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    Le creme solari, spalmate bene

    Questa estate nei Paesi Bassi la crema solare sarà offerta gratuitamente alla popolazione, attraverso distributori collocati nei parchi cittadini, nelle aree sportive, intorno agli ospedali e in diversi altri luoghi pubblici. Vari comuni si sono organizzati nell’ambito di un’iniziativa per sensibilizzare sull’importanza del proteggersi dai raggi dannosi del Sole, che possono causare numerosi problemi di salute a cominciare dai tumori della pelle. I Paesi Bassi negli ultimi anni hanno rilevato un sensibile aumento dei casi di tumore riconducibili all’esposizione solare, come del resto vari altri paesi in Europa.– Ascolta anche: La puntata speciale di “Ci vuole una scienza” sulle creme solariL’impiego delle creme solari è consigliato dai dermatologi non solo perché permette di evitare le scottature, ma anche perché il loro uso corretto consente di ridurre sensibilmente il rischio di sviluppare un tumore della pelle. Il problema è che in pochi fanno un “uso corretto” delle protezioni solari, applicandone la giusta quantità e ripetendo le applicazioni più volte nel corso della giornata, come indicato sulle confezioni e soprattutto nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e di diverse altre istituzioni sanitarie.PelleLa pelle è la barriera più importante di protezione tra il nostro organismo e ciò che abbiamo intorno. Per tutta la vita è sottoposta a sollecitazioni fisiche e chimiche, compresa l’esposizione ai raggi solari che ne possono cambiare le caratteristiche, per esempio facendola disidratare e arrossare. Una eccessiva e prolungata esposizione ai raggi ultravioletti (UV), emessi dal Sole e che non vediamo a occhio nudo, è tra i fattori di rischio più importanti nell’insorgenza del melanoma e di altri tumori della pelle.UVA e UVBIn generale, la crema solare serve a ridurre la quantità di raggi ultravioletti che arrivano sulla nostra pelle. Gli UVB sono filtrati in buona parte dallo strato di ozono atmosferico, ma la quantità che arriva al suolo è comunque sufficiente per crearci qualche problema. Sono i principali responsabili delle scottature e anche per questo motivo sono quelli su cui ci si era concentrati più a lungo in passato, mentre emergevano ricerche e dati più chiari sugli effetti di un altro tipo di raggi ultravioletti: gli UVA.A differenza degli UVB, gli UVA hanno la capacità di penetrare in profondità nella pelle, stimolando la produzione di radicali liberi, atomi o molecole estremamente reattive che interagiscono con ciò che incontrano creando spesso danni. Possono per esempio deteriorare il collagene, una sostanza molto importante per la pelle, e accelerandone l’invecchiamento, oppure possono aumentare il rischio di tumore.Gli UVB sono di solito schermati dal vetro, per esempio dal parabrezza di un’automobile, mentre gli UVA no. Le creme solari moderne proteggono sia dagli UVA sia dagli UVB, ma è sempre opportuno controllare l’etichetta per accertarsi della protezione.AbbronzaturaLa pelle si scurisce al Sole come meccanismo di difesa per contrastare i raggi ultravioletti. Quando ci esponiamo alla luce solare si attivano i melanociti, cellule specializzate che producono melanina, una sostanza che si trova in vari tessuti del nostro organismo compresa la pelle.L’attivazione avviene sempre, anche in pieno inverno, ma la produzione di melanina aumenta quando ci si espone per lunghi periodi al Sole. È in questa circostanza che la pelle si scurisce e diventa abbronzata, ma la sua colorazione non è in alcun modo l’indicazione di essere “più in salute”: semplicemente, è il segno che l’organismo si è attivato per provare a proteggerci dai raggi solari. La capacità di protezione è però molto limitata e deriva da come si è fatti, cioè dal proprio fototipo.FototipoIl principale riferimento per determinare il fototipo fu elaborato a metà degli anni Settanta da Thomas B. Fitzpatrick della Harvard School of Medicine negli Stati Uniti. Formulò uno schema di classificazione