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    Il caso di influenza aviaria in un umano contagiato da un bovino

    A inizio settimana negli Stati Uniti è stato segnalato il primo caso di influenza aviaria in un essere umano trasmessa da un bovino, che probabilmente era stato in precedenza contagiato da pollame infetto o da un uccello. Il contagio è avvenuto in Texas e la persona interessata non ha sviluppato particolari sintomi fatta eccezione per un lieve arrossamento degli occhi (congiuntivite), ma la notizia ha comunque portato ad alcuni titoli e articoli allarmati sulla vicenda che si inserisce nell’ampio filone delle notizie intorno all’epidemia da influenza aviaria in corso in molti paesi da quasi cinque anni.Il probabile doppio salto di specie conferma la capacità dei virus aviari di evolvere molto rapidamente, ma per ora non indica che ci siano maggiori rischi rispetto a quelli già indicati dalle autorità sanitarie negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e in altre aree del mondo. I rischi per la popolazione generale legati all’influenza aviaria sono ancora molto bassi, per quanto ci sia grande attenzione sulla diffusione della malattia soprattutto negli allevamenti, dove un focolaio può causare gravi danni economici e qualche rischio di contagio in più tra chi ci lavora.
    Con “influenza aviaria” viene indicata una malattia che interessa principalmente gli uccelli e che viene causata da un’ampia varietà di virus, per quanto imparentati tra loro. Quello che suscita maggiore interesse da qualche anno è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta. Più in generale, i virus aviari sono comuni e interessano da moltissimo tempo gli uccelli selvatici. Le versioni meno aggressive vengono definite LPAI (dall’inglese “low-pathogenic avian influenza”, cioè “influenza aviaria a bassa patogenicità”) e non sono solitamente rischiose per gli animali.
    In alcuni casi, però, un virus LPAI riesce a passare dagli uccelli selvatici agli allevamenti di pollame, finendo in un contesto in cui ci sono migliaia di animali che vivono a stretto contatto e dove sono molto più probabili i contagi. In poco tempo il virus si replica producendo nuove generazioni che contengono mutazioni, dovute per lo più a errori del tutto casuali nella trasmissione del suo materiale genetico, tali da renderlo più letale per gli animali. Questo passaggio fa sì che il virus diventi più contagioso e rischioso e per questo viene definito HPAI, per indicare una forma ad alta patogenicità.
    Gli HPAI possono causare in poco tempo grandi focolai negli allevamenti di pollame, rendendo necessario l’abbattimento di migliaia (in alcuni casi di milioni) di polli per evitare che il contagio prosegua e che generazione dopo generazione i virus coinvolti acquisiscano nuove capacità diventando per esempio ancora più contagiosi. L’attuale forma di aviaria è particolare e osservata con attenzione perché, oltre a causare molti contagi tra gli uccelli e il pollame, mostra una spiccata capacità di trasmettersi anche a specie molto diverse come alcuni mammiferi.
    In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.
    In questi due anni sono stati segnalati passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno del 2022 era inoltre emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.
    Il 2022 era stato un anno particolarmente complesso soprattutto per gli allevamenti di pollame negli Stati Uniti, dove vengono allevate insieme grandi quantità di polli a stretto contatto e di conseguenza con un alto rischio di contagi. Si era reso necessario l’abbattimento di decine di milioni di tacchini e galline da uova, con conseguenze sulla disponibilità e i prezzi di queste ultime in molte aree degli Stati Uniti. La situazione era migliorata nel corso del 2023 negli allevamenti, ma i virus aviari avevano continuato comunque a diffondersi non solo tra gli uccelli, ma anche tra i mammiferi.
    (Jamie McDonald/Getty Images)
    Nell’ultimo anno sono stati confermati casi di aviaria nel bestiame e in particolare negli allevamenti di bovini in Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho e Texas. È probabile che i bovini abbiano contratto il virus da specie selvatiche di uccelli o dal pollame allevato nelle loro vicinanze, ma al momento non ci sono molti elementi concreti per avere qualche certezza in più. Le autorità di controllo negli Stati Uniti non escludono inoltre che i contagi nel bestiame siano molto più diffusi di quanto emerso finora, ma che i casi passino inosservati perché raramente gli animali si ammalano.
    È in questo contesto che è avvenuto il contagio in Texas da bovino a essere umano. Stando alle informazioni fornite dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) degli Stati Uniti, la persona sarebbe stata contagiata mentre lavorava in un allevamento per la produzione del latte e di prodotti caseari (il latte pastorizzato può essere consumato senza correre rischi). Era risultato positivo all’aviaria dopo alcuni controlli dovuti alla congiuntivite che aveva sviluppato, unico sintomo evidente della malattia. Oltre a essere stato messo sotto controllo, il paziente ha iniziato una terapia con farmaci antivirali per ridurre la capacità del virus di continuare a replicarsi nell’organismo, in modo da favorire la guarigione.
    È il primo caso di un passaggio da bovino a essere umano a essere segnalato negli Stati Uniti, ma in precedenza c’era già stato un caso di contagio che aveva invece riguardato un passaggio dal pollame a un operatore che lavorava in un allevamento. Anche in quella circostanza la persona interessata non aveva sviluppato particolari sintomi e si era ripresa dopo qualche giorno.
    Nel corso dell’attuale epidemia alcune decine di persone, in particolare in Asia, sono risultate positive ai virus aviari più diffusi dopo essere state a stretto contatto con animali che avevano l’infezione. Nella maggior parte dei casi non sono stati segnalati sintomi preoccupanti, ma ci possono essere casi in cui si sviluppano complicazioni che in rari casi portano alla morte.
    Un’infezione virale da un certo tipo di H5N1 in una persona non implica comunque che questa sia contagiosa, anzi: è altamente improbabile che in un singolo passaggio il virus acquisisca la capacità di diventare contagioso tra esseri umani. È inoltre probabile che i casi pollame-umani si siano verificati in seguito all’esposizione ad alte quantità del virus nell’ambiente in cui lavoravano. Alcuni virus hanno comunque mostrato una certa capacità nell’effettuare sporadicamente salti di specie e non è un particolare da trascurare.
    I virus influenzali mutano velocemente e spesso in modi poco prevedibili, per esempio se nell’organismo che infettano incontrano altre tipologie di virus dai quali possono prendere in prestito parti di materiale genetico. Un virus che passa da un uccello a un mammifero, come un bovino, potrebbe in questo modo sviluppare la capacità di replicarsi più facilmente nel nuovo ospite e di diventare anche più contagioso. Mutazioni del tutto casuali potrebbero poi far sì che qualcosa di analogo avvenga nel caso di contagio in un essere umano, portando infine a un virus che riesce a circolare con maggiore facilità nella nostra specie.
    Il rischio che ciò avvenga è attualmente considerato basso, ma ci sono studi e ricerche in corso sulle caratteristiche degli HPAI e sui fattori che potrebbero renderli più pericolosi. Il contenimento delle infezioni, per esempio con l’abbattimento del pollame infetto, serve proprio a evitare che ci siano ulteriori contagi che potrebbero fare aumentare la probabilità di nuove mutazioni e salti di specie. Più si riducono i casi di passaggio da specie aviarie a mammiferi, minori sono i rischi anche per gli esseri umani.
    Nel suo ultimo rapporto sull’influenza aviaria, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che tra dicembre 2023 e marzo 2024 i casi di HPAI rilevati negli uccelli sono stati inferiori rispetto ai periodi precedenti. In Europa non sono stati inoltre segnalati finora casi di passaggio dei virus coinvolti negli esseri umani, anche grazie alle pratiche di contenimento effettuate negli allevamenti. Le principali cause di contagio del pollame derivano comunque dal passaggio di uccelli selvatici contagiosi, che entrando in contatto con gli animali negli allevamenti causano poi la diffusione dei virus. Per l’ECDC anche in Europa «il rischio di infezione rimane basso per la popolazione in generale». LEGGI TUTTO

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    Davvero ci servono tutte queste proteine?

