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    L’anomalo aumento di polmoniti infantili in Cina

    Nelle ultime settimane in Cina è stato rilevato un aumento anomalo di casi di polmonite infantile, le cui cause non sono ancora completamente chiare. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha chiesto maggiori informazioni e il governo cinese ha risposto dicendo di non avere rilevato «nuovi o strani patogeni» collegati alle polmoniti. La situazione al momento non suscita particolare preoccupazione, ma dopo la pandemia da coronavirus SARS-CoV-2 iniziata proprio in Cina ci sono grandi attenzioni, soprattutto da parte delle istituzioni sanitarie internazionali.Ormai da qualche mese i medici cinesi segnalano un aumento dei casi di malattie respiratorie, attribuendole a varie cause note come i virus influenzali, il SARS-CoV-2 e il Mycoplasma pneumoniae, un batterio tra i più comuni nelle forme di infiammazione ai polmoni che chiamiamo genericamente polmoniti. L’infezione batterica interessa con maggior frequenza i bambini e causa di solito una malattia di lieve entità, che deve comunque essere trattata per evitare il peggioramento dei sintomi.Per i medici è quindi normale e atteso che si debbano occupare spesso di polmoniti di questo tipo tra i bambini, ma secondo le informazioni fornite dai media cinesi nelle ultime settimane i casi sono aumentati notevolmente. Per giorni ci sono state notizie di ospedali con decine di bambini ricoverati in varie zone della Cina, talvolta con seri problemi nel fornire loro assistenza a causa del grande afflusso di pazienti.In un ospedale nella provincia orientale di Anhui, i medici hanno effettuato 67 broncoscopie in un giorno rispetto alla media giornaliera di una decina di esami di questo tipo, che servono per valutare le condizioni e lo stato di infiammazione a livello polmonare. Un altro ospedale nella provincia costiera orientale dello Zhejiang ha stimato che le visite pediatriche siano triplicate rispetto allo scorso anno e che a circa un bambino su tre sia stata diagnosticata una polmonite da Mycoplasma pneumoniae.In seguito alle notizie sui molti ricoveri, mercoledì 22 novembre l’OMS aveva chiesto pubblicamente al governo cinese di fornire maggiori informazioni, utilizzando i canali appropriati per segnalare gli aumenti di particolari malattie. In seguito alla richiesta, l’agenzia di stampa Xinhua controllata dal governo aveva diffuso un articolo che segnalava le dichiarazioni di alcuni funzionari della Commissione nazionale di sanità, l’organismo che si occupa della salute pubblica in Cina. I funzionari avevano detto di essere al lavoro per analizzare le diagnosi di bambini con malattie respiratorie.Il giorno seguente, giovedì 23 novembre, l’OMS aveva poi comunicato di avere ricevuto nuove informazioni direttamente dal governo cinese, che aveva indicato di non avere rilevato la presenza di «nuovi o strani patogeni» legati alle polmoniti. Secondo le autorità sanitarie cinesi, la maggior quantità di malattie respiratorie sarebbe dovuta a più cause già note, a cominciare dai virus influenzali. L’ipotesi è che si siano diffusi più del solito in seguito alla rimozione delle forti limitazioni imposte nel paese negli anni scorsi per provare a ridurre la circolazione del coronavirus, con la cosiddetta “strategia zero-COVID”.Il lungo isolamento ha reso meno frequenti i contagi da influenza, contribuendo a una minore esposizione alla malattia e di conseguenza a una minore immunità nei suoi confronti rispetto ad altri periodi, specialmente nelle persone non vaccinate. Ciò ha fatto sì che i sintomi fossero più significativi e tali da rendere necessari accertamenti in ospedale per molti pazienti. Qualcosa di analogo potrebbe essere successo con altri virus e batteri che interessano con maggiore frequenza i bambini, come il virus respiratorio sinciziale (RSV) e il Mycoplasma pneumoniae.Le cause dell’attuale aumento di polmoniti tra i bambini sono comunque difficili da ricostruire sulla base delle informazioni fornite finora dal governo cinese, ritenute ancora insufficienti da molti osservatori. È forse anche per questo motivo che l’OMS ha scelto di chiedere pubblicamente spiegazioni, invece di seguire le vie della comunicazione interna.Un gruppo di lavoro dell’OMS si occupa infatti di sorvegliare le notizie che circolano sui giornali e sui social network, confrontandole con quelle fornite dalle istituzioni sanitarie dei singoli paesi, in modo da occuparsi il prima possibile di eventuali anomalie. Quando emergono stranezze, l’OMS invia una richiesta di maggiori informazioni al paese interessato, ma è raro che la procedura sia annunciata pubblicamente. Si preferiscono comunicazioni dirette e interne con le istituzioni coinvolte, arrivando a qualcosa di pubblico solo nel caso in cui ci siano elementi utili da condividere globalmente per esempio per ridurre i rischi di avere un’emergenza sanitaria.Nelle prime fasi di quella che sarebbe poi diventata la pandemia da coronavirus, l’OMS era accusata di essere troppo cauta nei confronti del governo cinese e di non avere richiesto da subito maggiore trasparenza sulla diffusione del SARS-CoV-2. La richiesta pubblica di chiarimenti mostra un cambiamento di approccio in un contesto in cui c’è più attenzione su questi temi da parte della popolazione in generale, che negli ultimi anni ha dovuto affrontare grandi difficoltà e limitazioni.Al momento mancano dati più precisi e ufficiali sulla diffusione delle polmoniti tra i bambini, anche se la richiesta dell’OMS ha portato a qualche maggiore concretezza. Il fatto che non sia stato segnalato un aumento di malattie respiratorie simili tra gli adulti sembra comunque rendere meno probabile la presenza di un nuovo virus, ancora non conosciuto. Per avere maggiori informazioni, i bambini con sintomi dovrebbero essere sottoposti ai test per i patogeni che con maggiore frequenza causano malattie respiratorie, in modo da comprendere meglio la causa dei loro problemi di salute. Una grande quantità di test negativi su virus e batteri noti più diffusi e in circolazione in questo periodo potrebbe dare qualche indicazione su eventuali nuovi patogeni.Secondo alcuni osservatori, la vicenda mostra come l’approccio delle autorità cinesi nel comunicare in maniera trasparente con le istituzioni sanitarie internazionali non sia cambiata molto, nonostante la recente pandemia avesse avuto origine proprio nel paese. Tra il 2019 e il 2020 la Cina era stata relativamente solerte nel condividere le informazioni su quello che sarebbe stato poi chiamato SARS-CoV-2, ma emersero comunque ritardi e omissioni nella gestione della prima fase dell’emergenza sanitaria che si sarebbe poi diffusa in tutto il mondo. LEGGI TUTTO

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    C’è un altro farmaco contro l’obesità

