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    Tra i mammiferi sono più grandi i maschi o le femmine?

    Caricamento playerNel suo trattato L’origine dell’uomo e la selezione sessuale del 1871, il celebre naturalista britannico Charles Darwin scrisse che nel regno animale «in generale i maschi sono più forti e più grandi delle femmine», occupandosi poi in particolare dei mammiferi per spiegare alcune caratteristiche degli esseri umani. Darwin non era l’unico a pensarla in quel modo e a 150 anni di distanza quella convinzione continua a essere piuttosto condivisa non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche nel senso comune.
    Eppure, secondo una ricerca da poco pubblicata, quella convinzione è probabilmente errata e non ci sono elementi per sostenere che tra i mammiferi i maschi siano più grandi delle femmine. Nella maggior parte dei casi, almeno.
    Il nuovo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, è stato guidato da Kaia J. Tombak, una ricercatrice della Princeton University (Stati Uniti) che alcuni anni fa aveva partecipato a un seminario online sui livelli di aggressività in alcune specie i cui maschi e femmine hanno la medesima stazza. Discutendo con i colleghi del corso, Tombak si era accorta che mancavano dati per formulare ipotesi credibili e decise quindi di dedicarsi all’argomento, provando in primo luogo a capire se esistessero effettivamente differenze nella stazza tra varie specie di mammiferi.
    Man mano che cercava il materiale insieme a due colleghi, Tombak notò quanto fosse difficile avere dati coerenti e come la questione fosse stata tutto sommato trascurata in passato, fatta eccezione per qualche studio risalente a una cinquantina di anni fa. Il suo lavoro di ricerca era quindi consistito nel raccogliere dati dalla letteratura scientifica tenendo in considerazione le informazioni sulla massa che mediamente raggiungono gli individui adulti in determinate specie. La massa non è l’unico indicatore per determinare la grandezza di un mammifero, ma è il dato che ricorre più spesso (banalmente perché è più semplice pesare o fare la stima del peso di un animale rispetto a valutarne il volume).
    Non potendo valutare tutte le 6.400 specie di mammiferi esistenti di cui siamo a conoscenza (le stime variano in base alle classificazioni), il gruppo di ricerca ha seguito un approccio statistico, costruendo un campione basato sul 5-6 per cento delle specie per ciascuno dei 16 ordini di mammiferi che contengono almeno una decina di specie; all’elenco sono state poi aggiunte altre specie, selezionate per rendere ancora più equilibrato e rappresentativo il campione. La lista finale conteneva 429 specie con informazioni sulla massa corporea di individui adulti sia di sesso maschile sia di sesso femminile.
    L’analisi finale ha tracciato una situazione diversa da quella descritta un secolo e mezzo fa. Tra le 429 specie di mammiferi prese in considerazione, i maschi avevano una stazza più grande delle femmine solo nel 45 per cento dei casi. Nel 39 per cento dei casi gli individui appartenenti ai due sessi avevano sostanzialmente la stessa massa e nel 16 per cento dei casi erano le femmine ad avere una massa superiore a quella dei maschi. I dati, dice lo studio, sembrano indicare che la maggiore grandezza degli individui di sesso maschile non sia la norma, o per meglio dire che non ci sia una regola unica attraverso le specie di mammiferi sulla differenza di stazza tra i sessi.
    (Nature Communications)
    I maschi con massa superiore a quella delle femmine sono risultati più frequenti tra i carnivori, gli ungulati e alcune specie di primati. Questi animali sono di solito più studiati di altri quando si tratta di valutare le differenze dovute al sesso, di conseguenza questa potrebbe essere una delle cause del perdurare della convinzione sulla maggiore dimensione dei maschi in generale tra i mammiferi.
    Roditori e pipistrelli sono relativamente meno studiati, nonostante tutte le loro specie messe insieme costituiscano circa la metà di quelle di mammiferi. Dallo studio è emerso che nel 48 per cento delle specie di roditori prese in considerazione non c’erano differenze di stazza, mentre nel 44 per cento i maschi erano più grandi. Nel caso dei pipistrelli il gruppo di ricerca ha notato che nel 46 per cento delle specie analizzate le femmine erano più grandi.
