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    La ricerca di un rimedio contro il singhiozzo

    Caricamento playerA Charles Osborne venne il singhiozzo poco dopo avere fatto uno sforzo per sollevare un maiale da macellare. Era il 1922, aveva trent’anni e pensava che il disturbo se ne sarebbe andato dopo qualche minuto, come succede di solito. Dovette invece convivere con il singhiozzo per 68 anni: nessuno fu in grado di trovare rimedio al problema, a dimostrazione di quanto sia oscura una condizione che prima o poi interessa tutti.Nei primi decenni dopo la comparsa del singhiozzo, Osborne aveva circa 40 spasmi (singulti) al minuto, col tempo la frequenza diminuì arrivando a una ventina nei suoi ultimi anni di vita. Il singhiozzo scomparve da solo nel 1990, lasciando a Osborne qualche mese di tregua prima della sua morte nel febbraio del 1991. Secondo il Guinness World Records, fu la persona ad avere vissuto più a lungo col singhiozzo, con un totale stimato di 430 milioni di singulti.La storia di Osborne è naturalmente un caso estremo, molto citato dagli articoli sul tema, ma è vero che ancora oggi sappiamo tutto sommato poche cose sul singhiozzo e soprattutto sui rimedi per farlo passare. Da far prendere un grande spavento a chi ne soffre a trattenere il respiro in un certo modo passando per i famigerati sette sorsi d’acqua, i consigli per farsi passare il singhiozzo non mancano nelle tradizioni popolari, mentre latitano abbastanza nella letteratura scientifica. I gruppi di ricerca che se ne sono occupati non mancano, ma con risultati alterni, anche se ogni tanto affiorano presunte “soluzioni definitive al problema”. Due in particolare sono ritenute promettenti, ma prima facciamo un ripasso nel caso vi foste persi le puntate precedenti.SinghiozzoIn generale, il singhiozzo è causato da una contrazione rapida e involontaria del diaframma, lo strato di muscoli e tendini che separa la parte superiore del busto da quella inferiore, e che ci consente di respirare. Lo spasmo comporta una rapida inspirazione d’aria e una immediata chiusura della glottide, che ha tra i suoi scopi quello di isolare l’esofago dalla trachea, cioè l’apparato digerente dalle vie aeree.È la combinazione dell’inspirazione e del rapido scatto della glottide a portare il classico hic del singhiozzo. Come accade spesso per le cose di salute, a seconda di come si è fatti si possono avere un singhiozzo con un’alta frequenza di singulti, spasmi di intensità variabile e di conseguenza sobbalzi e hic più o meno forti.(Wikimedia)Non è ancora completamente chiaro a che cosa serva di per sé il singhiozzo. Un’ipotesi piuttosto condivisa è che gli spasmi servano a sviluppare la capacità di respirare del feto in preparazione dell’abbandono dell’utero materno, quindi del passaggio da una condizione in cui è sostanzialmente sommerso a quella in cui deve fare entrare per la prima volta aria nei propri polmoni. Altri ipotizzano invece che il singhiozzo sia un ricordino lasciato dall’evoluzione, legato ai nostri lontanissimi antenati anfibi che dovevano regolare la respirazione a seconda che si trovassero in acqua o sulle terre emerse.Cosa causa il singhiozzoLe analisi su come si soffre di singhiozzo hanno evidenziato che lo spasmo coinvolge un arco riflesso, cioè una reazione nervosa che non riguarda i centri nervosi superiori e sulla quale non abbiamo quindi un diretto controllo. Uno dei principali indiziati è il nervo vago insieme a quello frenico. Il vago (ne esistono due, uno destro e uno sinistro) parte dal midollo allungato – la parte più in basso del tronco cerebrale – e raggiunge il basso torace e l’addome. Il frenico (anche in questo caso ce n’è uno per lato), invece, parte dai nervi spinali cervicali e innerva buona parte del diaframma.Le due coppie di nervo frenico e vago, evidenziate in azzurro (Wikimedia)Se una parte di questi lunghi nervi si irrita, si può verificare un attacco di singhiozzo. Vago e frenico possono essere disturbati da varie cause. Al termine di un pasto, per esempio, la maggiore dilatazione dello stomaco può interferire con i due nervi, portando a una loro reazione che turba i normali segnali nervosi ricevuti dal diaframma, facendolo contrarre in modo anomalo. Il singhiozzo può comunque venire anche a stomaco vuoto, per esempio se si sta ingerendo una bevanda gassata, che porta a una repentina e temporanea dilatazione delle pareti dello stomaco. Un attacco di singhiozzo può anche verificarsi dopo un accesso di tosse particolarmente intenso, per esempio dovuto a qualcosa andato per traverso (a volte è sufficiente la saliva), o a uno sforzo come si racconta accadde a Osborne.Solitamente i casi di singhiozzo durano pochi minuti e non lasciano conseguenze, ma come abbiamo visto molto può dipendere dalle loro cause e da come è fatto ciascuno di noi. Particolari stati di ansia, forte stress, mancanza di sonno, carenza di vitamine o di sali minerali, problemi all’apparato digerente, possono a loro volta causare il singhiozzo. Nel caso di condizioni croniche, gli episodi possono essere ricorrenti. In rare circostanze, gli spasmi possono essere causati da malattie come tumori al cervello, allo stomaco, ai polmoni o allo stesso diaframma. Anche le malattie neurologiche degenerative, come il Parkinson e alcune forme di sclerosi multipla, possono comportare una maggiore frequenza di episodi di singhiozzo.RimediI casi di singhiozzo riconducibili ad alcune di queste cause possono essere trattati facilmente, per esempio correggendo comportamenti o rimuovendo le cause più probabili degli attacchi. Viene consigliato di ridurre il consumo di bevande gassate o cibi piccanti, di mangiare più lentamente e di meno, eventualmente aumentando la frequenza dei pasti. Nei casi di singhiozzo persistente sono invece necessari esami e accertamenti per identificare problemi di salute che potrebbero essere più seri.La lista dei rimedi casalinghi per occasionali episodi di singhiozzo è piuttosto lunga e comprende spesso soluzioni alquanto creative, che per alcune persone funzionano e per altre no. Un rumore forte e repentino per spaventare chi ha il singhiozzo sembra funzionare perché porta a una reazione nervosa che interrompe i singulti. Altre attività, come trattenere il respiro o bere lentamente alcuni sorsi d’acqua senza respirare, sembrano aiutare perché concentrano l’attenzione su qualcos’altro: ci si tranquillizza e di conseguenza si rilassa il diaframma, con una riduzione degli spasmi. Non tutti gli esperti concordano comunque su queste spiegazioni e non si può escludere che talvolta il singhiozzo passi da solo, casualmente proprio nel momento in cui si sta sperimentando qualche soluzione per farselo passare.Ali Seifi è un neurologo dell’Università del Texas di San Antonio (Stati Uniti), è esperto di danni cerebrali ed è considerato un punto di riferimento quando si parla di singhiozzo. Ritiene che in fin dei conti nei rimedi casalinghi ci sia un po’ di scienza, come ha raccontato di recente all’Atlantic: «Si sono diffusi grazie a prove ed errori». Seifi ritiene che i rimedi validi abbiano un elemento in comune: una piccola variazione della pressione interna che influisce sul comportamento del diaframma. Il problema è che non sempre consentono di raggiungere la giusta pressione, di conseguenza non funzionano tutte le volte.Partendo da queste considerazioni, nel 2015 Seifi iniziò a lavorare a un nuovo dispositivo che permettesse di ottenere la pressione desiderata sul diaframma. Dopo vari prototipi, arrivò a sviluppare una sorta di cannuccia che genera mentre si beve una pressione in grado di fare abbassare il diaframma e far muovere l’epiglottide. La cannuccia si chiama HiccAway ed è in vendita da un paio di anni a poco meno di 14 dollari. Non funziona sempre, anche perché come abbiamo visto le cause del singhiozzo possono essere molteplici, ma la maggior parte di chi l’ha sperimentata ha detto di avere ottenuto migliori rispetto ad altri rimedi casalinghi.(HiccAway)C’è però un altro sistema che sembra offrire buoni risultati e che non comporta l’acquisto di una cannuccia. Lo segnalò una ventina di anni fa Luc Morris, un chirurgo specializzato nei tumori della testa e del collo oggi presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. Quando ancora era uno studente universitario, aveva scritto una lettera sulla rivista scientifica Anesthesia & Analgesia segnalando una tecnica che aveva definito “inspirazione sovra-sovramassimale” (SSMI).La SSMI prevede di espirare completamente, poi di fare un grande respiro e di trattenere il fiato per dieci secondi. Al termine del breve intervallo non si deve subito esalare, ma occorre inalare ancora un po’ di aria e attendere altri cinque secondi, inalando poi ancora un po’ di aria. Alla fine, si esala e si torna a respirare normalmente. A quel punto il singhiozzo dovrebbe essersene andato, almeno secondo l’esperienza di Morris.In un esperimento condotto su 19 volontari (12 uomini e sette donne) con singhiozzo che durava da 20 minuti a 8 ore a seconda dei casi, Morris riscontrò una «fine immediata» dei singulti in 16 casi su 19, pari all’84 per cento. Gli altri tre volontari non erano riusciti a completare l’intera operazione di respiri successivi da trattenere, rendendo quindi difficile la valutazione di casi in cui il sistema non funziona e basta.Morris non ha mai condotto uno studio clinico più ampio e approfondito, sia per motivi di tempo sia per la mancanza di finanziamenti. Non c’è un grande interesse da parte di potenziali finanziatori, sia pubblici sia privati, anche perché uno studio di questo tipo potrebbe portare alla conclusione che basta respirare in un certo modo per farsi passare il singhiozzo, nulla di particolarmente redditizio. LEGGI TUTTO

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    Come sente le voci chi “sente le voci”?

