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    Un modo discusso per trattare il nanismo

    Caricamento playerNei mesi scorsi, i genitori di alcuni bambini con una particolare forma di nanismo hanno manifestato a Tbilisi, in Georgia, chiedendo al governo di rispettare la promessa di finanziare un costoso trattamento per ridurre gli effetti della condizione che interessa i loro figli. Le proteste sono state documentate dai giornali e dalla televisione georgiana, inducendo infine il governo a finanziare un’iniziativa che entro fine anno consentirà a un gruppo di bambini di ricevere le prime dosi di Voxzogo, un farmaco relativamente recente sviluppato negli Stati Uniti dove l’opportunità del suo utilizzo è piuttosto discussa.Il Voxzogo (il cui principio attivo si chiama vosoritide) favorisce lo sviluppo delle ossa nelle persone con acondroplasia – la forma di nanismo più comune – e di conseguenza rende più probabile una maggiore crescita in altezza, con uno sviluppo degli arti. Negli Stati Uniti il trattamento può arrivare a costare circa 350mila dollari all’anno e non sempre è coperto dalle assicurazioni sanitarie, mentre in altre parti del mondo dove la sanità è per lo più pubblica la spesa è coperta dai servizi sanitari. In Italia, per esempio, da circa un anno il Voxzogo è rimborsato dal Servizio sanitario nazionale, a patto che la diagnosi di acondroplasia sia confermata attraverso una «opportuna analisi genetica».Ma la discussione intorno al Voxzogo non è legata al suo costo, quanto all’opportunità di utilizzare un farmaco che, se da una parte riduce gli effetti più evidenti dell’acondroplasia, e cioè la bassa statura, dall’altra non garantisce di migliorare i problemi di salute che potranno avere le persone con questa condizione per tutta la loro vita. Il trattamento deve essere inoltre iniziato nei primi anni di vita, circostanza che mette i genitori davanti a una scelta difficile poco tempo dopo la nascita di un figlio. Le implicazioni e le sfumature sono moltissime, senza contare che la bassa statura non è di per sé “una malattia” e può essere rischioso vederla e trattarla come tale.In tutto il mondo ci sono circa 250mila persone con acondroplasia e molte altre con diverse forme di nanismo. Si identificano come “persone di bassa statura” o “persone piccole” (“little people”), soprattutto nei paesi anglosassoni dove vari termini hanno assunto nel tempo una connotazione stereotipata e in alcuni casi dispregiativa. Nonostante le difficoltà date dal vivere in un mondo spesso fuori scala, dall’altezza delle maniglie delle porte a quella degli interruttori solo per fare qualche esempio, la maggior parte di queste persone vive normalmente e grazie ai miglioramenti di terapie e interventi chirurgici ha un’aspettativa di vita più lunga rispetto a un tempo. I problemi comunque non mancano, con casi ricorrenti di discriminazioni e il rischio di marginalizzazione nella società.Il nanismo è dovuto a una grande varietà di fattori genetici, non sempre semplici da ricostruire. La causa dell’acondroplasia, per esempio, è stata scoperta con certezza solo nella prima metà degli anni Novanta, quando si è notato il ruolo di un gene che in una determinata versione porta al malfunzionamento di una proteina (recettore del fattore di crescita del fibroblasto 3, FGFR3). In condizioni normali questa limita la formazione del nuovo tessuto osseo, ma nelle persone con acondroplasia il gene fa sì che questo meccanismo sia quasi sempre attivo, impedendo alle ossa di continuare a svilupparsi.Ciò compromette buona parte della crescita e fa sì che la statura di una persona non aumenti più di tanto fino alla fine dell’adolescenza, quando il processo normalmente si riduce. Il mancato sviluppo interessa buona parte delle ossa, ma è più evidente nelle gambe e nelle braccia, che appaiono sproporzionate rispetto al resto del corpo. La testa ha una crescita ancora diversa, con un maggiore sviluppo della fronte e in alcuni casi una ridotta dimensione del foro occipitale, l’apertura alla base del cranio che mette in comunicazione la cavità cranica (dove c’è buona parte del cervello) con il canale vertebrale (dove c’è buona parte del resto del sistema nervoso centrale).La dimensioni ridotte del foro occipitale possono costituire un serio rischio per la salute. Al crescere del sistema nervoso aumentano anche le dimensioni del tronco encefalico, la struttura alla base del cervello che si collega poi al canale vertebrale all’altezza del collo: se il foro occipitale non ha dimensioni adeguate, questa parte del sistema nervoso può schiacciarsi e può portare a una morte improvvisa. Nei bambini di cinque anni con acondroplasia il rischio è 50 volte superiore rispetto al resto della popolazione. L’andamento dello sviluppo del foro occipitale deve quindi essere tenuto sotto controllo nei primi anni di vita e in media un bambino su cinque deve essere sottoposto a un intervento chirurgico per allargare l’apertura. L’intervento è di solito risolutivo, ma in alcuni casi è necessaria una nuova operazione dopo qualche tempo se lo sviluppo porta nuovamente il foro occipitale a essere insufficiente.Lo sviluppo ridotto del tessuto cartilagineo, che ha molto in comune con quello osseo, influisce anche sulla crescita delle cartilagini del naso e può comportare problemi respiratori. Fin dai primi anni di vita c’è un alto rischio di apnee notturne, cioè fasi in cui durante il sonno si interrompe per qualche momento il respiro, mettendo sotto stress il cuore. Ci sono comunque accorgimenti che si possono adottare, a cominciare dalla posizione mentre si è distesi, per ridurre i rischi. In età adulta possono manifestarsi problemi legati alla postura, con dolori alle articolazioni, anche se fare attività fisica aiuta di solito a ridurre i sintomi (che in misura diversa interessano in generale la popolazione con l’invecchiamento).Come segnala un lungo articolo pubblicato di recente sul sito di Nature, una ventina di anni fa iniziarono a essere sviluppati trattamenti per ridurre gli effetti dell’acondroplasia, con risultati incoraggianti in laboratorio su una proteina (CNP) coinvolta nella crescita delle ossa. Quelle prime esperienze portarono allo sviluppo del Voxzogo, che non agisce direttamente sulla proteina FGFR3 (quella che per chi ha una specifica variante genetica ferma quasi completamente la crescita), ma con un altro meccanismo che se attivato interferisce con i segnali che fermano la crescita delle ossa.Una decina di anni fa l’azienda farmaceutica statunitense BioMarin aveva avviato i primi test clinici del Voxzogo. La sperimentazione iniziale aveva dato esiti promettenti e, avvicinandosi il momento in cui la società avrebbe chiesto l’autorizzazione per mettere in commercio il farmaco, la Food and Drug Administration (l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci) aveva organizzato un gruppo di lavoro e consulenza per capire con quali parametri dovesse essere valutato il Voxzogo. Nel 2018 furono presi in considerazione i possibili effetti e infine si concluse che il modo migliore per fare una valutazione fosse misurare il cambiamento in altezza dei partecipanti alla sperimentazione, su base annuale.Nel 2021 il farmaco fu approvato dalla FDA, e in seguito dall’Agenzia europea per i medicinali, sulla base di un test clinico che aveva coinvolto 120 partecipanti con un’età compresa tra i 5 e i 15 anni: alcuni avevano ricevuto il farmaco vero e proprio e altri, in un gruppo di controllo, una sostanza che non faceva nulla (placebo). In media, la somministrazione del Voxzogo aveva portato a un aumento dell’altezza di 1,57 centimetri in più rispetto al gruppo di controllo. Il farmaco era stato quindi approvato con una procedura accelerata, in mancanza di altri trattamenti, con la richiesta a BioMarin di proseguire gli studi negli anni seguenti per valutare l’effetto complessivo del farmaco sulla statura delle persone interessate.Dal momento dell’approvazione, la società ha lavorato molto per far conoscere il proprio prodotto ai genitori di bambini con acondroplasia e la richiesta del trattamento è aumentata sensibilmente. Sempre secondo i dati forniti da Nature, nel primo trimestre del 2022 le vendite hanno fruttato a BioMarin circa 19,7 milioni di dollari, mentre nel secondo trimestre di quest’anno hanno raggiunto i 113 milioni di dollari. Sono cifre relativamente contenute per il settore farmaceutico, ma l’azienda confida di potere aumentare le vendite, soprattutto se FDA ed EMA daranno a breve l’autorizzazione per iniziare la somministrazione del farmaco prima dei due anni di età.A oggi i bambini cui viene somministrata una dose di Voxzogo sono circa duemila, molti negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, ma anche in altre parti del mondo. Per i loro genitori è una speranza per ridurre le difficoltà che i figli potrebbero incontrare con l’età, secondo chi sceglie di non ricorrere al farmaco è invece una scelta rischiosa perché problematizza la bassa statura, lasciando in secondo piano gli altri problemi di salute che comunque le persone con acondroplasia potrebbero avere e che non sono necessariamente legati all’altezza.Il confronto intorno al Voxzogo potrebbe cambiare nei prossimi anni se si rivelasse utile anche nel ridurre i rischi legati allo scarso sviluppo del foro occipitale. Un test clinico in merito è già in corso e si sono osservati alcuni effetti positivi, ma saranno necessari altri quattro anni prima di avere dati a sufficienza per trarre qualche conclusione. Il farmaco è del resto disponibile da poco e interviene su processi come quelli della crescita che non solo richiedono tempo, ma che hanno esiti diversi e molto soggettivi. È anche per questo motivo che i genitori di bambini con acondroplasia sono spesso in difficoltà quando viene proposto loro di avviare il percorso terapeutico. Da tempo medici e associazioni lavorano per mostrare ai genitori di bambini con forme di nanismo che la loro condizione – se tenuta sotto controllo – è gestibile e che trattarla in altro modo può avere effetti psicologici imprevisti.L’acondroplasia può essere trasmessa dai genitori ai figli, ma nella maggior parte dei casi la mutazione genetica si manifesta spontaneamente. La prima diagnosi avviene di solito in fase prenatale, dopo un’ecografia di routine durante il terzo trimestre nella quale inizia a essere visibile il diverso sviluppo delle ossa lunghe. Un test del DNA fetale può inoltre portare ad avere una conferma diagnostica, che in casi di procreazione assistita può anche essere effettuato prima della gravidanza (analisi preimpianto).Per chi se ne occupa, è importante che le circostanze aleatorie che portano al nanismo siano spiegate ai genitori, prima di essere messi davanti alla scelta sull’avviare o meno un trattamento come quello a base di Voxzogo. Deve essere chiaro il rapporto tra costi e benefici, nel caso in cui si scelga di procedere con il farmaco o meno, così come si devono avere presenti gli eventuali effetti avversi.Dal canto suo BioMarin sostiene di non avere sviluppato il Voxzogo solamente per l’aumento della statura. Oltre alla sperimentazione sul foro occipitale, la società dice di avere in programma l’analisi di altri potenziali effetti del farmaco nel ridurre le apnee notturne e gli interventi medici, oltre a valutare l’eventuale miglioramento della qualità della vita. Il settore potrebbe del resto rivelarsi molto redditizio e questo spiega perché varie altre aziende farmaceutiche abbiano sperimentazioni in corso, alcune in fase di conclusione.Insieme alla società californiana Tyra Biosciences, la multinazionale farmaceutica Sanofi sta studiando come utilizzare in ambiti diversi da quelli per cui era stato sviluppato un farmaco antitumorale. Il suo principio attivo interviene sempre su FGFR3 con lo scopo di rallentare la crescita delle cellule di alcuni tipi di tumore. Una versione a basso dosaggio del farmaco potrebbe essere impiegata per contrastare gli effetti dell’acondroplasia, ma saranno necessari ancora alcuni anni prima di terminare i test clinici. Altre società stanno invece sviluppando sistemi basati su anticorpi per inibire FGFR3.In Italia a metà luglio sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale le indicazioni per la rimborsabilità e il prezzo del Voxzogo nella fascia di età compresa tra i 2 e i 5 anni. Viene erogato in ambito ospedaliero (classe H) con un prezzo per dieci fiale di quasi 11mila euro, rimborsato dal Servizio sanitario nazionale. In queste settimane le regioni hanno iniziato a recepire le indicazioni, di conseguenza il farmaco potrebbe essere disponibile in tempi diversi sul territorio nazionale. LEGGI TUTTO

