semplicemente perché nell’ordine alfabetico veniva dopo X, e non per via della sua forma che solo con molta fantasia ricorda quella della lettera.
    La scoperta del cromosoma Y smontò l’ipotesi che fosse il cromosoma X a determinare il sesso maschile. La conferma arrivò con gli studi del biologo statunitense Theophilus Painter, che all’inizio degli anni Venti del secolo scorso dimostrò che sono i cromosomi X e Y a determinare il sesso, in base alla presenza o meno di Y.
    RiproduzioneNegli spermatozoi e nelle cellule uovo non ci sono coppie di cromosomi come nella maggior parte delle altre cellule, ma una sola copia di ogni cromosoma. In questo modo, dalla loro unione nel processo di fecondazione si ottengono cellule che contengono una copia di cromosomi provenienti dalla femmina e una copia dal maschio. Dalla prima si avrà sempre un cromosoma X, mentre dal secondo ci sarà la stessa probabilità di avere un cromosoma X o Y. È quindi il maschio a determinare il sesso, ma come ciò avvenga di preciso rimase un mistero per molti anni.
    (Zanichelli)
    Le risposte arrivarono nel 1990 quando fu identificato per la prima volta il gene SRY (dalle iniziali di “sex region on the Y”), che innesca i meccanismi che portano allo sviluppo maschile nell’embrione. A 12 settimane circa dal concepimento, SRY interviene sul funzionamento di altri geni che regolano lo sviluppo delle cellule che costituiranno poi i testicoli. La loro presenza induce la produzione degli ormoni maschili (come il testosterone), che nel corso della gravidanza condizioneranno lo sviluppo degli altri tratti maschili.
    Quella scoperta fu molto importante per capire i meccanismi di differenziazione, ma portò anche a un’altra constatazione: il cromosoma Y contiene pochissime altre informazioni, se confrontato con il suo compagno X. Si stima che il cromosoma X contenga infatti un migliaio di geni che fanno un sacco di cose, non solo legate al sesso, mentre invece il cromosoma Y contiene circa 55 geni e molto altro materiale genetico che allo stato delle attuali conoscenze non fa praticamente nulla. E questo ha diverse implicazioni.
    La più evidente è che i maschi fanno ampiamente affidamento sul cromosoma X proveniente dalla femmina per lo sviluppo di alcune funzionalità, semplicemente perché quelle istruzioni non sono disponibili anche sul cromosoma Y. Non è una cosa da poco: significa che per alcune funzionalità non ci sono alternative e questo spiega perché certe condizioni genetiche riguardano quasi esclusivamente gli individui di sesso maschile. Negli individui di sesso femminile la presenza di due cromosomi X fa sì che ci sia un’alternativa, o meglio, che ogni cellula utilizzi le istruzioni provenienti dalla femmina o dal maschio, disattivando le altre.
    Un’altra conseguenza piuttosto evidente è che un solo cromosoma X è sufficiente per avere le istruzioni necessarie per lo sviluppo di alcune caratteristiche e funzioni dell’organismo. E proprio partendo da questa constatazione alcuni anni fa la genetista australiana Jenny Graves iniziò a chiedersi come mai il cromosoma Y fosse fatto in quel modo e in sostanza fosse più povero del suo compagno X.
    La scomparsa di YStudiando la grande varietà di modi in cui viene determinato il sesso tra le specie del regno animale, Graves ipotizzò che fino a qualche tempo fa X e Y non avessero particolari differenze, se consideriamo una scala del tempo molto ampia come quella dei processi evolutivi. Dal confronto con altre specie, Graves calcolò che il cromosoma Y avesse perso centinaia di geni rimanendo con 55 nel corso di 166 milioni di anni, quindi al ritmo di circa cinque geni ogni milione di anni. Mantenendo quella cadenza, ipotizzò che entro 11 milioni di anni il cromosoma Y avrebbe perso anche i restanti 55 geni diventando del tutto inutile, anche nei meccanismi di determinazione del sesso.