    Caricamento playerYogurt ad alto contenuto proteico, succo di frutta con proteine, passato di verdura proteico, cracker con aggiunta di proteine, gelato e dessert proteici, merendine e cereali per la colazione con proteine e perfino acqua proteica. Negli ultimi anni è aumentata enormemente la quantità di prodotti alimentari promossi per il loro contenuto di proteine, spesso con scritte molto evidenti sulle confezioni. Il messaggio che provano a trasmettere è che gli alimenti con maggiori quantità di proteine facciano bene alla salute, anche se in realtà con una normale dieta equilibrata si assumono già le giuste dosi di questi nutrienti. È una comunicazione prettamente di marketing che nel tempo è riuscita a cogliere e ad accrescere un certo interesse verso le proteine, magari contrapposte ad altri nutrienti meno apprezzati come i carboidrati e i grassi.
    Successo commercialeIl mercato dei prodotti proteici è del resto molto fiorente negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali, compresa l’Italia. Un’indagine di mercato ha rilevato che tra giugno 2022 e giugno 2023 le indicazioni a scopo promozionale sulla presenza delle proteine erano stampate sulle confezioni di oltre 3.200 prodotti alimentari. Nello stesso periodo le vendite erano aumentate del 4,5 per cento rispetto all’anno precedente, con un valore di mercato intorno agli 1,7 miliardi di euro. La domanda era quindi in aumento, nonostante i problemi legati all’inflazione e il fatto che in media i prodotti proteici – o che si vendono come tali – siano più costosi e talvolta senza che ce ne sia veramente motivo.
    A causa di alcune diete di moda, della pubblicità e delle indicazioni promozionali praticamente su qualsiasi prodotto, le proteine sono sempre più viste come qualcosa di sano o per lo meno innocuo rispetto ad altre sostanze nutrienti. C’è in molte persone la percezione che possano essere consumate senza problemi e soprattutto che possano sostituire altri nutrienti, oppure che siano fondamentali per avere più energie o aumentare la massa muscolare, soprattutto tra chi fa sport. Mediche ed esperti osservano con preoccupazione questa nuova mania per il proteico, che potrebbe avere conseguenze sulla salute delle persone.
    Le proteine, da capoLe proteine furono descritte scientificamente in modo esteso per la prima volta alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento dal chimico olandese Gerardus Johannes Mulder e da un suo collega, il chimico svedese Jöns Jacob Berzelius, che decise di chiamarle così dalla parola greca πρώτειος (proteios), che significa “primario”. E in effetti le proteine hanno un ruolo fondamentale nella nostra esistenza e in generale in quella degli esseri viventi.
    Fanno praticamente qualsiasi cosa: costituiscono l’impalcatura degli organismi, rendono possibile l’attività cellulare e l’esistenza degli organi e sono anche in buona parte responsabili delle loro funzioni. Dopo l’acqua, le proteine sono i costituenti biologici più abbondanti negli organismi e sono presenti in tutte le cellule, tanto da formarne il 50 per cento del peso (una volta tolta l’acqua). Ne esiste una sterminata varietà e ciascun tipo ha una funzione particolare in base alla sua forma: è sufficiente una minima differenza nel modo in cui è disposta nello spazio perché la sua funzione cambi enormemente.
    Le proteine sono formate da catene di amminoacidi, una grande famiglia di molecole organiche quindi comprendenti carbonio, azoto, ossigeno e idrogeno. Le catene si avvolgono su loro stesse in modi diversi e insieme danno una forma e di conseguenza una funzione alle proteine. Esistono centinaia di amminoacidi che combinati tra loro formano varie proteine, ma quelli necessari per far funzionare il corpo umano sono una ventina e si dividono tra:
    • non essenziali, che il nostro organismo può produrre da sé;• condizionatamente essenziali, che un organismo poco in salute ha più difficoltà a produrre;• essenziali, che non possono essere prodotti dall’organismo e devono essere quindi assunti con l’alimentazione.
    Gli amminoacidi essenziali sono nove e sono presenti in moltissimi alimenti, ma naturalmente nella forma più complessa di proteine. Con il passaggio nello stomaco e nella sezione subito successiva, il duodeno, i succhi gastrici e gli enzimi provvedono a scomporre le proteine che abbiamo assunto mangiando qualcosa e a ridurle nei loro componenti elementari, gli amminoacidi appunto. Alcuni di questi rimangono in zona per rendere possibile la produzione di nuovi enzimi che procederanno alla scomposizione delle proteine in arrivo col prossimo pasto, altri invece finiranno attraverso l’intestino nella circolazione sanguigna e saranno trasportati in altre parti dell’organismo.
    Gli amminoacidi servono infatti alle cellule per produrre nuove proteine. Le istruzioni per farlo sono contenute nel DNA: a seconda dell’ordine e degli amminoacidi, saranno prodotte proteine specifiche necessarie per assolvere ad alcune funzioni per esempio per il trasporto dell’ossigeno attraverso il sangue, oppure per svolgere compiti strutturali e di sostegno come nel caso della produzione del collagene.
    Fai-da-teIl collagene è la proteina più abbondante nei mammiferi e, oltre a costituire circa il 6 per cento del peso corporeo di una persona, è il classico esempio di come si faccia spesso fatica a capire come funzionano le proteine. Molti integratori a base di collagene fanno intendere, in modo più o meno esplicito, che assumendoli si possa aumentare le quantità di questa proteina che fa per esempio da impalcatura della pelle, migliorandone l’aspetto e riducendo gli effetti del suo invecchiamento come rughe e segni di espressione.
    Mangiare un “integratore al collagene” (ammesso che contenga veramente collagene) implica che la sostanza venga scomposta negli amminoacidi, che saranno poi utilizzati dall’organismo per produrre le proteine di cui ha bisogno e non necessariamente più collagene del solito. Gli amminoacidi che costituiscono il collagene sono inoltre presenti in molti alimenti e di conseguenza con una normale dieta si assumono già le proteine necessarie per produrlo. Senza contare che le fiale e le bottigliette di questi integratori contengono millilitri e talvolta centilitri di prodotto, un apporto limitato se consideriamo che una persona di 75 chilogrammi ha circa 4,5 chilogrammi di collagene.
    Integratori e quantitàLa stessa cosa vale per gli integratori che promettono di favorire la crescita muscolare perché contengono specifiche proteine, riconducibili in qualche modo a quelle che costituiscono i nostri muscoli e che li fanno funzionare. Negli anni sono state prodotte molte ricerche sull’effetto degli integratori proteici come barrette e polveri, senza però trovare prove convincenti per definire con esattezza gli eventuali benefici portati dalla loro assunzione.
    Più in generale, una persona in salute che segua una dieta equilibrata (nella maggior parte dei casi si riduce a mangiare un po’ di tutto con moderazione ) non ha necessità di assumere più proteine di quante già ne introduca attraverso l’alimentazione. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) consiglia di assumere quotidianamente 0,8 grammi di proteine per ogni chilogrammo di peso corporeo. Una persona che pesa 75 chilogrammi dovrebbe quindi assumerne circa 60 grammi al giorno. La quantità può variare in base all’età e ad altri fattori legati per esempio a quanta attività fisica si conduce (l’assunzione in questo caso tende ad aumentare per buona parte dei nutrienti, quindi anche per carboidrati e grassi).
    Gli effetti di un’assunzione eccessiva di proteine non sono ancora completamente chiari, anche se ci sono indizi per ritenere che non costituisca un particolare pericolo per le persone in salute e che sia più che altro uno spreco. A differenza dei carboidrati e dei grassi, che sotto varie forme vengono accumulati dal nostro organismo per essere utilizzati gradualmente nel tempo, gli amminoacidi in eccesso e che non vengono quindi utilizzati sono smaltiti dall’organismo. Lo smaltimento avviene per lo più attraverso l’attività del fegato e dei reni e per questo alcune ricerche si sono concentrate sul lavoro, molto intenso, che devono effettuare per indagare eventuali effetti per la salute.
    Per queste ragioni un’assunzione oltre il necessario di proteine è uno spreco, sia dal punto di vista metabolico (cioè di come funziona l’organismo e gestisce le proprie energie) sia economico nel caso in cui si utilizzino prodotti più cari che promuovono il loro alto contenuto in proteine.
    “Più proteine”Fino a qualche tempo fa l’indicazione sulle confezioni riguardava spesso prodotti specifici per gli sportivi, come barrette e polveri ad alto contenuto proteico, mentre ora le indicazioni sono presenti su moltissimi prodotti di largo consumo come latticini, minestre e legumi.
    Le aziende che realizzano molti di questi prodotti in realtà non hanno nemmeno cambiato gli ingredienti rispetto a un tempo (cioè quando non mettevano la scritta “più proteine” in bella vista sulle confezioni), ma hanno semplicemente scelto di dare maggiore evidenza alla presenza di proteine nei loro prodotti. Per accorgersene è spesso sufficiente consultare la tabella nutrizionale, che indica i valori per 100 grammi di prodotto, e confrontarla con quella di prodotti analoghi che non riportano indicazioni promozionali sulle proteine: quasi sempre la percentuale di proteine è la medesima.
    Come si nota osservando gli scaffali nei supermercati, negli ultimi anni c’è stato inoltre un certo passaggio dalle indicazioni sulla presenza di proteine in prodotti facilmente associabili a questi nutrienti, come quelli a base di carne, ad altri come appunto i legumi e i derivati del latte. Intorno al consumo di carne inizia a esserci una maggiore sensibilità, sia per questioni di salute sia legate all’impatto ambientale della sua produzione, di conseguenza i produttori hanno preferito spostare l’attenzione verso prodotti percepiti come meno controversi. Nel farlo hanno però quasi sempre scelto di mettere in evidenza il concetto di “proteine in più” rispetto a quello della possibilità di alimentarsi in modo diverso, riducendo o eliminando del tutto il consumo di carne.
    I nove amminoacidi essenziali sono disponibili in quantità sufficienti nelle proteine derivate dagli animali, come carne di vario tipo, latticini e uova. La soia, molto utilizzata nelle preparazioni vegetariane e vegane, contiene tutti questi amminoacidi, mentre molti altri alimenti vegetali ne contengono alcuni in alte quantità e altri in basse dosi a seconda dei casi. Il loro consumo in combinata permette di solito di ottenere tutti gli amminoacidi necessari, anche se per alcuni vegetali è necessario un consumo lievemente più alto rispetto a quello dei prodotti derivanti in qualche modo dagli animali. Un pacco di edamame (i fagioli acerbi della soia) che mette in bella evidenza la scritta “proteine” sta comunque promuovendo qualcosa di ovvio e naturale, difficilmente un tipo di edamame più proteico di quello dei concorrenti.
    Un più alto consumo di proteine, in alcuni casi molto al di sopra delle linee guida, può rendersi necessario nel caso di particolari problemi di salute. Ci sono per esempio persone che hanno problemi di assorbimento dei nutrienti e devono quindi aumentare alcune dosi per compensare.
    Il maggior successo dei prodotti che promuovono le proteine viene osservato con attenzione dagli esperti e dalle istituzioni sanitarie, visto che come tutte le mode legate al cibo potrebbe avere conseguenze sul modo in cui si nutre una parte importante della popolazione soprattutto nei paesi più ricchi. In questi anni ci si è anche interrogati sul successo delle proteine dal punto di vista commerciale. L’ipotesi più condivisa è che fossero le candidate ideali per avere successo nella ristretta famiglia dei macronutrienti, che oltre alle proteine comprendono i grassi e i carboidrati,
    Il nostro organismo non può fare a meno di queste sostanze, ma dopo avere demonizzato prima i grassi e poi i carboidrati, indicati come i principali responsabili del sovrappeso e dell’obesità, le proteine sono diventate il macronutriente ideale da promuovere come qualcosa di sano e desiderabile per sentirsi meglio. E tutto questo nonostante negli alimenti non ci siano solamente le proteine, ma anche i carboidrati e i grassi in proporzioni diverse a seconda dei casi, come è evidente dalle schede nutrizionali sul retro delle confezioni che promettono un mondo bellissimo fatto di proteine. LEGGI TUTTO