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    Il verme estratto vivo dal cervello di una paziente in Australia

    Caricamento playerNel cervello di una donna ricoverata in Australia per alcuni problemi di salute è stato trovato un verme vivo lungo circa 8 centimetri, che era cresciuto nel suo organismo nel corso di diversi mesi. Il caso, il primo di questo genere a essere registrato, è stato di recente esposto in uno studio scritto dai medici che avevano curato la paziente e pubblicato su Emerging Infectius Diseases, una rivista scientifica pubblicata dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie degli Stati Uniti. Parassitosi di questo tipo sono estremamente rare, ma secondo gli autori potrebbero passare spesso inosservate complicando il loro tracciamento.– Leggi anche: L’ameba mangia-cervello, parliamoneTutto era iniziato nel gennaio del 2021 in un ospedale del New South Wales, uno stato dell’Australia, quando una donna di 64 anni era stata ricoverata a causa di persistenti dolori addominali ed episodi di diarrea che proseguivano ormai da tre settimane. La paziente aveva inoltre riferito di avere spesso la tosse e di faticare a dormire, con frequenti sudori notturni.Dopo avere effettuato alcuni esami, i medici avevano diagnosticato una probabile infezione polmonare la cui causa era ignota. La terapia per trattarla aveva iniziato a dare qualche risultato positivo, ma dopo alcune settimane la paziente era stata nuovamente ricoverata con febbre e tosse. Non trovando spiegazioni convincenti per i sintomi, i medici si erano orientati verso una possibile malattia autoimmune, prescrivendo farmaci per ridurre l’attività immunitaria e provare a vedere se in questo modo ci fossero miglioramenti nelle condizioni della loro paziente.Nei primi mesi del 2022, la paziente aveva iniziato ad avere difficoltà a ricordare le cose e aveva iniziato a sviluppare una forma di depressione. I medici erano allora intervenuti effettuando una risonanza magnetica all’encefalo, notando una sospetta lesione tale da rendere necessarie una biopsia per fare qualche approfondimento diagnostico. Nel giugno dello scorso anno la paziente era stata quindi sottoposta a un intervento chirurgico alla testa per ispezionare la lesione. Spostando alcuni dei tessuti cerebrali che apparivano danneggiati, la neurochirurga che stava facendo l’operazione aveva notato una strana struttura cilindrica simile a un filamento, un corpo estraneo che aveva deciso di asportare. Con sua grande sorpresa e tra lo stupore delle altre persone in sala operatoria, dopo pochi istanti si era accorta di avere iniziato l’estrazione di un verme cilindrico (o per meglio dire un nematode) vivo, lungo circa 8 centimetri e con un diametro intorno al millimetro.(Canberra Health Services via AP)Analisi successive avevano permesso di stabilire che il parassita era un esemplare di Ophidascaris robertsi, un nematode che conduce buona parte del proprio ciclo vitale all’interno dei pitoni tappeto (Morelia spilota), serpenti molto comuni in Australia e che devono il loro nome ai motivi che hanno sulla pelle simili a quelli dei tappeti orientali.Quando uno di questi nematodi diventa il parassita di un pitone tappeto, produce uova che vengono poi rilasciate nell’ambiente insieme alle feci del serpente. Le uova vengono poi accidentalmente ingerite da alcuni mammiferi, magari mentre brucano l’erba, ed è nel loro organismo che le uova si schiudono e portano alla formazione degli stadi iniziali del parassita. Se un pitone si nutre di uno dei mammiferi infetti, riceve il nematode e il ciclo torna a ripetersi. In questo modo il parassita ha la possibilità di continuare a riprodursi e diffondersi.Non è chiaro come la paziente sia entrata in contatto con Ophidascaris robertsi, ma i medici hanno una buona ipotesi sulla base delle abitudini della 64enne e alcune ricerche svolte nell’area in cui vive. Vicino alla sua casa c’è un lago intorno al quale vivono alcuni esemplari di pitoni tappeto, con i quali non aveva comunque mai avuto contatti diretti. La paziente frequentava la zona per raccogliere alcune varietà di spinaci selvatici che utilizzava poi per la preparazione dei piatti. È probabile che alcune foglie avessero tracce delle feci di un pitone tappeto contenenti le uova del parassita, che la paziente le avesse portate in casa e consumate senza lavarle a sufficienza, contaminando altri alimenti sullo stesso tagliere o senza lavarsi accuratamente le mani dopo averle maneggiate.Nella maggior parte dei casi un lavaggio poco accurato non implica che necessariamente ci si ritrovi con un parassita, ma qualche rischio c’è e di solito è sufficiente qualche accorgimento come lavarsi le mani e non usare le stesse stoviglie per alimenti diversi per ridurre i rischi. Non si può inoltre escludere che al momento della contaminazione la paziente avesse qualche problema al sistema immunitario, che non si era quindi attivato al meglio per eliminare il parassita. Esistono comunque moltissimi parassiti e alcuni sono più abili di altri nel passare inosservati eludendo le difese del sistema immunitario.Nel loro studio, i medici australiani hanno spiegato di non essere riusciti a diagnosticare prima il problema della loro paziente perché le larve del parassita sono molto piccole, difficili da identificare soprattutto se i sintomi sembrano indicare altre cause del malessere. È probabile che alcuni dei disturbi segnalati inizialmente dalla paziente fossero dovuti allo spostamento delle larve dal tratto intestinale ad altri organi, compresi i polmoni le cui condizioni avevano spinto i medici a sospettare inizialmente un’infezione polmonare. Non si sa esattamente come abbia fatto il verme a finire nella scatola cranica della donna.Il gruppo di ricerca ha spiegato che a sei mesi circa dalla rimozione del nematode i problemi neurologici segnalati dalla paziente erano ancora presenti, seppure migliorati rispetto al periodo precedente. Le condizioni di salute della paziente sono tenute sotto controllo ancora oggi a circa un anno di distanza dall’intervento chirurgico, anche perché la ripresa nel caso di danni neurologici può richiedere molto tempo. Un farmaco somministrato dopo la scoperta del nematode dovrebbe aver soppresso altre eventuali larve nell’organismo della paziente. LEGGI TUTTO