    È probabile che almeno per un istante sentirete leggere questo articolo dalla vostra voce interiore: forse è successo proprio in questo momento dopo che ve lo abbiamo fatto notare. Saltuariamente, “sentire” i propri pensieri è normale e rientra nel modo in cui la nostra mente organizza e gestisce le informazioni. In alcuni casi, però, questo processo prende percorsi inattesi e causa una allucinazione uditiva (“paracusia”), che porta a percepire come reali suoni e voci di altre persone senza che in realtà ci sia un vero stimolo uditivo o qualcuno stia parlando. Questa condizione, studiata da tempo da psichiatri e neurologi, può essere invalidante e può causare col tempo altri disturbi mentali.Nella storia gli esempi di persone che “sentivano le voci” non sono certo mancati. Tra i casi più famosi c’è probabilmente quello di Giovanna d’Arco, protagonista di importanti gesta militari nella Francia del quindicesimo secolo che all’età di 13 anni aveva iniziato a sentire alcune voci, attribuite a santi della tradizione cattolica. Riteneva che quei messaggi esprimessero la volontà di Dio e che dovessero essere quindi seguiti alla lettera. Come Giovanna d’Arco, spesso le persone con paracusia dicono di sentire una voce che esprime opinioni che non riconoscono come proprie, oppure voci di più persone che discutono tra loro, o ancora una voce interiore – diversa dalla propria – che racconta ciò che si sta facendo, come una sorta di narratore in terza persona. Le cause non sono ancora completamente note e sono frutto di studi e analisi psichiatriche, ma secondo alcuni gruppi di ricerca comprendere come il nostro cervello distingue tra la propria voce e quella delle altre persone potrebbe offrire importanti elementi per studiare meglio le allucinazioni uditive.Ci ha provato di recente un gruppo di ricerca della Scuola politecnica federale di Losanna, in Svizzera, partendo da una condizione in cui prima o poi ci troviamo tutti: sentire la registrazione della propria voce e stentare a riconoscerla, perché suona diversamente da come siamo solitamente abituati a sentirla quando parliamo. Quella strana sensazione deriva dal fatto che non sentiamo la nostra voce solamente con l’udito come percepiamo quella delle altre persone, ma anche attraverso le vibrazioni nel nostro cranio che derivano dai movimenti e dalle onde sonore che si producono quando emettiamo le parole. Sentiamo parte della nostra voce di riflesso, considerato che le nostre orecchie sono poste dietro alla bocca. Inoltre le ossa del cranio trasmettono le basse frequenze meglio dell’aria, di conseguenza tendiamo a sentire la nostra voce più bassa e intensa di quanto facciano le persone che ci ascoltano.Il gruppo di ricerca di Losanna si è chiesto se utilizzando auricolari a conduzione ossea l’esperienza di sentire la registrazione della propria voce diventasse più simile a quella di sentirsi normalmente parlare, in modo da offrire una nuova base da cui partire per studiare come il nostro cervello riconosce e interpreta le voci. Come suggerisce il nome, gli auricolari a conduzione ossea non stimolano direttamente l’apparato uditivo, ma diffondono il suono attraverso le ossa del cranio, dopo essere state collocate tra la tempia e la guancia. Questi auricolari producono piccole vibrazioni meccaniche che raggiungono poi l’orecchio interno attraverso il cranio.Auricolari a conduzione ossea (AP Photo/Michael Sohn)A un gruppo di volontari è stato richiesto di pronunciare per alcuni secondi la parola “ah” mentre la loro voce veniva registrata. In un secondo momento, la registrazione è stata mischiata con la registrazione di un numero variabile di altre voci, in modo da rendere più o meno distinguibile la voce di partenza. Ad alcuni volontari è stato poi richiesto di ascoltare le registrazioni con gli auricolari a conduzione ossea, ad altri utilizzando cuffie normali e ad altri ancora di ascoltare attraverso le casse di un comune computer portatile. A ogni partecipante è stato poi chiesto di indicare se tra le registrazioni ascoltate ci fosse effettivamente anche quella della loro voce.I volontari che avevano utilizzato gli auricolari a conduzione ossea hanno riconosciuto la propria voce più di frequente rispetto agli altri. Il gruppo di ricerca ha allora provato a sottoporre loro ulteriori registrazioni, contenenti un mix della voce di ogni singolo volontario con quella di alcuni loro amici. In questo caso non è stata rilevata una particolare differenza nell’identificazione delle voci: alcuni volontari hanno mostrato di riconoscere più facilmente la propria, forse perché abituati a distinguere più facilmente le voci che conoscono da tempo.Il gruppo di ricerca di Losanna ritiene che da esperimenti di questo tipo si potrebbero ricostruire i meccanismi che utilizza il nostro cervello per riconoscere la nostra voce e, su livelli più elaborati, parte del sé, inteso come il nucleo della personalità di ogni singolo soggetto. Studi di questo tipo riguardano per esempio l’analisi delle aree del cervello che si attivano quando riconosciamo noi stessi attraverso i sensi. Queste conoscenze potrebbero aiutare a comprendere meglio le condizioni che portano alcune persone a percepire voci interne diverse dalla propria, al punto da avere la sensazione di sentirle parlare. LEGGI TUTTO

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    Tornare diciottenni a 45 anni