    La differenza tra individui appartenenti alla medesima specie ma di sesso diverso (“dimorfismo sessuale”) è studiata da tempo, proprio perché attraverso lo studio delle differenze si possono comprendere alcune caratteristiche tipiche di una specie. Le ricerche si sono dedicate anche alle differenze di stazza e una delle teorie più condivise dice che in molte specie i maschi dei mammiferi sono più grandi perché devono competere tra loro per contendersi le femmine. La competizione implica spesso un confronto fisico, di conseguenza nel corso dell’evoluzione sarebbero stati avvantaggiati gli individui casualmente nati di stazza maggiore. Per alcune specie di grandi carnivori è probabilmente vero, anche sulla base delle osservazioni del comportamento animale, ma è difficile applicare la medesima ipotesi a molte altre specie di mammiferi.
    Tra i roditori e i pipistrelli le cose funzionano diversamente e la minore quantità di studi sul dimorfismo sessuale di questi animali forse spiega in parte perché sia ancora diffusa la convinzione che in generale tra i mammiferi i maschi siano più grandi. Nel caso dei pipistrelli, per esempio, avere una stazza maggiore è probabilmente un vantaggio per le femmine che devono volare anche durante la gravidanza, quando la loro massa è più grande (gli uccelli non hanno questo problema, visto che depongono le uova): hanno bisogno di più forza e capacità alare.
    Il nuovo studio cita il lavoro della biologa statunitense Katherine Ralls che negli anni Settanta pubblicò una ricerca dove metteva in dubbio la convinzione sulla maggiore stazza degli individui maschi tra i mammiferi, arrivando a conclusioni simili a quelle del gruppo di ricerca di Tombak. All’epoca Ralls aveva analizzato i dati su alcune specie di mammiferi segnalando come fossero comuni femmine di maggiori dimensioni rispetto ai maschi. Ralls aveva ipotizzato che gli individui di sesso femminile fossero più grandi in alcune specie perché questo aumentava la probabilità di produrre nuovi nati più resistenti, dunque con minori rischi di morire nelle prime fasi dello sviluppo. L’ipotesi è discussa da tempo e finora non sono emersi elementi per confermarla.
    La ricerca di Tombak è stata accolta con interesse da chi si occupa di evoluzione, ma alcuni esperti hanno fatto notare che per quanto statisticamente rilevante lo studio è basato su una quantità limitata di specie di mammiferi e saranno quindi necessari ulteriori studi. La questione sarà ancora discussa a lungo e contribuirà a comprendere meglio diversità e somiglianze tra le tante specie nella grande classe dei mammiferi, di cui facciamo parte. LEGGI TUTTO

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    Perché le femmine di alcuni mammiferi marini vanno in menopausa

    Caricamento playerUna delle cose che distinguono gli esseri umani dagli altri animali è la menopausa. Nella stragrande maggioranza delle specie, le femmine rimangono fertili e possono generare figli per tutta la vita. Fanno eccezione, oltre agli esseri umani, solo cinque specie di mammiferi marini, tra cui le orche, e, secondo uno studio recente, gli scimpanzé. Non c’è una spiegazione ampiamente condivisa su come si sia sviluppata la menopausa, ma un nuovo studio appena pubblicato su Nature rinforza l’ipotesi che, almeno per quanto riguarda i cetacei, sia un vantaggio evolutivo perché riduce la competizione tra le femmine e facilita la vita quotidiana dei branchi.
    L’evoluzione dovrebbe favorire quelle specie i cui individui riescono a far nascere e prosperare un maggior numero di discendenti. Per questo intuitivamente dovrebbero essere favoriti quegli animali le cui femmine possono continuare a fare figli per tutta la vita, e del resto è ciò che accade nella maggior parte dei casi. La menopausa è quindi un fenomeno tutt’altro che scontato.
    Oltre alle orche (Orcinus orca) i mammiferi marini tra cui esiste la menopausa sono le pseudorche (Pseudorca crassidens), i globicefali di Gray (Globicephala macrorhynchus), i beluga (Delphinapterus leuca) e i narvali (Monodon monoceros). Le femmine di orca ad esempio si riproducono fino a 40 anni di età circa, ma possono vivere fino a 90: se sopravvivono a lungo passano la maggior parte della vita senza riprodursi o senza avere figli giovani di cui occuparsi.
    Lo studio confronta i dati disponibili sulla durata media della vita nelle cinque specie in questione con quelli degli altri odontoceti, cioè degli altri cetacei con i denti, di cui esistono decine di specie (compresi tutti i delfini). In base a questo confronto il gruppo di scienziati che ha condotto la ricerca, guidato dal biologo dell’Università di Exeter Samuel Ellis, ha dedotto che la menopausa non accorcia la vita delle femmine, ma la allunga: le femmine di cetacei che vanno in menopausa vivono in media 40 anni in più rispetto alle femmine delle specie che invece no, a parità di stazza. Sempre a parità di stazza la durata della vita fertile è analoga tra le specie con la menopausa e quella senza.