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    Perché c’è una certa attenzione per una nuova variante del coronavirus

    Da alcune settimane le principali istituzioni sanitarie stanno tenendo sotto controllo una nuova variante del coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia iniziata nel 2020, che presenta numerose mutazioni ed è stata rilevata in almeno tre continenti. È stata chiamata BA.2.86 ed è alquanto diversa dalle varianti già in circolazione, con differenze soprattutto nella proteina “spike”, che il virus utilizza per legarsi alle cellule e replicarsi portando avanti l’infezione.Per ora la variante non suscita particolari preoccupazioni, considerati i livelli di immunizzazione ormai raggiunti tra la popolazione, ma offre comunque nuovi elementi sulla circolazione del coronavirus in una fase in cui pochissime persone fanno ancora i test e sono state ridotte al minimo le attività di rilevazione delle nuove infezioni da parte delle istituzioni.L’identificazione di BA.2.86 ha qualcosa in comunque con quanto avvenne con la variante Omicron nella seconda metà del 2021. All’epoca quella versione del virus si era fatta notare in alcuni paesi dell’Africa meridionale per avere caratteristiche molto particolari, tali da determinare nei mesi successivi nuove ondate di COVID-19 in buona parte del mondo. Le cose da allora sono però cambiate enormemente grazie all’immunizzazione offerta dai vaccini o a quella naturale (e molto più rischiosa) ottenuta con la malattia: secondo gli esperti è improbabile che BA.2.86 possa causare ondate simili a quelle di Omicron.BA.2.86 è stata legata ad almeno 6 casi in quattro paesi: Regno Unito, Stati Uniti, Israele e Danimarca. Il numero di infezioni dovuto alla variante è sicuramente più alto, ma non essendoci più sistemi di rilevazione paragonabili a quelli di un paio di anno fa è difficile fare stime sull’effettiva diffusione della variante. Anche per questo motivo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) l’ha definita «variante da tenere sotto controllo», in attesa che siano effettuati nuovi studi e analisi sulle sue caratteristiche e sulla sua presenza tra la popolazione.Stando alle prime analisi, comunque, la proteina “spike” di BA.2.86 ha almeno 34 differenze significative rispetto a BA.2, una delle subvarianti di Omicron già nota da tempo. L’ipotesi è che il virus sia mutato in seguito a un caso di COVID-19 durato a lungo, come avvenuto in passato con altre varianti con numerose mutazioni. Le differenze riguardano alcune aree della proteina “spike” cui si collegano gli anticorpi neutralizzanti prodotti dal nostro organismo per impedire al virus di legarsi alle cellule. C’è quindi la possibilità che la nuova variante riesca a eludere parte delle difese immunitarie maturate con precedenti infezioni o in seguito alla vaccinazione.Per fare valutazioni più accurate sarà necessario raccogliere un maggior numero di campioni da persone infettate da BA.2.86, ma la loro ricerca potrebbe non essere semplice. La maggior parte delle persone ha smesso di fare tamponi e test quando ha sintomi simili a quelli influenzali, di conseguenza è probabile che negli ultimi mesi molte persone abbiano avuto un’infezione da coronavirus senza saperlo, e che magari l’abbiano trasmessa a qualcun altro. Il fatto che la variante sia stata identificata in posti distanti tra loro e con casi all’apparenza non collegati suggerisce inoltre che BA.2.86 sia già particolarmente diffusa.Nonostante qualche titolo allarmato sui giornali, è comunque presto per trarre qualche conclusione o preoccuparsi più di tanto, considerato che BA.2.86 potrebbe fare la fine di diverse altre varianti rilevate nell’ultimo anno, che sono sostanzialmente scomparse nel giro di qualche mese. Nel caso di un’infezione, la maggior parte delle persone dovrebbe comunque sviluppare sintomi molto lievi grazie all’immunità ormai acquisita, ma è bene ricordare che ci sono persone fragili più a rischio di altre, che potrebbero avere complicazioni anche a distanza di quasi quattro anni dall’inizio della pandemia.Per ora in Italia la situazione continua a rimanere sotto controllo. Negli ultimi giorni si è rilevato un minimo aumento dei casi rilevati, dei pochi che ancora si sottopongono ai test, comunque non paragonabile all’aumento dei casi (comunque contenutissimo se paragonato alle ondate dei primi tempi) rilevato tra aprile e maggio. LEGGI TUTTO

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    Cosa succede al nostro corpo quando ci innamoriamo

