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    Gli Usa trovano l’accordo sul debito

    Cucinato a fuoco lento e col rischio di scottare le dita non solo ai cuochi, l’accordo sul tetto del debito Usa è servito. Ma ora rischia di andare di traverso ai palati più intransigenti del Congresso. Insidie nel delicato cammino parlamentare di cui sono consapevoli il presidente Joe Biden e il presidente della Camera, il repubblicano Kevin McCarthy, artefici della bozza d’intesa che, se approvata, scongiurerebbe il rischio di appiccicare sulla schiena dell’America il bollino nero del default.Tempo per le chiacchiere non ce n’era quasi più, con l’ora X ormai a portata di calendario. «Ci sono risorse fino al 5 giugno per far fronte ai nostri impegni finanziari», aveva ammonito il segretario al Tesoro, Janet Yellen. La fretta, dopo giorni di infruttuosi colloqui fra le parti, ha così finito per generare il più classico dei compromessi. L’intesa è infatti basata sulla sospensione per due anni del limite di indebitamento, lascia inalterati per l’anno fiscale 2024 i livelli di spesa e li aumenta dell’1% nel ’25, andando a scalfire appena in superficie i problemi di bilancio. Il programma di assistenza sanitaria Medicare, per esempio, rimane inalterato. I tagli, prevalentemente concentrati sui fondi anti-Covid non ancora impiegati e su una riduzione di 10 miliardi, a 70 miliardi, delle risorse tese a rafforzare la caccia agli evasori, dovrebbero infatti aggirarsi sullo 0,2% del Pil. In soldoni, circa 650 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Ciò dovrebbe essere sufficiente a evitare un «remake» del 2011, quando temporeggiamenti assortiti nello svolgimento della maratona negoziale sul debito erano costati agli Stati Uniti la perdita della tripla A, sinonimo di massima affidabilità creditizia, da parte di Standard&Poor’s e un capottamento di Wall Street.Biden ha naturalmente difeso il «deal», definendolo «un importante passo avanti che riduce la spesa proteggendo i programmi fondamentali per i lavoratori e facendo crescere l’economia per tutti», ma al tempo stesso ha ammesso che «non tutti ottengono ciò che vogliono». Un invito, quasi una supplica a mezza voce, a non boicottare una proposta che McCarthy ha difeso a spada tratta («Non ci sono nuove tasse, nessun nuovo programma governativo») e che conta di mettere ai voti già mercoledì prossimo.Il problema è che, nonostante la quasi totale assenza di dettagli, un malumore bipartisan sta salendo al Congresso come una marea. Alla Camera, dove il Grand Old Party ha una maggioranza risicata, l’ala più radicale che chiede tagli al bilancio ben più sostanziosi potrebbe avere gioco facile nel sabotare la bozza d’intesa. La tattica, elementare, potrebbe essere quella ventilata dal senatore repubblicano dello Utah, Mike Lee: ostruzionismo a tutto campo con l’utilizzo di manovre procedurali, in modo da ritardare fin oltre la data limite del 5 giugno la conversione in legge del pacchetto. Con l’inchiostro che ancora deve asciugarsi sull’ipotesi d’intesa, un gruppo di 35 membri ultraconservatori ha inoltre tirato pubblicamente per la giacchetta McCarthy chiedendogli di strappare più concessioni al partito dell’Asinello. Ma il furore non risparmia il quartiere democratico, dove non pochi parlamentari progressisti sono saliti sulle barricate poiché alla prospettata austerity nella spesa sociale (tipo i requisiti più stringenti per beneficiare dei buoni pasto) si contrappongono gli aumenti negli stanziamenti per difesa e veterani.Insomma: da sinistra a destra, tira un’aria di fronda che oggi ai mercati potrebbe anche non piacere. LEGGI TUTTO

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    Bonomi: “Ora fare di più sulle riforme”