    La Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci, ha approvato il Zepbound, un nuovo farmaco contro l’obesità prodotto dall’azienda Eli Lilly che farà concorrenza al Wegovy, il farmaco molto discusso e richiesto negli ultimi mesi per trattare la medesima condizione. L’approvazione è avvenuta contestualmente a quella dell’Agenzia regolatrice per i medicinali e i prodotti sanitari del Regno Unito, a conferma della grande attenzione intorno ai farmaci contro l’obesità, un problema sanitario che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha ormai raggiunto «proporzioni epidemiche» con una stima di circa 4 milioni di morti all’anno.– Ascolta anche: L’obesità è una questione mondialeZepbound non è tecnicamente un nuovo farmaco: il suo principio attivo (tirzepatide) era già stato approvato in precedenza come trattamento contro il diabete con il nome commerciale Mounjaro, disponibile anche nell’Unione Europea. Il suo sviluppo era iniziato sei anni fa con una sperimentazione clinica che aveva coinvolto circa 300 persone affette da diabete di tipo 2 (la forma più diffusa della malattia e la cui causa principale è spesso l’obesità) che avevano assunto il farmaco per tre mesi. L’obiettivo era trattare il diabete, ma dal test era emerso che le persone volontarie avevano perso almeno il 13 per cento della loro massa corporea. Lo studio fu seguito da una serie di test clinici di maggiore durata, circa 72 settimane, e con il coinvolgimento di oltre 2.500 persone con problemi di obesità.Lo scorso anno Eli Lilly aveva annunciato i risultati, segnalando come la metà dei pazienti che avevano ricevuto il dosaggio più alto di tirzepatide una volta alla settimana avesse perso almeno il 20 per cento della massa corporea, un esito senza precedenti nella perdita di peso per un farmaco di quel tipo. Tra il 2017 e il 2022 l’azienda aveva accelerato la ricerca e lo sviluppo del principio attivo, focalizzandosi sull’obesità e facendo grandi investimenti sia per condurre test clinici in parallelo sia per ingrandire la propria capacità produttiva, scommettendo sul fatto di ricevere un’autorizzazione dalla FDA per l’utilizzo del farmaco.I dati conclusivi dei test clinici, consultati dalla FDA per valutare l’approvazione, dicono che le persone che hanno assunto Zepbound hanno perso in media il 18 per cento della propria massa corporea, un risultato paragonabile al 15 per cento ottenuto con il Wegovy (semaglutide). Anche quest’ultimo era stato sviluppato come farmaco contro il diabete ed è venduto come Ozempic per il trattamento di questa malattia, mentre il nome commerciale Wegovy riguarda una versione con un diverso dosaggio specificamente venduta per trattare l’obesità.Negli ultimi mesi la domanda di Wegovy è diventata molto alta al punto che Novo Nordisk, l’azienda danese che lo produce, non riesce a soddisfare le tante richieste con una conseguente carenza del farmaco e di Ozempic. Il processo produttivo richiede tempo perché Wegovy è una preparazione da iniettare. Anche Zepbound deve essere iniettato e questo oltre a complicare la produzione rende meno pratico l’utilizzo da parte dei pazienti. Sia Novo Nordisk sia Eli Lilly sono al lavoro per sviluppare una versione dei loro farmaci per uso orale, in modo da aumentare la loro capacità produttiva e raggiungere un maggior numero di pazienti. I test clinici della versione orale di Zepbound sono già in corso.Secondo esperti e analisti, i farmaci di nuova generazione contro l’obesità sono una delle più grandi occasioni per le aziende farmaceutiche, anche considerato l’aumento delle persone con questa condizione in tutto il mondo. Il loro impiego è comunque vincolato a una diagnosi medica di obesità o di forte sovrappeso con alcune condizioni di salute tipiche delle persone obese. Come tutti i farmaci, anche Zepbound e Wegovy hanno effetti collaterali e devono essere somministrati sotto supervisione medica, nell’ambito di un trattamento che comprenda anche una modifica degli stili di vita.Attualmente Zepbound non è disponibile nell’Unione Europea, ma Eli Lilly ha presentato domanda per l’approvazione all’Agenzia europea per i medicinali. L’approvazione negli Stati Uniti di solito implica una rapida autorizzazione anche in Europa. LEGGI TUTTO

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    Perché sveniamo è un mistero