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    Un rene da un suino geneticamente modificato è stato trapiantato in un essere umano

    Un rene da un maiale geneticamente modificato è stato impiantato in un uomo di 62 anni in un ospedale di Boston, negli Stati Uniti, sperimentando una tecnica che un giorno potrebbe consentire a centinaia di migliaia di persone con gravi malattie renali di migliorare le loro condizioni di salute. Secondo i medici che lo stanno seguendo, il paziente sta relativamente bene, cammina da solo e potrebbe essere dimesso nei prossimi giorni.Le notizie sulle sue condizioni sono state diffuse oggi, ma l’operazione era avvenuta il 16 marzo scorso, con un intervento durato quattro ore presso il Massachusetts General Hospital. Poco dopo il trapianto, il rene ha iniziato a produrre urina come atteso, filtrando le impurità del sangue come farebbe un normale rene umano, hanno detto i medici. La procedura è ancora sperimentale e sarà necessario del tempo per valutare gli effetti sul paziente. Nel 2021 un intervento simile era stato svolto in un ospedale di New York, ma in quel caso il rene proveniente da un maiale geneticamente modificato era stato impiantato in un uomo cerebralmente morto.
    Da tempo vari gruppi di ricerca sono al lavoro per perfezionare la tecnica degli xenotrapianti, cioè i trapianti di organi da altre specie da impiantare negli esseri umani. Questo approccio è ritenuto promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori di organi umani per effettuare i trapianti.
    La società di biotecnologie eGenesis ha fornito il rene frutto di alcune modifiche genetiche applicate a un maiale tramite la tecnica CRISPR-Cas9, che consente di modificare il materiale genetico tagliandone dei pezzi per eliminarli o per incollarli altrove (qui è spiegato più estesamente). Il sistema ha permesso di rimuovere tre geni che avrebbero potuto indurre l’organismo del paziente a rigettare il rene, e a introdurre sette geni umani nel maiale in modo da migliorare la compatibilità dei suoi reni con l’organismo umano.
    Il lavoro del gruppo di ricerca di eGenesis ha inoltre riguardato la ricerca e l’inattivazione di alcuni virus tipici dei maiali, per evitare che questi potessero causare infezioni virali nel ricevente. Quella della trasmissione dei virus è una delle più grandi preoccupazioni legate agli xenotrapianti, perché si potrebbero verificare passaggi di malattie dalle specie di partenza agli esseri umani: per questo parte delle tecniche di produzione degli organi si sta concentrando sull’isolamento degli animali e sulla “pulizia” dei loro tessuti prima di procedere con il trapianto.
    La persona che ha ricevuto il rene si chiama Richard Slayman e soffre da molti anni di diabete e ipertensione, due condizioni che avevano contribuito al peggioramento dei suoi reni fino alla perdita di funzionalità. A partire dal 2011 Slayman era rimasto per sette anni in dialisi, cioè sottoposto a un trattamento per ripulire il suo sangue tramite un macchinario, in modo da sopperire alla mancata attività renale. Nel 2018 aveva infine ricevuto un rene da un donatore umano, ma dopo cinque anni l’organo aveva smesso di funzionare e le condizioni di Slayman erano sensibilmente peggiorate.
    Nel 2023 Slayman era stato sottoposto nuovamente a dialisi, ma aveva continuato a peggiorare al punto da rendere necessari diversi ricoveri. Era stato messo nuovamente in lista di attesa per un trapianto, ma sarebbero stati necessari tra i cinque e i sei anni prima di poter ricevere un nuovo rene e probabilmente non sarebbe sopravvissuto fino ad allora. I medici gli proposero di tentare lo xenotrapianto, anche se si trattava di un trattamento sperimentale non ancora autorizzato dalle autorità di controllo (ma praticabile nell’ambito delle cosiddette “cure compassionevoli”) e Slayman accettò.
    Una fase dell’intervento chirurgico (Massachusetts General Hospital)
    Nonostante le precarie condizioni di salute e l’età, Slayman ha mostrato secondo i medici buone capacità di recupero già nei primi giorni dopo l’intervento. Ha smesso di fare la dialisi e il rene sembra funzionare normalmente, sia per quanto riguarda la produzione di urina sia le normali attività di pulizia del sangue. Slayman sta anche assumendo alcuni farmaci per ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, in modo da ridurre il rischio che il suo sistema immunitario riconosca come estraneo il rene e cerchi quindi di attaccarne i tessuti compromettendone le funzionalità.
    In generale gli xenotrapianti non sono una novità, ma per lungo tempo hanno riguardato interventi di minore entità. Le valvole cardiache suine vengono per esempio impiegate abitualmente nei pazienti con particolari problemi cardiaci, così come le persone diabetiche ricevono trattamenti sviluppati nei maiali. In alcuni casi la pelle dei suini viene utilizzata come soluzione temporanea per chi ha gravi ustioni. A partire dagli anni Sessanta erano stati sperimentati trapianti di reni da scimpanzé a esseri umani, ma senza grande successo. All’inizio degli anni Ottanta era stato sperimentato un trapianto di cuore da un babbuino a una bambina, che però morì circa tre settimane dopo l’intervento.
    All’inizio del 2022 si era parlato molto del primo trapianto di cuore da un suino geneticamente modificato, effettuato sempre negli Stati Uniti. All’epoca il paziente aveva scelto di sottoporsi all’intervento perché era rimasto senza alternativa: era stato sottoposto ad altri trattamenti senza successo ed era troppo malato per ricevere un cuore da un donatore umano. Per accedere alle liste di attesa per ricevere un organo si devono infatti soddisfare vari criteri, legati soprattutto alla prospettiva di vita. Un paio di mesi dopo il trapianto di cuore, l’uomo era morto a causa di varie complicazioni.
    Secondo i dati della Società italiana di nefrologia, in Italia le persone con una malattia renale cronica (MRC) sono circa quattro milioni, con 100mila che hanno necessità di terapie salvavita di vario tipo, 50mila in dialisi e migliaia che sono nelle liste di attesa. Le malattie renali sono tra le più diffuse al mondo, di conseguenza c’è un’alta richiesta di trapianti in molti paesi e si ritiene che con gli xenotrapianti si potrebbe rispondere meglio, e più velocemente, alle esigenze mediche di molte persone. Ci sono comunque implicazioni etiche e morali discusse da tempo, soprattutto sull’impiego di animali per questi scopi. LEGGI TUTTO