    Bryan Johnson quest’anno spenderà circa 2 milioni di dollari per la propria salute. Non ha una malattia che richiede costosi trattamenti né patologie sconosciute: semplicemente, vuole fare di tutto per evitare di invecchiare e mira addirittura a ringiovanire. È una fissazione che Johnson ha da qualche anno e di cui si è discusso molto nelle ultime settimane tra appassionati di fitness, “superfood” e integratori dopo che Businessweek l’aveva raccontata in un lungo articolo.Johnson ha 45 anni e si può permettere il trattamento di giovinezza milionario grazie al denaro ricavato dalla vendita della sua società per i pagamenti elettronici Braintree a PayPal, avvenuta una decina di anni fa per 800 milioni di dollari. Non è l’unico tra i milionari della Silicon Valley ad avere sviluppato il pallino per la ricerca di sistemi che invertano i processi di invecchiamento. Proprio intorno al periodo in cui Johnson stava per ricavare centinaia di milioni di dollari, Larry Page, uno dei cofondatori di Google, aveva investito molto denaro in Calico, una società che avrebbe dovuto sviluppare soluzioni per la salute e il benessere, comprese quelle per invecchiare più lentamente. La società esiste tuttora e fa parte di Alphabet, la grande holding che controlla Google, ma non ha portato a particolari risultati nel settore. A differenza di Page e di altri suoi colleghi milionari, Johnson ha preso molto personalmente la questione al punto da sperimentare su se stesso tecniche e soluzioni contro l’invecchiamento. Si fa assistere da una trentina di medici, segue le loro indicazioni e ha in pochi anni cambiato buona parte delle proprie abitudini, da quelle alimentari a quelle legate all’attività fisica. La dedizione non sembra mancargli, ma per i detrattori il grande impegno dimostra più che altro che Johnson è soprattutto interessato a fermare il proprio, di invecchiamento, e non quello del prossimo.Il gruppo di medici è guidato da Oliver Zolman, un medico britannico di 29 anni specializzato in medicina rigenerativa. Per decidere quali strategie mettere in pratica, Johnson e Zolman sono diventati avidi lettori di ricerche scientifiche che si occupano di invecchiamento: ne consultano una grande quantità e decidono poi insieme quali sperimentare. Il punto di partenza è scientifico, ma l’approccio in generale sembra essere meno sistematico e strutturato rispetto a come si organizzano sperimentazioni cliniche e ricerche. Le varie pratiche riguardano del resto una sola cavia: Johnson stesso.(Bryan Johnson)L’obiettivo finale è estremamente ambizioso e prevede che il suo corpo da uomo di mezza età ringiovanisca di quasi trent’anni, arrivando ad avere la forma fisica di un diciottenne. Da più di un anno, le iniziative e gli sforzi per provare a raggiungere questo risultato sono raccolti all’interno di “Blueprint”, un progetto a metà tra un diario sui progressi raggiunti da Johnson e un sito per consigliare ad altre persone le migliori strategie per raggiungere i medesimi obiettivi, possibilmente senza spendere milioni di dollari. Le informazioni scientifiche sono tutto sommato poche, mentre molto spazio è dedicato agli stili di vita da adottare, sulla falsa riga di quelli seguiti rigidamente dal milionario che vuole tornare giovane.Johnson assume ogni giorno poco meno di 2mila calorie seguendo una dieta vegana, dedica un’ora al giorno all’esercizio fisico e va sempre a dormire alla stessa ora, dopo avere indossato per un paio di ore speciali occhiali che filtrano la “luce blu” come quella degli schermi, che può interferire con i cicli sonno-veglia. Utilizzando dispositivi di vario tipo tiene costantemente sotto controllo la propria attività fisica e si sottopone una volta al mese a una lunga serie di test medici: dalle risonanze magnetiche per valutare lo stato degli organi interni alla colonscopia, passando per esami del sangue e visite di vario genere.Uno dei passati che consuma quotidianamente Bryan Johnson (Bryan Johnson)Su Blueprint sono riportati alcuni dati raccolti dai medici che seguono Johnson e che dovrebbero dimostrare i progressi raggiunti finora. Secondo le loro analisi, il quarantacinquenne avrebbe un cuore da trentasettenne, la pelle di un ventottenne e la capacità polmonare di un diciottenne. Le stime sono effettuate confrontando vari parametri per ogni organo con le statistiche raccolte tra popolazioni di varie età, ma non è molto chiaro come siano calcolate. Zolman ha detto comunque a Businessweek di non fare troppo affidamento su quei dati: «Non abbiamo ancora ottenuto particolari risultati. Con Bryan abbiamo raggiungo piccoli e ragionevoli risultati come ci aspettavamo».Johnson è sicuramente tra i clienti più importanti di Zolman, che nel 2021 ha fondato 20one Consulting, una società che offre consulenze legate all’inversione dei processi di invecchiamento. Zolman dice di utilizzare particolari “biostatistiche” per valutare l’efficacia dei trattamenti e si è posto l’obiettivo di raggiungere «una riduzione dell’invecchiamento del 25 per cento nei 78 organi entro il 2030». Riconosce che al momento non ci sono persone di 45 anni che ne dimostrino 35 in tutti gli organi, ma ritiene che Johnson potrebbe essere il primo a raggiungere il risultato, diventando una sorta di esempio e di modello da studiare.Anche in questo caso l’approccio non sembra essere molto scientifico, considerato che i risultati – se mai raggiungibili – riguarderebbero un solo individuo con caratteristiche specifiche. La ricerca scientifica si basa in buona parte sulla possibilità di riprodurre gli esperimenti svolti da altri ottenendo risultati comparabili, cosa che difficilmente avverrà nel caso di un eventuale ringiovanimento di Johnson.Gli “esperimenti” condotti dal milionario a ben guardare non sono molto diversi da ciò cui si sottopongono alcuni atleti per dare il meglio nella loro attività sportiva, seguendo per esempio particolari regimi alimentari e allenamenti. Johnson in un certo senso è un atleta che sta provando a eccellere in una disciplina in cui si cimenta buona parte del genere umano: vivere il più a lungo possibile. Da qui derivano le costanti misurazioni del peso, della massa grassa, della temperatura corporea, dei livelli di glucosio, del battito cardiaco e di molti altri parametri che tiene d’occhio anche un atleta professionista nel corso della propria preparazione.Una sessione di fototerapia (Bryan Johnson)Trattandosi di una disciplina non sottoposta all’antidoping, Johnson assume inoltre una grande quantità di integratori e farmaci. Prende pillole contenenti licopene per la circolazione; curcuma, pepe nero e zenzero per il fegato e per ridurre le infiammazioni; zinco per completare la dieta vegana; fa ricorso al microdosing di litio, cioè all’assunzione di piccole quantità di questa sostanza che dice aiuti la sua salute mentale. L’assunzione di integratori va molto di moda da qualche anno, ma come ricordano medici e nutrizionisti se si ha una dieta bilanciata e non si hanno particolari disturbi gli integratori sono spesso inutili, perché il nostro organismo dispone già delle sostanze di cui ha bisogno, producendole da sé o ricavandole dall’alimentazione.Altri trattamenti cui si sottopone Johnson sembrano essere più orientati all’estetica che all’effettivo ringiovanimento. Ha da tempo deciso di esporsi il meno possibile al Sole, per ridurre l’invecchiamento causato dai raggi ultravioletti, e impiega sette creme diverse da applicare ogni giorno sulla pelle. Si sottopone inoltre a trattamenti come peeling, per rimuovere gli strati più superficiali della pelle, e a trapianti di grasso al viso per rinnovare lo strato di cellule che tengono in tensione la pelle riducendo la formazione di rughe.In più occasioni, Johnson ha raccontato di avere deciso di cambiare vita dopo un periodo di depressione durato una decina di anni, parzialmente coinciso con la fase in cui seguiva la propria startup. Si era sposato, aveva avuto tre figli e infine aveva divorziato. Era sovrappeso e non faceva molto per mantenersi in forma, fino a quando iniziò a interessarsi alle iniziative (spesso più commerciali che scientifiche) nella Silicon Valley per mantenersi in forma, avere dispositivi che analizzino facilmente la propria attività e con i quali programmare dieta, esercizio fisico e più in generale abitudini di vita.Il settore del fitness legato al digitale nell’ultimo decennio è diventato tra i più fecondi e ricchi per le principali aziende tecnologiche, che dedicano grandi risorse alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti come tracker, orologi e altri dispositivi per mantenersi in forma. Queste soluzioni sono alla base di prodotti di successo come gli Apple Watch di Apple o di società nate espressamente allo scopo come Fitbit, acquisita da Alphabet nel 2021. Ci sono stati grandi successi, alcuni fallimenti e storie finite malissimo come nel caso di Theranos, che prometteva esami completi dello stato di salute tramite l’analisi di una goccia del proprio sangue con un dispositivo che non ha mai funzionato.Naturalmente anche nella Silicon Valley ci sono società che studiano l’invecchiamento e i modi per rallentarlo o invertirlo con un approccio più scientifico, coinvolgendo gruppi di ricerca e finanziano le attività nei laboratori di alcune delle università più importanti degli Stai Uniti e non solo. E proprio ad Harvard, tra gli atenei statunitensi più prestigiosi, lavora il biologo australiano David Sinclair diventato famoso grazie ad alcune dichiarazioni altisonanti sui risultati raggiunti dai suoi studi in laboratorio, complice una buona capacità divulgativa e di promozione di se stesso.Bryan Johnson (Dustin Giallanza)A inizio anno, Sinclair ha pubblicato sulla rivista scientifica Cell uno studio sulla “teoria dell’informazione dell’invecchiamento”, secondo cui i nostri corpi invecchiano per la confusione che si accumula col passare del tempo nel materiale genetico. Secondo Sinclair, ogni volta che il DNA subisce un danno e le nostre cellule cercano di ripararlo accumulano nuove modifiche e inevitabili errori, simili a quelli che si ritrovano nei programmi per il computer e che possono poi causare malfunzionamenti. Nello studio, il gruppo di ricerca ha illustrato come sia riuscito a creare una sorta di interruttore biologico per intervenire in quei processi e mettere ordine, invertendo alcuni dei cambiamenti dovuti all’invecchiamento.– Ascolta anche: “Ci vuole una scienza” sul lavoro di SinclairIl lavoro di Sinclair, ricercatore che gode di grande visibilità, è stato accolto con interesse da chi si occupa di invecchiamento, ma per stessa ammissione di chi lo ha realizzato contiene ancora molti aspetti da chiarire e funziona solamente in laboratorio su alcune cavie. È però la dimostrazione di come il settore sia ampiamente esplorato e con approcci più elaborati, e dalle grandi implicazioni, rispetto a interventi di portata diversa come cambiare radicalmente la propria dieta e fare molto esercizio fisico.Johnson non esclude di ricorrere in futuro a trattamenti sperimentali legati alla genetica, anche se i suoi piani in questo senso non sono ancora molto chiari. E proprio la difficoltà a vedere una certa coerenza negli esperimenti su se stesso ha contribuito ad attirargli negli anni le critiche. C’è chi lo ha accusato di avere un disordine dell’alimentazione e problemi psicologici, manifestati dalla sua ossessione sull’invecchiamento, un processo che del resto riguarda qualsiasi essere vivente e che alle attuali conoscenze non può essere evitato. Johnson si considera però un pioniere in un settore che riceverà sempre più attenzioni e non sembra essere molto interessato alle critiche. Anche se vuole tornare diciottenne, ha vissuto abbastanza a lungo per imparare a ignorarle. LEGGI TUTTO