    Nella Deposizione dalla Croce, una delle opere più famose e importanti del pittore fiammingo Rogier van der Weyden, la Vergine Maria perde i sensi alla vista del proprio figlio Gesù morto durante la crocifissione. Maria ha una posa simile a quella del figlio e viene sorretta mentre con gli occhi chiusi e le guance rigate dalle lacrime si accascia a terra. È una rappresentazione drammatica di uno degli eventi più importanti della cristianità, ma è anche tra i migliori esempi di un tema iconografico che si sviluppò a partire dal tardo Medioevo quando si diffuse la convinzione che Maria fosse svenuta dopo la crocifissione di Gesù. Nei secoli successivi il tema dello svenimento sarebbe stato ripreso in molti quadri, non necessariamente di carattere religioso, mostrando un particolare interesse per un fenomeno plateale e al tempo stesso misterioso.Ancora oggi le cause e il meccanismo dietro gli svenimenti non sono completamente chiari, anche se una recente ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Nature offre qualche nuova prospettiva che potrebbe aiutare a risolvere il mistero. A complicare da sempre le cose c’è il fatto che non tutti gli svenimenti sono uguali e che la loro classificazione può essere difficoltosa.Quello che comunemente chiamiamo “svenimento” è in termini medici una sincope, cioè una perdita di coscienza transitoria le cui caratteristiche principali sono la breve durata e la risoluzione spontanea. In generale la sincope è causata da un minore afflusso di sangue al cervello dovuto a una riduzione della pressione sanguigna (ipotensione), ma possono contribuire altri fattori come problemi cardiaci e nervosi. Chi sta per avere una sincope ha talvolta sintomi che precedono la perdita di sensi vera e propria: giramenti di testa, improvvisa sudorazione, pallore, vista sfocata, nausea e vomito. Nel caso in cui a questi sintomi non segua una perdita di conoscenza si parla di presincope, condizione che non dovrebbe comunque essere trascurata.Si stima che circa il 40 per cento delle persone abbia almeno una sincope nel corso della propria vita, a dimostrazione di quanto sia diffuso un fenomeno che nella maggior parte dei casi non lascia conseguenze. Nonostante la frequenza tra la popolazione, molti aspetti della perdita di conoscenza non sono ancora chiari e ciò è dovuto soprattutto alla grande varietà di situazioni in cui può verificarsi una sincope.Classificare le sincopi è di per sé complicato e a seconda dei manuali di medicina e del lavoro di ricerca dei medici si trovano diverse classificazioni. Secondo la Società europea di cardiologia, una sincope può avere cause: neuromediate (cioè legate alle attività del sistema nervoso), ortostatiche (dovute alla posizione eretta), cardiache o cerebrovascolari. La forma più diffusa, e che comunemente chiamiamo appunto svenimento, rientra nella prima categoria ed è la sindrome vasovagale.Una persona che vive una situazione di forte e improvviso stress emotivo, come nel caso della Vergine Maria di van der Weyden, sviene a causa di una sincope vasovagale. Il presupposto è di solito la bassa pressione sanguigna che può essere determinata semplicemente da come si è fatti o da condizioni ambientali, come una giornata molto calda che porta a una maggiore vasodilatazione per disperdere il calore (i vasi sanguigni si dilatano e di conseguenza diminuisce la pressione a cui circola il sangue al loro interno). Deve poi esserci una causa scatenante che può essere improvvisa, come la visione dell’ago della siringa per un prelievo o un evento spaventoso, oppure crescente come uno stato d’ansia o un attacco di panico.Davanti a una situazione percepita come di pericolo, il nostro organismo si prepara a reagire e come prima cosa fa aumentare il battito cardiaco per rifornire più velocemente l’organismo di ossigeno e altre sostanze attraverso il sangue, ma il cuore non riesce a soddisfare la richiesta perché la pressione sanguigna non è sufficiente. Il nervo vago – uno dei principali canali di comunicazione tra il cervello e i polmoni, il cuore, lo stomaco e altri organi addominali – interviene e fa rallentare la frequenza cardiaca che si riflette in un minore afflusso di sangue al cervello che porta infine alla sincope.Su questo meccanismo già di per sé complicato possono intervenire numerose altre variabili e molti aspetti del fenomeno non sono ancora chiari. La ricerca da poco pubblicata su Nature offre però nuovi importanti elementi per comprendere meglio che cosa succede nel momento in cui interviene il nervo vago, determinando infine la sincope. Il gruppo di ricerca è infatti riuscito ad analizzare le interazioni tra cuore e cervello, superando le ricerche precedenti che si erano invece quasi sempre concentrate su uno dei due, analizzandoli come sistemi isolati.Lo studio è consistito nell’analisi genetica delle cellule di un tratto del nervo vago che ha permesso di identificare alcuni neuroni coinvolti nei processi che portano alla contrazione dei vasi sanguigni. Il gruppo di ricerca ha notato che questi neuroni formano intricate diramazioni intorno ai ventricoli, le due cavità nella parte inferiore del cuore, e sono poi in comunicazione con la postrema, una struttura che si trova nel tronco encefalico alla base del cervello.(Wikimedia)Identificate le strutture e i loro collegamenti, il gruppo di ricerca ha iniziato a fare qualche esperimento in laboratorio sui topi. Come spiega lo studio, hanno stimolato quegli specifici neuroni in vario modo tenendo nel frattempo sotto controllo il battito cardiaco, la respirazione, la pressione sanguigna e i movimenti degli occhi degli animali. Sapendo su quali strutture neuronali intervenire è stato possibile riprodurre in modo molto più accurato le condizioni che portano a una sincope e analizzare i loro effetti sull’organismo.Un topo libero di muoversi e normalmente attivo, per esempio, sveniva in pochi secondi non appena venivano stimolati i neuroni identificati dal gruppo di ricerca. La perdita di sensi era accompagnata da una marcata dilatazione della pupilla e da un movimento verso l’alto e all’indietro del bulbo oculare, un effetto che si osserva spesso anche nelle persone che hanno una sincope. Altri esami hanno permesso di rilevare una riduzione della pressione sanguigna, della frequenza cardiaca e respiratoria, nonché un ridotto afflusso di sangue verso la testa.Il gruppo di ricerca si è poi chiesto che cosa accade nel cervello quando si ha una sincope, visto che la mancanza delle sostanze portate dal sangue riguarda l’intero encefalo. Ad alcuni topi sono stati applicati elettrodi per rilevare la loro attività neuronale in varie aree del cervello mentre svenivano e si è notato che questa diminuiva praticamente ovunque, tranne che nel nucleo paraventricolare nell’ipotalamo, la struttura che ha tra le sue funzioni principali il controllo del sistema nervoso autonomo. Bloccando l’attività del nucleo, il gruppo di ricerca ha notato che i topi rimanevano privi di sensi più a lungo; una stimolazione permetteva invece di risvegliare rapidamente gli animali che tornavano a comportarsi normalmente.L’ipotesi è che i neuroni identificati dalla ricerca lavorino insieme al nucleo paraventricolare nel regolare le fasi della sincope, dallo svenimento al successivo processo di ripresa di conoscenza e delle attività cerebrali sospese per qualche secondo. Il cervello richiede una grande quantità di energia (glucosio) e di ossigeno portati dalla circolazione sanguigna: in loro assenza i neuroni smettono di funzionare e dopo 2-5 minuti iniziano a morire. La sincope dura molto meno e si risolve di solito entro un minuto, ripristinato il normale afflusso di sangue verso il cervello.La nuova ricerca è un importante progresso nella conoscenza del fenomeno, ma non offre spiegazioni su come quegli specifici neuroni siano stimolati in primo luogo, né spiega il perché della sincope. Che senso ha perdere i sensi quando vediamo il sangue o siamo sottoposti a una situazione di grande stress?Una delle teorie più dibattute sostiene che svenire sia un retaggio evolutivo del fingersi morti, una pratica diffusa tra diverse specie e che può accrescere le probabilità di sopravvivere quando si subisce un attacco da un predatore. A questa teoria è associata quella secondo cui una ridotta pressione sanguigna rallenterebbe la perdita di sangue nel caso di una ferita, aumentando anche in questo caso le possibilità di sopravvivenza. Un’altra teoria ancora ha legato lo svenimento al modo in cui interagivano i gruppi di esseri umani nel paleolitico. Le persone non coinvolte nei combattimenti che svenivano segnalavano che non costituivano una minaccia e avevano maggiori probabilità di sopravvivenza. La paura degli aghi potrebbe derivare da quella per gli oggetti che in un remoto passato potevano causare ferite e sanguinamenti. È una teoria affascinante, ma ancora dibattuta e difficile da confermare.Le teorie formulate nel tempo sono per lo più dedicate alla sincope vasovagale, la più comune e per certi versi misteriosa se confrontata con quelle legate a problemi cardiaci e circolatori. Mentre la prima si verifica di solito come un caso isolato, queste ultime possono essere ricorrenti e rendono quindi necessari esami perché potrebbero essere il sintomo di uno specifico problema di salute. Risalendo alle cause i medici possono prescrivere terapie o cambiamenti di abitudini nello stile di vita, in modo da ridurre il rischio che si verifichino nuovi episodi. Se è vero che quasi sempre la sincope si risolve da sé, lo svenimento può avere altre conseguenze come battere violentemente la testa da qualche parte mentre ci si accascia privi di senso.(Wikimedia)L’invenzione di particolari divani simili alle chaise longue e ai triclini degli antichi Romani in età vittoriana viene spesso attribuita alla necessità di ridurre proprio i rischi delle cadute dovute agli svenimenti, offrendo a chi subisce una sincope un comodo appoggio su cui accasciarsi e riprendersi. Quel tipo di divano viene chiamato “fainting couch”, letteralmente “divano da svenimento”, e divenne effettivamente molto diffuso nel Regno Unito durante il diciannovesimo secolo. Era spesso collocato all’interno delle “fainting room”, camere da svenimento, una stanza solitamente al primo piano delle case dove in sostanza ci si ritirava per fare un pisolino.Non è completamente chiara l’origine dei due nomi legati allo svenimento, ma fu proprio in età vittoriana che nacque lo stereotipo secondo cui le donne perdono facilmente i sensi davanti a una forte emozione. Per diverso tempo si disse che la presunta maggiore frequenza degli svenimenti fosse legata agli stretti corsetti della moda dell’epoca, che non permettevano di respirare bene e di conseguenza potevano portare a una sincope. In realtà non ci sono elementi storici e scientifici per ritenere che questo fosse il caso ed è probabile che quel tipo di divani si diffuse semplicemente per questioni di moda, in un periodo che si rifaceva spesso all’antichità. LEGGI TUTTO

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    È morto il secondo uomo a cui era stato trapiantato con successo un cuore suino geneticamente modificato