    Gli odontoceti sono animali sociali, che vivono in branchi. Ellis e i suoi colleghi ritengono che tra orche, beluga e le altre specie che hanno la menopausa le femmine smettano di avere figli quando diventano nonne, cioè quando anche le loro figlie raggiungono l’età della riproduzione. Così prima di tutto eviterebbero di competere con la propria discendenza nella ricerca di cibo per sfamare la prole: il vantaggio evolutivo della menopausa sarebbe un’ottimizzazione delle risorse in pratica, perché a lungo termine evitare i conflitti tra madri e figlie garantirebbe la sopravvivenza di un maggior numero di discendenti di una stessa orca.
    In secondo luogo, visto come sono organizzate le comunità degli odontoceti, in cui spesso una femmina anziana guida i branchi nella ricerca di cibo, le femmine più anziane potrebbero di fatto aiutare le figlie nell’allevamento dei piccoli, condividendo con loro il cibo, proteggendo i giovani mentre le madri sono impegnate nella caccia e guidandole verso zone con maggiori risorse alimentari grazie alla loro maggiore esperienza. È la cosiddetta “ipotesi della nonna”, considerata anche per provare a spiegare la menopausa umana, per cui si parla anche di “selezione parentale”.
    Per spiegare come mai la menopausa non si sia sviluppata tra tutte le specie di odontoceti il gruppo di ricerca ha ipotizzato che le differenze tra le strutture sociali tra i diversi animali riducano il vantaggio fornito dalle “nonne”.

    – Leggi anche: Pure le scimpanzé vanno in menopausa LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    È una settimana di cuccioli e cani, nella raccolta di foto degli animali che valeva la pena fotografare nei giorni scorsi. Nella prima categoria ci sono una tigre e un orso polare che si fanno vedere per la prima volta all’aperto nei rispettivi zoo, in Italia e nei Paesi Bassi, ma anche un giovane cammello in Germania. Nella seconda invece i cani che partecipano al Crufts Dog Show, un’importante mostra canina, e quelli che gareggiano all’Iditarod, la famosa ed estrema gara di slitte trainate da cani: occasioni che giustificano l’eccezionale numero di ben tre immagini della specie in una sola raccolta. In mezzo c’è spazio per una bufaga beccorosso sul collo di una giraffa, un pipistrello a ferro di cavallo, un coccodrillo e un rinoceronte indiano. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Il salto di una balena grigia nel golfo di California, fotografata nei giorni scorsi, è la scusa per parlare brevemente del loro canto: di recente un gruppo di ricerca internazionale dice di avere scoperto qualcosa di più sul modo in cui alcune balene lo producono, suggerendo che riescano a emettere buona parte dei suoni attraverso la particolare conformazione della laringe, come spiegato più estesamente qui. Tra gli altri animali fotografati nei giorni scorsi ci sono poi la coda di una volpe a caccia di topi (e lo sapete come noi umani abbiamo perso la coda?), la smorfia di un leone, un agnello di pochi giorni con un impermeabile e tacchini selvatici in una zona bruciata dagli incendi in Texas. LEGGI TUTTO

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    Non siamo così d’accordo su cosa sia davvero una specie

    Caricamento playerIl gammaro dei fossi, un crostaceo appartenente all’ordine degli anfipodi, è ampiamente diffuso nei torrenti in Europa e la sua presenza è un valido indicatore della qualità dell’acqua dolce. All’apparenza è simile a un minuscolo gamberetto e per diverso tempo si pensò che tutti i suoi individui appartenessero a un’unica specie (Gammarus fossarum), ma è ormai evidente che le cose stanno diversamente. Si stima che 25 milioni di anni fa iniziarono a prodursi linee di discendenza separate che portarono a sue nuove sottospecie: a seconda di come vengono classificate le differenze genetiche di questi animali, le probabili specie di questi piccoli crostacei sono 32 o addirittura 152.
    Quello del gammaro dei fossi non è un caso isolato: i progressi nella ricerca e nella capacità di analizzare gli intricati percorsi evolutivi hanno aggiunto nuove importanti complicazioni nel modo in cui vengono classificate le specie. Nel nostro colossale e instancabile lavoro di classificare gli esseri viventi che condividono con noi il pianeta, il livello di complessità è ormai tale da fare mettere in discussione il modo stesso con cui per lungo tempo abbiamo identificato e definito le specie.