    «L’industria italiana continua ad essere forte rispetto ai nostri competitor», questo è un passaggio dell’intervento del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi (nella foto), al Festival dell’Economia di Trento. «L’Italia ha fatto i compiti a casa. Siamo in uno stato di grazia che però non ci sarà garantito per sempre». A maggior ragione in considerazione del fatto che due partner come Germania e Francia in questo momento non stanno andando benissimo, con la prima finita addirittura in recessione tecnica: «Avere due partner europei che in questo momento stanno zoppicando, non ci aiuta». Il capo degli industriali, nell’ultima giornata dell’evento, ripercorre tanti temi: dal Pnrr, alla riforma fiscale e della Giustizia, per arrivare al fondo sovrano europeo e al dibattito sul nucleare.Lo sprone al governo da parte dell’associazione di categoria passa dal fronte delle riforme: «Oggi le risorse per farle ci sono, non ci sono più scuse», osserva Bonomi, «Non si stanno affrontando quelle riforme che tutti noi auspicavamo che venissero affrontate senza indugio: la riforma della giustizia; abbiamo la delega fiscale che è un primo passo ma non è quella riforma fiscale organica che speravamo; una riforma del lavoro a 360 gradi concentrata sulle politiche attive».Quanto al Pnrr, gli errori fin qui fatti arrivano dalla fase di preparazione: «Sono stati inseriti nel Pnrr anche progetti che non hanno come obiettivo finale la crescita del Paese e da lì sono nati i problemi, che ora stanno venendo al pettine». Per questo motivo, ha detto il numero uno degli industriali, «è evidente che i progetti vadano ricalibrati, anche perché il quadro e le condizioni sono cambiate completamente tra quando il piano è stato pensato ed ora», ha detto Bonomi, sottolineando che «non è un problema solo italiano, cinque Paesi hanno già modificato il proprio piano di ripresa e resilienza».Il leader di Confindustria poi torna sullo stop al nucleare in Italia, arrivato «sulla spinta emotiva» di Chernobyl. Ma oggi «vorrei vedere un dibattito nel merito sulle tecnologie nucleari di nuova generazione». Pollice alzato per il Ponte sullo Stretto di Messina, fortemente voluto dal governo Meloni: «Confindustria è sempre stata a favore delle infrastrutture, siamo quindi favorevoli al ponte sullo Stretto ma non può essere una infrastruttura sola, deve fare parte di un progetto di infrastrutture». Infine, un’indicazione anche per la politica europea con un Bonomi vicino alle posizioni del governo nel sostenere che «avremmo bisogno di un fondo sovrano europeo. Ne abbiamo discusso in Europa, perché la dimensione internazionale della competitività è ineludibile». LEGGI TUTTO

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    Cinque giorni in più per evitare il crac degli Stati Uniti