per il colore della pelle umana in base alla risposta di diverse persone agli UV. Il sistema fu poi modificato e integrato una decina di anno dopo e raggruppa le persone in sei categorie: dal fototipo I in cui sono comprese le persone che si scottano e non si abbronzano, solitamente con capelli e occhi chiari, al fototipo VI in cui sono comprese le persone che non subiscono scottature e hanno la pelle più scura.IngredientiNell’Unione Europea le creme solari sono molto normate, pur essendo comprese nel grande gruppo dei cosmetici (che hanno regole diverse dai farmaci, per esempio). I filtri solari, cioè le molecole che hanno il compito di assorbire/riflettere gli UV, autorizzati per il commercio sono 28: ogni crema solare ha un componente di assorbimento e uno di riflessione, con proporzioni che variano a seconda dei prodotti e delle esigenze. Tra i componenti più diffusi c’è il biossido di titanio, che arriva a costituire un quarto del contenuto della crema solare, cui si aggiungono poi gli altri filtri: nel complesso le creme sono quindi molto concentrate, anche quando non è segnalato in etichetta (“concentrato” è uno di quei termini usati molto dal marketing).Fattore di protezione solare – SPFIl numero indicato sulle confezioni delle creme solari indica la capacità di proteggere la pelle dal Sole. Viene determinato sperimentalmente con test che vengono effettuati su una ventina di volontari, la cui schiena viene esposta a una lampada che emette raggi ultravioletti imitando quelli solari. Una parte della schiena rimane senza protezione mentre l’altra viene coperta dalla crema solare.La lampada è tarata per produrre una quantità di UV che porti a un eritema sulla pelle non protetta di ogni soggetto, poi si passa all’area con la crema solare aumentando via via la dose di raggi UV. Trascorse alcune ore, si valutano le differenze tra le varie aree e si calcola il rapporto fra la dose minima di UV necessaria per produrre un eritema sulla pelle protetta dalla crema e per la pelle senza protezione. Da questo calcolo deriva infine l’SPF, il numero che viene indicato sulle confezioni.(Getty Images)Per esempio: se serve una dose di UV cinquanta volte maggiore per far sviluppare l’eritema sulla pelle protetta dalla crema rispetto a quella non protetta, significa che la crema ha un SPF uguale a 50.La procedura viene effettuata per gli UVB, mentre per gli UVA il sistema è più complesso e rende necessario l’impiego di altri test. La sigla UVA-PF seguita da un numero indica il fattore di protezione per questi raggi ultravioletti, ma di solito sulle confezioni viene solo indicata la presenza della protezione UVB. I produttori possono metterlo sulle creme solo se l’UVA-PF nella crema è almeno un terzo dell’SPF, altrimenti non possono indicare nulla nell’etichetta.Quanto proteggono le creme solariUn SPF 10 lascia passare 1/10 degli UVB, di conseguenza ne ferma il 90 per cento, un SPF 20 lascia passare 1/20, quindi ne ferma il 95 per cento e così via. Questi sono i valori che si trovano solitamente sulle confezioni e la relativa percentuale di efficacia nel bloccare i raggi solari:SPF 10: 1/10 → 90%SPF 20: 1/20 → 95%SPF 30: 1/30 → 97%SPF 50: 1/50 → 98%SPF 100: 1/100 → 99%.Una protezione “totale” non esiste e nel caso dell’Unione Europea ai produttori viene consigliato di non usare numeri oltre l’indicazione “50+”, proprio per non indurre a pensare che con il numero di SPF più alto si abbia una protezione totale. In più occasioni si è anche discusso di eliminare l’indicazione numerica e di lasciarne una più generica che indichi protezione bassa, media, alta e molto alta, ma ci sono interessi (soprattutto commerciali) a mantenere l’indicazione numerica.Quanta crema solare si deve mettereIl numero di SPF dà la protezione corrispondente solo se la crema solare viene usata nel modo corretto, applicandone la giusta quantità e cioè 2 milligrammi ogni centimetro quadrato di pelle: utilizzandone meno si riduce notevolmente l’effetto protettivo. Servono più o meno 30 grammi di crema per tutto il corpo, circa