    Classificare le specie e provare a organizzarne i complessi gradi di parentela tiene impegnati i naturalisti da molti secoli e il loro lavoro, che si è modificato e arricchito nel corso del tempo, è stato accompagnato da polemiche, critiche e riflessioni filosofiche. Nel suo Saggio sull’intelletto umano pubblicato nel 1689, il filosofo britannico John Locke si interrogò a lungo sulla classificazione delle specie in un discorso più ampio su come si svilupparono la conoscenza umana e l’intelletto. Nel suo trattato scrisse: «I confini delle specie sono quali li fanno gli uomini, e non la natura, ammesso che in natura ci siano confini prefissati».
    Le riflessioni di Locke non piacquero al matematico e filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, che scrisse Nuovi saggi sull’intelletto umano, un trattato che smontava punto per punto la maggior parte delle assunzioni formulate dal filosofo britannico. Tra le altre cose, Leibniz criticava lo scetticismo mostrato da Locke sulla classificazione delle specie e il tentativo di provare a fare ordine nella natura.
    Il lavoro di sistematizzazione e classificazione raggiunse l’apice nel diciottesimo secolo grazie agli studi del naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (quasi sempre italianizzato in Linneo), che perfezionò un sistema di nomenclatura binomiale che viene utilizzata ancora oggi con l’aggiunta di opportune integrazioni. La classificazione linneana organizza gli esseri viventi in vari livelli gerarchici: si parte dai regni (si aggiunse poi il concetto di dominio al di sopra, per includere batteri e archèi) che si dividono in phylum, si prosegue poi con le classi che si diramano a loro volta in ordini e ancora in famiglie, generi e infine specie.
    Esempio di classificazione (Zanichelli)
    Lavorando su proposte e riflessioni di alcuni importanti suoi predecessori, come lo svedese John Ray, Linneo perfezionò un sistema che prevedeva di utilizzare un binomio latino per identificare ogni specie. Utilizzò il primo nome per indicare il genere, che era per forza comune a più specie, e il secondo per caratterizzare una singola specie e distinguerla dalle altre.
    Nel caso del Gammarus fossarum, il minuscolo crostaceo europeo, Gammarus indica il genere, mentre fossarum è l’epiteto per distinguere una certa specie. Ma come abbiamo visto, questo sistema funziona solo fino a un certo punto, perché nel caso del gammaro dei fossi abbiamo via via scoperto l’esistenza di molte specie che per lungo tempo sono state chiamate tutte con lo stesso nome.
    Linneo aveva del resto pensato al suo sistema di classificazione in un periodo in cui le conoscenze scientifiche sulle specie erano ancora relativamente limitate, con una certa convinzione che esistessero da sempre più o meno in quel modo e che fossero il frutto di una creazione divina. Si confrontavano le caratteristiche, si identificavano le cose in comune e sulla base di quelle si stabiliva la classificazione.
    Fu necessario circa un secolo perché iniziasse a fare presa il concetto di evoluzione, grazie al lavoro di altri naturalisti come Charles Darwin. Le specie non erano dunque da sempre uguali, ma il frutto di un incessante processo di evoluzione, immaginabile come un gigantesco albero genealogico con migliaia di biforcazioni e rami. In quel contesto, stabilire con esattezza quando una specie fosse diventata tale si rivelò più difficile.
    Gammarus fossarum (Università di Amsterdam via Wikimedia)
    A quasi due secoli di distanza dal lavoro di Darwin, sappiamo molte cose in più sull’evoluzione e il caso del gammaro è solo uno dei tanti simili, come ha raccontato di recente il giornalista scientifico Carl Zimmer in un articolo sul New York Times. Nel 1758 Linneo aveva descritto una singola specie di giraffa classificandola come Giraffa camelopardalis e in seguito si aggiunsero nove sottospecie (cioè con differenze minime tali da essere considerate difficilmente una specie a sé). Oggi diversi studi sulle caratteristiche genetiche di questi animali hanno portato a una revisione della tassonomia, sulla quale non sono però tutti d’accordo.
    Alla tassonomia classica se ne sono aggiunte altre che identificano tre, quattro e perfino otto specie diverse. La seconda è tra le più condivise e comprende la giraffa settentrionale (G. camelopardalis), la giraffa reticolata (G. reticulata), la giraffa meridionale (G. giraffa) e la giraffa masai (G. tippelskirchi). Ne esistono nel complesso 117mila esemplari in Africa e per questo le giraffe sono considerate “vulnerabili” e non in pericolo immediato di estinzione, ma le cose cambierebbero se fossero considerate come specie distinte. In questo caso la giraffa settentrionale sarebbe tra gli animali a maggior rischio di estinzione, a causa della distruzione dei suoi habitat tra Niger ed Etiopia e del bracconaggio.