    Cinque giorni in più prima di arrivare all’ora X, quella che condannerebbe l’America al default. «Sulla base dei dati più recenti, stimiamo che il Tesoro avrà risorse insufficienti per soddisfare gli obblighi del governo se il Congresso non alzerà il tetto del debito entro il 5 giugno», ha scritto Janet Yellen in una lettera allo speaker della Camera, Kevin McCarthy. Insomma, un po’ più di respiro rispetto alla dead line dell’1 giugno prima fissata dall’ex capo della Fed. Non c’è comunque altro tempo da perdere: «Durante la settimana del 5 giugno – ha ammonito la Yellen – il Tesoro dovrebbe effettuare pagamenti e trasferimenti stimati a 92 miliardi di dollari, e le nostre risorse previste sarebbero inadeguate per soddisfare tutti questi obblighi».Il Congresso ha dunque margine fino a venerdì, l’ultima data considerata utile per trasformare l’intesa in legge. Il presidente Joe Biden ha detto che «per quanto riguarda il tetto del debito, le cose si presentano bene. Sono ottimista». Pare infatti profilarsi un «deal» di due anni basato su un aumento del «debt ceiling» (l’importo è da definire) e un taglio alla spesa federale. Sforbiciata che non toccherebbe le risorse della difesa, che salirebbero del 3%, ma sarebbero sottratti all’Irs (l’agenzia che si occupa della riscossione dei tributi) 10 miliardi, dagli 80 di aumento previsti. La spesa complessiva verrebbe quindi ridotta nel 2024 di una cifra pari allo 0,2% del Pil.Dopo giorni di tensione, venerdì scorso i mercati hanno fiutato che le trattative potrebbero essere alle battute finali. L’happy end ancora non c’è ma pare assodato che, in caso di rottura dei negoziati, il Tesoro garantirà il pagamento di capitali e interessi sul debito per scongiurare la bancarotta, l’America non ne uscirebbe indenne. «Le altre uscite dovrebbero essere tagliate in media di circa il 25%», stima un’analisi della direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo. In caso di assolvimento degli obblighi legati alla previdenza sociale, «il resto della spesa subirebbe un razionamento ancora più consistente, pari a circa un terzo». Ci sono poi i danni collaterali. In caso di prolungato braccio di ferro fra democratici e repubblicani, la banca guidata da Carlo Messina stima «un aumento significativo dei rendimenti dei Treasury in particolare sulle scadenze a breve e medio termine (1-3 anni), un forte calo degli indici azionari, una perdita di fiducia dei consumatori e delle imprese e a una contrazione del credito privato».Nessuna cifra, ma senza dubbio le conseguenze sarebbero ben più disastrose rispetto alla simulazione 2013 in cui la Fed, ipotizzando uno stallo limitato a un mese, stimava un aumento di 80 punti base dei rendimenti del decennale, un deprezzamento del dollaro del 10% e un crollo di Wall Street del 30%. La recessione sarebbe inevitabile. A quel punto, secondo Intesa, i mercati comincerebbero a scommettere su una serie di tagli dei tassi da parte della Fed e su misure per mettere in sicurezza le banche. Come chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. LEGGI TUTTO

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    Auto elettriche, servono 1.000 miliardi

    Mille miliardi per sostituire ed elettrificare il parco auto circolante italiano la cui età media è intorno a 12 anni. L’ultima, delle numerose stime (spesso in aperto contrasto) a proposito della «via elettrica» tracciata e imposta dall’Ue, arriva da Gian Primo Quagliano, presidente del Centro studi Promotor. L’esperto di automotive ne ha parlato a Trento, al Festival dell’Economia, ricordando come «la motorizzazione di massa decolla quando sul mercato c’è un’auto che costa quanto il salario medio annuo di un operaio, oggi al netto di 15mila euro».Le soluzioni non sono una novità: abbassare i prezzi dei veicoli, aumentare le retribuzioni, impegnarsi in una campagna di incentivi con stanziamenti maggiori.Secondo Quagliano, «il mercato dell’auto europeo sopravviverà alla transizione elettrica, ma l’Ue resta l’unica a vietare i motori a combustione, che continueranno a esistere nel resto del mondo». È infatti realistico «che dal 2035 non si vendano più auto a benzina e Diesel», ma è pure possibile che ci siano altri motori a combustione: già, infatti, esiste la deroga per i carburanti sintetici e l’Italia ha chiesto quella per i biocarburanti». Diesel e benzina, comunque, dovranno essere venduti anche dopo il 2035 a beneficio delle vetture immatricolate precedentemente, che potranno circolare ancora.Sul futuro dell’industria automotive europea, minacciata tra l’altro dall’invasione avviata e senza ostacoli dei big cinesi (auto di qualità soprattutto elettrificate e a costi competitivi), una soluzione, stando così le cose, arriva dai Paesi nel resto del mondo che non proibiranno i motori endotermici e, quindi, pronti a beneficiare dell’offerta dei produttori europei.Allarmato, soprattutto in chiave Cina, è Franco Bernabé. Sempre dal Festival dell’Economia di Trento, l’attuale presidente di Acciaierie d’Italia, si è soffermato sugli aspetti che il mainstream tende a mettere in secondo piano.«L’auto elettrica – ha ricordato – è alimentata da energia elettrica che non sempre è verde. Oggi l’energia arriva soprattutto da carbone, gas e nucleare. E in più ci sono i problemi a monte: produzione di cobalto e nichel, altamente inquinante; e poi, a valle, lo smaltimento delle batterie. Bisogna valutare dall’inizio alla fine la produzione di auto elettriche». Il tutto in uno scenario attuale che vede «le auto con un footprint carbonico dell’8% rispetto al totale, il trasporto pesante al 9% e gli altri, aereo e marittimo, al 7-8%».Sulla Cina, in continua espansione, Bernabé è andato sul concreto: «Pechino ha il 60% del parco installato di auto elettriche, produce i pezzi e poi li porta dove serve montarli. I suoi player diventeranno quelli che hanno il predominio: significa dover affrontare un processo di riconversione di cui io non vedo spazi a livello occupazionale». Da quanto è emerso, sembra prevalere la tesi espressa di recente da Benedetto Vigna, ad di Ferrari, secondo cui, come storicamente provato, «per portare a termine una transizione occorrono decenni e non pochi anni come nella visione Ue». Un accenno alla stretta Euro 7 sulle emissioni, bocciata da Italia e Francia, lo ha fatto, sempre a Trento, il ministro Adolfo Urso: «Un progetto irrealizzabile». LEGGI TUTTO