    Graves pubblicò il proprio studio sulla rivista scientifica Nature nel 2002 e tornò sull’argomento, con nuove ricerche e analisi, negli anni seguenti suscitando grande clamore e aprendo un dibattito molto agguerrito tra chi studia i cromosomi. Il confronto si fece in più occasioni acceso, con conferenze in cui Graves difendeva la propria ipotesi della scomparsa del cromosoma Y da chi invece provava a confutare le sue teorie. Fu per esempio segnalato che non si poteva immaginare una degradazione lineare nel tempo del cromosoma Y, la cui perdita di geni era magari avvenuta in modi più netti nel corso dell’evoluzione per poi interrompersi.
    Il dibattito scientifico è ancora oggi aperto perché non si è raggiunto un consenso sulla base dei dati e degli studi disponibili, ma c’è comunque una certa tendenza verso un’ipotesi più tranquillizzante per gli affezionati al cromosoma Y. È basata su uno studio pubblicato nel 2014, sempre su Nature, che segnala come il cromosoma si sia stabilizzato insieme al resto del corredo genetico degli esseri umani. Nei 25 milioni di anni da quando è iniziata la differenziazione dalle altre scimmie, la nostra specie ha di fatto perso pochissimi geni. Non ci sarebbero quindi elementi per ritenere che il cromosoma Y continui a perdere pezzi e a rimpicciolirsi fino a diventare completamente irrilevante.
    Graves e altri genetisti non sono però completamente convinti, anche perché esistono già oggi alcune specie di mammiferi che hanno perso il cromosoma Y e continuano comunque a esistere. Studiando i roditori appartenenti alla specie Tokudaia osimensis, per esempio, un gruppo di ricerca ha scoperto che buona parte dei geni un tempo su Y è diventata disponibile su altri cromosomi di questi animali, ma non ha invece trovato tracce del gene SRY che innesca la differenziazione sessuale nell’embrione, né geni che svolgano la medesima funzione.
    In uno studio pubblicato su PNAS nell’autunno del 2022, il gruppo di ricerca ha in compenso segnalato di avere trovato alcune sequenze genetiche presenti solamente nel genoma dei maschi e non delle femmine di quei roditori. Analizzandole hanno scoperto che probabilmente quelle minime differenze intervengono sul gene SOX9 (che non si trova nei cromosomi sessuali), che ha un ruolo fondamentale nella determinazione dei maschi nei vertebrati e che viene solitamente attivato dopo l’intervento di SRY. In altre parole: in alcune specie prive del cromosoma Y potrebbe esserci un meccanismo alternativo per portare alla differenziazione sessuale.
    L’eventuale scomparsa del cromosoma Y negli esseri umani potrebbe quindi essere accompagnata da altri cambiamenti, tali da offrire un sistema alternativo per la determinazione del sesso. Potrebbero però esserci conseguenze, per esempio legate all’evolversi di più sistemi in diverse parti del mondo. In milioni di anni questa circostanza potrebbe portare alla comparsa di nuove specie di esseri umani, come del resto è avvenuto in quei gruppi di roditori. È una prospettiva affascinante, ma nel campo dell’evoluzione con le sue innumerevoli variabili è davvero difficile fare previsioni.
    Vie alternativeLa recente mappatura completa delle informazioni genetiche contenute nel cromosoma Y potrebbe offrire nuovi spunti, ma questa storia ci ricorda soprattutto che in natura ci sono modi molto diversi tra loro per la determinazione del sesso. Il risultato è quasi sempre lo stesso, cioè una distribuzione relativamente omogenea di maschi e femmine, ma il modo per arrivarci può essere spesso creativo e al di là della più fervida immaginazione di qualche autore di romanzi fantasy o distopici.
    La determinazione del sesso nei rettili e negli uccelli è su base genetica come la nostra, ma è la femmina e non il maschio a essere determinante. Una coppia di cromosomi Z porta a un maschio, di conseguenza le cellule sessuali dei maschi possono dare solo un cromosoma Z (come abbiamo visto, nelle cellule sessuali i cromosomi non sono in coppia), mentre le femmine sono ZW e quindi possono dare o un cromosoma Z o uno W. Anche in questo caso c’è una probabilità del 50 per cento che il nuovo individuo sia maschio o femmina, proprio come nei mammiferi.