    Secondo alcune organizzazioni impegnate nella tutela delle giraffe, una classificazione più chiara potrebbe aiutare a salvare questi animali, facendo maggiori pressioni sui governi e sulle istituzioni internazionali. È un esempio di come stabilire il confine tra una specie e un’altra abbia risvolti pratici non indifferenti, rispetto a discussioni e ragionamenti più teorici che possono apparire slegati dalla realtà. La definizione più condivisa di cosa sia una specie è del resto relativamente recente e viene impiegata da circa 80 anni.
    (Getty Images)
    Negli anni Quaranta del secolo scorso, l’ornitologo tedesco Ernst Mayr fu infatti tra gli studiosi che provarono a introdurre una nuova definizione di specie, basandosi sul modo in cui gli esseri viventi si riproducono. L’idea di base è relativamente semplice: se due animali non si possono riprodurre tra loro, allora appartengono a specie diverse. Questa distinzione ebbe una grande presa tra i naturalisti, ma presentava comunque qualche problema. Una balena non può riprodursi con un cardellino, questo è abbastanza evidente, ma ci sono molti casi in cui animali di specie diverse in qualche modo imparentate riescono comunque a riprodursi tra loro (il limite successivo è l’eventuale capacità della prole di riprodursi e di non essere sterile).
    Zimmer nel suo articolo cita il caso di diverse specie di rane europee, studiate negli ultimi anni dall’erpetologo francese Christophe Dufresnes. Analizzandone il comportamento e le generazioni, Dufresnes ha notato che alcuni gruppi di rane portano di frequente alla nascita di incroci, ma solo in alcuni casi. Studiandone il materiale genetico, il ricercatore ha notato che i gruppi di rane con un antenato comune relativamente recente, e quindi maggiormente imparentate, tendono a produrre incroci con maggiore frequenza. Secondo le stime di Dufresnes sono necessari fino a sei milioni di anni prima che due gruppi di rane – che evolvono da una stessa biforcazione nell’albero evolutivo – perdano la capacità di incrociarsi, diventando di fatto due specie diverse.
    Gli studi come quelli di Dufresnes hanno contribuito ad aggiungere un quadro temporale alla definizione data da Mayr, ma non risolvono completamente il problema. Mostrano infatti che la differenziazione tra specie avviene molto lentamente, almeno per i tempi umani, e che ci può essere un periodo molto lungo in cui specie che si stanno differenziando continuano a essere in grado di incrociarsi e riprodursi. È un processo che avviene ancora oggi e che riguarda molti esseri viventi che abbiamo intorno, ma è difficile capire se stia ancora avvenendo o se si sia concluso.
    In tempi remoti un fenomeno simile a quello osservato in alcune specie di rane avvenne con gli orsi. Oggi vediamo un orso polare e un orso bruno e sappiamo che si tratta di due animali molto diversi, seppure con qualche elemento in comune. Sappiamo inoltre che la pelliccia molto chiara degli orsi polari è il frutto dell’adattamento all’ambiente circostante, che nel loro caso è quasi sempre fatto di neve e ghiaccio nei quali mimetizzarsi. L’orso bruno si è invece adattato a vivere su terreni dove una pelliccia scura si confonde meglio con l’ambiente che ha intorno. Oltre a questi aspetti più evidenti, queste due specie hanno altre caratteristiche tali da essere distinguibili anche nei resti di orsi risalenti a centinaia di migliaia di anni fa.
    Proprio studiando quei reperti e analizzandone il DNA è emerso che per un lungo periodo orsi polari e orsi bruni si incrociarono tra loro. La loro differenziazione iniziò da un antenato comune circa mezzo milione di anni fa, ma per migliaia di anni i due gruppi continuarono a incrociarsi e a rimescolare il loro materiale genetico. Si differenziarono in modo più netto solamente 120mila anni fa e da allora i casi di incroci diventarono via via più sporadici, fino a quando le due specie furono pressoché incompatibili alla riproduzione comune. Il periodo precedente e molto lungo di incroci lasciò comunque il segno, se si considera che ancora oggi il 10 per cento del DNA di un orso bruno deriva da quello degli orsi polari.