    Nella canzone “Via con me” c’è un invito alla persona amata a non perdersi «per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te». Quando Paolo Conte la scrisse all’inizio degli anni Ottanta pensava soprattutto alle grandi e talvolta assurde cose che si fanno per amore, ma a ben vedere durante l’innamoramento uno “spettacolo d’arte varia” si verifica anche all’interno del nostro organismo, ed è proprio questo a determinare in buona parte il modo in cui poi ci comportiamo e ciò che proviamo all’inizio di una relazione. Innamorarsi ha un profondo effetto sul nostro corpo, innesca una grande quantità di reazioni chimiche che ancora non conosciamo completamente e che potrebbero aiutarci a capire meglio alcuni meccanismi nella nostra mente oltre che nel nostro cuore.All’amore si possono dare infinite definizioni: filosofiche, psicologiche, letterarie e musicali, per la fortuna di chi scrive e compone canzoni come Paolo Conte. È invece più difficile dare una descrizione scientifica che colga tutte le sue sfumature e le sue dinamiche. Da un punto di vista puramente evolutivo, l’amore deriva probabilmente dalla necessità nella nostra specie di trovare una persona con cui stringere un forte legame, importante per la riproduzione e per la cura dei figli nei loro primi anni di vita. Non riguarda solamente gli esseri umani: in generale, nel regno animale più la prole ha necessità di essere seguita a lungo nei primi periodi di vita, più i genitori tendono ad avere relazioni durature per condividere la responsabilità (ovviamente ci sono tantissime specie e di conseguenza innumerevoli eccezioni).Ridurre l’amore alla sola riproduzione sarebbe però riduttivo, soprattutto per la nostra specie che grazie a una spiccata coscienza di sé e capacità di astrazione ha fatto proprio e ha elaborato il concetto di relazione amorosa (molto elaborato). Mentre in psicologia l’amore è considerato un fenomeno sociale e culturale, con sfumature e varianti, in biologia l’amore è visto come un impulso tipicamente animale e paragonabile a quello della fame o della sete. Per questo secondo modello, le sensazioni amorose sono influenzate dagli ormoni che contribuiscono a generare due pulsioni principali: quella sessuale e quella dell’attaccamento, cioè la creazione di un legame specifico tra due persone.Tutto ha inizio quando si conosce una persona e la si inizia a vedere in un modo diverso, a trovare qualcosa di speciale e unico che suscita curiosità e interesse. Questa prima fase dell’innamoramento è di solito alquanto caotica ed eccitante per l’organismo, perché è guidata per lo più dagli ormoni sessuali, gli estrogeni e il testosterone, che fanno prevalere il desiderio e l’attrazione fisica. Viene di solito identificata come la fase del desiderio, che precede le altre due successive: attrazione e attaccamento.Desiderio e attrazioneLa fase del desiderio viene ricondotta alla nostra necessità di riprodurci e alla prosecuzione della specie. È l’ipotalamo, una struttura alla base del nostro cervello, a stimolare la produzione degli ormoni sessuali. Questi influiscono a loro volta sul funzionamento del cervello e in particolare della corteccia prefrontale, che comprende il controllo dei comportamenti razionali.L’attrazione, la seconda fase, è strettamente legata a quella del desiderio, anche se in un certo senso indipendente: si può desiderare fisicamente una persona senza provare una particolare attrazione e viceversa. L’attrazione ha a che fare con i meccanismi del cervello che controllano i sistemi di ricompensa. È grazie a loro se i primi mesi di una nuova relazione vengono di solito vissuti con grande entusiasmo, voglia di fare e di essere il più possibile in contatto con la persona di cui si è innamorati.La dopamina è tra le sostanze più coinvolte nei processi di ricompensa. Questo neurotrasmettitore è prodotto in varie aree del cervello, che sono stimolate a rilasciarlo quando facciamo qualcosa che dà una certa sensazione di benessere come mangiare un alimento buono, dissetarsi, ascoltare particolari suoni o avere rapporti sessuali. Quest’ultimo è sicuramente uno dei principali stimoli per la produzione di dopamina all’inizio di una relazione, insieme alla possibilità di trascorrere del tempo insieme con l’altra persona.Un altro neurotrasmettitore importante nella fase dell’attrazione è la noradrenalina, che ha una funzione eccitante ed è responsabile di quel senso di euforia e di voglia di fare che si hanno durante l’innamoramento. La noradrenalina, insieme ad altre sostanze, è anche responsabile della mancanza di sonno e di fame, altra condizione che interessa quelle persone che dicono di essere talmente innamorate da non riuscire a dormire e a mangiare.È stato inoltre rilevato che in questa fase si hanno livelli più bassi di serotonina, un neuromodulatore e neurotrasmettitore coinvolto in numerosi processi che regolano l’umore, le capacità cognitive e la memoria. Non è chiaro come influisca sull’attrazione, ma una carenza di serotonina è stata riscontrata nelle persone che soffrono di disturbi ossessivo-compulsivi.AttaccamentoLe fasi del desiderio e dell’attrazione si incrociano più volte durante l’innamoramento, spesso concorrendo l’una all’altra, anche se come abbiamo visto sono generalmente guidate da sostanze diverse. Col passare del tempo, e se non ci sono stati imprevisti, si aggiunge l’attaccamento, che ha più a che vedere con la costruzione di relazioni durature e profonde. In questa fase gli ormoni più coinvolti secondo le ricerche sono l’ossitocina e la vasopressina.La produzione dell’ossitocina è stimolata da alcune attività come il sesso, il parto e l’allattamento. Sono evidentemente cose alquanto diverse tra loro, ma hanno in comune il fatto di essere esperienze che portano a un certo attaccamento. È stato osservato che i livelli di ossitocina tendono ad aumentare quando le persone hanno contatti fisici affettuosi, ma anche quando osservano immagini altamente evocative come una fotografia dei propri figli o del proprio partner.La vasopressina ha una struttura chimica molto simile a quella dell’ossitocina e si ritiene che abbia un ruolo nella formazione dei ricordi, sia a lungo sia a breve termine. Le conoscenze su questa sostanza sono ancora limitate e dibattute, ma nei test su animali è stato rilevato come la sua produzione, che viene facilitata durante l’attività sessuale, avvenga in concomitanza con il mantenimento di comportamenti che favoriscono la stabilità di coppia, con diversi esiti nelle specie monogame e in quelle promiscue.Da un punto di vista biologico, l’attività sessuale continua ad avere una certa importanza nel mantenere una relazione anche in questa fase, perché ha la capacità di fare da rinforzo all’attaccamento stimolando la produzione di ossitocina e vasopressina. Durante l’innamoramento, desiderio e attrazione favoriscono il successivo processo di attaccamento, ma non sempre la relazione prosegue stabilizzandosi e superando il periodo di transizione che porta a una relativa riduzione della parte più appassionata.Di solito gli alti livelli di intimità raggiunti, l’impegno reciproco e i ricordi delle esperienze avute insieme aiutano a sostenere la relazione nel lungo periodo, e anche in questo caso gli ormoni sembrano avere un ruolo importante nel rinnovare l’interesse per l’altro a beneficio della coppia. In questo l’ossitocina ha un ruolo importante, perché del resto è coinvolta in tutte le altre “forme” di amore, come quelle che riguardano gli affetti familiari, le amicizie e persino i rapporti con gli animali domestici. L’ormone sembra avere un ruolo nelle relazioni sociali e contribuire alla salute e alla longevità, almeno secondo alcune ricerche.Uno studio pubblicato nel 2019 ha segnalato come l’ossitocina sia associata a una migliore qualità della vita e a connessioni sociali più salutari tra le persone con o senza depressione, per esempio. Studi di questo tipo sono comunque difficili da organizzare per la grande quantità di variabili coinvolte, senza contare che ciascuno di noi è fatto diversamente e reagisce in modo diverso alle sostanze.Innamorarsi o provare amore per una persona è qualcosa di estremamente complicato, un misto di chimica ed esperienze difficile da dipanare. In un certo senso può essere considerato anche un vantaggio evolutivo: se ci fosse il modo di “spegnere” le fasi dell’innamoramento con grande efficacia, forse oggi non saremmo qui a ragionare e studiare l’amore e i suoi effetti sul nostro organismo. Come ha scritto il neurologo Parashkev Nachev:L’amore – come tutti i nostri pensieri, le emozioni e i comportamenti – si basa su processi fisici nel cervello, su una loro interazione molto complessa. Ma dire che l’amore è “solo” chimica del cervello sarebbe come dire che le opere di Shakespeare sono “solo” parole, o che la musica di Wagner è “solo” un insieme di note o che una scultura di Michelangelo è “solo” marmo: manca semplicemente il punto. Come l’arte, l’amore è molto di più della somma delle sue parti.Nonostante le crescenti conoscenze sugli ormoni, sui meccanismi che instaurano e sul modo in cui attivano parti del nostro sistema nervoso, moltissimi aspetti dell’amore continuano a sfuggire alla scienza a conferma di quante poche cose sappiamo ancora sul funzionamento del cervello umano. Intuiamo alcune caratteristiche dell’innamoramento osservando gli effetti che si producono sul nostro organismo, ma non riusciamo ancora a comprenderne in modo preciso le cause di uno spettacolo d’arte varia che ci accompagna da sempre. LEGGI TUTTO

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    L’ameba mangia-cervello, parliamone