    In alcune specie di insetti come api e formiche le cose funzionano diversamente. La riproduzione spetta a un’unica femmina, la regina, che può decidere se usare o meno lo sperma prodotto dal gruppo di maschi fertili che le fanno compagnia. Se lo utilizza produce uova dalle quali nascono solo femmine, se non lo utilizza depone uova dalle quali nasceranno solamente maschi. Questo significa che i maschi di formica derivano solo da una femmina, la regina, e mai da un maschio: il loro intero corredo genetico deriva da un unico genitore. Per un sistema complesso che si basa sull’attività di migliaia di individui, come un formicaio o un alveare, è un importante vantaggio perché dà alla regina la possibilità di espandere il più possibile la colonia con nuova prole che lavorerà per cercare cibo, conservarlo, estendere il nido e curarsi dei nuovi nati.
    Due individui di pesci pagliaccio (AP Photo/Sam McNeil)
    Ci sono poi individui di alcune specie che possono produrre sia cellule sessuali maschili sia femminili, di conseguenza possono riprodursi per conto proprio (ermafroditismo). In alcune specie questa capacità si presenta simultaneamente e prevede quindi la presenza contemporanea di organi (gonadi) maschili e femminili; in altre specie l’ermafroditismo è invece sequenziale, cioè l’individuo è per una fase della propria vita di un sesso e poi di un altro. Nel caso di particolari condizioni genetiche, ci possono essere casi di ermafrotidismo in moltissime specie, compresa la nostra.
    I cosiddetti pesci pagliaccio, resi famosi dal film Pixar Alla ricerca di Nemo, alla nascita sono tutti maschi, poi man mano che crescono e maturano diventano femmine. Fanno una vita particolare in gruppi molto gerarchici dove comandano solamente un maschio e una femmina, gli unici che si riproducono. Se muore la femmina dominante, il maschio dominante cambia sesso e diventa la nuova femmina dominante, mentre un nuovo maschio prende il suo posto.
    Tra gli animali ci sono anche quelli che fanno completamente a meno della genetica per la determinazione del sesso. In varie specie di tartarughe e alligatori, per esempio, il sesso non è ancora determinato al momento della posa delle uova e solo in un secondo momento avviene la differenziazione in base alla temperatura intorno al nido. Sopra una certa temperatura si ottiene un maschio, mentre al di sotto di quel limite una femmina. Un’ipotesi è che in questo modo nascano individui di sesso diverso in diversi periodi dell’anno, in modo da favorire la resistenza a particolari condizioni climatiche, ma non tutti sono convinti e la determinazione del sesso in base alla temperatura è tra le più studiate, anche per comprendere eventuali effetti sulle specie dovuti all’aumento della temperatura media globale come conseguenza del riscaldamento globale. LEGGI TUTTO

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    Non ci sono più mufloni sull’isola del Giglio

    Caricamento playerIl 28 febbraio il tribunale amministrativo della Toscana (TAR) ha firmato un’ordinanza per sospendere le uccisioni dei mufloni sull’isola del Giglio da parte dei cacciatori, fino alla fine della stagione di caccia. La misura, che è stata decisa in seguito al ricorso di alcune organizzazioni animaliste, ha una durata molto limitata, dato che la stagione di caccia terminerà il 15 marzo. Probabilmente però sia il ricorso sia la sospensione non hanno avuto particolari effetti, perché sembra che già il 28 febbraio sull’isola del Giglio non ci fosse nessun muflone. Negli ultimi cinque anni infatti il Parco nazionale dell’Arcipelago toscano ha portato avanti un progetto di eradicazione della specie dall’isola e lo scorso dicembre ha dichiarato conclusa l’operazione.