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    Il “metodo Wim Hof” funzionicchia?

    Caricamento playerDa molti anni Wim Hof si immerge nel ghiaccio ogni volta che può. Dice che lo aiuta a stare meglio, a concentrarsi, a meditare e a compiere imprese sportive decisamente fuori dal comune. Hof ha elaborato un “metodo” che porta il suo nome, molto conosciuto grazie ad articoli, documentari e alla sua presenza sui social network, ma da anni ci si chiede se le cose che fa servano davvero a migliorare la salute e se abbiano una base scientifica. Un’analisi pubblicata di recente sugli studi condotti finora su Hof e il suo metodo dice che forse qualche beneficio c’è, ma che servono ricerche molto più approfondite e su un maggior numero di persone per trarre qualche conclusione.
    Wim Hof è nato nei Paesi Bassi nel 1959 e dice di essersi appassionato all’acqua fredda, molto fredda, quando aveva diciassette anni e praticava già yoga, karate e meditazione. Passeggiava nelle vicinanze di un canale e decise di immergercisi, trasformando poi quel primo esperimento in un’abitudine quotidiana accompagnata dal perfezionamento di tecniche di respirazione. Lavorò per un certo tempo come guida per escursionisti sui Pirenei e intanto sviluppò quello che sarebbe diventato noto come “metodo Wim Hof” e che lo avrebbe reso famoso come “The Iceman”, cioè l’uomo di ghiaccio.
    Oggi quel metodo è diventato la base per gli affari di Innerfire, una società in cui lavorano alcuni figli di Hof e che promuove le pratiche legate alle immersioni nel ghiaccio e in generale all’attività sportiva compiuta al freddo. I principi cardine del metodo sono: un particolare tipo di respirazione che prevede fasi di iperventilazione, il ricorso a docce e bagni freddi o meglio ancora gelidi, oltre a cicli di meditazione per controllare emozioni, impulsi e pensieri.
    Innerfire offre piccoli corsi gratuiti fino a esperienze più articolate che costano alcune migliaia di euro, talvolta con la possibilità di farle direttamente insieme a Hof. La società vende inoltre molti prodotti legati al metodo: libri, magliette e costumi tecnici, ma non mancano infradito e altri oggetti che non hanno molto a che fare con il metodo in sé. Grazie alle attenzioni da parte dei media che ha raccolto negli anni, Hof non ha molto bisogno di farsi pubblicità: spesso il suo canale Instagram con oltre 3,5 milioni di iscritti è più che sufficiente.
    Da sempre Hof sostiene che il suo metodo abbia chiaramente qualcosa di scientifico e il sito di Innerfire riflette questa convinzione, con intere sezioni dedicate ai benefici del sistema, talvolta con dichiarazioni che paiono per lo meno esagerate per i più scettici. Il metodo viene indicato come una possibile soluzione per migliorare le prestazioni sportive o le condizioni di chi soffre di malattie come dolore cronico, sclerosi multipla, artrite, asma e varie malattie autoimmuni. Proprio per contrastare le critiche, Hof ha in più occasioni detto di essere disponibile a farsi studiare e a mettere alla prova il proprio metodo, cosa che effettivamente negli anni è stata fatta, seppure con iniziative sporadiche e poco sistematiche.
    Incuriositi dalla storia di Hof e dalle tante cose difficili da verificare che si sentono sul suo metodo, due ricercatori dell’Università di Warwick (Regno Unito) hanno svolto un’analisi degli studi condotti finora sul metodo Wim Hof. La prima cosa che hanno notato è che la qualità delle ricerche disponibili è «molto bassa, di conseguenza tutti i risultati devono essere interpretati con cautela», come scrivono nel loro studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica PLOS One.
    La revisione ha riguardato otto studi clinici controllati randomizzati, cioè svolti con diversi accorgimenti per ridurre il rischio di distorsioni e preconcetti. Studi di questo tipo sono considerati tra i più affidabili per verificare l’efficacia di un trattamento, ma devono essere comunque condotti su una quantità significativa di partecipanti per avere una certa rilevanza statistica. Il gruppo di ricerca ha segnalato che nella maggior parte di quegli studi le persone coinvolte erano relativamente poche (tra 13 e 40, per lo più di sesso maschile) e quindi poco rappresentative per dedurre informazioni che riguardino la popolazione in generale.
    Gli studi svolti in passato non avevano inoltre messo direttamente a confronto la pratica di immergersi nell’acqua ghiacciata con altre attività fisiche, come il nuoto, la corsa oppure la pratica della meditazione in condizioni meno gelide quando si fa normalmente yoga. Non ci sono quindi elementi per sostenere quale caratteristica del metodo Wim Hof porti a un eventuale beneficio rispetto ad altri tipi di pratiche.
    Il lavoro di ricerca svolto all’Università di Warwick ha comunque indicato che il metodo potrebbe in alcune circostanze ridurre i livelli di infiammazione nelle persone sane o con determinate malattie, anche se non è completamente chiaro in che modo. Un’ipotesi, emersa dagli studi analizzati, è che la pratica di immergersi nell’acqua gelata porti a una maggiore produzione di adrenalina, una sostanza molto importante nella gestione di numerose attività fisiche e per la reattività stessa dell’organismo. L’adrenalina innesca reazioni che possono influire sull’attività del sistema immunitario, coinvolto nei meccanismi di infiammazione.
    Per quanto riguarda un’altra delle affermazioni principali di Hof, e cioè che il suo metodo migliori le capacità quando si fa attività fisica, i risultati sono stati meno convincenti. Il gruppo di ricerca cita una lettera inviata a una rivista scientifica in cui si dava conto di una spedizione condotta da Hof su una montagna raggiungendo in due giorni quote molto alte, senza praticare i classici 4-7 giorni di acclimatamento per abituare l’organismo alle diverse condizioni di pressione e rarefazione dell’aria. La lettera indicava questo risultato come una dimostrazione dell’efficacia del metodo, ma non era stata sottoposta a revisione e aveva comunque riguardato un gruppo molto ristretto di persone, senza che ci fosse un gruppo di controllo.
    Nelle conclusioni dell’analisi, i due ricercatori scrivono che il metodo «potrebbe produrre effetti immunomodulatori promettenti, ma sono necessarie ricerche di maggiore qualità per dare sostanza a queste affermazioni». L’analisi indica inoltre che i prossimi studi sul metodo di Wim Hof dovrebbero essere orientati a verificare eventuali benefici per le persone con specifiche malattie, confrontandoli con quelli per le persone in salute.
    Considerate le dichiarazioni a volte eccessive sul metodo Wim Hof, la nuova analisi ha suscitato varie reazioni tra chi studia queste cose e tra appassionati delle immersioni al gelo. Mike Tipton, dell’Università di Portsmouth (Regno Unito), ha detto a CNN che il nuovo lavoro di ricerca dimostra come «gli elementi scientifici sono troppo deboli o parziali per trarre conclusioni su cosa si possa ottenere seguendo il metodo Wim Hof». Di conseguenza dovrebbero esserci maggiori cautele nella comunicazione degli eventuali benefici, considerato anche che per alcune persone che ignorano di avere particolari problemi di salute l’immersione in acqua gelata potrebbe essere rischiosa.
    Negli anni ci sono state alcune iniziative legali nei confronti di Wim Hof, legate a incidenti che secondo le persone coinvolte sarebbero stati causati dall’aver seguito il suo metodo. Alla fine del 2022 i familiari di una diciassettenne morta per affogamento hanno fatto causa a Hof, sostenendo che la ragazza stesse seguendo le tecniche di respirazione suggerite nel suo metodo. Nello stesso anno era stato segnalato un altro caso di affogamento di una persona che aveva iniziato a utilizzare un’applicazione con i consigli di Hof per regolare la respirazione.
    In seguito alla pubblicazione della nuova analisi, Innerfire ha ammesso che sono necessarie ricerche più approfondite per verificare alcune delle dichiarazioni sui benefici portati dal metodo Wim Hof, ribadendo di essere disponibile per collaborare con la comunità scientifica per trovare nuove risposte. LEGGI TUTTO