un sesto di una normale confezione. Non è necessario essere precisi al decimo di grammo e per questo dermatologi e dermatologhe consigliano di abituarsi a usare l’equivalente della capacità di un cucchiaino di caffè (3 grammi) per viso e collo, altrettanto per ogni braccio e un cucchiaio da minestra (6 grammi) rispettivamente per ciascuna gamba, per la schiena, per il petto e per l’addome.Mettere metà della crema necessaria non fa semplicemente dimezzare il numero di SPF come credono in molti: la riduzione è pari alla radice quadrata del fattore di protezione di partenza. Un SPF 30 diventa quindi poco più di 5.(Olaf Kraak/Getty Images)Quando si mette la crema solareLa crema solare va applicata prima di esporsi al Sole, quindi è consigliabile spalmarsela prima di uscire all’aperto, per esempio per andare in spiaggia o in generale a fare una passeggiata. Ripetere l’applicazione periodicamente non serve solamente a ridurre il rischio di lasciare aree della pelle non protette, ma anche a ripristinare lo strato di crema che col passare delle ore tende a ridursi e rimuoversi.Ciò che dà protezione è infatti lo strato di crema solare stesso: funziona fino a quando è presente. Soprattutto d’estate, la sudorazione è una delle principali cause della sua rapida riduzione, così come qualsiasi altra azione meccanica sulla pelle, come infilarsi e sfilarsi degli abiti. Alcuni produttori indicano ancora sulle confezioni la capacità della crema di resistere all’acqua, ma dimostrarlo non è sempre semplice e per questo è consigliabile riapplicare la crema solare dopo un bagno. Anche l’azione dei granelli di sabbia può portare via parzialmente la protezione, comunque.E i vestiti?Esistono molti tessuti diversi tra loro e di conseguenza alcuni filtrano meglio di altri i raggi UV. Il denim dei jeans, per esempio, ha una buona capacità di bloccare i raggi ultravioletti, mentre tessuti più leggeri come il cotone delle magliette non fanno molto. Da qualche tempo si trovano comunque costumi da bagno, abiti da trekking e altri indumenti realizzati con tessuti tecnici con un alto fattore di protezione, solitamente indicato nell’etichetta. Questi prodotti devono essere lavati con attenzione e utilizzando detersivi specifici per ridurre l’usura dello strato che protegge dai raggi solari.Livello di abbronzaturaC’è la convinzione piuttosto diffusa che usando la crema solare “ci si abbronza di meno”. In realtà usando le creme solari ci si abbronza più lentamente, perché come abbiamo visto l’abbronzatura è un meccanismo di difesa della pelle: i filtri solari fanno parte di quel lavoro di protezione. Alla fine ci si abbronza ugualmente perché come abbiamo visto le creme solari non riescono a proteggere totalmente.Il livello di abbronzatura è comunque commisurato al proprio fototipo e in generale a come si è fatti. Arrivati al massimo possibile, non ci si abbronza ulteriormente. Non usare o usare poca crema solare mette sotto forte stress la pelle e può essere molto rischioso per la salute. LEGGI TUTTO

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    Gli Stati Uniti non lasciano in pace i limuli

    Negli Stati Uniti continuano a essere estratte grandi quantità di sangue blu dai limuli per effettuare test di sicurezza sui prodotti farmaceutici, nonostante sia disponibile ormai da tempo un’alternativa sintetica impiegata soprattutto in Europa. L’alta domanda del sangue dei limuli – che sono imparentati più con scorpioni, zecche e ragni che con i granchi – ha un forte impatto sulla popolazione di questi animali e sugli ecosistemi marini, anche perché la loro pesca non è sempre regolamentata a sufficienza.L’utilità del sangue dei granchi in ambito farmaceutico fu scoperta nella seconda metà degli anni Cinquanta dal ricercatore statunitense Frederik B. Bang, che spiegò come la sostanza fosse utile per immobilizzare i batteri, senza ucciderli. Nel sangue del limulo c’è infatti un composto chimico che rende possibile l’identificazione dei batteri: la sostanza si aggrega intorno a loro e crea una sorta di