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    Prezzo energia: “Presunti ribassi. Sono ancora il doppio del pre-Covid”

    I prezzi dell’energia in Italia rispetto agli altri paesi dell’Ue scontano un gap superiore. “Noi adesso siamo anestetizzati da questi prezzi che ci sembrano bassi, ma in realtà sono valori doppi, se non tripli, rispetto al periodo pre-covid”. Lo ha detto, Diego Pellegrino, Portavoce di Arte, l’Associazione dei Reseller e Trader dell’ Energia in Italia con 140 associati, nell’ ambito del convegno organizzato dalla Fondazione Social Economic Development Enrico Mattei a Foligno. Presenti all’incontro autorità politiche e istituzionali, tra cui il Commissario alla Ricostruzione 2016 Guido Castelli, l’assessore regionale all’ambiente Roberto Morroni, Andrea Guerrini componente del Collegio Arera e il Presidente del Gse, Paolo Arrigoni. I saluti sono stati introdotti da Aroldo Curzi Mattei, Presidente della Fondazione. Diego Pellegrino, che ha moderato l’incontro, ha commentato: ”Il problema è politico: non si pensano a soluzioni a lungo termine a parte i rigassificatori che sono stati necessari nel contesto geopolitico europeo”.Serve un corretto mix tra rinnovabili e nucleareSecondo Pellegrino, “il modo più comune con cui produciamo energia sono le centrali termoelettriche e il problema di queste centrali è che producono gas serra e particolato nocivo in quanto alimentate da combustibili fossili. Serve un corretto mix: fotovoltaico, eolico, nucleare, geotermia, idroelettrico, solare, oltre al corretto utilizzo del fossile per garantire la sicurezza energetica”. Per il Portavoce di Arte comunque, “Il problema è politico, non vengono prese in considerazione soluzioni a lungo termine a parte i rigassificatori che si sono resi necessari nel contesto geopolitico europeo ma che comunque dato il loro elevato prezzo non si riusciranno ad ammortizzare perché comunque – per Pellegrino – da qui a dieci anni si arriverà ad una sostenibilità energetica come prevede l’agenda 2030″.Passando all’operatività degli associati di Arte, Pellegrino ha voluto sottolineare come l’equilibrio della filiera viene rispettato dagli operatori-fornitori perché applicano una grande flessibilità nei confronti dei clienti finali mentre le grandi difficoltà sono le regole difficili con cui operare perché – conclude Pellegrino – gli operatori di energia che rappresento (e non solo) sono assimilati a banche che devono garantire i pagamenti anche in assenza di incasso. in quanto proprio dalle banche veniamo considerati dei clienti a rischio”. LEGGI TUTTO