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    I preoccupanti casi di influenza aviaria nei visoni

    Caricamento playerNegli ultimi mesi in Europa e in altre parti del mondo sono stati segnalati numerosi casi di influenza aviaria, non solo tra uccelli selvatici e pollame, ma anche tra alcune specie di mammiferi. I contagi sono dovuti alla diffusione di una variante del virus influenzale H5N1/HPAI ad alta patogenicità, cioè con un’alta capacità di causare la malattia. I contagi hanno reso necessari abbattimenti di animali negli allevamenti e hanno spinto le autorità sanitarie a intensificare i controlli. Per ora non si ritiene che ci sia un immediato pericolo per gli esseri umani, ma il rischio che il virus sviluppi nel tempo nuove capacità per trasmettersi più facilmente rimane.Per buona parte del Novecento, in Europa, Africa e Asia erano stati segnalati di frequente focolai di virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità. Questi erano per lo più limitati agli allevamenti di pollame e potevano essere tenuti sotto controllo abbattendo gli animali contagiati, evitando che il virus si diffondesse tra gli uccelli selvatici con maggiori rischi di contagio. A partire dai primi anni del Duemila le cose sono però cambiate, con un aumento significativo di uccelli selvatici portatori di influenza aviaria, con sporadici casi di contagio da volatili a mammiferi. La presenza di virus appartenenti al sottotipo H5N1 ha reso necessario negli ultimi anni l’abbattimento di milioni di polli e altri animali. L’uccisione di massa è inevitabile perché nella maggior parte dei casi gli allevamenti sono di tipo intensivo, tesi cioè a massimizzare la densità di animali negli spazi loro riservati. Stando costantemente a stretto contatto, polli o tacchini si contagiano con grande facilità, portando in pochi giorni a focolai che comprendono centinaia di migliaia di esemplari.(David Silverman/Getty Images)Negli ultimi anni la situazione è ulteriormente peggiorata, con un aumento dei contagi da H5N1 riscontrati anche nel Nordamerica, dove fino a poco tempo fa il virus veniva raramente rilevato. Non è chiaro che cosa abbia determinato la maggiore incidenza, ma vari gruppi di ricerca ipotizzano che alcune mutazioni casuali abbiano fatto sì che il virus acquisisse la capacità di replicarsi nelle cellule, favorendo quindi una sua più rapida diffusione.Un’altra ipotesi è che le mutazioni abbiano reso il virus più versatile, cioè in grado di contagiare con maggiore facilità specie molto diverse di uccelli, rispetto a cosa fosse in grado di fare prima. Entrambe le teorie sono ancora discusse, ma la loro eventuale conferma potrebbe aggiungere qualche elemento importante per affrontare la situazione.In generale, del resto, i virus influenzali tendono a mutare velocemente e ad avere più possibilità di eludere le difese immunitarie dell’organismo che infettano. Per molto tempo le epidemie di influenza aviaria erano state tutto sommato limitate, anche grazie alla possibilità di effettuare più efficacemente attività di contenimento in allevamenti con una minore concentrazione di animali rispetto a oggi. Nella seconda metà degli anni Novanta le cose iniziarono a cambiare, quando in Cina furono rilevate le prime versioni di virus H5N1. In alcuni casi la comunicazione dei casi alle autorità sanitarie fu tardiva, in un contesto con allevamenti industriali molto grandi.Il virus iniziò a essere rilevato con maggiore frequenza negli uccelli selvatici e in particolare in varie specie di uccelli acquatici migratori, che sviluppavano sintomi lievi, tali da non compromettere i loro spostamenti stagionali di migliaia di chilometri. E proprio le loro migrazioni furono, e sono ancora oggi, una delle cause della ciclica diffusione di virus aviari che raggiungono poi gli allevamenti.La variante di H5N1/HPAI sembra abbia sviluppato la capacità di passare più facilmente dagli uccelli ai mammiferi, almeno a giudicare dalle segnalazioni e dagli studi svolti negli ultimi mesi. Oltre ad avere causato una quantità più alta del solito di decessi tra i volatili selvatici, ha contagiato orsi, procioni, volpi e altri animali che probabilmente cacciano e si nutrono di uccelli infetti. Ma è stato soprattutto uno sviluppo dello scorso ottobre ad attirare l’attenzione degli esperti.(Ole Jensen/Getty Images)Come racconta un gruppo internazionale di ricerca sulla rivista scientifica Eurosurveillance, nella prima settimana di ottobre del 2022 in un allevamento di visoni a Carral in Galizia (Spagna) fu notato un tasso di mortalità più alto del solito. La moria era iniziata in uno dei settori dell’allevamento, che comprendeva complessivamente circa 50mila visoni, ma nelle settimane successive si era via via diffusa anche negli altri settori. Furono eseguiti test per verificare la causa della malattia ed emerse un focolaio di H5N1, che rese quindi necessario l’abbattimento di tutti i visoni presenti nell’allevamento, per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.Il gruppo di ricerca non ha riscontrato elementi a sufficienza per risalire alle cause del contagio. Inizialmente si era ipotizzato che i visoni avessero consumato carne di pollo infetta, ma le verifiche sullo stabilimento che forniva il pollame all’allevamento dei visoni non avevano portato a identificare focolai di influenza aviaria. È quindi probabile che il virus fosse stato trasmesso ad alcuni visoni da uno o più uccelli selvatici, considerato che ne erano stati identificati di infetti nella zona nelle settimane prima del focolaio e che l’allevamento non era completamente isolato dall’esterno.Accade di frequente che gli allevamenti intensivi come quelli di visone siano parzialmente aperti, per esempio con gabbie che non sono chiuse nella loro parte superiore, in modo da favorire un migliore ricircolo dell’aria. Ciò rende però più probabile che alcuni animali selvatici riescano a intrufolarsi tra i settori degli allevamenti, facendo aumentare il rischio di nuovi contagi. Alcune specie non sono tanto attirate dai visoni, quanto dalla poltiglia di carne macinata che viene utilizzata come mangime.Come era diventato evidente negli scorsi anni con i casi di coronavirus tra animali, negli allevamenti i visoni vivono a strettissimo contatto tra loro, sono altamente imparentati e hanno di conseguenza una bassa varietà genetica, tutti fattori che possono favorire non solo la diffusione di un virus, ma anche le sue mutazioni. I campioni prelevati a Carral, per esempio, hanno evidenziato la presenza di numerosi cambiamenti nelle caratteristiche genetiche del virus rispetto a quello isolato dagli uccelli.Un tipo di mutazione era già stato osservato in precedenza e si ritiene favorisca la capacità del virus di replicarsi nelle cellule dei mammiferi. È comunque difficile stabilire con certezza quali mutazioni fossero già presenti nella sottovariante isolata nell’allevamento e quali si siano potenzialmente aggiunte in un secondo momento.(AP Photo/Sergei Grits, File)Da quando si è iniziato a riscontrare un aumento di casi di influenza aviaria nel 2021, sono stati identificati pochi casi di contagio che abbiano riguardato esseri umani, entrati in contatto con animali infetti. I casi di contagio tra esseri umani sono pochi e difficili da confermare, il virus finora non ha inoltre sviluppato mutazioni tali da adattarsi al nostro organismo, di conseguenza non costituisce al momento un particolare pericolo. La sua presenza nell’allevamento di visoni mostra comunque la capacità di adattarsi ai mammiferi e aggiunge qualche preoccupazione per gli esperti, considerato che potrebbe acquisire mutazioni tali da diffondersi più facilmente tra gli esseri umani.Dopo la scoperta dell’epidemia di visoni a Carral, undici operatori che erano entrati in contatto con gli animali infetti erano stati sottoposti ai test per verificare l’eventuale presenza del virus, risultando negativi. Il mancato contagio è stato definito rassicurante dagli esperti, ma non deve comunque essere sottovalutato il problema di un virus che sta circolando molto e che in più occasioni riesce a passare da una specie a un’altra.Come era successo nelle prime fasi della pandemia da coronavirus, gli allevamenti intensivi come quelli di visoni sono considerati tra i luoghi più a rischio per la diffusione di varianti. Oltre ad avere deciso l’abbattimento di tutti i visoni dove erano stati riscontrati focolai da coronavirus, alcuni paesi hanno scelto di vietare gli allevamenti di visoni o di regolamentarli molto più rigidamente per provare a ridurre i rischi.Secondo gli esperti, la maggiore diffusione del virus H5N1 riscontrata negli ultimi anni dovrebbe indurre a intensificare la sorveglianza e non solo negli allevamenti di visoni. Il rischio di una nuova pandemia influenzale non può essere completamente eliminato, ma con i giusti accorgimenti e con adeguate politiche sanitarie può essere tenuto basso. LEGGI TUTTO