    Caricamento playerA inizio luglio nello stato indiano del Kerala un quindicenne è morto a causa di una meningoencefalite amebica primaria (PAM), una infezione causata da Naegleria fowleri soprannominata spesso “ameba mangia-cervello”. Il quindicenne era stato ricoverato per una sospetta encefalite a fine giugno e in seguito i medici avevano scoperto la causa del malessere, non riuscendo però a trattarlo. La PAM è una condizione estremamente rara, ma con un tasso molto alto di letalità, superiore al 95 per cento. È nota da circa 60 anni ed è studiata da tempo non solo per il particolare comportamento dell’ameba e del nostro sistema immunitario per provare a distruggerla, ma anche per il modo in cui si contrae l’infezione: di solito inizia tutto con un banale spruzzo d’acqua.Anche se viene chiamata ameba mangia-cervello, N. fowleri non è tecnicamente un’ameba vera e propria, ma alterna forme flagellate ad ameboidi: in sostanza ci assomiglia molto in alcuni stadi del suo ciclo vitale. Come altri suoi simili, N. fowleri è ghiotta di batteri dei quali va a caccia per spezzarli e nutrirsene. In natura vive solamente in acqua dolce e prolifera negli stagni, nei laghi, nelle fonti termali e talvolta in tratti di fiumi e torrenti dove la corrente è tranquilla. Può però essere trovata anche nelle tubature degli acquedotti, nelle fontane e nelle piscine, in particolare se l’acqua non è trattata adeguatamente per essere resa potabile attraverso l’aggiunta di cloro.N. fowleri prolifera soprattutto al caldo e per questo tende a essere più presente nell’acqua tra la fine della primavera e l’estate. Il periodo coincide con quello in cui si frequentano le piscine o si va a nuotare al lago, di conseguenza le infezioni avvengono con maggiore frequenza nella stagione calda. Si stima infatti che ogni anno milioni di persone vengano in contatto con l’ameba senza particolari problemi: se si beve accidentalmente un po’ d’acqua contaminata gli acidi dello stomaco provvedono a distruggere l’ospite indesiderata e non ci sono problemi. Se invece si inala qualche goccia d’acqua la storia cambia.In piscina o al lago ci si tuffa e si nuota, ma soprattutto si producono molti spruzzi d’acqua all’interno dei quali ci sono milioni di virus, batteri e in qualche raro caso N. fowleri. Basta inalare un po’ d’acqua perché l’ameba si ritrovi nel naso e inizi a esplorarne l’interno alla ricerca di batteri di cui nutrirsi. La mucosa nasale, che contiene sostanze che favoriscono la neutralizzazione di molti agenti esterni, non interagisce in modo significativo con N. fowleri e così nemmeno le prime difese del sistema immunitario. L’ameba passa inosservata e nella maggior parte dei casi dopo qualche tempo muore, salvo non riesca a intercettare qualcosa che l’attira moltissimo più in profondità nella cavità nasale: le cellule nervose dell’olfatto.(Wikimedia)Le cellule olfattive utilizzano diversi segnali chimici per trasmettere le informazioni che poi il nostro cervello provvederà a trasformare in sensazioni, come riconoscere il profumo di una brioche appena sfornata o quello di un gelsomino fiorito. Una delle sostanze impiegate per queste comunicazioni è l’acetilcolina, una molecola molto importante per la trasmissione nervosa e che N. fowleri è attrezzata per riconoscere. Non è ancora oggi molto chiaro come mai l’ameba abbia sviluppato questa capacità, che è poi alla base del modo in cui riesce a infettare il nostro organismo.Lo scambio di acetilcolina tra le cellule olfattive e il cervello è molto frequente e viene seguito da N. fowleri, che in questo modo riesce ad aprirsi la strada verso il cervello. Le amebe non dovrebbero esserci tra le terminazioni delle cellule olfattive e per questo la loro presenza viene notata dal sistema immunitario, che tenta un primo attacco con i granulociti neutrofili, cellule poco specializzate che mettono in atto sistemi alquanto rudimentali per distruggere gli agenti esterni. Utilizzano sostanze chimiche per provare a fare a pezzi e dissolvere le amebe, ma è una lotta impari che raramente termina con la distruzione di tutti gli invasori.N. fowleri prosegue il proprio viaggio lungo le terminazioni delle cellule olfattive e, di solito entro una decina di giorni da quando era stata inalata, riesce infine a raggiungere il cervello dove la sua attività viene ulteriormente stimolata dalla grande disponibilità di acetilcolina. Qui l’ameba produce particolari molecole che fanno a pezzi i neuroni, in modo che se ne possa nutrire. Inizia a moltiplicarsi e a trasformarsi, sviluppando minuscole ventose che si attaccano e distruggono le membrane delle cellule, nutrendosi di parte del loro contenuto.Stadi del ciclo vitale di N. fowleri, da sinistra: cisti, trofozoide e forma flagellata (Wikimedia)In questa fase il sistema immunitario tenta un nuovo attacco, sempre attraverso i granulociti neutrofili cui si aggiungono altre cellule immunitarie come quelle della microglia, responsabili della difesa immunitaria nel sistema nervoso centrale. Anche in questo caso è un attacco di prima difesa non specializzato, una sorta di bombardamento a tappeto che provoca ulteriori danni alla materia cerebrale e che ha però scarso effetto sulle amebe, che riescono a difendersi e a neutralizzare le cellule immunitarie. Il sistema immunitario non riesce nemmeno a organizzare una difesa più specifica attraverso gli anticorpi, che dovrebbero segnalare alle cellule immunitarie specializzate gli obiettivi da colpire. La risposta immunitaria porta a un’infiammazione e alla febbre, che di solito è utile per rallentare virus e batteri, ma che in questo caso può poco contro un’ameba che prolifera soprattutto al caldo.Nell’area dell’infezione iniziano ad accumularsi liquidi che comportano un aumento della pressione intracranica. È di solito in questa fase che compaiono i primi sintomi come febbre, mal di testa e nausea: sono quasi sempre lievi e tali da non suscitare grandi preoccupazioni o da spingere a cercare l’aiuto di un medico. In pochi giorni i sintomi peggiorano con la comparsa di allucinazioni, stati confusionali e una grande stanchezza. L’infiammazione prosegue con il cervello sempre più gonfio e compresso nella scatola cranica.È di solito in questa fase che un paziente arriva in ospedale, in condizioni precarie e con una diagnosi difficile da fare. L’infezione da N. fowleri è molto rara e non sempre conosciuta, di conseguenza le prime analisi sono dirette verso malattie e condizioni più comuni, come forme di meningite e di encefalite. Il tempo è un fattore importante, ma anche nel caso di una diagnosi precoce le possibilità di sopravvivenza sono molto basse. Non c’è una cura e i trattamenti sperimentati in questi anni si sono rivelati nella maggior parte dei casi inefficaci.I casi di PAM da N. fowleri vengono solitamente trattati con l’amfotericina B, un antimicotico che porta alla rottura della membrana cellulare dell’ameba e alla sua morte. Il trattamento non è però particolarmente efficace e la quasi totalità dei pazienti muore ugualmente. Negli ultimi tempi è stato anche sperimentato l’impiego della miltefosina, un antiparassitario che interviene sui processi di comunicazione cellulari, ma anche in questo caso i risultati non sono stati molto promettenti.Per quanto possa apparire spaventosa, un’infezione da N. fowleri è estremamente rara, e questo è bene ricordarlo sempre. Da quando fu scoperta negli anni Sessanta ne sono stati identificati circa 450 casi in tutto il mondo e solo sette persone sono sopravvissute. In generale, è molto più probabile morire per annegamento in acque contaminate dall’ameba che per via della sua inalazione. Anche se ogni anno qualcuno deve fare i conti con un’infezione probabilmente mortale, l’ameba non costituisce un’emergenza sanitaria.Dagli studi condotti finora sembra che N. fowleri proliferi soprattutto quando non deve competere con altri organismi che si nutrono delle sue stesse cose a cominciare dai batteri. In assenza di competizione, la concentrazione dell’ameba aumenta sensibilmente e sembra che anche in questo abbiano un ruolo le attività umane. Lo sversamento di acqua calda a valle dei processi industriali, per esempio, causa la morte di numerosi microrganismi e favorisce invece quelli che prosperano soprattutto a temperature più alte.L’interesse intorno a N. fowleri è comunque grande non solo per la ricerca di una cura davvero efficace, ma per le caratteristiche stesse dell’”ameba mangia-cervello”. Molti aspetti della sua storia evolutiva non sono ancora chiari, né sappiamo quali eventi l’abbiano resa così agguerrita e avida di cellule del nostro cervello. LEGGI TUTTO

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    Come funziona il “digiuno intermittente”, se funziona