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    Perché gli asparagi fanno puzzare la pipì

    Intorno al 1780 lo scienziato e politico statunitense Benjamin Franklin scrisse una lettera indirizzata all’Accademia imperiale di Bruxelles chiedendosi se non ci fosse il modo di trovare un rimedio per gli asparagi che «mangiati danno alla nostra urina un odore sgradevole». La lettera era sarcastica ed era stata scritta in seguito all’annuncio di una competizione in matematica che Franklin riteneva inutile e ridicola. Per questo poneva una questione scientifica piccola e all’apparenza insignificante, ma che potrebbe offrire nuovi spunti per comprendere come digeriamo alcuni alimenti e persino il modo in cui percepiamo certi odori.A quasi due secoli e mezzo dalla sua lettera, Franklin oggi sarebbe probabilmente sorpreso nello scoprire che la causa precisa di quell’odore che trovava così sgradevole – a differenza per esempio di Franco Battiato, che disse in una sua canzone di apprezzarlo – è ancora oggi un mistero. Che siano gli asparagi la causa non sfugge praticamente a nessuno vada in bagno qualche tempo dopo averli mangiati, ma non è ancora completamente chiaro quali siano le sostanze e i processi digestivi coinvolti nel nostro organismo.
    Esistono numerose varietà dell’asparago comune (Asparagus officinalis), utilizzate per lo più a scopo alimentare. La produzione raggiunge il picco tra la seconda metà di marzo e il mese di giugno, quando la pianta cresce e fuori dalla terra iniziano a svilupparsi i “turioni”, cioè i getti che vengono raccolti per essere poi consumati. Le varietà di asparago hanno pressoché la medesima composizione chimica e per questo si fanno sentire allo stesso modo nelle urine, con un odore caratteristico e pungente che alcuni trovano insopportabile e verso il quale altri sono del tutto indifferenti.
    (Daniel Kopatsch/Getty Images)
    Tra le prime sostanze sospettate di concorrere alla pipì da asparago ci fu il metantiolo, un composto che i chimici conoscono bene perché ha un odore tremendo simile a quello del cavolo marcio. Nel 1956 un gruppo di ricerca aveva riscontrato la sua presenza nelle urine della maggior parte dei volontari cui aveva chiesto di mangiare asparagi, anche se misteriosamente la sostanza non era presente nei campioni di alcuni partecipanti. La sola presenza del metantiolo non era però sufficiente per spiegare il fenomeno, anche perché un conto sono i composti presenti in un liquido, un altro il modo in cui da questo si producono composti volatili che determinano poi un odore.
    Grazie allo sviluppo di sistemi per analizzare le sostanze volatili, verso la fine degli anni Ottanta fu possibile confermare la presenza di almeno sei composti probabilmente responsabili del caratteristico odore della pipì dopo una mangiata di asparagi. Al metantiolo si erano infatti aggiunti il dimetil solfuro e il disolfuro di metile, il 2,4-ditiapentano, il dimetilsolfossido e il dimetilsolfone. La maggior parte di questi comprendono lo zolfo, elemento che quando si lega con l’idrogeno porta al caratteristico odore di uova marce (lo zolfo in sé è inodore).
    Per quanto odorosi, questi composti sono piuttosto delicati e difficilmente resisterebbero alla cottura degli asparagi, quindi secondo vari gruppi di ricerca emergono come il prodotto di un processo che avviene durante la digestione a partire da qualcosa di lievemente diverso. Si ritiene che quel qualcosa sia l’acido asparagusico, una sostanza non volatile che si trova unicamente negli asparagi. Quando viene digerito dal nostro organismo, entra in contatto con i succhi gastrici e gli altri prodotti della digestione portando a quei composti volatili e odorosi dai nomi complicati.
    La produzione dell’odore avviene piuttosto rapidamente, tanto che spesso inizia a sentirsi nelle urine entro 15-30 minuti dall’ingestione dei primi asparagi. Ne basta inoltre una quantità molto ridotta perché si senta l’odore, proprio per le caratteristiche dei composti volatili che lo causano. Oltre a iniziare quasi subito, il fenomeno si protrae a lungo perché i composti che lo causano restano in circolazione nell’organismo per diverso tempo. È stato calcolato che abbiano un’emivita di circa quattro ore: significa che la loro concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo quattro ore è meta, dopo altre quattro ore è metà della metà e così via, fino a quando la concentrazione diventa trascurabile).
    (AP Photo/Matthew Mead)
    C’è però una questione aggiuntiva che complica le cose: alcune persone dicono di non sentire nessun odore particolare quando fanno pipì dopo avere mangiato asparagi. Le stime variano a seconda degli studi, ma sembra che questa circostanza riguardi tra il 20 e il 40 per cento della popolazione (altre ricerche indicano percentuali ancora più alte). Non è però chiaro se con la digestione queste persone non producano le sostanze volatili odorose oppure se non abbiano la capacità di percepirle con l’olfatto.
    Negli anni Ottanta la questione fu affrontata da un paio di ricerche scientifiche che portarono più o meno alla medesima conclusione. Secondo i test, tutti i partecipanti producevano urina dal caratteristico odore del dopo asparagi, ma non tutte le persone riuscivano poi a percepirlo. Le persone che sentivano l’odore erano in grado di notarlo anche nell’urina delle persone che dicevano di non sentirlo, apparentemente a conferma del fatto che si trattasse di un problema di percezione e non di produzione delle sostanze odorose.
    Le conclusioni di quelle ricerche furono messe in dubbio alcuni anni dopo da nuovi studi che valutarono la possibilità che la questione non fosse solamente di percezione, ma anche di produzione. I test svolti in precedenza si erano infatti basati per lo più su test dove i volontari dovevano odorare la pipì prodotta dopo un pasto a base di asparagi e confrontarla con l’acqua o altre sostanze non odorose. In queste condizioni era probabile che alcune persone notassero un particolare odore dell’urina che però non c’entrava nulla con quello prodotto in seguito all’ingestione di asparagi.
    Nel 2011 un gruppo di ricerca del Monell Chemical Senses Center di Philadelphia (Stati Uniti) elaborò un test più articolato per provare a superare i difetti degli esperimenti condotti in precedenza. A un gruppo di volontari fu chiesto di bere una bottiglia d’acqua e di mangiare asparagi, preparati saltandoli in padella con un poco di olio e sale. Dopo un paio d’ore a ogni volontario fu chiesto di fare pipì in un recipiente, e tutti i contenitori furono poi messi in un congelatore. Il giorno seguente allo stesso gruppo di volontari fu chiesto di bere una bottiglia d’acqua e di mangiare una pagnotta condita con la stessa quantità di olio e sale utilizzata in precedenza per la preparazione degli asparagi. Anche in questo caso furono attese due ore e fu poi chiesto ai volontari di raccogliere la loro urina.
    Ottenuti i due campioni si passò alla parte meno gradevole dell’esperimento. A ogni volontario fu infatti chiesto di odorare la propria pipì e quella di altri partecipanti, per vedere chi e come riscontrasse un odore particolare riconducibile al consumo di asparagi. Alcuni partecipanti si sottrassero alla prova, dicendo di non sentirsela o di non riuscire a sopportare l’odore della loro stessa urina dopo avere consumato asparagi. Al netto delle rinunce, il gruppo di ricerca riuscì comunque a calcolare che il 6 per cento dei volontari non fosse in grado di percepire l’odore particolare della pipì del dopo asparagi e che l’8 per cento non producesse urina con il classico odore dovuto al consumo di quella verdura.
    Dallo studio emerse inoltre che almeno una persona non era in grado né di produrre né di percepire il pungente odore di pipì post asparagi. Il gruppo di ricerca ipotizzò quindi che alcune persone non abbiano un particolare enzima coinvolto nel processo di digestione e trasformazione dell’acido asparagusico, ma a oggi non sono stati trovati molti elementi per confermarlo con certezza e l’ipotesi è ancora dibattuta.
    La capacità di percepire o meno quel caratteristico odore dell’urina potrebbe essere legato a un gene, che però non sembra essere coinvolto nei processi digestivi che portano in primo luogo alla produzione del medesimo odore. Indizi sul gene furono forniti una quindicina di anni fa dalla società privata di analisi del DNA 23andMe, che condusse uno studio chiedendo a 10mila dei propri clienti se fossero o meno in grado di percepire il caratteristico effetto degli asparagi sulla pipì. In questo modo fu possibile identificare il probabile gene coinvolto nell’incapacità per alcune persone di percepire quell’odore.
    (Getty Images)
    Nel 2016 un gruppo di ricerca dell’Università di Harvard (Stati Uniti) condusse un sondaggio tra 7mila volontari chiedendo se fossero in grado di percepire il particolare odore della pipì dopo avere mangiato asparagi. Il 40 per cento circa disse di riuscirci senza problemi, mentre il restante 60 per cento diede risposte meno coerenti. Dalle analisi emerse che possono esserci quasi 900 mutazioni nel DNA che portano a versioni lievemente differenti di alcuni geni, coinvolti nel modo in cui vengono percepiti particolari odori. È però difficile stabilire con certezza quali mutazioni siano coinvolte più di altre nell’incapacità di percepire l’odore che assume l’urina dopo avere consumato asparagi.
    Non tutti i ricercatori sono comunque convinti che sia una componente genetica a determinare la capacità di produrre o meno quell’odore. Le cause potrebbero derivare da molte altre variabili, a cominciare dal modo in cui ciascuno digerisce gli alimenti e dai microbi presenti nella flora intestinale, che a seconda dei casi possono portare alla digestione e alla scomposizione di alcune sostanze e non di altre. Qualcosa di simile avviene del resto con altri alimenti, come l’aglio, che si rivelano essere poi molto odorosi una volta ingeriti per alcune persone e per altre no.
    Nel complesso gli studi condotti negli ultimi settant’anni hanno portato a conclusioni contrastanti segnalando l’esistenza di: persone che producono e percepiscono quel particolare odore nelle loro urine, persone che non producono quell’odore ma lo sentono nella pipì degli altri e persone che non riescono a percepirlo in assoluto. Considerato l’argomento e la sua minore importanza rispetto a molte questioni di salute, la letteratura scientifica intorno all’argomento non è molto ricca, ma l’argomento è stato comunque preso molto più sul serio di quanto avesse ipotizzato Benjamin Franklin a fine Settecento. LEGGI TUTTO