    Capire come si è arrivati a questo provvedimento, apparentemente insensato, è importante perché da tempo si sta parlando di una possibile eradicazione dei mufloni anche sulla vicina isola d’Elba, che è molto più grande dell’isola del Giglio: uno studio sulla fattibilità del progetto è atteso per la fine di marzo.
    Molto in breve, i mufloni si potrebbero descrivere come pecore selvatiche. Il tema è ancora dibattuto nella comunità scientifica, ma è molto probabile che le pecore siano state ottenute attraverso la domesticazione, cioè con un processo di selezione artificiale, proprio dai mufloni, che in origine vivevano in Asia. I mufloni che oggi si trovano in Italia e in altri paesi europei invece discendono quasi sicuramente da pecore primitive, quindi non del tutto domesticate, che ancora in epoca antica sfuggirono ai loro allevatori e si rinselvatichirono.
    Tutti i mufloni che vivono in libertà in Europa arrivano dalla Sardegna: si ritiene che furono portati sull’isola dagli esseri umani in epoca neolitica, circa 6mila anni fa, e che lì siano sopravvissuti per secoli dopo essersi rinselvatichiti mentre i mufloni sul continente diventavano sempre più simili alle pecore di oggi. Dalla fine del Settecento, e per vari decenni, gruppi di mufloni sardi vennero portati in varie zone d’Italia e d’Europa, dove diedero origine a nuove popolazioni selvatiche. In tutti questi contesti i mufloni sono considerati una specie aliena (o “alloctona”), mentre nella sola Sardegna sono considerati “para-autoctoni” perché pur se introdotti dagli esseri umani fanno parte della fauna locale da vari millenni.
    Per questo quasi ovunque in Europa e in Italia i mufloni non sono una specie protetta e possono essere cacciati. Solo in Sardegna sono tutelati, anche perché nei decenni passati il loro numero era molto diminuito (si stima che oggi possano essercene circa 8mila nell’intera regione).
    Mufloni in una zona del porto di Arbatax nell’agosto del 2023 (ANSA)
    Nell’Arcipelago toscano, di cui l’isola del Giglio e l’isola d’Elba fanno parte, i mufloni vennero portati in epoca molto recente, negli anni Cinquanta. All’epoca le leggi sulla fauna erano molto permissive, sia per la caccia che per l’introduzione di animali alloctoni in nuovi territori. Il proprietario terriero e cacciatore Ugo Baldacci, che possedeva un’azienda faunistico-venatoria (cioè una riserva di caccia) in provincia di Pisa e dei terreni al Giglio, portò sette mufloni sull’isola, all’interno di un’area recintata. All’epoca si pensava che i mufloni sardi avrebbero potuto estinguersi, cosa che Baldacci voleva evitare, e le conoscenze sull’impatto dannoso delle specie alloctone non erano le stesse di oggi.
    Quattro dei mufloni portati da Baldacci provenivano direttamente dalla Sardegna, altri tre dalla Germania: discendevano da mufloni sardi portati in Ungheria nell’Ottocento. Gli animali si trovarono bene al Giglio e si riprodussero. Negli anni Ottanta, a causa dell’incuria della recinzione, si diffusero in tutta l’isola.
    Sono animali molto adattabili ed è possibile che nel loro periodo di massima prosperità sull’isola fossero tra 50 e 150. Il Giglio ha meno di 1.500 residenti e ha un’area di 24 chilometri quadrati, di cui una buona parte rientra nel Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, dove fauna e flora sono protette.
    Diffondendosi nell’intero territorio dell’isola, i mufloni diventarono una delle specie che si potevano cacciare al Giglio, almeno nelle aree al di fuori del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano. Dentro ai parchi nazionali infatti le uniche uccisioni di animali selvatici sono quelle compiute dagli enti che gestiscono i parchi stessi, allo scopo di preservare al meglio la biodiversità sulla base di conoscenze scientifiche condivise.