    (Dietmar Denger/laif/Contrasto)
    Quando si parla di ibridi tendiamo a pensare ad animali con cui abbiamo una certa dimestichezza, come il mulo che è un incrocio tra un asino e una cavalla, o il porcastro che deriva dall’incrocio tra una scrofa e un cinghiale. In realtà ci sono molti altri esempi come la ligre, che nasce da un incrocio tra un maschio di leone e una femmina di tigre, il cama che ha come genitori un lama e un cammello, e ancora lo zebrallo, che nasce da una zebra e un cavallo. La grande varietà di ibridi osservabili oggi ci ricorda che i confini tra specie diverse sono spesso labili e che ci sono molte eccezioni alla regola di Mayr.
    A dirla tutta, un altro animale che conosciamo molto bene è anche il frutto di una ibridazione, per lo meno parziale: l’essere umano. La nostra evoluzione è stata tutt’altro che lineare e ha compreso lunghi periodi di riproduzione tra specie diverse. Le analisi genetiche svolte soprattutto negli ultimi anni sfruttando il DNA antico, per esempio, hanno evidenziato come per diverso tempo ci furono incroci tra gruppi di Neanderthal e umani moderni, tanto che si ritrovano ancora oggi tracce genetiche dei Neanderthal in alcune popolazioni. La differenziazione e classificazione delle specie e sottospecie di umani è ancora oggi molto dibattuta, a ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile stabilire che cosa sia davvero una specie.
    Chi si occupa di classificazione e tassonomia impara a muoversi nell’incertezza e a gestirla, come del resto fa praticamente chiunque si occupi di scienza, ma la mancanza di punti fermi può essere a volte frustrante. È probabilmente anche per questo motivo che di recente l’Unione ornitologica internazionale ha scelto di provare a mettere ordine nelle diatribe che spesso nascono intorno alla classificazione delle specie di uccelli.
    Nel 2021 l’Unione ha incaricato un gruppo di lavoro di riorganizzare le quattro liste più condivise di specie aviarie, realizzando un unico grande catalogo. Per farlo, nove esperti si confronteranno su oltre 11mila specie, votando di volta in volta sulla base di alcuni criteri per definire le singole specie. Il confronto non è sempre pacifico e richiede una certa capacità di mediazione, tra chi vorrebbe spesso mettere insieme più uccelli in un’unica specie e chi invece propone di mantenere una differenziazione più marcata.
    Le nuove opportunità offerte dai progressi in campo informatico potrebbero comunque aiutare, non solo nella catalogazione degli uccelli. Alcuni gruppi di ricerca hanno per esempio iniziato a lavorare a sistemi di riconoscimento automatico delle immagini, in modo da mettere a confronto molto più velocemente individui fotografati negli ambienti naturali con gli esemplari conservati nei musei o rappresentati nei loro cataloghi. Dal confronto possono emergere dettagli su somiglianze o altre caratteristiche da approfondire, anche sul piano genetico, in modo da fare meglio ordine.
    Al di là degli aiuti offerti dalle nuove tecnologie informatiche e di analisi genetica, il lavoro di catalogazione e costruzione delle tassonomie è comunque lungo e impegnativo, nonché enorme. A oggi la catalogazione ha interessato più o meno 2,3 milioni di specie, ma più si studiano i diversi ambienti e la loro diversità più emerge che ci sono ancora milioni se non miliardi di specie da scoprire e catalogare. Alcuni sono minuscoli e difficili da identificare e studiare a causa della loro alta variabilità, come alcuni gruppi di batteri, altri semplicemente vivono in ambienti dove un tempo non si riteneva potesse esserci la vita, come è il caso degli organismi estremofili.
    Ed è proprio studiando e catalogando gli estremofili che iniziano a esserci ipotesi e supposizioni su come potrebbero essere fatte forme di vita su altri pianeti. Forse un giorno dovremo catalogarle insieme alle altre, ma questa è un’altra storia. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Solitamente i cavalli vengono fotografati in piedi, come quelli che nella raccolta a seguire trovate al pascolo con la Sierra Nevada sullo sfondo. Capita più raramente di vederli sdraiati a riposare sul fieno, come in un’altra foto scattata in Germania. Insieme ai cavalli valeva la pena fotografare un maschio di lince pardina e un limulo (chiamato anche granchio a ferro di cavallo) rimessi in libertà, un orso andino, una sialia mexicana, una zebra di Grévy e una lepre che cerca di non farsi notare, dietro a un fico d’India. LEGGI TUTTO

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    Gli animali domestici possono essere un problema per le scene del crimine

    Caricamento playerUn recente studio pubblicato sulla rivista di medicina forense Forensic Science, Medicine and Pathology ha fornito una serie di suggerimenti e indicazioni metodologiche per investigatori, medici legali e anatomopatologi nei casi di ritrovamento di un cadavere in case in cui siano presenti cani o gatti domestici.