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    Il Pnrr potrebbe far crescere di due terzi il Pil italiano 

    Il Pnrr potrebbe contribuire alla crescita dei due terzi dell’economia italiana entro il 2026. I numeri, grazie al Piano, potrebbero salire dallo 0,4% all’1,2%. I dati del Rapporto 2023 riferiti al coordinamento della finanza pubblica, illustrato dalla Corte dei conti, annunciano le previsioni economiche e quelle dei conti pubblici italiani all’interno di uno scenario caratterizzato dall’emergenza energetica e l’arrivo di alcune novità in merito al Patto di stabilità europeo.La prospettiva italianaL’Italia avrebbe dimostrato ottime capacità di resistenza alle difficoltà che le sono state presentate. Il quadro internazionale complesso non corrompe la solida base che il Paese possiede per la ripartenza. L’inflazione, come racconta il report, potrebbe rallentare anche grazie al rientro dei prezzi dei beni energetici. Il Belpaese a fine 2022 registra un Pil che supera l’1% rispetto al 2019, questo trend confrontato con altri paesi è molto simile a quello della Francia, risulta invece migliore rispetto all’andamento di Germania e Spagna. Durante i primi tre mesi di quest’anno l’Italia registra un dinamismo importante se confrontato con quello dell’area euro.Il parere del MEFIl ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha commentato così il report:“I conti in ordine sono una necessità assoluta per il nostro Paese, che deve mantenere la fiducia dei mercati per contenere i costi di finanziamento ed evitare ripercussioni su famiglie e imprese.” Il titolare del MEF si aspetta un risultato positivo dagli extraprofitti, un incremento del gettito fiscale e la possibilità di avere a disposizione più risorse da dedicare alle famiglie in serie difficoltà economiche. Secondo il ministro la sfida di stabilizzare la crescita risulta particolarmente complessa, specialmente con un debito pubblico che supera ancora il 140% del Pil. Nel periodo post Covid la rapida diminuzione del passivo è dovuta all’inflazione che ha alimentato le entrate dell’Iva e del prodotto nominale. La Corte dei conti sottolinea che la flessione positiva perde la propria intensità a causa dell’aumento dei prezzi che è deleterio per i conti pubblici e i possibili conseguenti effetti negativi a lungo termine.Le previsioniIl periodo che va dal 2023 al 2026 sembrerebbe particolarmente equilibrato per quanto riguarda il debito italiano. Il rapporto afferma che il risultato del 4% in meno nell’arco di tempo non è sufficiente a creare un trend in discesa continua del rapporto debito/Pil. Secondo la Corte serviranno contrasti concreti alla risalita. Il report prosegue osservando che l’inflazione nel 2024 potrebbe portare all’estensione del mini-aumento lineare degli stipendi pubblici. Saranno necessarie anche delle risorse per ridurre il cuneo fiscale e non sarà possibile evitare i rifinanziamenti di interventi in conto capitale. Anche gli interventi di manutenzione straordinaria di alcune sezioni del welfare italiano comporteranno un impegno economico notevole. Infine, il Pnrr ha visto diminuire le prospettive di crescita aggiuntiva da 12,7 punti guadagnati nel periodo 2021-2026 a 9,2 punti attuali causati dal ritardo dell’attuazione del Piano. LEGGI TUTTO

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    Tari, ecco le nuove direttive per lo smaltimento dei rifiuti