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    Cosa succede al corpo di una persona che fa lo sciopero della fame

    Lo sciopero della fame è una forma di protesta non violenta spesso adottata da chi non ha altri strumenti e possibilità per protestare, come nel caso delle persone detenute. È una pratica che comporta gravi conseguenze per la salute, come dimostra il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, che ha iniziato il proprio sciopero della fame il 19 ottobre 2022 nel carcere di Sassari. In oltre tre mesi Cospito, che protesta contro le modalità della propria detenzione con il regime del 41-bis (il cosiddetto “carcere duro”) e per il rischio che la sua condanna a 20 anni di reclusione sia trasformata in ergastolo ostativo, ha perso più di 40 chilogrammi e negli ultimi giorni ha avuto un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni.Angelica Milia, la medica di fiducia di Cospito, nella sua ultima visita ha trovato il proprio assistito indebolito e incapace di rimanere in piedi, con la necessità di ricorrere a una sedia a rotelle. «L’ho trovato con una debolezza muscolare estrema dovuta alla sindrome da assenza di nutrizione, che lo porta a mantenere male la posizione eretta», spiega Milia. Nella sera di mercoledì 25 gennaio, Cospito ha perso conoscenza mentre stava facendo una doccia per provare a scaldarsi, è caduto a terra e ha battuto il viso contro il piatto della doccia rompendosi il naso. Milia ha detto che l’episodio potrebbe portare a ulteriori complicazioni, in una persona con uno stato di salute compromesso.Come per tutte le cose che interessano le condizioni fisiche, gli effetti dello sciopero della fame sono altamente soggettivi e riguardano le caratteristiche dei singoli e il contesto in cui mantengono questa forma di protesta. Per quanto possa essere organizzato e dotato di un’infermeria, il carcere non è tra i luoghi più sicuri per condurre uno sciopero della fame: a causa del lungo periodo di astinenza dal cibo, le condizioni di salute della persona interessata possono cambiare in brevissimo tempo, e potrebbero non essere presenti risorse e personale idonei a gestire un’emergenza sanitaria. Anche per questo motivo Flavio Rossi Albertini, l’avvocato di Cospito, ha chiesto che il proprio assistito sia spostato in un carcere che abbia una struttura ospedaliera adeguata, in modo da intervenire nel caso di peggioramenti repentini.Concretamente lo sciopero della fame consiste in un rifiuto totale dell’assunzione di cibo, che duri più giorni. Solo in alcuni e rari casi – e non è quello di Cospito – avviene contemporaneamente anche il rifiuto dell’acqua, astinenza che rende le prospettive di sopravvivenza assai più brevi. Talvolta le persone che fanno lo sciopero della fame assumono almeno per certi periodi degli integratori di vitamine e sali minerali, da sciogliere nell’acqua.Cospito ha da poco superato il centesimo giorno di sciopero della fame, un periodo molto lungo e ampiamente superiore ai due mesi indicati solitamente come il tempo massimo oltre il quale gli effetti per la salute sono maggiori e spesso irreversibili. Per le ragioni di soggettività cui accennavamo prima, non c’è un tempo di resistenza uguale per tutti e ci sono molte variabili da considerare. In linea di massima le persone in salute sviluppano più tardi complicazioni, così come le persone sovrappeso che hanno maggiori risorse cui l’organismo può attingere per mantenere le proprie attività, con minori danni per gli organi.Milia dice che la lunga resistenza di Cospito è in parte spiegata dalle condizioni di salute generalmente buone del suo assistito prima di ottobre, accompagnate dal sovrappeso: «all’inizio del digiuno, Cospito aveva un indice di massa corporea prossimo all’obesità, essendo alto 194 centimetri e avendo un peso di 114 chilogrammi. Ora però pesa meno di 75 chilogrammi e inizia a essere sottopeso. In letteratura scientifica ci sono indicazioni sui rischi che si corrono quando si perde circa il 50 per cento del peso corporeo, con danni che possono essere permanenti».Entro certi limiti, il nostro organismo è attrezzato per affrontare periodi di digiuno, mentre lo è molto meno per resistere a lungo senza acqua, necessaria per le funzioni del metabolismo e per i sali minerali. Facendo affidamento sulla caccia e la raccolta di vegetali che crescevano spontaneamente, per i primi esseri umani l’alimentazione era quasi sempre discontinua con periodi in cui l’accesso al cibo era molto limitato. Questa circostanza favorì probabilmente quegli individui che del tutto casualmente erano geneticamente meglio attrezzati per sopravvivere a prolungate fasi di digiuno, o comunque a periodi con apporti calorici estremamente ridotti.Tra i primi a studiare sistematicamente gli effetti del digiuno sul metabolismo ci fu il medico statunitense Geoerge F. Cahill, che negli anni Sessanta condusse esperimenti con alcuni volontari, che sospesero la propria alimentazione fino a 40 giorni. Cahill e il proprio gruppo di ricerca ebbero modo di verificare che cosa accade al nostro organismo durante un digiuno prolungato, e soprattutto di studiare da dove riesca a trarre le energie per sopravvivere.Per mantenere le proprie attività, il nostro organismo ha bisogno di molta energia: il cervello da solo ne consuma circa un quinto. La principale fonte di questa energia è il glucosio, tra i composti organici più diffusi in natura e importantissimo per la vita degli organismi. Viene ottenuto tramite l’alimentazione e consumato molto velocemente, tanto da non averne mai scorte significative cui attingere quando si smette di mangiare. Nei periodi di digiuno, o anche più semplicemente mentre dormiamo, l’organismo ottiene in parte le proprie energie dalla proteine che costituiscono la massa muscolare, con un processo che gli consente di disporre di altro glucosio nel breve termine. È un processo limitato, che evita che si consumino troppo i muscoli, essenziali per rimanere attivi e andare alla ricerca di nuovo cibo.Il minore apporto di energia, o la sua totale mancanza, viene compensato dalla trasformazione delle riserve di grasso, che è per propria natura altamente energetico. Mentre le proteine sotto forma di muscolo sono molto importanti per il mantenimento di varie funzioni, il grasso può essere sacrificato per produrre energia senza particolari conseguenze. Il grasso viene trasformato (chetogenesi) in “corpi chetonici”, composti che vengono sintetizzati dalle cellule del fegato e che permettono di ridurre il consumo di proteine per la produzione di glucosio, fornendo comunque una fonte di energia.In generale, i livelli di corpi chetonici nel sangue aumentano ad alcune ore di distanza dall’avvio del digiuno. La loro concentrazione diventa ancora più grande nel caso in cui il digiuno diventi prolungato e duri per svariati giorni. Anche il sistema nervoso centrale, che comprende il cervello, utilizza i corpi chetonici come forma di energia e per diverso tempo riesce a compensare e a funzionare senza particolari difficoltà.La chetogenesi è uno dei processi fondamentali per garantire la nostra sopravvivenza nei periodi prolungati di digiuno, o più semplicemente quando seguiamo particolari tipi di diete per perdere peso. Basandosi sulla trasformazione dei grassi, ne deriva che una persona molto sovrappeso od obesa possa digiunare più a lungo rispetto a una persona normopeso, come nel caso di Cospito.La perdita di grasso avviene più rapidamente rispetto a quella della massa muscolare, che comunque in minima parte continua a verificarsi e a rendere più difficile il lavoro di alcuni organi. Ma le risorse di grasso non sono comunque infinite. Quando terminano, il ricorso alla massa muscolare per la produzione di energia aumenta, spiega Milia: «Terminate le scorte di tessuto adiposo, si avvia quella che in sostanza è un’“autodigestione” che interessa in maniera crescente non solo i muscoli, ma vari organi come l’intestino e il fegato».Riuscire a sopravvivere a lungo senza nutrirsi non implica che nel frattempo non avvengano altri processi dannosi per la salute. Dopo un paio di settimane dall’inizio del digiuno si possono accusare fasi in cui si avvertono debolezza e un certo stordimento, accompagnato dalla difficoltà a rimanere in piedi e a compiere attività fisiche non necessariamente impegnative, come camminare.A un mese dall’inizio del digiuno, o nel momento in cui si perde circa un quinto della propria massa corporea, i problemi neurologici aumentano a causa della mancanza di alcune vitamine che deriviamo dall’alimentazione. Si manifestano le prime difficoltà motorie perché il sistema nervoso non riesce a gestire correttamente i segnali, si possono avere problemi di vista e di udito. Il fegato è sottoposto a un forte stress, legato al processo di trasformazione dei grassi, e i reni faticano a ripulire il sangue.Dopo due mesi o una perdita ancora consistente di peso, possono subentrare numerose altre complicazioni, come mostra anche il caso di Alfredo Cospito che ha ormai raggiunto il terzo mese di sciopero della fame. Il normale metabolismo viene compromesso e risultano meno efficienti i processi di termoregolazione, cioè la capacità di regolare la temperatura corporea. Semplificando, la fonte principale del calore prodotto dal corpo umano è il lavoro svolto dalle cellule, la cui attività rallenta in una fase di lunga e prolungata astinenza dal cibo.Il risultato è una sensazione costante di freddo, accompagnata da brividi e tremori. Milia ha detto che Cospito riferisce di non riuscire a placare la sensazione di freddo nemmeno utilizzando più strati di abiti. Non è chiaro se ci siano possibilità di aumentare la temperatura nella cella per ridurre il problema. Per questo motivo il 25 gennaio Cospito aveva provato a farsi una doccia provando a scaldarsi. Dopo avere perso i sensi ed essere caduto fratturandosi il naso, era stato temporaneamente portato in pronto soccorso per ricevere le prime cure di emergenza e bloccare la perdita di sangue.Molte settimane di digiuno causano inoltre problemi nella produzione delle proteine del sangue, che hanno un ruolo molto importante per numerose funzioni legate al sistema immunitario, ma anche alla stessa capacità del sangue di coagularsi. La minore produzione non è dovuta solamente alla mancanza delle sostanze necessarie per produrle, ma anche all’attività di recupero di glucosio partendo dalle proteine. Milia dice che Cospito ha da diversi giorni problemi di questo tipo, con una forte riduzione delle cellule del sistema immunitario, che non ha le risorse necessarie per il proprio funzionamento.Dall’alimentazione otteniamo inoltre importanti minerali come il sodio, tra i più abbondanti nel nostro organismo: in una persona adulta sono presenti nel sangue, nel tessuto osseo, in quello cartilagineo e nei tessuti connettivi circa 90 grammi di questa sostanza. Una parte consistente è diffusa soprattutto nei liquidi extracellulari e ha un ruolo molto importante per regolare il passaggio dei nutrienti all’interno e all’esterno delle cellule.Insieme ad altre sostanze, il sodio contribuisce inoltre alla trasmissione degli impulsi nervosi. Una forte carenza, derivante da un lungo digiuno, compromette queste funzionalità e può portare a rischi di vario tipo, compresi quelli di sviluppare edemi cerebrali, cioè un accumulo di liquidi in parte del cervello che ostacola il flusso sanguigno e di conseguenza l’ossigenazione dei neuroni, con danni potenzialmente molto gravi. Nelle visite effettuate negli ultimi giorni, Milia ha riscontrato una sensibile riduzione dei livelli di sodio di Cospito.Ci sono vari altri minerali che deriviamo dall’alimentazione e che sono essenziali per il buon funzionamento dell’organismo, come il potassio presente in frutta, verdura e legumi. Contribuisce al funzionamento dei muscoli, compreso il cuore, e ha un importante ruolo nel regolare la pressione sanguigna, contrastando gli effetti del sodio. Bassi livelli di potassio fanno aumentare il rischio di soffrire di malattie cardiovascolari, oltre che comportare debolezza muscolare e una generale sensazione di malessere.La somma di tutte queste circostanze ha effetti sulle capacità cognitive, con amnesie a breve termine e più in generale conseguenze sulle condizioni psicologiche di chi sta facendo lo sciopero della fame. Compatibilmente con la situazione, Milia segnala che per ora Cospito mantiene comunque buona parte delle proprie capacità mentali: «Fondamentalmente parla in maniera spedita, non si riscontrano deficit, anche se riferisce di avere ogni tanto qualche amnesia a breve termine». Ha però smesso di assumere alcuni integratori di minerali che gli erano stati consigliati, con l’aggiunta di ulteriori rischi per la sua salute ormai precaria.Oggi la Corte di Cassazione ha anticipato al 7 marzo l’udienza sul ricorso di Cospito, richiesta per non essere più sottoposto al regime del 41-bis, rispetto alla data prevista in precedenza del 20 aprile. Milia aveva ipotizzato che per quel giorno Cospito non sarebbe più stato in vita. La nuova data dell’udienza è stata comunque ritenuta troppo avanti nel tempo, considerate le attuali condizioni di Cospito. Fare previsioni sull’evoluzione dello stato di salute di una persona che si è sottoposta a un digiuno di mesi è pressoché impossibile, perché può essere sufficiente un’infezione imprevista, un evento traumatico o l’ulteriore sbilanciamento di alcuni valori per determinare un peggioramento improvviso.Il processo di recupero di energie dagli organi stessi di Cospito è ciò che viene osservato con più attenzione da Milia: «È pericoloso perché può via via intaccare i muscoli respiratori, che sono responsabili del riempimento e dello svuotamento dei polmoni. Il loro indebolimento può portare a una insufficienza respiratoria grave e alla morte». LEGGI TUTTO