    Complici alcune dichiarazioni di personaggi famosi e la pubblicazione di libri che se ne occupano, negli ultimi mesi è tornato di moda ed è diventato molto discusso il cosiddetto “digiuno intermittente”. Secondo chi lo pratica, non solo aiuterebbe a perdere peso velocemente, ma anche a mantenersi in salute e in generale a sentirsi meglio. Di recente l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto di avere «perso 6 chili grazie al digiuno intermittente», aggiungendosi alla lista piuttosto lunga di persone che hanno detto di essere dimagrite seguendo questa pratica. In precedenza se ne era parlato molto in seguito ad alcune dichiarazioni di Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze Biomediche all’Università di Padova, molto presente in televisione negli ultimi anni come esperta di cose intorno alla pandemia da coronavirus.Il digiuno intermittente ha ottenuto un certo successo perché viene spesso presentato come una soluzione per perdere rapidamente peso, con minori sacrifici rispetto a quelli richiesti dalle classiche diete. Chi lo pratica difficilmente si consulta prima con una persona che ha studiato nutrizione, ritenendo di dovere applicare solo qualche semplice regola per iniziare a dimagrire. È un approccio che può comportare qualche rischio, soprattutto per le persone con particolari problemi di salute, magari legati proprio al loro metabolismo e dei quali non sono pienamente consapevoli.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” sul digiuno intermittenteA digiunoLa percezione di dover seguire regole molto semplici deriva probabilmente dal fatto che di per sé digiunare non è complicato: consiste nello smettere di mangiare e in alcuni casi di bere per un certo periodo di tempo. È una pratica che viene seguita da millenni, per motivi culturali e religiosi a seconda delle popolazioni e dei contesti interessati. Nell’antica Grecia si digiunava prima di consultare gli oracoli, mentre nello sciamanesimo in varie culture africane era praticato prima di poter “comunicare” con gli spiriti. Il digiuno è inoltre visto come una via per avere esperienze mistiche, come per esempio nel buddhismo. In molte religioni è un modo per fare penitenza, per meditare e per concentrarsi su necessità diverse da quelle terrene: durante il mese del Ramadan, centinaia di milioni di persone musulmane nel mondo digiunano nelle ore di sole. In un digiuno prolungato consiste anche lo sciopero della fame, forma di protesta adottata spesso dalle persone detenute.Uno degli effetti del digiuno prolungato è inevitabilmente il dimagrimento, perché in mancanza del cibo il nostro organismo prova a compensare utilizzando ciò di cui dispone, come le riserve di grasso e le proteine presenti nei tessuti muscolari. Partendo da questo presupposto, già all’inizio del Novecento alcuni gruppi di ricerca iniziarono a chiedersi se una versione attenuata con brevi periodi di digiuno potesse essere impiegata per trattare l’obesità. Erano i primi esperimenti e tentativi in genere poco sistematici e strutturati, che portarono a pochi studi e non molto rilevanti. Le cose cambiarono a partire dagli anni Sessanta, quando iniziarono a essere pubblicate ricerche un poco più estese e articolate.Nelle prime esperienze documentate, erano previsti periodi di digiuno che variavano da un giorno a un paio di settimane a seconda dei casi. Già all’epoca si potevano trovare articoli entusiastici sul digiuno intermittente anche se non c’erano molti elementi per determinarne efficacia e sicurezza. Sperimentare e studiare le diete è sempre molto difficile, sia perché ogni persona è fatta diversamente e reagisce in modo diverso a trattamenti e terapie, sia perché seguire per lungo tempo un numero ragionevole di persone per determinare l’efficacia di una dieta richiede grandi risorse e soprattutto una certa dedizione da parte dei partecipanti allo studio. Questo spiega perché, a distanza di quasi un secolo dai primi studi, ancora oggi non ci sono elementi chiari sull’utilità del digiuno intermittente, come del resto è avvenuto per molti altri tipi di diete.I digiuni intermittentiNon esiste del resto un solo tipo di digiuno intermittente: ci sono più varianti e ognuno finisce col personalizzare le proprie abitudini alimentari come meglio crede, talvolta con qualche rischio per la salute. In linea generale, il digiuno intermittente consiste nell’astenersi dal cibo e dalle bevande caloriche per un certo periodo di tempo nel corso della giornata o della settimana. Frequenza e durata dei cicli di digiuno variano molto a seconda dei casi, ma si possono identificare due grandi categorie.La prima è quella delle diete a “digiuno periodico” nelle quali si alternano giornate intere di digiuno, o comunque di forte restrizione calorica, e giorni in cui si mangia normalmente. La seconda è la categoria delle diete con alimentazione a restrizione oraria: si mangia solo in alcune ore della giornata.In questi due filoni si inseriscono numerose diete che combinano fasi di digiuno alla normale alimentazione, in modi talvolta creativi e che ricordano un poco la regolazione del traffico a targhe alterne. C’è il digiuno a giornate, che prevede un giorno in cui si digiuna alternato a uno in cui si mangia; c’è la dieta 5:2 con due giorni di digiuno e cinque liberi; c’è la dieta “mima digiuno” dove viene consigliato il consumo soprattutto di verdure e che ha una durata di cinque giorni, nei quali si riduce progressivamente l’apporto calorico. Altri sistemi prevedono di mangiare in un intervallo di 8-10 ore e di digiunare per le restanti 16-14 ore: sono tra quelli più seguiti, semplicemente perché è relativamente più immediato saltare un pasto e sfruttare il sonno durante il quale già normalmente si digiuna.Roditori e umaniChi promuove il digiuno intermittente fa spesso riferimento agli studi effettuati su topi e altri roditori negli ultimi anni, dove si segnala come l’alimentazione a giorni alterni mantenga questi animali magri e più sani secondo alcuni parametri, per esempio con un aumento della durata della loro vita. Non è ancora completamente chiaro perché ciò avvenga, ma si ipotizza che in mancanza di nutrienti introdotti con l’alimentazione, l’organismo passi a utilizzare in modo più intensivo le risorse di glicogeno, una delle principali riserve energetiche dell’organismo, e il grasso corporeo.Negli esseri umani è più difficile replicare le medesime condizioni ottenute con i roditori e di conseguenza non ci sono elementi chiari per sostenere che il digiuno intermittente sia più efficace, o più sicuro e sano, rispetto alle classiche diete. Lo scorso anno un gruppo di ricerca aveva diviso 139 persone con obesità in due gruppi per sottoporle a due diversi tipi di diete: una di restrizione calorica classica, mangiando meno ai soliti pasti, e una di digiuno intermittente con pasti consentiti solo tra le otto del mattino e le quattro del pomeriggio. Per entrambi i gruppi era prevista nel complesso l’assunzione di 1500-1800 chilocalorie al giorno per gli uomini e di 1200-1500 chilocalorie per le donne.Al termine della sperimentazione durata circa un anno, il gruppo di ricerca ha riscontrato valori simili di perdita di peso tra i due gruppi, così come ha riscontrato dati paragonabili nella riduzione del grasso corporeo, della pressione sanguigna e dei livelli di glucosio nel sangue. I due regimi calorici avevano in sostanza dato i medesimi risultati, suggerendo che non ci siano particolari differenze tra i due approcci e soprattutto che il digiuno intermittente non comporti miglioramenti significativi nella perdita di peso rispetto a una dieta normale.Mangiare menoCi sono vari elementi per ritenere che il digiuno intermittente funzioni solo quando porta a una riduzione delle calorie assunte ogni giorno rispetto alle proprie abitudini. È del resto una conclusione piuttosto intuibile, che sfata però uno dei miti o delle convinzioni di molte persone che seguono un digiuno intermittente, sostenendo di mangiare ciò che vogliono e nelle quantità che preferiscono nelle ore “consentite”, immaginando che in qualche modo il metabolismo cambi e provveda al dimagrimento nel resto delle ore della giornata.In realtà, se si verificano le dichiarazioni di chi sostiene il digiuno intermittente, per esempio tra persone con una certa visibilità pubblica, si nota che il principale motivo del dimagrimento è la riduzione della quantità di cibo assunta e che questa è molto più rilevante rispetto al periodo della giornata in cui si mangia o si digiuna. Renzi ha per esempio detto di avere ripreso a correre con maggiore assiduità, mentre Viola ha spiegato di avere eliminato quasi del tutto il consumo di bevande alcoliche, che sono particolarmente caloriche. In entrambi i casi ci sono stati cambiamenti nelle abitudini che vanno al di là dei giorni in cui si mangia o meno.Per molte persone il digiuno intermittente funziona meglio di altre diete perché si deve rispettare un programma orario rigido che riduce le possibilità di sgarrare, fare eccezioni o cedere a qualche tentazione. Gli orari di alcune versioni del digiuno intermittente favoriscono inoltre il salto o la riduzione di alcuni pasti, come la cena: se si deve fare l’ultimo pasto entro le 16 è probabile che si abbia meno fame essendo ancora sazi dal pranzo e che si vada a dormire prima che venga nuovamente fame, per esempio. Il numero inferiore di pasti aiuta ovviamente a mangiare meno ed è un’ulteriore dimostrazione che il digiuno intermittente è paragonabile a una dieta.Un dimagrimento sano passa di solito da una relativa riduzione delle calorie che si introducono con gli alimenti ogni giorno e dal praticare attività fisica. Diete con una marcata riduzione delle calorie dovrebbero essere seguite sotto la supervisione di medici e mediche, che a seconda dei casi possono raccomandare esami e accertamenti di vario tipo prima di prescrivere una dieta. LEGGI TUTTO

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    Non fa male sapere che bere alcol fa male