    Il Centro medico dell’Università del Maryland ha detto che è morto Lawrence Faucette, la seconda persona a cui era stato trapiantato con successo un cuore suino geneticamente modificato. Faucette aveva 58 anni ed era stato operato lo scorso 20 settembre: l’avanzamento della sua malattia non permetteva di attendere un trapianto di cuore tradizionale. I medici dell’Università hanno detto che inizialmente aveva reagito bene all’intervento, ma che negli ultimi giorni il suo corpo aveva mostrato segnali di rigetto, il processo in cui l’organismo non riconosce come proprio il nuovo organo e lo attacca ritenendolo una minaccia. Faucette è morto il 30 ottobre, circa sei settimane dopo il trapianto.La tecnica degli xenotrapianti, cioè i trapianti di organi da altre specie da innestare negli esseri umani, è ritenuta promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori umani. Il rigetto però è il rischio principale che si corre in questi interventi. Il 9 marzo del 2022 era morto David Bennett, il primo uomo a cui era stato trapiantato un cuore suino con un intervento andato a buon fine, sempre al Centro medico dell’Università del Maryland. Anche Bennett all’inizio aveva reagito bene, ma alla fine era sopravvissuto per circa due mesi dopo l’intervento.– Leggi anche: Il primo trapianto di cuore da un suino geneticamente modificato Lawrence Faucette prima del trapianto assieme alla moglie Ann (University of Maryland) LEGGI TUTTO

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    Il Nobel per la Medicina a Katalin Karikó e Drew Weissman

    Caricamento playerIl Premio Nobel per la Medicina è stato assegnato a Katalin Karikó e Drew Weissman «per le loro scoperte sulle modifiche alle basi azotate dei nucleosidi che hanno reso possibile lo sviluppo di vaccini a mRNA efficaci contro COVID-19». Il Premio viene assegnato annualmente ed è uno dei più importanti riconoscimenti in campo scientifico.Il lavoro di Karikó e Weissman è stato essenziale per lo sviluppo dei vaccini contro il coronavirus, che hanno permesso di salvare la vita di milioni di persone riducendo i rischi di soffrire di forme gravi di COVID-19. In particolare, i due premiati hanno permesso di comprendere meglio il modo in cui l’RNA messaggero (mRNA) interagisce con il sistema immunitario, applicando metodi innovativi per vaccini di nuova generazione versatili e relativamente semplici da aggiornare.I miliardi di cellule di ciascuno di noi esistono grazie al materiale genetico, che viene trascritto in continuazione per consentire alle cellule di replicarsi e di produrre le proteine che provvedono a buona parte del loro funzionamento. In questo processo l’mRNA ha un ruolo centrale e a partire dagli anno Novanta Karikó iniziò a chiedersi se la molecola potesse essere utilizzata per contrastare alcune malattie. Era un’idea molto difficile da realizzare e che stava costando alla ricercatrice numerosi rifiuti di finanziamento da parte di università, fondi pubblici e privati negli Stati Uniti.– Leggi anche: La grande scommessaL’idea di base di Karikó non era in realtà così impossibile: visto che le cellule ricevono istruzioni dall’mRNA per produrre le proteine che ci mantengono vivi e in salute, perché non realizzare dell’mRNA sintetico per indurre le cellule a creare particolari proteine a proprio piacere? Potrebbero essere enzimi per ridurre gli effetti di una malattia, fattori di crescita per ripristinare attività nel sistema nervoso, o ancora anticorpi per renderci immuni da specifiche malattie.Nel 1990 un gruppo di ricerca dell’Università del Wisconsin era riuscito a ottenere un risultato simile su alcune cavie di laboratorio, ma c’era un problema di fondo: il nostro organismo ha diversi sistemi di controllo e di difesa per evitare che istruzioni che ritiene scorrette nell’mRNA, come quelle modificate artificialmente, possano raggiungere le cellule facendo potenzialmente danni. La difesa comporta la distruzione delle informazioni, ma può anche portare a una risposta immunitaria.Dopo sei anni trascorsi presso l’Università della Pennsylvania, nel 1995 Karikó perse diverse possibilità di carriera proprio perché non aveva le risorse per portare avanti le proprie ricerche. Negli anni seguenti le cose iniziarono a cambiare: Karikó incontrò Drew Weissman, un immunologo dell’Università di Boston, e insieme elaborarono nuovi sistemi per eludere quelle attività di controllo del nostro organismo.I due ricercatori puntarono all’origine dell’mRNA: i nucleosidi, cioè i quattro mattoncini che lo compongono a livello molecolare e a che a seconda di come sono combinati forniscono le istruzioni alle cellule. Si resero conto che nelle versioni sintetiche – quindi realizzate in laboratorio – dell’mRNA uno dei mattoncini finiva per attivare le difese da parte dell’organismo, impedendo la trasmissione delle istruzioni alle cellule per produrre le proteine desiderate. Dopo numerosi esperimenti, Karikó e Weissman trovarono il modo di modificare lievemente il mattoncino che faceva da spia, in modo che l’mRNA sintetico riuscisse a passare inosservato e a essere trasportato nelle cellule.A partire dal 2005, i due iniziarono a pubblicare le proprie scoperte su diverse riviste scientifiche, ricevendo attenzione per lo più da altri ricercatori che avevano iniziato a lavorare all’mRNA. Il sistema funzionava, ma non era ancora molto raffinato e in pochi riuscivano a comprenderne a fondo le potenzialità. Tra questi c’erano ricercatori che avrebbero avuto un ruolo fondamentale nella nascita di Moderna e BioNTech (con Pfizer), e che ora sono famosi in tutto il mondo per i loro vaccini contro il coronavirus.I primi tentativi di sviluppare vaccini a mRNA, per esempio contro il virus Zika e quello che causa la MERS, non portarono a risultati particolarmente incoraggianti. Le ricerche si intensificarono però a partire dal 2020 con l’emergere del SARS-CoV-2, il coronavirus responsabile dei casi di COVID-19. In poco meno di un anno dall’emergere del nuovo virus, fu possibile sviluppare vaccini altamente efficaci, che non impediscono l’infezione virale, ma riducono di molto i rischi di sviluppare forme gravi della malattia, che possono anche causare la morte.Secondo gli esperti, nei prossimi anni le piattaforme sulle quali sono stati costruiti i vaccini a mRNA renderanno possibile lo sviluppo di vaccini di nuova generazione per molte altre malattie, semplificando le attività di prevenzione e riducendo la letalità di alcuni virus.Katalin Karikó è nata nel 1955 a Szolnok in Ungheria, ha conseguito un dottorato nel 1982 e ha poi lavorato per alcuni anni all’Accademia delle scienze ungherese di Szeged. Si è poi trasferita negli Stati Uniti dove ha lavorato in diversi centri di ricerca universitari ed è ora tra i principali dirigenti di BioNTech.Drew Weissman è nato nel 1959 a Lexington nel Massachusetts (Stati Uniti) e ha conseguito un dottorato in medicina all’Università di Boston nel 1987. Ha lavorato in diversi centri di ricerca ed è responsabile della divisione che si occupa di innovazione legata all’RNA presso il Penn Institute. LEGGI TUTTO

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    Le cose sorprendenti che potremo fare col nervo vago