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    In Germania un uomo si è vaccinato 217 volte contro il coronavirus

    Caricamento playerIn Germania un uomo di 62 anni si è fatto vaccinare 217 volte contro il coronavirus che causa COVID-19, superando quindi abbondantemente la quantità di richiami consigliati per ridurre i rischi legati alle forme gravi della malattia. Secondo i medici che hanno analizzato il caso, l’uomo non ha avuto problemi di salute e conduce una vita normale.
    Kilian Schober, del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Erlangen-Norimberga, ha detto a BBC News di avere appreso del caso particolare da alcuni articoli di giornale e di essersi incuriosito. Insieme ad alcuni colleghi, Schober si era quindi messo in contatto con l’uomo proponendogli di partecipare ad alcuni esami per verificare il suo stato di salute. L’uomo aveva accettato e si era sottoposto a prelievi di sangue e saliva, che erano stati poi confrontati con alcuni suoi vecchi campioni di sangue conservati congelati dopo accertamenti clinici svolti in precedenza.
    Come spiegano Schober e colleghi sulla rivista medica Lancet Infectious Diseases, l’uomo aveva acquistato privatamente tutte le 217 dosi del vaccino e se le era fatte somministrare nel corso di 29 mesi. Lo studio si occupa degli aspetti clinici, di conseguenza non spiega perché lo abbia fatto e si limita a citare motivi privati: anche i giornali che hanno riportato la notizia non danno informazioni maggiori sulle sue ragioni. Tra un prelievo e l’altro svolto dal gruppo di ricerca, l’uomo si era fatto nuovamente vaccinare e ciò aveva permesso di effettuare analisi ancora più accurate sul modo in cui reagisce il sistema immunitario dopo la somministrazione di un vaccino a mRNA, il tipo più utilizzato in Occidente in questi anni contro il coronavirus.
    Il gruppo di ricerca aveva ipotizzato che la grande quantità di vaccini avesse in qualche modo messo sotto maggiore stress il sistema immunitario rispetto al normale, ma dai test non sono emersi problemi di salute. Altri esami su specifici anticorpi non hanno fatto rilevare segni di eventuali infezioni da coronavirus avvenute in questi anni.
    Seppure questo caso offra nuovi elementi sulla sicurezza dei vaccini a mRNA, lo studio ricorda che da un singolo caso non si possono naturalmente derivare conclusioni molto ampie e che difficilmente si troveranno altri casi simili per fare maggiori confronti. Il gruppo di ricerca sconsiglia comunque di sottoporsi a una quantità maggiore di somministrazioni rispetto a quelle consigliate in questi anni dalle autorità sanitarie, che hanno previsto due dosi iniziali a distanza di qualche mese e una dose di richiamo, da effettuare periodicamente per rinnovare la memoria immunitaria. LEGGI TUTTO

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    Iniziamo a capire qualcosa di più sul mercurio nei tonni