    Caricamento playerNegli ultimi mesi il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida ha in più occasioni difeso il consumo degli alcolici, e in particolare del vino, criticando la scelta del governo irlandese di introdurre etichette sulle bevande alcoliche con avvisi sui loro effetti nocivi per la salute, come avviene già sui pacchetti delle sigarette. Lollobrigida ha per esempio sostenuto che in Irlanda il vino «non sanno nemmeno consumarlo con moderazione come è giusto fare» e che un’etichetta che indica pericoli gravi per la salute «racconta una cosa distorta», nonostante tutte le più importanti istituzioni sanitarie a cominciare dall’Organizzazione mondiale della salute dicano da tempo che «nessuna quantità di consumo di alcol è sicura per la salute».Questo succede, peraltro, proprio nei giorni in cui il governo si sta esprimendo in varie modalità contro il consumo di altre sostanze stupefacenti, quelle a cui ci si riferisce normalmente come droghe: è da poco uscito un discusso spot istituzionale, finanziato dal Dipartimento politiche antidroga, in cui l’allenatore della Nazionale di calcio maschile Roberto Mancini ripete numerose volte che «tutte le droghe fanno male». Né in questa né in comunicazioni simili, tuttavia, viene quasi mai incluso esplicitamente l’alcol, nonostante diversi riconosciuti studi lo indichino come molto più pericoloso della maggior parte, se non tutte, delle sostanze che intendiamo normalmente quando ci riferiamo alle droghe. Una discussione analoga si è sviluppata attorno alla proposta di riforma del codice della strada del ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che contiene alcune misure ancora poco chiare che però sembrano irrigidire l’approccio verso i consumatori di sostanze psicotrope, compresa la marijuana.La legge irlandese richiede l’applicazione degli avvisi sulla salute entro due anni su tutti i prodotti alcolici venduti nel paese, birra compresa, la principale bevanda alcolica bevuta nel paese – ed elemento importantissimo dell’economia nazionale – e non è quindi indirizzata esclusivamente ai vini. Nel caso dell’Italia, il dibattito sulla scelta dell’Irlanda si è concentrato sul vino semplicemente perché il nostro paese ne produce ed esporta molto, più di altre bevande a base di alcol. Qualcosa di analogo si è verificato in Spagna e in Francia, altri paesi che producono ed esportano molto vino, con associazioni di categoria ed esponenti politici che hanno accusato il governo irlandese di «fare terrorismo» sul consumo di vino.Si è parlato di demonizzazione e di proibizionismo, nonostante l’Irlanda non abbia vietato in alcun modo il consumo di vino e delle altre bevande alcoliche. Come ha spiegato il governo irlandese, le etichette con gli avvisi sui pericoli per la salute hanno l’obiettivo di rendere i consumatori di alcol più consapevoli dei rischi in un contesto dove si beve molto, con numerose implicazioni sociali e per la salute pubblica. Bere alcol è una scelta come molte altre che spetta ai singoli, sulla base delle loro preferenze e dei loro gusti, e proprio per questo è importante sapere quali implicazioni può avere.AlcolL’etanolo (o alcol etilico, quello che comunemente chiamiamo “alcol”) è una sostanza prodotta attraverso la fermentazione degli zuccheri e degli amidi da parte dei lieviti. Nelle birre è di solito presente in concentrazioni inferiori al 10 per cento, mentre nei vini può raggiungere il 20 per cento, percentuali più alte riguardano soprattutto i liquori e i distillati, dove la parte alcolica della bevanda può arrivare al 70 per cento. A parità di porzione, gli effetti a breve termine di una birra sono naturalmente diversi da quelli di un distillato, semplicemente perché si assume una quantità inferiore di alcol, ma i rischi per la salute sono presenti in entrambi i casi perché non c’è una soglia entro la quale il consumo di alcol è definibile “sicuro”.Quando beviamo un bicchiere di vino, una birra o un cocktail, l’alcol contenuto nella bevanda viene assorbito molto rapidamente dallo stomaco e dall’intestino tenue: si distribuisce nell’organismo e il compito di smaltirlo spetta in particolare al fegato, che trasforma l’etanolo in acetaldeide e successivamente in acido acetico. È un’attività intensa e il fegato può smaltire solo una certa quantità di alcol in un certo periodo di tempo: una persona adulta di medio peso (intorno ai 70 chilogrammi) riesce a smaltire circa 8 grammi di alcol all’ora. In un bicchiere di vino di media gradazione ci sono circa 10-12 grammi di etanolo, di conseguenza il tempo per smaltirlo per quella persona è di poco più di un’ora. Se si bevono più bicchieri o bevande con una gradazione alcolica più alta, il tempo per smaltire l’etanolo aumenta molto.Il lavoro molto intenso per il fegato può portare a infiammazioni e a un ispessimento dei tessuti, con la formazione di lesioni e cicatrici (cirrosi) che riducono in generale la capacità del fegato di svolgere le proprie funzioni molto importanti per il metabolismo. Il consumo di alcol riduce l’attività del sistema immunitario e può avere effetti sul sistema cardiocircolatorio. L’alcol deprime alcune attività dei neuroni ed è tossico per il sistema nervoso centrale, con riduzione delle capacità cognitive e danni che possono diventare permanenti. L’alcol è inoltre un fattore causale di circa 200 tra malattie e tipologie di infortuni.– Leggi anche: Come mai bere alcol di giorno sembra dare un effetto diversoCancro e alcolL’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Ciò non significa che se si consuma alcol allora ci si ammala sicuramente di cancro: la classificazione serve per indicare una sostanza che se assunta può aumentare il rischio di ammalarsi di un determinato tipo di tumore durante l’intera propria vita. Allo stesso modo non consumare alcol non dà la certezza di non ammalarsi di un determinato tumore, ma è un comportamento che espone a un rischio diverso.Nel suo uso corretto, come quello della IARC, la parola “cancerogeno” indica qualcosa che causa un certo tipo di cancro, in sostanza: una sostanza è cancerogena o non lo è. La classificazione dello IARC, che prevede vari gruppi, non indica quali sostanze sono “più” o “meno” cancerogene, ma semplicemente esprime quanto si è sicuri che una sostanza sia davvero cancerogena. Per le sostanze nel “Gruppo 1”, quello dell’alcol, la certezza è ormai consolidata, per quelle comprese nel “Gruppo 2A” il livello di certezza è minore e così via. Man mano che si accumulano nuovi studi e conoscenze le cose possono cambiare, con lo spostamento di alcune sostanze da un gruppo all’altro (difficilmente quelle comprese nel “Gruppo 1” saranno riclassificate, considerato il livello di certezza sui loro effetti).Ogni agente cancerogeno agisce in modo diverso e ciò determina anche gli effetti sull’organismo. Nel “Gruppo 1” oltre all’alcol ci sono gli insaccati e il fumo, per esempio, il cui consumo ha effetti diversi ed è l’eventuale causa di particolari tipi di tumore.Il consumo di alcol può causare almeno sette diversi tipi di cancro, anche nel caso in cui se ne assumano quantità minime. Le aree più interessate sono: bocca e gola, laringe, esofago, colon-retto, fegato e seno (nelle donne). Gli effetti su altri organi non sono necessariamente legati al cancro, ma sono stati accertati rischi e danni a carico di: cervello, cuore, polmoni, stomaco, pancreas, colecisti, reni, vescica e apparato riproduttivo.I rischi derivanti dal consumo di più sostanze cancerogene si possono sommare, come nel caso del bere sostanze alcoliche e del fumo. È stato rilevato che le persone che bevono e fumano hanno un rischio più alto di sviluppare tipi di cancro come quelli al cavo orale, alla laringe e all’esofago, rispetto alle persone che o fumano o consumano alcol.Il famoso bicchiere di vino rosso al giornoCome segnalano studi e istituzioni scientifiche, compresa l’OMS, il mito secondo il quale “un bicchiere di vino rosso al giorno fa bene al cuore” non ha prove scientifiche convincenti. Le ricerche che lo hanno ipotizzato si sono basate per lo più su esperienze osservazionali (dove i gruppi di ricerca si limitano a osservare i fenomeni) senza tenere in considerazione condizioni di salute preesistenti.Anche nel caso in cui ci fossero benefici, questi non sarebbero comunque tali da superare i danni che causa il consumo di alcol. Il consenso nella letteratura scientifica è che qualsiasi quantità di alcol consumata fa aumentare i rischi per la salute. «Il dibattito sui possibili e cosiddetti “effetti protettivi” dell’alcol distoglie l’attenzione dal più grande contesto dei danni causati dall’alcol; per esempio, anche se è ormai chiaro che l’alcol può causare il cancro, questo fatto non è ancora ampiamente noto alle persone nella maggior parte dei paesi», dice l’OMS.Un mondo di alcolTra molti c’è la percezione che la maggior parte delle persone consumi alcol, ma in realtà si stima che il 57 per cento della popolazione mondiale non lo faccia. Questa maggioranza è quasi sempre sottorappresentata, sia a causa delle massicce campagne pubblicitarie che invitano a bere, sia per la presenza degli alcolici in numerosi prodotti culturali (serie tv, film, libri, fumetti, per citarne alcuni). C’è anche una certa pressione sociale nei confronti di chi non beve alcol o vorrebbe provare a smettere, che spesso viene trascurata e sottostimata.– Leggi anche: Beviamo da un pezzoL’idea che un consumo moderato di alcol comporti pochi rischi deriva spesso dalle leggi, per esempio quelle che impongono un limite massimo di alcol nel sangue per poter guidare, o dalle pubblicità dei produttori di bevande alcoliche che ricordano di “bere responsabilmente”. Segnali e messaggi di questo tipo non mettono in evidenza i rischi per la salute, e soprattutto la loro esistenza a prescindere dalla quantità di alcol consumato.La legge in Irlanda con le indicazioni su rischi e danni causati dall’alcol è un primo tentativo nella direzione indicata dalle istituzioni sanitarie per rendere più consapevoli i consumatori di bevande alcoliche, in modo da fornire più elementi sui rischi e la pericolosità di alcuni comportamenti. Una ricerca condotta nello Yukon, nel nord-ovest del Canada, ha rilevato che l’aggiunta delle etichette di avvertimento ha fatto ridurre le vendite dei prodotti alcolici del 7 per cento rispetto alle aree del paese dove non sono impiegati gli avvertimenti sulle confezioni. Sull’efficacia di questo approccio mancano comunque studi più ampi e strutturati, benché ci siano dati più attendibili sugli effetti positivi che ha comportato l’introduzione delle etichette sui prodotti del tabacco in molti paesi.Alcol e altre drogheProprio perché ogni sostanza agisce diversamente sul nostro organismo, e in modo ancora diverso da persona a persona (siamo fatti tutti diversamente e ci comportiamo in modo diverso), è molto difficile stabilire quali droghe abbiano possibili effetti negativi per la salute più di altre. Uno studio che viene spesso citato risale al 2007 e fu pubblicato sulla rivista medica The Lancet, quando un gruppo di ricerca provò a stimare gli effetti negativi sia in termini di dipendenza sia di danno fisico di numerose sostanze che solitamente chiamiamo “droghe”, alcol compreso. Dallo studio era emerso che alcuni anabolizzanti, cannabis, LSD ed ecstasy possono avere effetti negativi inferiori rispetto all’alcol.Una valutazione sulla pericolosità relativa delle droghe effettuata nell’Unione Europea nel 2015 segnalò che in generale la sostanza più dannosa è l’alcol con un punteggio di 72 su 100 nella scala di pericolosità. L’alcol era prima dell’eroina (55) e del crack (50). Le altre 17 sostanze considerate avevano ottenuto un punteggio pari o inferiore a 38, cioè quello assegnato alla cocaina. Il punteggio del tabacco era superiore a quello della cannabis, e ancora minori erano i punteggi dell’MDMA e dell’LSD. È bene comunque ricordare che più le sostanze sono diverse più è difficile metterle a confronto e valutare i relativi fattori di rischio.CostiCosì come si tende a pensare che ci siano più consumatori di alcol che persone che si astengono, c’è anche una percezione alquanto diffusa sul fatto che i danni causati dall’alcol siano dovuti a un gruppo minoritario di forti bevitori. In realtà gli effetti negativi principali dell’alcol (cancro, infortuni e violenza) sono distribuiti ampiamente nella popolazione, anche tra chi consuma dosi relativamente basse di alcolici, come spiega l’Istituto superiore di sanità:Anche se i forti consumatori di alcol sono indubbiamente ad alto rischio di danni alcol-correlati, contribuiscono solo in minima parte al totale delle vittime di alcol ma rappresentano comunque per l’industria il target di consumatori dai quali deriva gran parte del profitto. Di conseguenza, anche la riduzione dei consumatori a rischio e dannosi non è un obiettivo realisticamente supportato o supportabile da un approccio mirato a trarre il massimo profitto dalla commercializzazione del prodotto. In questo “paradosso della prevenzione”, la maggior parte dei danni correlati all’alcol si verifica tra i consumatori di alcol a rischio da basso a moderato semplicemente perché sono più numerosi nella popolazione.ItaliaSecondo l’ultimo rapporto sul consumo di alcol realizzato nel 2020 dall’ISTAT con dati riferiti all’anno precedente, il 66,8 per cento della popolazione maggiore di 11 anni ha consumato almeno una bevanda alcolica all’anno. La quantità di consumatori di alcolici abituali (almeno una porzione al giorno) è pari al 20,2 per cento, in riduzione rispetto a dieci anni prima quando era il 27 per cento. La quota di persone che consumano occasionalmente alcol è invece passata dal 41,5 per cento del 2009 al 46,6 per cento del 2019.È stato calcolato che in media ogni giorno in Europa muoiono 800 persone per cause riconducibili al consumo di alcol. In Italia ogni giorno muoiono in media 48 persone a causa dell’alcol, circa 17mila ogni anno.***Il Telefono Verde Alcol (TVAl) 800 632000 è un servizio nazionale di ascolto per il contrasto al consumo rischioso e dannoso di bevande alcoliche, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 16. Il servizio è anonimo e gratuito sotto la responsabilità del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità. LEGGI TUTTO