    Caricamento playerDa circa un anno un gruppo di ricerca negli Stati Uniti è al lavoro su una delle più articolate e complesse strutture nervose del nostro organismo, che si sta rivelando molto più importante e versatile di quanto si ritenesse un tempo: il nervo vago. È un canale di comunicazione fondamentale tra il cervello e i polmoni, il cuore, lo stomaco e altri organi addominali. Contribuisce al controllo di processi involontari come la respirazione, il battito cardiaco, la digestione e ha un ruolo centrale nella regolazione di alcune attività del sistema immunitario. Sappiamo che svolge tutte queste funzioni, ma non sappiamo di preciso come; inoltre, si sospetta che ci possano essere altre sue attività che ancora sfuggono alle nostre conoscenze e che potrebbero rivelarsi molto utili nel trattare alcune malattie. Ed è per questo che lo studio delle sue strutture più intime è così importante.Una delle ricerche più promettenti è svolta appunto negli Stati Uniti, più precisamente a Manhasset, a quaranta minuti di automobile da Manhattan, nello stato di New York. Pizzicata tra due campi di golf c’è la sede dei Feinstein Institutes for Medical Research, un centro di ricerca con una cinquantina di laboratori che nell’autunno dello scorso anno ha ricevuto 6,7 milioni di dollari dal governo statunitense per realizzare la «prima mappa anatomica del nervo vago», attraverso un progetto estremamente ambizioso e complesso che nei programmi dei suoi responsabili si dovrà concludere entro il 2025.Il progetto Reconstructing Vagal Anatomy (REVA, letteralmente “Ricostruire l’anatomia vagale”) prevede di catalogare e mappare le 160mila fibre nervose che si stima costituiscano il nervo vago e tutte le sue principali diramazioni. Il lavoro di ricerca è un’attività delicata e laboriosa che inizia con l’asportazione da un cadavere del nervo, avendo cura di non danneggiarne i filamenti che nelle sue parti terminali possono essere sottili all’incirca quanto un capello. Ogni terminazione deve essere inoltre catalogata in base all’organo e ai tessuti cellulari cui è collegata.Il gruppo di ricerca divide poi in segmenti il nervo e lo inserisce in una particolare cera. Si ottiene in questo modo un blocchetto che viene poi affettato, un po’ come si fa con un’affettatrice in salumeria, per produrre sezioni sottilissime da analizzare al microscopio. L’impiego di reagenti consente di fare assumere alle fibre nervose colorazioni differenti in base alle loro caratteristiche, facilitando in questo modo le analisi. In un certo senso il processo ricorda dal vero ciò che avviene con una TAC o una risonanza magnetica, esami di diagnostica per immagini che mostrano parti del corpo come se venissero appunto affettate, in modo da vedere come cambiano i loro tessuti.Visited the Feinstein Institutes for Medical Research @NorthwellHealth today and got to chat with @StavrosZanos about his team’s vagus nerve research. Here is a tiny section of the vagus nerve (in wax)!! pic.twitter.com/Nw4daVfJTH— Grace Wade (@grace_wade_) May 22, 2023I nervi sono formati da fasci di conduttori di impulsi (gli “assoni”) provenienti da uno o più neuroni e hanno la funzione di trasportare le informazioni da e verso il sistema nervoso centrale (i cui principali componenti sono il cervello e il midollo spinale). Se i vasi sanguigni sono le tubazioni dell’acquedotto, i nervi sono i cavi che fanno funzionare Internet: la loro presenza è fondamentale per far funzionare i muscoli, per percepire tutto ciò che abbiamo intorno e per molte altre attività. A seconda della loro funzione, i nervi appaiono in modo diverso ed è proprio grazie a queste differenze che chi lavora al REVA può mappare il nervo vago. Per esempio, le fibre nervose con uno strato più spesso di mielina, una sostanza che fa da isolante, sono di solito coinvolte nella trasmissione degli impulsi per controllare i muscoli dove non devono esserci dispersioni dei segnali.Evitare che alcuni tipi di impulsi si perdano per strada è importante nel caso del nervo vago, considerato il lungo e intricato percorso che compie all’interno del nostro organismo (e che probabilmente gli è valso il nome “vago” dalla parola latina “vagus” che significa vagabondo, nomade). Ha origine nel tronco encefalico, alla base del cervello, fuoriesce dal cranio e prosegue nel collo per addentrarsi poi nel torace e nell’addome. In realtà ci sono due nervi vaghi: uno scende lungo il collo a sinistra e l’altro a destra, con vari punti di contatto specialmente nella parte finale del loro decorso.Rappresentazione schematica del decorso del nervo vago dalla base del cervello fino all’addome (Northwell Health)Il medico dell’antichità Galeno fu tra i primi a dedicare qualche attenzione al nervo vago. Sezionando alcuni maiali vivi si era accorto che tagliando il nervo della laringe (una diramazione del vago) il maiale perdeva la capacità di stridere, perché non aveva più il controllo sulle proprie corde vocali. Ci sarebbero voluti secoli prima di comprendere meglio i meccanismi dietro al funzionamento del sistema nervoso, le cui fibre sono spesso minuscole e difficili da isolare dal resto dell’organismo. Fu ricostruito il percorso compiuto dal vago e vari trattati iniziarono a ipotizzarne l’importanza, visto che dal cervello si spingeva oltre lo stomaco.Con i progressi della scienza medica nel Novecento il vago tornò al centro dell’attenzione di alcuni gruppi di ricerca interessati a verificare le sue potenzialità come sistema per trattare alcune condizioni, legate per esempio agli spasmi muscolari dovuti alle malattie come l’epilessia. Alla fine degli anni Ottanta negli Stati Uniti fu per esempio sviluppato un dispositivo che riduceva gli spasmi applicando una bassa tensione elettrica al vago. Le ricerche nel settore portarono una decina di anni dopo all’approvazione da parte delle autorità sanitarie dei primi dispositivi per controllare alcune forme di epilessia che non rispondono ai farmaci solitamente impiegati per limitarne gli effetti.Lo sviluppo delle nuove tecniche di diagnostica per immagini, come la risonanza magnetica, permise di individuare meglio l’intricata serie di diramazioni del vago, inducendo una certa creatività nella ricerca. Considerato che innerva lo stomaco, ci si chiese se fosse possibile intervenire sui segnali che il vago invia dallo stomaco, che insieme ad altri meccanismi consentono di percepire il senso di sazietà e pienezza che ci spingono a smettere di mangiare. Nelle persone con forme gravi di obesità, questo