    Un’ampia ricerca da poco pubblicata sull’inquinamento da mercurio nei mari ha segnalato che in alcuni pesci – in particolare il tonno – la concentrazione di questo metallo è rimasta pressoché invariata dagli anni Settanta nonostante varie iniziative e un trattato per ridurre la sua dispersione nell’ambiente. La presenza del mercurio nel pesce può costituire un rischio nella fase di sviluppo del feto durante la gravidanza, ma può avere anche effetti sulla salute delle persone adulte. Secondo la ricerca, anche applicando più rigidamente i regolamenti internazionali potrebbero essere necessari decenni prima di rilevare una riduzione della concentrazione di mercurio nel tonno, tra i pesci più consumati al mondo.Mercurio e metilmercurioQuello che viene definito comunemente “mercurio nei mari” è in realtà il metilmercurio (o per meglio dire catione monometilmercurio), un composto che contiene un legame metallo-carbonio ed è quindi “metallorganico” (il carbonio è centrale nella produzione di composti organici e per la vita). Come suggerisce il nome, questa sostanza si forma a partire dal metallo attraverso l’attività di alcuni batteri anaerobi, cioè che vivono in assenza di ossigeno, e di altri microrganismi presenti soprattutto in laghi, fiumi, mari e sedimenti nelle zone umide. Più il mercurio è presente nell’ambiente, maggiore è la probabilità che una sua parte significativa venga trasformata in metilmercurio.
    Il mercurio si accumula nell’ambiente sia per fenomeni naturali, come l’attività dei vulcani e gli incendi stagionali nelle foreste, sia a causa dell’attività umana in particolare tramite la combustione dei combustibili fossili e in alcuni processi industriali, per esempio per la preparazione dell’acetaldeide, impiegata in alcuni fertilizzanti, nei solventi e in numerosi altri prodotti chimici.
    Fu proprio la produzione di acetaldeide a portare a una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione sui rischi legati alle contaminazioni di mercurio, dopo il disastro ambientale scoperto a Minamata, una città nell’estremo occidente del Giappone. Tra gli anni Trenta e la fine degli anni Sessanta del secolo scorso un’industria chimica sversò nelle acque di scarico grandi quantità di metilmercurio che si accumulò in numerose specie marine, entrando poi nella catena alimentare e causando l’avvelenamento da mercurio di molte persone che abitavano nella zona. L’intossicazione fu tale da portare alla scoperta della cosiddetta “sindrome di Minamata”, una malattia che causa gravi problemi al sistema nervoso e che in alcuni casi può essere mortale.
    Il disastro di Minamata e alcuni altri casi simili portarono alla Convenzione di Minamata sul mercurio, un trattato internazionale adottato nel 2013 da circa 140 paesi per limitare le emissioni di mercurio e dei suoi composti nell’ambiente. La Convenzione è dedicata in particolare alla preservazione degli ambienti marini, dove soprattutto il metilmercurio tende a causare contaminazioni su larga scala all’interno della catena alimentare.
    Salute e alimentazioneIl metilmercurio ha un tempo di permanenza negli organismi relativamente lungo, di conseguenza attraversa buona parte della catena alimentare degli ambienti marini (“bioamplificazione”). Batteri e plancton contaminati diventano il cibo dei pesci più piccoli, che diventano quindi un pasto contaminato per i pesci più grandi e così via fino alle specie ittiche di maggiori dimensioni. Ciò determina un aumento della concentrazione di metilmercurio man mano che aumenta la stazza dei pesci, in particolare di quelli predatori. Molte specie ittiche vengono consumate da altri animali, come gli uccelli o gli esseri umani, che finiscono a loro volta con l’ingerire quella sostanza.
    Rappresentazione schematica della bioamplificazione del metilmercurio (Wikimedia)
    La concentrazione del metilmercurio nei pesci varia a seconda delle specie, della loro stazza, della loro età e naturalmente del luogo in cui sono cresciuti, che potrebbe essere più o meno contaminato. In una stessa specie, i pesci più anziani hanno in proporzione più metilmercurio di quelli più giovani, semplicemente perché sono stati esposti più a lungo a questa sostanza che impiega molto tempo per essere smaltita. Il metilmercurio ha infatti un’emivita intorno ai due mesi e mezzo nelle specie acquatiche: significa che la sua concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo 2,5 mesi è metà, dopo altri 2,5 mesi è metà della metà e così via). I pesci in cui sono solitamente riscontrate le maggiori concentrazioni sono i pesci spada, gli squali e i tonni di grandi dimensioni e più anziani.
    Quando si mangia pesce contenente metilmercurio, questo viene assorbito dal sistema digerente e passa nella circolazione sanguigna, attraverso la quale si distribuisce in buona parte dell’organismo, compreso il sistema nervoso. La sua emivita nel sangue è di 50 giorni, ma è raro che con una normale alimentazione si raggiungano livelli da grave intossicazione, come avvenne per esempio a Minamata dove le concentrazioni erano molto alte.
    Le caratteristiche organiche del metilmercurio fanno sì che riesca a legarsi fortemente alle proteine, rendendo quindi più difficile la sua eliminazione da parte dell’organismo. Durante la gravidanza può avvenire il trasferimento al feto del metilmercurio assunto con l’alimentazione e sopra una certa soglia possono esserci rischi, legati per esempio a un minore sviluppo del sistema nervoso centrale; nelle persone adulte possono esserci maggiori rischi di sviluppare disturbi cardiovascolari.
    Stabilire limiti per il metilmercurio non è semplice e ancora oggi le soglie da stabilire sono piuttosto discusse tra gli esperti. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha indicato una «dose tollerabile di assunzione» di 1,3 microgrammi per chilogrammo di massa corporea. È un indicazione che può apparire un poco criptica, considerato che nel momento in cui si consuma un piatto di pesce non si può sapere quale sia l’effettiva concentrazione (per il comparto alimentare ci sono comunque livelli massimi indicati nel regolamento dell’Unione Europea 2023/915). Per questo l’EFSA ha fornito indicazioni un poco più approssimative, ma utili nella vita di tutti i giorni.
    Il consiglio dell’EFSA, in linea con quelli di altre autorità ambientali e sanitarie in giro per il mondo, è di consumare pesce tra le due e le tre volte alla settimana, cercando di variare il più possibile i tipi di pesce e limitando il consumo di quelli di taglia medio-grande, che potrebbero avere un maggior contenuto di metilmercurio come pesci spada, naselli e tonni. Maggiori attenzioni dovrebbero essere mantenute per i bambini e dalle donne nel periodo della gravidanza, ma in generale l’EFSA invita comunque a mangiare pesce perché i suoi nutrienti sono comunque importanti nella fase della crescita e in età adulta. Come per molte altre cose che riguardano l’alimentazione, la questione di fondo è trovare un equilibrio tollerabile tra i rischi e i benefici portati dal consumo di un certo alimento.
    Emissioni e concentrazioneLe maggiori attenzioni portate dalla Convenzione di Minamata hanno contribuito negli ultimi decenni a ridurre la presenza di nuovo mercurio e nuovo metilmercurio negli ambienti marini, ma le analisi indicano che c’è comunque un certo accumulo che richiederà del tempo per essere smaltito. Lo studio, da poco pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Science & Technology Letters, ha riguardato ricerche pubblicate nei decenni scorsi e nuovi dati che insieme hanno permesso di avere a disposizione analisi su quasi 3mila campioni di tonni, raccolti tra gli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano negli ultimi 50 anni, con particolare attenzione ai tipi di tonno più pescati e consumati (tonno pinne gialle, tonno obeso e tonno skipjack).
    Dalle analisi è emerso che nonostante una riduzione nelle emissioni di mercurio a partire dagli anni Settanta, i livelli di metilmercurio nel tonno sono rimasti sostanzialmente invariati. Secondo la ricerca, la causa è probabilmente il modo in cui gli accumuli di metilmercurio si sono distribuiti nelle acque oceaniche. Il moto ondoso e la differenza di temperatura nell’acqua fa sì che in alcune circostanze questa sostanza raggiunga profondità meno basse, dove vivono i pesci che diventano poi prede dei tonni. Il processo non è però completamente chiaro, ma evidenzia una certa inerzia del sistema legata alle grandi quantità di mercurio accumulate nei secoli passati sia naturalmente sia in seguito alle emissioni derivanti dalle attività umane.
    Anche se i livelli di metilmercurio non sono diminuiti (nel caso del tonno skipjack c’è stato un lieve aumento, probabilmente dovuto alle maggiori emissioni di mercurio in Asia), c’è comunque una notizia incoraggiante: nessuno dei campioni analizzati ha fatto registrare concentrazioni superiori ai limiti per il consumo del tonno. Lo studio segnala comunque che le emissioni di mercurio dovranno essere ridotte molto di più per vedere una riduzione nella concentrazione di mercurio negli oceani nei prossimi 10-25 anni. A quel punto, per rilevare una riduzione nella concentrazione di metilmercurio nella carne del tonno e di altri pesci predatori potrebbero essere necessari diversi altri decenni. LEGGI TUTTO