    In arrivo nuove regole per la Tari. Le nuove direttive generali interessano i comuni non appartenenti a regioni a statuto speciale, i quali devono tener conto anche dei fabbisogni standard del territorio: i costi relativi al prezioso servizio di smaltimento dei rifiuti necessitano, quindi, un esame accurato. Grazie alla revisione delle “linee guida interpretative per l’applicazione del comma 653 dell’articolo 1 della legge n. 147 del 2013”, attuato in collaborazione con Ifel e Sose, il dipartimento delle Finanze mira a predisporre nuovi piani finanziari per la Tari.Come sappiamo, la Tari è quella tassa destinata al finanziamento dei costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti. I costi, tuttavia, possono variare di comune in comune: essi sono decretati dal consiglio comunale attraverso una delibera, secondo il piano economico-finanziario steso dall’ente cui è assegnato il servizio della gestione dei rifiuti.Già nel 2019, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti Ambiente aveva stabilito dei criteri di calcolo e riconoscimento per i costi produttivi e attivi di esercizio e investimento; nel 2021 aveva poi avallato il metodo tariffario per il servizio integrato di gestione dei rifiuti per gli anni dal 2022 al 2025. Ma con le nuove direttive, il punto di riferimento è diventato l’uso del fabbisogno per il costo unitario effettivo del servizio di gestione dei rifiuti urbani. Il fabbisogno, in particolare, si rende fondamentale e necessario per il miglioramento della qualità del servizio e per un più favorevole processo di integrazione delle attività gestite; grazie ad esso, infatti, risulta più semplice determinare il coefficiente di recupero di produttività e la valutazione del superamento del limite della crescita annuale per le entrate tariffarie.Il costo medio nazionale come parametro di basePer le direttive circa calcolo del fabbisogno ordinario di ogni comune, il Def, Documento di economia e finanza, ha dovuto dialogare e cooperare con la Ctfs, Commissione tecnica per i fabbisogni standard, la quale, nel 2019, aveva dato nuove indicazioni relative al costo ordinario per tonnellata da smaltire; tale misura è stata poi aggiornata nel 2021. Se il consiglio comune di un dato Comune avesse già deliberato la tariffa della Tari, è possibile agire anche successivamente, allineandosi ai nuovi parametri di calcolo dei fabbisogni standard. Il parametro, dunque, fondamentale che emerge con la revisione è la stima del costo medio nazionale di riferimento per la gestione di una tonnellata di rifiuti: 130,45 euro. A partire da questo basilare parametro, i singoli comuni, in base alle altre disposizioni inserite dalle nuove linee guida, vedranno il costo per singolare tonnellata aumentare o diminuire.A tal proposito, proviamo a calarci nella particolarità del documento. Anzitutto, risulta chiaro che il fabbisogno standard definitivo di ogni Comune è il risultato del prodotto di due fattori: il costo ordinario di riferimento per la gestione di una singola tonnellata di rifiuti e le tonnellate di rifiuti urbani gestite dal servizio. È da tenere presente sullo sfondo di queste considerazioni che, per individuare le “risultanze dei fabbisogni standard”, è necessario confrontarsi con il “costo standard” di gestione di una tonnellata di rifiuti. Tale parametro viene calcolato alla luce di un modello statistico di regressione, che prende in esame un ampio numero rappresentativo di comuni e i loro costi con le diverse variabili gestionali e di contesto che possono andare ad influenzare il costo stesso.Come detto, il parametro di base risulta essere il costo medio nazionale per la gestione di una tonnellata di rifiuti. Tuttavia, questo non è ovviamente sufficiente per raggiungere il costo ordinario di riferimento di ogni comune; al parametro di base, infatti, devono essere aggiunti i differenziali di costo relativi a diversi fattori. Tra questi, fondamentali sono: la percentuale di raccolta differenziata, la distanza che separa i comuni dagli impianti di smaltimento, il numero e la tipologia degli impianti regionali, la percentuale di rifiuti urbani trattati e smaltiti negli impianti regionali, il contesto geografico, demografico, economico e morfologico e le modalità di raccolta dei rifiuti urbani – queste, infatti, possono essere domiciliari o “porta a porta”.Queste, in conclusione, le direttive e i parametri che compaiono sul sito del Dipartimento delle Finanze e che vanno a facilitare la simulazione del costo che spetta ad ogni comune per lo smaltimento dei rifiuti. LEGGI TUTTO