sistema sembra non funzionare a dovere e per questo si ritiene che modularne i segnali possa avere esiti positivi nel trattamento dell’obesità.Ci sono dispositivi che, come nel caso di quelli contro l’epilessia, producono piccoli impulsi elettrici per modulare diversamente i segnali nervosi dallo stomaco. La loro utilità è ancora dibattuta: secondo alcuni studi, a parità di tempo le persone che lo utilizzano riescono a perdere più peso rispetto a chi non lo impiega, ma ottenere dati affidabili è difficile a causa della grande quantità di variabili che dipendono da come è fatta ciascuna persona e dalle abitudini che ha.Test e sperimentazioni con dispositivi per stimolare il vago proseguono ancora oggi e in molti ambiti, proprio per via della grande quantità di funzioni svolte da questa struttura nervosa. Sono stati sviluppati dispositivi per provare a regolare la pressione sanguigna, che potrebbero un giorno sostituire i farmaci per tenerla sotto controllo specialmente tra le persone ipertese, così come ce ne sono per provare a ridurre gli effetti di alcuni tipi di ictus sulla parte superiore del corpo.Negli ultimi trent’anni sono inoltre emerse altre funzioni del vago che non tendiamo ad associare comunemente ai nervi, come la capacità di intervenire suoi processi infiammatori. Tra i pionieri delle ricerche in questo settore c’è il neurochirurgo Kevin Tracey. Insieme al proprio gruppo di ricerca negli anni Novanta ha lavorato a un nuovo farmaco per ridurre la produzione delle citochine, cioè le proteine che stimolano il sistema immunitario a contrastare le infezioni. In condizioni normali il meccanismo induce un’infiammazione che rende i tessuti cellulari inospitali alla proliferazione di virus e batteri, ma in alcuni casi la produzione di citochine finisce fuori controllo portando a una reazione immunitaria che può causare seri danni anche ai tessuti non infetti. È la cosiddetta “tempesta di citochine” di cui si era parlato molto nei primi tempi della pandemia da coronavirus, quando il sistema immunitario di alcune persone finiva fuori controllo nel tentativo di eliminare l’infezione virale.Tracey e colleghi avevano sperimentato il loro farmaco iniettandolo nel cervello di alcuni ratti con importanti infezioni batteriche cerebrali. Dopo la somministrazione l’infiammazione si riduceva sensibilmente, ma Tracey aveva notato che l’effetto non era limitato al cervello, ma anche al resto dell’organismo dei ratti. Era un risultato insolito considerato che il cervello è isolato e protetto dal resto dell’organismo proprio per evitare pericolose infezioni. Il gruppo di ricerca trascorse mesi a chiedersi come potesse essere possibile, infine provò a recidere il nervo vago di uno dei ratti e notò che l’effetto antinfiammatorio non era più riscontrabile. Tracey ha raccontato di recente alla rivista New Scientist di avere reagito con una certa sorpresa alla scoperta: «Gli scienziati non dicono più “eureka”, adesso dicono “porca miseria”, e fu quello che dicemmo».Il processo non è ancora compreso nella sua interezza e le caratteristiche del “riflesso infiammatorio”, come lo chiama Tracey, sono ancora dibattute. La presenza delle citochine nell’organismo viene rilevata da alcune terminazioni nervose e segnalata al cervello, che tramite il vago invia i segnali per modulare la presenza di quelle proteine. È stato riscontrato che un aumento nell’attività di segnalazione del vago può ridurre i livelli di infiammazione e ridurre il rischio di danni agli organi o in generale ai tessuti cellulari, come avviene nel caso di alcune malattie croniche.Le ricerche in questo ambito hanno aperto la possibilità di sviluppare dispositivi per provare a interrompere i processi infiammatori senza ricorrere ai farmaci. Tracey sviluppò un primo prototipo nel 2012 che fu impiegato in una sperimentazione con un piccolo gruppo di persone affette da artrite reumatoide, una malattia che causa una costante infiammazione delle articolazioni portando a dolore e deformazioni, che possono essere debilitanti. Tra le persone con il dispositivo, il 70 per cento segnalò una riduzione di circa un quinto dei sintomi, mentre più in generale circa la metà disse di avere riscontrato un miglioramento. Attualmente è in corso una sperimentazione clinica che coinvolge 250 persone per valutare con più accuratezza gli effetti del dispositivo, in vista di una sua eventuale autorizzazione nei prossimi anni a partire dagli Stati Uniti, dove viene svolto lo studio.Tracey ha detto a New Scientist che intervenire direttamente sul vago non ha solo il beneficio di ridurre l’assunzione di farmaci antinfiammatori che possono avere vari effetti avversi, specialmente nel caso di un loro impiego prolungato. A differenza di alcuni farmaci, la stimolazione del nervo rende possibile il mantenimento di quote minime di citochine, sufficienti per non disattivare alcune funzioni molto importanti del sistema immunitario.Elaborazione grafica di un impianto per stimolare il nervo vago (RESETRA)Approcci analoghi a quelli sviluppati da Tracey potrebbero rendere possibile il trattamento di varie condizioni legate alle infiammazioni croniche, ma secondo gli esperti potranno mostrare a pieno le loro potenzialità solo quando sarà risolto un problema non di poco conto. A oggi non sappiamo come reagisca di preciso il nervo vago alle stimolazioni e quali processi si inneschino nel resto dell’organismo: sappiamo solo che si ottengono alcuni risultati. Gli stimolatori sono diversi tra loro, alcuni agiscono attraverso la pelle, altri andando più in profondità, e non è chiaro se attivino solamente i distretti del vago nelle loro vicinanze o anche a grande distanza. Queste difficoltà si riflettono anche nella difficile identificazione di eventuali effetti avversi da ricondurre alla stimolazione.La mappatura del nervo vago in corso ai Feinstein Institutes for Medical Research potrebbe aiutare a risolvere il mistero, per esempio individuando con maggiore precisione il ruolo di specifiche fibre nervose, in modo da rendere più precisa l’applicazione degli elettrodi e degli impulsi. Le possibilità di miniaturizzazione dei microchip stanno infatti rendendo possibili innesti di alta precisione, come dimostrato in recenti esperienze svolte su alcune aree del cervello. La semplice identificazione delle fibre non sarà comunque risolutiva, almeno fino a quando non sarà anche chiarito il ruolo di ciascuna in processi che coinvolgono il sistema nervoso, altri organi e naturalmente il cervello. LEGGI TUTTO