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    Un altro fallimento per i vaccini contro l’HIV

    Caricamento playerL’unica sperimentazione avanzata (“fase 3”) ancora in corso di un vaccino contro l’HIV è stata terminata in seguito ai risultati deludenti ottenuti nei test clinici, segnando un nuovo fallimento nello sviluppo dei vaccini contro il virus collegato all’AIDS. Janssen, la divisione della società Johnson & Johnson che si occupa di vaccini, ha annunciato questa settimana l’interruzione della sperimentazione che stava coinvolgendo 3.900 volontari tra Nord America, Sud America ed Europa e una 50ina di centri per la somministrazione e il controllo del trattamento.Il risultato negativo si aggiunge a quello di altre decine di vaccini sperimentali contro l’HIV sviluppati negli ultimi decenni e che sono stati poi scartati. Vari osservatori ritengono che il nuovo esito porti indietro la ricerca di tre-cinque anni, considerato che nuovi vaccini sono ancora in fase di sviluppo e passerà del tempo prima dell’avvio dei test clinici per verificarne sicurezza ed efficacia.Il test clinico ora interrotto si chiamava Mosaico ed era stato avviato nel 2019, utilizzando un particolare vaccino che conteneva una varietà (un “mosaico”, appunto) di componenti contro alcuni sottotipi di HIV, tra i più diffusi e riscontrati nella maggior parte dei contagi. Dai test era però emerso che la somministrazione non portava a una risposta immunitaria adeguata, soprattutto per quanto riguarda la produzione di anticorpi neutralizzanti, importanti nel rendere innocuo un determinato patogeno, come un virus.L’analisi dei dati preliminari aveva indotto il gruppo di controllo indipendente sul test clinico a dichiarare sicuro il vaccino, ma non in grado di prevenire più infezioni da HIV di quanto facesse una sostanza che non fa nulla (placebo). Di conseguenza era stata consigliata l’interruzione del test clinico per motivi etici e pratici. Qualcosa di analogo era successo nel 2021 con un altro studio sul vaccino, effettuato in alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana.Almeno in un primo momento, Mosaico sembrava essere diretto verso risultati più promettenti visti i dati raccolti nelle precedenti fasi della sperimentazione (“fase 1” e “fase 2”), che avevano coinvolto un minor numero di persone e il cui obiettivo principale era verificare la sicurezza del sistema. In precedenza, almeno altri cinque vaccini sperimentali contro l’HIV non avevano dato i risultati sperati in nove test clinici che avevano raggiunto la “fase 3”, a conferma di quanto sia difficile sviluppare un vaccino atteso da molto tempo.Quando l’HIV fu identificato per la prima volta come la causa dell’AIDS, nei primi anni Ottanta, si pensò che un vaccino contro il virus potesse essere realizzato in tempi relativamente brevi, come del resto era avvenuto per diverse altre malattie nei decenni precedenti. Furono però sufficienti alcuni anni perché diventasse evidente quanto fosse difficile riuscirci. L’HIV tende a mutare velocemente, eludendo le difese immunitarie del nostro organismo e rendendo difficile l’impiego di un vaccino, specialmente se questo è calibrato su alcune specifiche caratteristiche del virus. Inoltre, l’HIV ha numerosi sottotipi e crea delle “riserve” nell’organismo, che possono rimanere inattive per anni senza che si manifesti l’AIDS.– Leggi anche: Cosa significa avere l’HIV oggiSi stima che ogni anno l’HIV infetti circa 1,5 milioni di persone e causi 650mila morti. Dall’inizio dell’epidemia di AIDS secondo le stime più condivise sono morti oltre 75 milioni di persone, soprattutto nei paesi economicamente meno avanzati, dove è più difficile ottenere cure adeguate per tenere sotto controllo la malattia e non c’è sempre grande consapevolezza sulla prevenzione. Alcuni tipi di farmaci come quelli antivirali impediscono al virus di continuare a moltiplicarsi nelle persone che lo hanno contratto. Alcuni trattamenti consistono nell’assunzione periodica di pillole o nel sottoporsi a iniezioni e trasfusioni. Non essendoci cura, il trattamento deve essere effettuato per tutta la vita e in alcuni soggetti può comportare effetti avversi, sia nel breve sia nel lungo periodo.Oltre a ridurre i rischi di infezione, un vaccino efficace contro l’HIV costituirebbe un importante beneficio per i paesi dove i trattamenti non sono accessibili perché troppo cari, o dove non possono essere effettuati seguendo in maniera adeguata i pazienti. L’interesse verso un vaccino rimane quindi alto, anche se il nuovo risultato negativo avrà ripercussioni sullo sviluppo di nuove soluzioni.– Leggi anche: Dobbiamo parlare diversamente di HIVVari esperti hanno iniziato a chiedersi se sia necessario un cambiamento di approccio, partendo proprio dal ripensare tecniche e modalità per indurre un’adeguata risposta immunitaria. Un nuovo ambito che potrebbe offrire qualche risultato promettente deriva dai vaccini a RNA messaggero, come quelli utilizzati contro il coronavirus in questi anni di pandemia. Alcune sperimentazioni sono già in corso, ma si dovrà ancora attendere per l’avvio dei test clinici, che a loro volta richiederanno diverso tempo prima di poter verificare l’efficacia del nuovo approccio. LEGGI TUTTO