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    Il governo apre al ritorno del Bonus tv. Come funzionerà adesso

    Ogni giorno nuova tecnologia dirompe nel mercato tanto da rendere radio e televisione dei veri e propri Highlanders della comunicazione.Tuttavia, anche questi mezzi vecchi (e sempre nuovi) mezzi necessitano ogni tanto di essere aggiornati. Il governo Meloni, per favorire l’acquisto di modelli di ultima generazione, sta pensando di introdurre un bonus.Bonus TV – Atto IIIPer la verità l’idea non è originale. Il primo contributo fu il cosiddetto Bonus tv-decoder, introdotto con la legge di bilancio del 2018, ed era volto all’acquisizione di apparecchi compatibili con il nuovo standard del digitale terrestre DVT-B2.Nel 2021 poi, la stessa legge di Bilancio, ha previsto un nuovo aiuto sempre per il ricambio dei televisori (a patto di riciclare quelli obsoleti), il Bonus rottamazione tv. Entrambi gli aiuti sono scaduti alla fine del 2022 a causa dei fondi prosciugati. Il governo in carica torna all’attacco pensando di riproporre un contributo simile all’incentivo sulla rottamazione.La bozza di provvedimento, allo studio del Ministero delle imprese, volge a sostegno de settore delle telecomunicazioni con 90 milioni di stanziamento previsti. Nel testo ci si rifà al decreto ministeriale del 5 luglio 2021 dove venivano enumerate le regole per ottenere il contributo. Si fa riferimento anche al decreto del 2019 relativo al Bonus tv-decoder, ma non è ancora chiaro se il governo desideri riesumare anche quel tipo di aiuto.Vincoli e importoNon si sa ancora quanto potrà essere la cifra erogata. Il punto di riferimento rimane l’ultimo testo di legge che prevedeva uno sconto del 20% sul prezzo d’acquisto, fino a un massimo di 100 euro.L’aiuto statale era una tantum e per l’acquisizione di un solo televisore a famiglia, il tutto accompagnato dalla dismissione del modello obsoleto (ovvero quelli acquistati prima del 22 dicembre 2018). Gli aventi diritto sono tutti i cittadini residenti in Italia che hanno versato regolarmente il canone televisivo oppure che hanno compiuto 75 anni di età (quindi passibili di esenzione al canone).Come si richiede il bonus?Ci sono due modalità per richiedere il contributo e certificare la rottamazione. Il più conosciuto e utilizzato passa per la consegna diretta della vecchia tv direttamente al punto vendita da cui si va ad acquistare l’apparecchio nuovo. Questa casistica prevede che il personale del negozio compili insieme al cittadino la modulistica che certifica l’operazione. Il rivenditore si incaricherà autonomamente dello smaltimento e riconoscerà subito lo sconto.Il secondo metodo prevede la consegna dell’apparecchio da smaltire presso una stazione autorizzata allo smaltimento dei rifiuti Raee, qui gli operatori della struttura rilasciano una certificazione da presentare poi al punto vendita per perfezionare l’acquisto del nuovo televisore a prezzo scontato.Il decoder? Gratis e consegnato a casa per gli ultrasettantenniIl Ministero inoltre vorrebbe introdurre un aspetto innovativo per i cittadini, abbonati Rai, che hanno compiuto 70 anni di età e che percepiscono una pensione non superiore a 20mila euro annui.Poste Italiane, che è direttamente coinvolta nell’iniziativa, si prenderà l’onere di consegnare a domicilio l’apparecchio. Le modalità possono essere concordate in un ufficio postale, telefonando al numero verde 800.776.883 oppure attraverso il sito Nuova tv Digitale. LEGGI TUTTO