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    Abbiamo usato per anni farmaci contro il “naso chiuso” inefficaci

    Dopo anni di studi, test clinici e ricorsi, la scorsa settimana una commissione della Food and Drug Administration (FDA, l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci) ha definito inefficaci i farmaci orali che contengono fenilefrina, venduti da quasi vent’anni come una soluzione per alleviare la congestione nasale dovuta al raffreddore e all’influenza. I farmaci che la contengono sono molto diffusi negli Stati Uniti, ma alcune versioni simili sono vendute anche in Europa e in Italia, insieme ad altri principi attivi: come il Tachifludec, il prodotto da banco contenente fenilefrina per uso orale più venduto e pubblicizzato proprio per le sue proprietà decongestionanti.Sulla base delle conclusioni della commissione, la FDA dovrà decidere che cosa fare dei farmaci di questo tipo, che secondo la stessa agenzia negli ultimi anni hanno portato a vendite annuali intorno agli 1,7 miliardi di dollari, numero che probabilmente sottostima l’effettivo giro di affari di questi medicinali. In Italia si stima che nel 2022 siano stati venduti tra 3,5 e 4 milioni di confezioni di farmaci orali con fenilefrina indicati come decongestionanti. In entrambi i casi sono volumi di vendite ingenti per un principio attivo sul quale c’erano forti dubbi per lo meno sul suo impiego per via orale già da tempo.La fenilefrina era stata approvata dalla FDA a metà degli anni Settanta, ma aveva iniziato a essere presente nei farmaci contro il “naso chiuso” soprattutto dopo il Duemila, in seguito alla decisione di imporre maggiori limitazioni all’utilizzo della pseudoefedrina, una molecola dalla provata efficacia nel ridurre la congestione nasale. La decisione di limitarla, prima a livello statale e poi federale, derivava dal tentativo di ridurre la produzione illegale di alcune sostanze come le metanfetamine sfruttando i composti della pseudoefedrina. Messe davanti alle limitazioni che avrebbero reso più complicata la vendita dei loro prodotti, varie aziende farmaceutiche decisero di passare alla fenilefrina, nonostante circolassero già molti dubbi sull’efficacia della molecola nei prodotti orali (l’efficacia della molecola negli spray nasali è ancora dibattuta, invece).Le farmacie iniziarono a consigliare i decongestionanti con fenilefrina ai propri clienti e alcuni segnalarono ai loro medici di non avere trovato giovamento dalla terapia. Tra questi c’era Randy Hatton, oggi professore di farmacia all’Università della Florida, che fece richiesta per ottenere la documentazione utilizzata dalla FDA che aveva portato all’approvazione per quell’uso del principio attivo negli anni Settanta. Dall’analisi del materiale emerse che la FDA si era basata su 14 studi e che cinque di quelli che riportavano esiti positivi erano stati effettuati dallo stesso centro di ricerca, con risultati migliori rispetto alle altre ricerche. Escludendo quei cinque studi, la fenilefrina per uso orale ai dosaggi studiati non sembrava essere un decongestionante particolarmente efficace.Gli studi erano comunque datati ed era difficile trarre qualche conclusione più solida. Nel 2007 Hatton presentò insieme ad alcuni colleghi una petizione alla FDA, chiedendo che fosse rivista la dose di fenilefrina da impiegare arrivando a un dosaggio tale da sortire qualche effetto. La richiesta non era quindi di interrompere l’impiego della molecola, visto che il riesame delle analisi condotte negli anni Settanta aveva evidenziato qualche stranezza, ma nulla che facesse mettere completamente in dubbio il processo di approvazione o l’efficacia in assoluto della fenilefrina.In seguito alla petizione la FDA attivò un nuovo gruppo di lavoro per fare il punto sulla situazione. Furono presentati alcuni dati raccolti da un’azienda farmaceutica – poi confluita dentro Merck (al di fuori del Nordamerica è nota col nome Merck Sharp Dohme o MSD) – che voleva utilizzare la fenilefrina in un proprio prodotto contro le allergie. I dati erano a dir poco deludenti: il gruppo di ricerca per conto dell’azienda farmaceutica aveva rilevato che dopo l’ingestione buona parte della fenilefrina veniva disgregata nell’apparato digerente, con bassissime percentuali (intorno all’1 per cento) di principio attivo che finiva poi in circolazione nel sangue. La quantità di fenilefrina che raggiungeva le mucose nasali era quindi trascurabile al punto da non poter intervenire per ridurre la congestione. Erano stati inoltre segnalati studi nei quali era emerso come la fenilefrina non fosse meglio di una sostanza che non fa nulla (placebo) nel trattare la congestione nasale dovuta alle allergie da pollini.Nonostante i nuovi elementi, i lavori della commissione consultiva si conclusero senza decisioni sulla fenilefrina per uso orale: i farmaci che la impiegavano come decongestionanti potevano continuare a essere venduti, ma si richiedevano nuovi studi per capire se dosi maggiori del principio attivo portassero a qualche risultato, come già richiesto nella petizione inviata da Hatton e colleghi.I più interessati a proseguire le ricerche erano gli scienziati di Merck, alla ricerca di un prodotto per trattare le allergie. Effettuarono due test clinici i cui risultati furono pubblicati nel 2015 e nel 2016 dai quali emerse che anche aumentando molto i dosaggi, fino a quattro volte, non si riscontravano effetti nel ridurre la congestione nasale.Dopo la pubblicazione di quegli studi, Hatton e colleghi presentarono una nuova petizione alla FDA che ha infine portato alle conclusioni della scorsa settimana di un nuovo gruppo di lavoro dell’agenzia. Dei suoi sedici componenti, tutti hanno votato a favore del parere non vincolante sull’inutilità della fenilefrina. Sulla base di questa indicazione, la FDA nei prossimi mesi deciderà che cosa fare, ma secondo gli esperti appare improbabile che non siano assunte decisioni più incisive sulla questione rispetto al passato.Le decisioni della FDA potrebbero avere qualche conseguenza anche nell’Unione Europea, dove la responsabilità sui farmaci è dell’Agenzia europea per i medicinali e delle agenzie nazionali, come l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) in Italia. Nell’Unione Europea sono venduti vari prodotti decongestionanti che oltre alla fenilefrina comprendono altri principi attivi, come per esempio il paracetamolo o antinfiammatori non steroidei. In alcuni casi queste altre molecole hanno un blando effetto decongestionante, legato alla loro capacità di ridurre l’infiammazione: un minimo risultato c’è, ma non è legato alla fenilefrina.A differenza degli Stati Uniti, nell’Unione Europea sono inoltre reperibili con maggiore facilità i farmaci che contengono pseudoefedrina, la cui capacità decongestionante è nota da tempo. La molecola è presente in numerosi prodotti da banco come Actigrip e Aspirina Influenza e Naso Chiuso in Italia, con chiare indicazioni sui potenziali effetti indesiderati legati alla pseudoefedrina. Nel nostro paese questo tipo di farmaci ha fatto registrare più del doppio delle vendite rispetto a quelli con fenilefrina.In futuro anche la pseudoefedrina potrebbe essere limitata nell’Unione Europea come negli Stati Uniti, ma per motivi diversi. A febbraio di quest’anno, l’EMA ha infatti avviato una revisione in seguito a un piccolo numero di casi in cui l’assunzione di farmaci contenenti la molecola è avvenuta in persone che hanno sofferto di alcune patologie ai vasi sanguigni cerebrali. La valutazione è ancora in corso e richiederà del tempo per analizzare tutti i dati disponibili, le segnalazioni da parte della farmacovigilanza e le conoscenze maturate sulla pseudoefedrina. Al termine del processo, se necessario, la Commissione Europea adotterà nuove regole vincolanti per tutti gli stati membri. La procedura viene svolta per numerosi principi attivi e non sempre porta a nuove regole e limitazioni. LEGGI TUTTO

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    Baciare gli animali domestici è rischioso?