    Insieme ad altre ricerche dello stesso tipo pubblicate negli ultimi anni, lo studio è considerato una conferma di un fatto noto ai professionisti del settore ma in alcuni casi ignorato per via della tendenza di molti ad attribuire agli animali domestici sentimenti e comportamenti tipicamente umani: se costretti senza cibo in ambienti chiusi, gli animali domestici possono finire col nutrirsi dei corpi in decomposizione dei propri padroni, alterandoli in modo significativo e complicando le indagini.
    La frequenza di questi comportamenti da parte degli animali domestici verso i loro proprietari dipende da diversi fattori: principalmente dalle eventuali condizioni di isolamento sociale di quelle persone e, di conseguenza, dalla quantità di tempo in cui l’animale domestico rimane con il cadavere in mancanza di fonti di nutrimento alternative. Ma, per quanto sporadici, questi comportamenti hanno implicazioni importanti per la scienza forense e le indagini. La presenza di animali domestici costituisce infatti un fattore rilevante da tenere in considerazione nell’analisi dei traumi e delle lesioni presenti sui cadaveri, nella valutazione delle cause e nella stima dell’ora approssimativa della morte, e nel recupero della salma intera.
    Lo studio è stato condotto da due ricercatrici e un ricercatore dell’Istituto di medicina forense dell’Università di Berna, in Svizzera, che hanno revisionato la letteratura scientifica esistente e hanno preso in esame sette casi svizzeri mai studiati in precedenza. Il gruppo ha descritto, schematizzandoli in un diagramma di flusso, i comportamenti professionali più adatti a garantire una raccolta sistematica e completa dei dati durante sopralluoghi in ambienti chiusi in cui ci sia il sospetto che cani o gatti abbiano interferito nella scena in cui viene trovato un cadavere.
    (Attenzione: i link presenti nell’articolo rimandano a studi che contengono immagini di corpi mutilati e in avanzato stato di decomposizione, che possono risultare impressionanti e sgradevoli)
    La tendenza molto comune ad attribuire agli animali domestici percezioni, comportamenti e sentimenti tipicamente umani può in alcuni casi indurre le persone a trascurare o ignorare altre considerazioni: in breve, a pensare che un animale che ha passato tutta la vita con una persona si asterrà, per affetto, dall’approfittare del suo cadavere per saziarsi in assenza di cibo. Una maggiore consapevolezza del fatto che in particolari circostanze cani e gatti considerino i cadaveri una fonte di nutrimento dovrebbe invece indurre gli investigatori a raccogliere più informazioni sugli animali presenti sulla scena o nelle vicinanze, anche quando la loro presenza non sembra rilevante.
    La comprensione dei casi di necrofagia come parte di fenomeni naturali, secondo molte persone che li studiano, permetterebbe di ridurre gli errori nelle indagini e in generale di prendere decisioni più avvedute. E un approccio più scrupoloso da parte dei professionisti che si occupano di fare riscontri, ha scritto il gruppo, permetterebbe di accrescere un tipo di documentazione che attualmente nella pratica forense è limitata, per ragioni di negligenza o superficialità nella raccolta storica dei dati.
    Una condizione piuttosto comune tra le persone il cui cadavere viene trovato in uno stato alterato da animali domestici è la sindrome di Diogene, un disturbo caratterizzato dall’isolamento sociale e da un’estrema trascuratezza nell’igiene del proprio corpo e del proprio ambiente domestico. La valutazione forense di questi casi di morte è spesso resa molto difficile proprio dallo stato di abbandono e degrado della casa della persona morta e dalla presenza di animali da compagnia mai o raramente portati all’esterno.
    In un caso riportato in uno studio del 2015 il cadavere di una signora di 83 anni con la mandibola scarnificata fu trovato diversi giorni dopo la morte, causata da una cardiopatia ischemica, in una casa piena di cumuli di spazzatura e feci di cane, a Córdoba, in Argentina. Le mutilazioni post-mortem erano state causate da due cani domestici di razza mista, in mancanza di cibo a loro disposizione. Nonostante i cani fossero coinvolti nel caso soltanto indirettamente, le autorità ordinarono di sopprimerli entrambi per evitare che potessero mostrare quel comportamento alimentare in occasioni successive.