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    Il cervello cambia durante il ciclo mestruale

    Caricamento playerPer una parte delle donne i giorni vicini alle mestruazioni sono associati a sbalzi d’umore e maggiore emotività e irritabilità, per cui è piuttosto noto che ci siano relazioni tra gli ormoni che regolano il ciclo mestruale e il cervello. Sappiamo anche che il cervello è pieno di recettori che reagiscono agli ormoni, compresi quelli che non c’entrano nulla con ovulazioni e mestruazioni. Tuttavia le ricerche su cosa succeda nelle diverse fasi del ciclo a livello dei neuroni sono ancora molto carenti, e tra le altre cose non si sa come mai certe donne sperimentino notevoli variazioni di umore e altre no.
    Di recente però due diversi studi hanno ampliato le conoscenze in questo ambito grazie a una serie di risonanze magnetiche cerebrali praticate su più di 50 giovani donne in buona salute durante diversi momenti dei loro cicli mestruali. Entrambi dicono che alcune regioni del cervello si modificano significativamente durante le fasi del ciclo. Per il momento non sappiamo se a questi cambiamenti fisici corrispondano variazioni nelle funzioni del cervello, negli stati emotivi o eventualmente nelle capacità cognitive, ma sapere che cervelli adulti possono cambiare «in modo super veloce», per dirla come Julia Sacher, tra le neuroscienziate autrici di uno dei due studi, è già un notevole progresso.
    Il ciclo mestruale è la sequenza di fasi periodiche che avvengono fisiologicamente nell’apparato riproduttivo femminile in età fertile, cioè più o meno tra i 12 e i 50 anni, e coinvolgono principalmente l’utero e le ovaie. Ogni mese la mucosa interna dell’utero, l’organo che può ospitare eventuali gravidanze, si modifica per accogliere un ovulo proveniente dalle ovaie (ovulazione). Spesso colloquialmente si usa l’espressione “ciclo” per indicare le mestruazioni, cioè il momento in cui la mucosa dell’utero (endometrio), se non è iniziata una gravidanza, perde la sua parte più superficiale, che viene espulsa come sangue e tessuti attraverso la vagina.
    Convenzionalmente il ciclo inizia il primo giorno di mestruazioni. Le mestruazioni durano dai 2 agli 8 giorni nella maggior parte dei casi e avvengono in contemporanea con l’inizio della prima fase del ciclo, la fase follicolare. Complessivamente dura circa 13-14 giorni: è la fase in cui all’interno delle ovaie si sviluppano vari follicoli, cioè sacche di liquido contenenti un ovulo ciascuna. Nella successiva fase ovulatoria, un solo ovulo viene rilasciato e arriva all’utero, dove nell’arco di circa 12 ore può essere fecondato. Poi arriva la fase luteinica, in cui l’endometrio si inspessisce; se non c’è stata fecondazione dopo circa 14 giorni si sfalda facendo iniziare la mestruazione. La maggior parte delle donne sperimenta quasi 450 cicli mestruali nella vita.
    A ogni fase del ciclo corrispondono diversi livelli di differenti ormoni nel corpo. Nella fase follicolare aumentano i livelli di estrogeni fino a un picco; nella fase ovulatoria c’è una notevole diminuzione dei livelli di estrogeni e aumenta progressivamente quello di progesterone; il picco di progesterone avviene nella fase luteinica, che si conclude con la diminuzione dei livelli di progesterone ed estrogeni. Questi ormoni regolano il funzionamento di ovaie e utero, ma possono influenzare anche il resto del corpo.

    – Leggi anche: Cosa sono davvero le mestruazioni

    Per quanto riguarda il cervello, il primo studio che mostrò che in quello dei mammiferi succedeva qualcosa in risposta ai cambiamenti nei livelli di ormoni sessuali femminili risale al 1990.
    Un gruppo di ricerca del laboratorio di neuroendocrinologia della Rockefeller University di New York scoprì che nelle femmine di ratto i livelli di estrogeni hanno degli effetti sull’ippocampo, una parte del cervello che ha grande importanza cognitiva ed è fondamentale per la memoria. In particolare accertò che nell’ippocampo questi ormoni regolano la densità delle ramificazioni dei dendriti, i prolungamenti dei neuroni attraverso cui le cellule del cervello comunicano. Nell’ippocampo, che aumenta di volume negli adulti quando si è impegnati ad apprendere nuove abilità e conoscenze pratiche, ci sono numerosi recettori per gli ormoni sessuali.
    Studi successivi mostrarono poi che con la menopausa, cioè con la fine della fertilità femminile, la densità dei dendriti diminuisce in alcune parti del cervello, ma fino a poco tempo fa nessuno aveva osservato con costanza eventuali cambiamenti analoghi nel corso di uno stesso ciclo mestruale nelle medesime donne.
    I due recenti studi sui cambiamenti del cervello nel corso del ciclo lo hanno fatto. Sono indipendenti tra loro e sono stati divulgati lo scorso ottobre. Il primo è stato realizzato da un gruppo di ricerca dell’Istituto Max Planck per le scienze cognitive e cerebrali umane e dell’Università di Lipsia, in Germania, di cui fa parte Sacher, ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Mental Health. Il secondo studio è stato fatto all’Università della California di Santa Barbara, negli Stati Uniti, ed è stato diffuso su bioRxiv in versione preprint, cioè prima di essere rivisto da ricercatori terzi e indipendenti (peer-review), pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo del gruppo di Lipsia.
    Allo studio tedesco hanno partecipato 27 donne di età compresa tra i 18 e i 35 anni, con cicli mestruali regolari e senza patologie neurologiche o psichiatriche, che non si erano mai sottoposte a terapie ormonali, non avevano avuto gravidanze, aborti e non avevano allattato nell’anno precedente allo studio, e non usavano contraccettivi ormonali da almeno sei mesi. Dallo studio sono state escluse donne che mostravano sintomi umorali premestruali. A ognuna delle partecipanti sono sono stati fatti prelievi di sangue per monitorare i livelli ormonali in sei diversi momenti del ciclo mestruale; nelle stesse occasioni sono state sottoposte a risonanze magnetiche per analizzare l’ippocampo e il vicino lobo temporale mediale.
    In questo modo il gruppo di ricerca di Lipsia ha osservato che all’aumento dei livelli di estrogeni la parte esterna dell’ippocampo aumenta di volume e la materia grigia, costituita dai corpi dei neuroni e dai dendriti, si espande. Quando poi crescono i livelli di progesterone si espande la parte legata alla memoria.
    Lo studio realizzato in California, basato sulle risonanze effettuate su 30 donne di età media di circa 22 anni, ha osservato qualcosa di analogo oltre a modifiche nella sostanza bianca, che invece è costituita dagli assoni, i prolungamenti più lunghi dei neuroni. Gli autori di questo secondo studio hanno ipotizzato che i cambiamenti ormonali associati all’ovulazione possano favorire il trasporto di informazioni tra diverse parti del cervello.
    Per il momento comunque non si possono trarre conclusioni su eventuali effetti sulla memoria, sulle capacità cognitive o su altre funzioni del cervello.
    «In generale, il cervello femminile è ancora molto poco considerato negli studi delle neuroscienze cognitive», ha detto Sacher: «Anche se gli ormoni sessuali steroidei sono potenti modulatori dell’apprendimento e della memoria, meno dello 0,5 per cento della letteratura scientifica basata su tecniche di neuroimaging prende in considerazione le fasi ormonali come quelle del ciclo mestruale, l’influenza dei contraccettivi ormonali, della gravidanza e della menopausa. Siamo impegnati a rimediare a questo grosso buco della ricerca». Nell’ambito della fisiologia e della salute i corpi femminili sono stati studiati molto meno di quelli maschili: nuove scoperte in questo campo potrebbero aiutare a capire meglio i rischi e la resistenza a malattie come la depressione e l’Alzheimer quando riguardano le donne.

    – Leggi anche: Si possono, per scelta, eliminare le mestruazioni? LEGGI TUTTO