    Dal punto di vista della biodiversità, cioè della ricchezza di specie animali e vegetali, le piccole isole sono luoghi particolari. Da un lato sono molto più vulnerabili agli effetti negativi dell’invasione di una specie alloctona: avendo un territorio ridotto possono essere interamente colonizzate in tempi brevi, e quindi in tempi brevi una specie aliena può portare all’estinzione di una locale. Dall’altro però sono anche luoghi in cui è più facile eradicare una specie dannosa. Al Giglio sono (o erano) presenti varie specie alloctone, animali e vegetali: per questo nel 2019 è iniziato il progetto “LetsGo Giglio”, portato avanti dal Parco nazionale dell’Arcipelago toscano e finanziato dall’Unione Europea, con l’obiettivo di rimuoverle o ridurle in maniera consistente per preservare le specie locali.
    Per quanto riguarda i mufloni, la principale specie minacciata è il leccio (Quercus ilex), un albero tipico della regione del Mediterraneo, ma anche varie specie di arbusti: i mufloni mangiano queste piante quando sono molto giovani, impedendo che crescano. Gli effetti possono essere considerevoli.
    Uno studio realizzato nel 2019 dall’Università di Firenze sul territorio dell’Elba ha mostrato che nella parte occidentale dell’isola, dove i mufloni sono presenti, la vegetazione boschiva si rinnova molto più lentamente rispetto alla parte orientale dell’isola. Nel 2021 peraltro questi animali sono stati giudicati i più dannosi tra gli ungulati (cioè tra i mammiferi erbivori che hanno gli zoccoli) quando si diffondono in ambienti in cui sono alieni: è la conclusione di uno studio che ha preso in considerazione gli effetti a livello globale.
    Inizialmente il progetto “LetsGo Giglio” prevedeva che i mufloni fossero eradicati dall’isola in due modi: attraverso l’abbattimento o la cattura e la sterilizzazione. «Per arrivare a un’eradicazione la cosa migliore è utilizzare tecniche miste», spiega Giampiero Sammuri, zoologo e presidente del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano: «Ci sono animali che è più facile catturare, proprio per via del loro comportamento individuale, e altri che è più facile abbattere. In tutte le operazioni di eradicazione di ungulati si privilegia la forma mista».

    Con i primi abbattimenti cominciarono anche le proteste delle organizzazioni che si occupano di difesa dei diritti degli animali. Il Parco allora si confrontò con le organizzazioni e nel novembre del 2021 fece un accordo con due di queste, il WWF e la LAV: si impegnò a sospendere gli abbattimenti e a proseguire con l’eradicazione aumentando le catture. Da parte loro le due organizzazioni promisero di occuparsi del mantenimento dei mufloni catturati e sterilizzati in strutture private sulla penisola, come il Centro di recupero per animali selvatici ed esotici di Semproniano, in provincia di Grosseto, che è gestito dall’associazione Irriducibili Liberazione Animale.
    Altri gruppi animalisti e il comitato di residenti del Giglio “Save Giglio”, che non avrebbe voluto né l’abbattimento dei mufloni né il loro trasferimento, continuarono comunque a protestare in vari modi, ottenendo anche un’interrogazione parlamentare nel marzo del 2023. Negli ultimi due anni ENPA, LNDC Animal Protection, VITADACANI e la Rete dei Santuari hanno comunicato in più occasioni la loro contrarietà all’eradicazione dei mufloni e portato avanti varie iniziative, tra cui il ricorso al TAR.
    Secondo quanto riferito dal Parco, qualcuno avrebbe inoltre compiuto «numerose azioni di disturbo» durante le pratiche di cattura dei mufloni: gli addetti a queste operazioni «sono stati pedinati e filmati mentre lavoravano e numerose sono state le azioni di sabotaggio, danneggiamento e, addirittura, di furto delle attrezzature utilizzate per le catture». Per questo il Parco aveva chiesto l’aiuto dei carabinieri per completare l’eradicazione e aveva vietato il passaggio su alcuni sentieri.