    La necrofagia da parte di animali domestici non riguarda soltanto cani e gatti, che sono comunque i casi più studiati, per quanto rari. Uno studio pubblicato nel 1995 riportò il caso di una donna di 43 anni trovata morta nel suo appartamento, seminuda e con estese lesioni dei tessuti molli del volto. I riscontri portarono inizialmente a pensare a una violenza sessuale, ma i risultati dell’autopsia indicarono che la morte era stata provocata dalle conseguenze di una polmonite lobare e una pleurite in stadio avanzato, e che i segni sul volto erano stati causati dopo la morte dai morsi di un roditore. Nella gabbia di un criceto che la donna teneva in casa furono successivamente trovati numerosi pezzetti di pelle, grasso e tessuto muscolare, poi associati alla donna tramite tipizzazione del DNA.
    A volte, se tessuti e organi interni da analizzare mancano perché sono stati mangiati, può essere difficile stabilire se la morte sia stata provocata da un’intossicazione da sostanze, oppure da un trauma. Come riportato nel recente studio uscito su Forensic Science, Medicine and Pathology, diversi casi oggetto della revisione scientifica mancano di informazioni fondamentali, perché gli investigatori che se ne occuparono non documentarono dettagliatamente la presenza di un animale domestico sulla scena. Quelle informazioni aiuterebbero, per esempio, a capire se certi rosicchiamenti e altre alterazioni presenti sui cadaveri siano stati provocati all’epoca da gatti o da cani: una distinzione non facilissima da fare soltanto sulla base dell’aspetto delle lesioni.
    Come ha detto alla rivista Science Carolyn Rando, antropologa forense dell’University College di Londra, la limitata letteratura scientifica sui comportamenti necrofagi degli animali domestici verso i loro proprietari suggerisce che i cani si concentrano su faccia e gola, mentre i gatti su naso, labbro superiore e dita. L’ipotesi più condivisa tra i ricercatori è che la fame sia la motivazione principale dei comportamenti necrofagi, ma non è necessario che l’animale trascorra molto tempo affamato prima di assumerli, anche se «tutti vogliono pensarlo», ha detto Rando. Gli animali domestici tendono a preoccuparsi se il proprietario o la proprietaria non risponde agli stimoli, soprattutto in caso di morte violenta o improvvisa: leccare il viso in cerca di conforto, secondo Rando, può quindi rapidamente trasformarsi in una ricerca di nutrimento.
    Il consiglio generale condiviso dal gruppo di ricerca dell’Università di Berna agli investigatori è di annotare le dimensioni, la razza e il numero di animali che trovano durante i sopralluoghi, anche quando non sembra importante farlo per comprendere il singolo caso (non lo è, nella maggior parte dei casi in cui è presente un animale domestico). Questo tipo di raccolta dei dati potrebbe comunque servire in un secondo momento per capire se un eventuale morso di un animale ha alterato una ferita, per esempio, influenzando altri fattori che servono a determinare l’ora della morte (la presenza di certi insetti che colonizzano le ferite, per esempio).
    Secondo Gabriel Fonseca, odontologo forense della Universidad de La Frontera a Temuco, in Cile, e uno degli autori dello studio del 2015, le indicazioni del gruppo dell’Università di Berna è utile ad attirare l’attenzione verso informazioni spesso ignorate da molte persone. «Si possono avere strumenti favolosi, medici legali affermati e formati, o antropologi forensi, ma se non sono formati i primi soccorritori, la possibilità di perdere fonti di prova può essere elevata», ha detto Fonseca a Science.
    Le indicazioni condivise nello studio recente sarebbero state di grande aiuto, secondo Fonseca, in un caso recente avvenuto in Cile in cui una donna anziana, apparentemente morta per cause naturali, è stata trovata con la faccia in parte mangiata dal suo cane. I risultati di una successiva TAC eseguita sul cadavere hanno mostrato un trauma profondo, fornendo agli investigatori informazioni fondamentali per arrivare a concludere sulla base di altre prove che la donna era stata colpita in faccia durante una rapina e che i morsi del cane avevano nascosto le ferite. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Ci sono due storie curiose, tra gli animali fotografati in settimana. La prima è quella di un cinghiale di 80 chili che vive con due persone e un cane in Belgio, la seconda è quella del cosiddetto “Snettisham Spectacular”, un periodo in cui le maree particolarmente alte spingono migliaia di uccelli acquatici ad alzarsi in volo per poi posarsi altrove e aspettare che la marea si ritiri, prima di tornare nelle strisce di terra fangose dove cercano cibo. Tra gli altri animali da fotografare c’erano poi un condor delle Ande, lontre giganti e impala. LEGGI TUTTO