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    Quanto è comune una gravidanza naturale dopo una fecondazione in vitro

    Una ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Human Reproduction ha provato a valutare quanto siano comuni le gravidanze naturali tra le donne che in precedenza avevano avuto un figlio con tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) – in particolare in vitro (FIV) – rilevando una frequenza maggiore rispetto al previsto. Lo studio ha stimato che un concepimento per via naturale possa avvenire in un caso su cinque dopo avere avuto un bambino con la PMA, ma ci sono comunque numerosi fattori da tenere in considerazione e che potrebbero avere condizionato le conclusioni della ricerca.Il lavoro è stato svolto presso l’University College of London, nel Regno Unito, ed è una revisione sistematica e una meta-analisi di ricerche svolte in precedenza per valutare le gravidanze successive a quelle ottenute con la FIV e altre tecniche. Una meta-analisi può essere considerata “uno studio di studi”, nel senso che si occupa di mettere insieme le conoscenze in un determinato ambito maturate nel tempo con più ricerche e di tirare le somme su cosa si è scoperto, utilizzando dati e metodi statistici per renderli comparabili. Le meta-analisi sono considerate tra i tipi di ricerche più affidabili, specialmente in ambito medico, ma possono avere comunque difetti dovuti soprattutto alla difficoltà di mettere insieme dati eterogenei ottenuti nel tempo con metodologie e pratiche diverse.Il gruppo di ricerca ha identificato nella letteratura scientifica 1.108 studi sull’argomento e li ha poi scremati, in base ai dati che offrivano e alla possibilità di essere confrontati tra loro. Alla fine della selezione sono rimasti 11 studi realizzati in varie parti del mondo e che nel complesso avevano interessato 5.180 donne. Le ricerche erano di «qualità moderata» e avevano seguito la storia clinica delle partecipanti da 2 a 15 anni dopo la gravidanza ottenuta con tecniche di fecondazione in vitro. Confrontando i dati è stato poi possibile calcolare l’incidenza di una gravidanza naturale dopo avere avuto un figlio con PMA in una donna su cinque.Annette Thwaites, una delle autrici dello studio, ha detto: «Ciò che abbiamo scoperto suggerisce che una gravidanza naturale dopo avere avuto un figlio con la FIV non sia un evento così raro. Ciò è in contrasto con le opinioni ampiamente diffuse – da parte delle donne e degli operatori sanitari – e con quelle comunemente espresse nei media, secondo le quali si tratta di un evento altamente improbabile».Non tutte le partecipanti ai vari studi avevano scelto la PMA a causa di problemi di infertilità, ma per altri motivi come essere in una relazione con una persona del proprio stesso sesso o l’essere single. Nell’analisi sono stati presi in considerazione vari altri fattori come l’età delle partecipanti, il periodo di tempo intercorso tra la gravidanza con PMA e la successiva gravidanza naturale e altre variabili. Derivare un dato unico e valido per tutte le persone non è comunque possibile, proprio a causa della grande quantità di variabili, che comprendono anche come è fatta ciascuna persona.Le tecniche di fecondazione in vitro negli ultimi anni sono migliorate sensibilmente, portando al successo in circa la metà dei casi nelle donne al di sotto dei 35 anni: nel 1995 il tasso di successo medio era intorno al 22 per cento, mentre nel 2003 era del 33 per cento. Due degli studi utilizzati dalla meta-analisi comprendono dati su partecipanti che avevano fatto ricorso alla PMA quasi 30 anni fa, una differenza tenuta in considerazione dal gruppo di ricerca.Secondo Thwaites: «Sapere ciò che è possibile potrebbe dare alle donne il controllo dei loro progetti familiari e aiutarle a prendere decisioni più consapevoli su successivi trattamenti per la fertilità o per la contraccezione». Immaginando di avere problemi di fertilità è infatti probabile che alcune donne scelgano di non utilizzare mezzi di contraccezione, ritenendo improbabile se non impossibile una nuova gravidanza per via naturale dopo averne avuta una con la PMA. Se confermata, la maggiore incidenza segnalata dalla ricerca potrebbe indurre il personale medico a suggerire maggiori cautele alle pazienti a seconda delle loro aspettative.Il gruppo di ricerca ricorda che lo studio è un primo passo nell’analisi di un ambito molto ampio e ancora poco studiato in questi termini, ma che proprio per questo merita di essere approfondito considerata la diffusione delle tecniche per la procreazione medicalmente assistita. LEGGI TUTTO