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    Dovremmo vietare i fornelli a gas?

    Caricamento playerDa qualche settimana negli Stati Uniti si sta discutendo molto di fornelli a gas, della loro sicurezza e dei potenziali rischi che comportano per la salute. Il confronto è nato in seguito ad alcune dichiarazioni di Richard Trumka, un membro della Commissione che si occupa della sicurezza dei prodotti di largo consumo, che ha ipotizzato l’adozione di nuove regole per i sistemi di cottura a gas, che sono presenti nel 35 per cento circa delle abitazioni statunitensi.Le opinioni di Trumka, espresse a livello personale, sono circolate molto sui social network, finendo nel dibattito politico e generando qualche confusione. Negli Stati Uniti non è prevista una imminente messa al bando dei piani a cottura a gas, ma la vicenda ha contribuito a rendere attuale e discusso un argomento su cui da tempo si confrontano ricercatori e medici.Eredi delle stufe a legna e a carbone, i fornelli a gas iniziarono ad affermarsi in Inghilterra negli ultimi decenni dell’Ottocento, complice la progressiva diffusione dei gasdotti che raggiungevano le abitazioni e gli edifici commerciali. Furono poi necessari diversi decenni prima che diventassero comuni in Europa e negli Stati Uniti, dove per ragioni di distanza e difficoltà nel costruire gasdotti molto estesi sarebbero poi prevalsi altri sistemi, come i fornelli elettrici o le vecchie stufe. Oggi le cucine a gas continuano a essere molto diffuse in Europa, in particolare nei paesi dell’est. Si stima che più del 30 per cento dell’energia utilizzata nell’Unione Europea per cuocere gli alimenti derivi dal gas naturale. Il largo utilizzo ha fatto sì che nel tempo ne siano state analizzate le caratteristiche per capire se i fornelli a gas siano nocivi per chi li utilizza normalmente.Oltre all’anidride carbonica, i prodotti derivanti dalla combustione del gas comprendono il diossido di azoto (NO2) e polveri sottili, sostanze che si possono trovare anche nei gas di scarico del traffico veicolare. Nelle proprie linee guida più recenti, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha indicato 10 microgrammi di NO2 per metro cubo come limite per la qualità dell’aria. In una cucina si sviluppa una concentrazione di NO2 molto più alta quando si utilizzano i fornelli a gas, ma è comunque difficile determinare se questa condizione abbia conseguenze concrete per la salute.Nell’aprile del 2022 un gruppo di ricerca aveva pubblicato i risultati di uno studio effettuato su 5mila abitazioni per rilevare e analizzare le sostanze inquinanti presenti in casa. Nelle abitazioni dove erano presenti fornelli a gas, e in cui non c’erano cappe aspiranti, era stata osservata una maggiore incidenza di persone con problemi respiratori e quantità più alte nel sangue dei marcatori associati a infiammazioni (ciò non implica necessariamente che si sviluppino poi particolari malattie).Altri studi si erano concentrati sulle cucine professionali, come quelle dei ristoranti, dove alcune variabili possono essere tenute più facilmente sotto controllo, essendoci norme e regole di sicurezza. Anche queste ricerche avevano rilevato la presenza di problemi respiratori in maggiori quantità nelle cucine che utilizzavano il gas, rispetto a quelle che impiegavano piastre elettriche o a induzione.Ci sono invece elementi un poco più chiari su possibili legami tra l’inalazione di sostanze come il NO2 e l’asma infantile, i cui sintomi tendono a peggiorare. Tra le numerose ricerche che se ne sono occupate, una pubblicata alla fine del 2022 e svolta negli Stati Uniti ha ottenuto grande attenzione ed è una delle cause del recente dibattito statunitense sui fornelli a gas. Il gruppo di ricerca ha calcolato la quantità di persone sotto i 18 anni che vivono in abitazioni dove si utilizzano piani cottura di quel tipo, concludendo che il 12,7 per cento dei casi di asma infantile possano essere attribuiti alla presenza di fornelli a gas nelle abitazioni.Secondo lo studio, passando a piani cottura di altro tipo si potrebbero ridurre di un quinto i casi di asma infantile in numerosi luoghi degli Stati Uniti dove sono più diffusi i fornelli a gas come l’Illinois, la California e lo stato di New York. La ricerca ha ricevuto grandi attenzioni e qualche titolo sensazionalistico, ma come spiegano gli stessi autori ci sono molti elementi da approfondire per valutare eventuali impatti e, di conseguenza, studiare le strategie per ridurre il problema.Intervistato da Bloomberg Trumka, il commissario statunitense, ha espresso opinioni alquanto nette sui fornelli: «Sono un pericolo nascosto. Non escludiamo nessuna possibilità. I prodotti che non possono diventare sicuri possono essere vietati». Lo scorso ottobre Trumka aveva provato a impegnare la Commissione a scrivere nuove regole per i fornelli a gas, senza però ottenere l’assenso da parte degli altri quattro commissari. La Commissione di cui fa parte Trumka è indipendente e la presidenza degli Stati Uniti ha chiarito che non ci sono piani per vietare i fornelli a gas.Nonostante le smentite, vari esponenti politici soprattutto tra i Repubblicani hanno mostrato una certa inquietudine per le dichiarazioni di Trumka, così come vari portatori d’interessi legati ai combustibili fossili. Il presidente dell’American Petroleum Institute, Mike Sommers, ha detto che non ci potrà essere un divieto e che eventuali restrizioni sarebbero male accolte dalla popolazione: «le persone amano i loro fornelli».Ultimamente alcuni stati e amministrazioni statunitensi hanno intanto introdotto limitazioni all’impiego dei fornelli a gas, richiedendo che gli edifici di nuova costruzione non siano collegati ai gasdotti. La legge sull’inflazione proposta da Biden e approvata dal Congresso la scorsa estate, che contiene moltissime voci per la transizione ecologica, prevede finanziamenti e incentivi per chi passa a piani cottura elettrici e che non utilizzano il gas, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra.In Europa, dove i riscaldamenti e i fornelli a gas sono molto più diffusi, il dibattito è passato finora sotto traccia, senza avere grande riscontri né da parte della politica né della popolazione. Solo alcuni paesi hanno avviato iniziative legate a ridurre la propria dipendenza dal gas naturale, sia per motivi ambientali, sia economici e di salute pubblica. Come in parte degli Stati Uniti, anche in Danimarca e nei Paesi Bassi ci sono limitazioni per i collegamenti alla rete del gas delle case di nuova costruzione, mentre altri paesi hanno in programma piani simili.In seguito all’invasione russa dell’Ucraina e alla conseguente crisi energetica, lo scorso anno la Commissione Europea ha intensificato i propri piani per ridurre la dipendenza dal gas naturale, in particolare da quello russo. Le motivazioni sono sia economiche sia ambientali, considerato l’impatto ambientale derivante dalla combustione del gas, mentre non ne sono state presentate di natura sanitaria.I regolamenti dell’Unione Europea prevedono già numerose norme per i produttori di fornelli a gas, compresi requisiti minimi sulla loro sicurezza. Per esempio, «gli apparecchi vanno progettati e fabbricati in modo che, se usati normalmente, il processo di combustione sia stabile e i prodotti della combustione non contengano concentrazioni inaccettabili di sostanze nocive alla salute». I rischi non sono comunque legati alla sola combustione. Fornelli mal funzionanti o con guarnizioni usurate possono portare a microperdite di gas, difficili da rilevare, ma che possono comunque essere inalate e per lunghi periodi di tempo.La Commissione è al lavoro per introdurre nuove regole sulle emissioni nocive, ma al momento non si è parlato esplicitamente di fornelli a gas. Come negli Stati Uniti, un passaggio ai piani cottura elettrici e a induzione potrebbe incontrare resistenze, specialmente nei paesi dove l’impiego domestico del gas naturale è molto diffuso sia per il riscaldamento sia per la cottura degli alimenti. L’abbandono dei fornelli a gas comporterebbe inoltre un maggiore consumo di energia elettrica e non tutti i paesi europei sarebbero da subito attrezzati per rispondere adeguatamente alla maggiore richiesta. LEGGI TUTTO