    Una decina di anni fa una donna di 44 anni si presentò in un ospedale in Giappone dicendo di avere un forte mal di testa, nausea e rigidità al collo. Dopo averla visitata, i medici avevano riscontrato febbre alta, ma nessun indizio di una infezione e nemmeno segni di ferite o punture di insetto. I sintomi indicati dalla paziente sembravano comunque indicare qualche problema neurologico e le furono prescritti altri esami. Le fu infine diagnosticata una meningite di origine batterica, ma non fu possibile stabilire che cosa l’avesse causata fino a quando la paziente ammise di avere l’abitudine di baciare il muso del proprio cane, passandogli talvolta il cibo stringendolo tra le labbra. Il grande trasporto verso il suo animale domestico le era costato una pericolosa infezione batterica, diagnosticata comunque per tempo e trattata con successo con alcuni antibiotici.Casi come quello giapponese sono rari e nella maggior parte delle circostanze la convivenza e le effusioni con gli animali domestici non portano a sviluppare zoonosi, cioè malattie infettive che vengono trasmesse dagli animali agli esseri umani. Le zoonosi domestiche hanno un’incidenza relativamente bassa rispetto ad altre malattie, ma secondo gli esperti molti casi passano inosservati e di conseguenza falsano le stime del fenomeno. Per quanto piccolo, il rischio esiste e può essere utile avere qualche conoscenza in più su cosa cani, gatti e altri animali possono trasmettere a chi li accudisce e non solo.I patogeni – come virus, batteri e parassiti – noti per passare dagli animali domestici a noi sono una settantina e non sempre causano sintomi evidenti in cani, gatti e altri animali da compagnia. Le vie di trasmissione possono essere dirette, per esempio in seguito al contatto con saliva, feci e altri fluidi corporei, oppure indirette quando si maneggiano sostanze contaminate come acqua, cibo o i materiali con cui gli animali restano a lungo vicino, come lettiere e cucce.Il rischio è solitamente più alto con i contatti diretti, dove c’è una stretta interazione tra l’animale e la persona che lo accudisce. Senza arrivare a scambiarsi il cibo di bocca come nel caso della paziente giapponese, molte persone quando giocano con un cane si lasciano leccare la faccia, con la saliva che può raggiungere le mucose della bocca e del naso, oppure depositarsi sugli occhi. Nel cavo orale di un cane c’è una grande quantità di batteri e altri microrganismi tipici della specie canina (Canis familiaris) contro i quali non abbiamo sempre difese adeguate.Tra i batteri che i cani possono trasmetterci ce ne sono alcuni appartenenti al genere Clostidrium, ma anche E. coli e quelli responsabili delle salmonellosi, tutti con il potenziale di causare malattie gastrointestinali. Il Pasteurella multocida trovato nella paziente giapponese, è presente in molte altre specie oltre ai cani (uccelli, gatti, conigli, maiali e bovini) e sebbene porti molto di rado alla meningite, può causare problemi all’apparato respiratorio e cardiaco innescando una risposta immunitaria eccessiva che finisce per danneggiare i tessuti.(AP Photo/Sergei Grits)I gatti sono meno inclini a leccare gli umani con cui vivono, ma si lisciano di frequente il pelo con cui si entra inevitabilmente in contatto. I casi di zoonosi sono comunque legati più che altro al modo in cui viene gestita la lettiera: per buona pratica si dovrebbero utilizzare guanti usa e getta quando si cambia la sabbia, o per lo meno ricordarsi di lavare accuratamente le mani per almeno 20-30 secondi al termine della pulizia. La via oro-fecale è infatti tra le principali modalità in cui si può contrarre infezioni come salmonellosi, toxoplasmosi o giardiasi, una malattia dovuta a un protozoo che invade l’apparato digerente causando nausea, vomito e diarrea.I contatti diretti che possono portare a una zoonosi comprendono morsi e graffi, che spesso coi gatti più sensibili si verificano alla minima incomprensione. Molti di loro fanno da serbatoio naturale al Bartonella henselae, un batterio noto non a caso per causare la malattia “da graffio di gatto”. Dopo qualche giorno nel punto della ferita si forma una pustola talvolta accompagnata dalla febbre. Normalmente il sistema immunitario riesce da solo a superare l’infezione nel giro di 2-4 mesi, ma nelle persone immunodepresse la malattia può durare molto più a lungo e causare altri effetti, come problemi al fegato.In generale, più si vive a stretto contatto con i propri animali domestici maggiori sono i rischi di dover fare i conti con qualche imprevisto. Oltre a farsi leccare la faccia, dare libero accesso alla camera da letto a cani e gatti può essere problematico. Dormire in compagnia dei propri animali domestici prolunga inevitabilmente i tempi di esposizione a eventuali patogeni. Lo stesso vale per altre zone della casa, per esempio nel caso in cui si lascino i gatti liberi di saltare sui pensili della cucina, ammesso che ci sia un modo davvero efficace per impedirglielo.(Brooke Cagle su Unsplash)Mentre per le persone in salute i rischi sono tutto sommato bassi, per alcune categorie viene consigliata qualche precauzione in più. I bambini hanno occasioni di contatto più stretto con gli animali domestici: giocano con loro e si mettono le mani in bocca dopo averli toccati, con un maggior rischio di essere contagiati e sviluppare un’infezione. Altri soggetti a rischio sono le persone con problemi al sistema immunitario, che potrebbero avere complicazioni anche con un’infezione che per altri sarebbe banale e risolvibile in pochi giorni con o senza farmaci.Come segnalano due esperti sul sito The Conversation, non sono solamente i cani e i gatti a diffondere malattie tra gli esseri umani: «Gli uccelli domestici possono talvolta trasmettere la psittacosi, un’infezione batterica che causa la polmonite. Il contatto con testuggini domestiche è stato collegato a infezioni batteriche dovute al genere Salmonella, in particolare nei bambini. Anche i pesci da tenere in acquario sono stati ricondotti a una serie di infezioni batteriche negli umani».Tornando ai cani e ai gatti, è importante comunque ricordare che se si viene leccati su mani, braccia, gambe e piedi ci sono poche probabilità di trasmissione dei patogeni. La pelle è la prima e più importante barriera di cui disponiamo per difenderci dagli agenti esterni e fa un ottimo lavoro anche nello sbarrare la strada a molti dei patogeni trasportati dagli animali. Il rischio aumenta (sempre relativamente) se si hanno ferite o se saliva e altri fluidi entrano in contatto con le mucose. Per questo di solito viene sconsigliato di farsi leccare la faccia dal proprio animale domestico. Nel caso dei cani, basta ricordarsi dove mettono il muso, come ha spiegato un virologo: «Non è solo questione di ciò che è contenuto nella saliva. I cani passano buona parte della loro vita con il naso in angoli sudici o annusando gli escrementi di un altro cane, quindi il loro muso è pieno di batteri, virus e germi di ogni tipo».Oltre a virus e batteri ci sono poi i parassiti come i nematodi, chiamati spesso impropriamente “vermi cilindrici”, che infestano una grande quantità di animali. Si diffondono soprattutto attraverso le feci, che possono essere ingerite nei casi di coprofagia o quando i cani si annusano e leccano a vicenda. È comunque raro che il materiale fecale presente nella loro bocca causi la parassitosi in un essere umano, ma la contaminazione può comunque avvenire per via indiretta, per esempio quando viene accidentalmente ingerito qualcosa che era entrato a contatto con i bisogni di un cane infetto, se per esempio questo si era liberato nelle vicinanze di un orto domestico.Per ridurre i rischi e godersi lo stesso una certa affettuosa vicinanza con gli animali domestici possono essere sufficienti alcuni accorgimenti. Il primo, che vale per molte altre cose legate all’igiene e alla salute, consiste nel lavarsi bene le mani dopo avere giocato con loro e dopo essere entrati in contatto con i loro giocattoli, le lettiere, le cucce o ciò che usano per riposarsi. Il consiglio vale anche per i bambini, che dovrebbero essere sorvegliati per assicurarsi che si abituino a lavarsi le mani. Alcuni ambienti della casa come la cucina dovrebbero essere preclusi agli animali, specialmente se possono facilmente saltare sui ripiani e magari raggiungere del cibo. Assicurarsi di avere tutte le vaccinazioni in regola e di rispettare le scadenze per i rinnovi di questi trattamenti aiuta a ridurre ulteriormente alcuni rischi.In linea di massima è infine meglio non farsi leccare la faccia. LEGGI TUTTO