    A dicembre il Parco ha dichiarato conclusa l’eradicazione e ha fatto sapere che dopo l’accordo con WWF e LAV sono stati abbattuti 35 mufloni mentre altri 52 sono stati catturati e trasferiti. Per più di un anno dall’accordo non sono stati fatti abbattimenti.
    Più di recente è arrivata la decisione del TAR, che però non riguarda il progetto di eradicazione ma il piano della Regione Toscana che autorizzava le uccisioni dei mufloni sul territorio per la stagione di caccia 2023-2024, iniziata il primo ottobre. Il TAR ha sospeso per le ultime due settimane il permesso di cacciare mufloni sull’isola del Giglio, dunque di ucciderli al di fuori del territorio del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano.
    «Penso che in realtà in questa stagione venatoria di caccia al muflone non ci sia andato nessun cacciatore a caccia di mufloni al Giglio», commenta Sammuri: «All’inizio di ottobre qualche muflone c’era ancora, perché gli ultimi li abbiamo prelevati tra ottobre e dicembre, ma erano pochissimi. Chi vuole andare a caccia di mufloni va dove ce ne sono molti».
    Ad esempio sull’isola d’Elba, dove secondo Sammuri sono stati cacciati circa 150 mufloni nella stagione che sta finendo. Nello stesso periodo all’interno del territorio del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, che si estende in parte anche sull’isola d’Elba, sono stati abbattuti circa 400 mufloni. «Quest’anno è stato un po’ un record, però almeno 300 all’anno nel Parco li abbiamo sempre abbattuti», dice ancora Sammuri, «e io non ho mai capito perché di 300 all’isola d’Elba non gliene importa niente a nessuno e invece queste poche decine dell’isola del Giglio hanno avuto questa grande attenzione».
    All’Elba sembra prevalere un’opinione pubblica favorevole alla possibilità di un’eradicazione della specie: ci sono ben due comitati locali che chiedono di eliminare mufloni e cinghiali dall’isola per via dei danni all’agricoltura e ai giardini e agli incidenti stradali causati da impatti con gli animali. I comuni dell’isola hanno finanziato uno studio di fattibilità per stimare costi e tempi necessari per l’eradicazione delle due specie. Servirebbero probabilmente molti più soldi di quelli con cui è stato finanziato “LetsGo Giglio” (1,6 milioni di euro) e in parte usati per i mufloni: l’isola d’Elba ha una superficie quasi dieci volte superiore a quella del Giglio, una popolazione venti volte superiore e centinaia di mufloni e cinghiali.
    In un incontro pubblico organizzato per discutere della possibile eradicazione delle due specie c’erano anche alcune persone contrarie, ma su fronti opposti: si dividevano tra animalisti e cacciatori che vorrebbero continuare ad andare a caccia sull’isola.
    Il TAR si esprimerà nuovamente sul ricorso che riguarda il Giglio a luglio. Per allora saranno stati fatti i controlli per verificare che davvero sull’isola non siano rimasti più mufloni, come previsto dai protocolli di “LetsGo Giglio”, e secondo Sammuri «mancherà il tema del contendere». Il presidente del Parco è certo che l’anno prossimo la Regione Toscana non farà un piano di caccia al muflone per l’isola, perché non ce ne sarà nessuno. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    È una settimana di cuccioli e cani, nella raccolta di foto degli animali che valeva la pena fotografare nei giorni scorsi. Nella prima categoria ci sono una tigre e un orso polare che si fanno vedere per la prima volta all’aperto nei rispettivi zoo, in Italia e nei Paesi Bassi, ma anche un giovane cammello in Germania. Nella seconda invece i cani che partecipano al Crufts Dog Show, un’importante mostra canina, e quelli che gareggiano all’Iditarod, la famosa ed estrema gara di slitte trainate da cani: occasioni che giustificano l’eccezionale numero di ben tre immagini della specie in una sola raccolta. In mezzo c’è spazio per una bufaga beccorosso sul collo di una giraffa, un pipistrello a ferro di cavallo, un coccodrillo e un rinoceronte indiano. LEGGI TUTTO