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    Perché andarci cauti sul nuovo farmaco contro l’Alzheimer

    Il lecanemab, un nuovo farmaco sperimentale contro il morbo di Alzheimer, ha fatto registrare risultati incoraggianti nel trattare la malattia, secondo gli attesi risultati di un test clinico da poco presentati da Eisai e Biogen, le due aziende che lo hanno sviluppato. Il farmaco sembra abbia rallentato l’evoluzione dei problemi cognitivi dei pazienti nelle prime fasi della malattia, ma ha anche comportato effetti avversi come accumulo di fluidi nel cervello ed emorragia cerebrale. I risultati sono stati comunicati con toni molto positivi dalle due aziende, ma numerosi esperti invitano alla cautela e ricordano che saranno necessari ulteriori approfondimenti sull’efficacia e la sicurezza del lecanemab.Attualmente i farmaci disponibili cercano di trattare i sintomi dell’Alzheimer, ma non sono molto efficaci contro la malattia, soprattutto nelle sue forme più avanzate. Per questo da tempo vari gruppi di ricerca sono al lavoro per provare a intervenire sulle cause della malattia – che non sono però ancora completamente chiare – per farla progredire più lentamente.Le ricerche si sono concentrate sulla betamiloide, una proteina che causa un accumulo di placche nei neuroni (le cellule del cervello) rendendoli via via meno reattivi e funzionali. Questa proteina è sospettata di essere una, se non la principale, causa dell’Alzheimer, ma tenerla sotto controllo è molto difficile e ci sono ancora dubbi sul suo ruolo nella malattia. I farmaci come il lecanemab non hanno quindi l’obiettivo di curare l’Alzheimer né di ridurre gli effetti che si sono ormai manifestati, per esempio con un perdita notevole delle capacità cognitive di una persona malata.Un rapporto sullo studio clinico del nuovo principio attivo è stato pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine, con informazioni sui dati raccolti in 18 mesi di sperimentazione. Secondo gli autori, la somministrazione del farmaco ha comportato un «minore declino nelle misurazioni delle capacità cognitive e funzionali» rispetto ai partecipanti che avevano ricevuto un farmaco che non fa nulla (placebo).La sperimentazione ha riguardato 1.800 persone con sintomi lievi di Alzheimer, in modo da verificare l’efficacia del trattamento nelle prime fasi della malattia. Il gruppo di ricerca ha segnalato che i pazienti che avevano ricevuto il lecanemab avevano fatto rilevare un declino delle capacità cognitive del 27 per cento più lento rispetto ai pazienti con placebo; nella scala per valutare l’andamento delle capacità cognitive equivale a circa 0,45 punti su 18 complessivi.È la prima volta in cui una sperimentazione clinica con un farmaco contro la betamiloide indica un rallentamento del declino cognitivo: la riduzione è però poco marcata e di conseguenza medici ed esperti si chiedono se possa essere sufficiente per essere notata dai pazienti e dai loro cari. La differenza rispetto al placebo non è inoltre molto significativa, di conseguenza ci si chiede se trattamenti di questo tipo, che possono costare decine di migliaia di dollari, portino a benefici significativi dal punto di vista clinico.Nella valutazione dei benefici del farmaco deve essere inoltre compresa un’analisi del rischio di eventuali effetti avversi. Nel rapporto da poco pubblicato sono segnalati sei decessi tra le 898 persone che avevano ricevuto il lecanemab e sette morti tra i pazienti che invece avevano ricevuto un placebo. Nessun decesso è stato considerato riconducibile alla somministrazione del lecanemab o a episodi di emorragia o edema cerebrale, che può verificarsi con i farmaci che intervengono sulla betamiloide.Negli ultimi mesi tra gli addetti ai lavori si era però parlato molto del lecanemab in seguito alla notizia della morte di due pazienti per edema ed emorragia cerebrale. Entrambi i decessi erano avvenuti al di fuori del periodo di 18 mesi della sperimentazione clinica e per questo non sono inseriti nel rapporto da poco pubblicato. Non è inoltre noto se le persone coinvolte avessero assunto il farmaco vero e proprio o il placebo durante la sperimentazione, anche se allo scadere dei 18 mesi avevano entrambe scelto di ricevere il farmaco vero e proprio, partecipando a un’estensione dello studio clinico (una pratica che si fa spesso per raccogliere maggiori dati sulla efficacia e la sicurezza di un trattamento).Una delle due persone decedute era un uomo ultra ottantenne che assumeva da tempo anticoagulanti per fluidificare il sangue per tenere sotto controllo alcuni problemi cardiaci. Prima della morte si era infortunato in seguito a varie cadute e aveva avuto un attacco ischemico transitorio (TIA, un ictus di intensità e durata modesta) poco prima di morire. L’altra paziente era una donna di 65 anni che aveva avuto un ictus trattato con anticoagulanti, prima di avere una forte emorragia cerebrale che ne aveva poi causato la morte. Secondo l’autopsia, il lecanemab aveva probabilmente indebolito alcuni vasi sanguigni che non avevano poi retto alla terapia anticoagulante.Eisai aveva diffuso un comunicato citando alcune analisi condotte sulla storia clinica dei due pazienti, concludendo che le morti non potessero essere attribuite all’assunzione di lecanemab, conclusioni che sono state accolte con perplessità da vari esperti. Nel test clinico, il 13 per cento dei pazienti trattati con lecanemab aveva avuto edemi cerebrali lievi o moderati a seconda dei casi, rispetto al 2 per cento tra chi aveva assunto il placebo. Nella maggior parte dei casi gli edemi non avevano comunque portato a particolari sintomi e si erano risolti dopo qualche mese. L’emorragia cerebrale aveva invece interessato il 17 per cento dei pazienti, rispetto al 9 per cento di chi aveva ricevuto il placebo.Gli eventi avversi più gravi avevano interessato il 14 per cento dei pazienti con lecanemab e l’11 per cento nel gruppo del placebo. Poco meno del 7 per cento dei partecipanti alla sperimentazione con il farmaco vero e proprio aveva abbandonato il test a causa degli effetti avversi, circa il doppio rispetto ai pazienti cui era stato somministrato il placebo. Dopo l’infusione intravenosa, che viene effettuata ogni due settimane, alcuni pazienti avevano segnalato sintomi simili a quelli influenzali, diminuiti nel corso del trattamento con le infusioni successive.A inizio 2023 la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di farmaci, dovrà decidere se concedere un percorso di approvazione accelerato per il lecanemab, in modo da renderlo disponibile velocemente ai pazienti. In questo caso Eisai e Biogen dovranno procedere con ulteriori test clinici per dimostrare i benefici del farmaco, in modo da ricevere le autorizzazioni necessarie.Il processo di approvazione potrebbe essere simile a quello dell’aducanumab (il cui nome commerciale è Aduhelm), approvato dalla FDA nel giugno del 2021 e che non ha portato ai risultati sperati. Già all’epoca l’approvazione era stata accompagnata da molti dubbi sulla sua efficacia e sulle stesse modalità con cui era stato approvato, nonostante la mancanza di elementi convincenti su efficacia e rischi. A un anno e mezzo dalla sua approvazione, l’aducanumab è poco impiegato e potrebbe finire nella lunga lista di farmaci sviluppati con enormi investimenti e che hanno poi portato a risultati deludenti.Le principali aziende farmaceutiche investono ogni anno l’equivalente di centinaia di milioni di euro per sviluppare e testare nuove molecole, alla ricerca dei candidati più promettenti per ottenere farmaci di nuova generazione efficaci contro l’Alzheimer. In 20 anni di ricerca, nonostante le numerose innovazioni e la disponibilità di nuove scoperte, non sono emersi farmaci che abbiano costituito un punto di svolta per tenere sotto controllo la malattia, che si manifesta solitamente dopo i 65 anni con sintomi precoci come l’incapacità di ricordare eventi recenti. I sintomi peggiorano con l’avanzare dell’età, con disorientamento, cambi d’umore repentini, depressione e una crescente difficoltà nel ricordare. LEGGI TUTTO