barriera, evitando che si formi una colonia batterica più grande. Per questo il composto viene solitamente indicato come “coagulogen” e negli anni è diventato sempre più importante per le aziende farmaceutiche, perché rende possibile l’identificazione di contaminazioni batteriche nelle sostanze che dovranno entrare in contatto con il nostro organismo, come per esempio un vaccino. Se nella soluzione da testare si forma un coaugulo dopo avere inserito il coagulogen, significa che questa è contaminata e che deve essere scartata.Gli Stati Uniti sono tradizionalmente tra i principali produttori di sangue blu, anche perché per molto tempo i limuli abbondavano lungo la costa orientale del paese, quella che dà sull’oceano Atlantico. Gli animali vengono raccolti a mano dalle spiagge, oppure pescati dai fondali utilizzando le reti. Dopo essere stati ammassati a centinaia, vengono trasportati agli impianti che si occupano di effettuare il prelievo del loro sangue. In ogni limulo viene inserito un lungo ago fino al suo cuore e viene avviata l’estrazione, con gli animali ancora vivi. La procedura porta a estrarre circa la metà del sangue in circolazione in ogni limulo.Al termine dell’estrazione, gli animali vengono restituiti ai pescatori, che hanno il compito di metterli nuovamente in mare. In altri casi, i limuli vengono venduti per essere uccisi e utilizzati come esche. Il tutto avviene nel contesto di una grande area grigia, perché molte regole adottate per tutelare gli animali in altri processi industriali non si applicano strettamente ai limuli. Vengono pescati, ma non per essere mangiati; sono impiegati per il settore farmaceutico, ma non negli iper regolamentati test clinici; sono sì animali, ma non a sangue caldo, di conseguenza non sono soggetti a molte leggi per la tutela dell’impiego degli animali in ambito sanitario.(Insider Business via YouTube)Secondo i dati raccolti da NPR, la radio pubblica statunitense, solo nel 2021 cinque aziende sulla costa orientale hanno estratto sangue blu da oltre 700mila limuli, il dato più alto registrato dal 2004 quando si è iniziato a tenere traccia delle attività intorno a questo animali. Si stima che il sangue estratto venga impiegato in media in 80 milioni di test effettuati in giro per il mondo. Il settore ha dunque continuato a espandersi, ma non è stato regolamentato e soprattutto non sono state introdotte iniziative per usare il metodo alternativo, che si ottiene attraverso processi di clonazione e senza disturbare i limuli.Un primo test alternativo fu reso disponibile nel 2003, ma la sua adozione era progredita molto a rilento anche in attesa di ricerche sulla sua affidabilità. Nel 2020 l’azienda farmaceutica statunitense Eli Lilly fu tra le prime ad adottarlo, in concomitanza con la pandemia da coronavirus e la necessità di verificare la sicurezza dei propri prodotti a base di anticorpi. La società dovette però richiedere una particolare autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale che tra le altre cose si occupa di farmaci, perché il test non era e non è ancora presente nella Farmacopea degli Stati Uniti, il codice farmaceutico contenente regole comuni per la qualità delle medicine.In Europa le cose erano andate diversamente perché già nell’estate del 2020 la Farmacopea europea aveva autorizzato e aggiunto il nuovo test, definendolo utile per avere un’alternativa e soprattutto per ridurre l’impatto sui limuli del prelievo di sangue blu, e in generale sugli ecosistemi marini. Un comitato di esperti dell’organizzazione omologa statunitense decise invece di non cambiare le cose, sostenendo che fossero necessari ulteriori approfondimenti. Due anni dopo il comitato fu sciolto, ma i membri di quello successivo non cambiarono orientamento e ancora oggi non ci sono notizie su una revisione delle regole per riconoscere in maniera più ampia e diffusa la sostanza alternativa al sangue blu dei limuli.Le aziende farmaceutiche hanno comunque margini per cambiare i metodi con cui svolgono i loro test, con le adeguate autorizzazioni come avvenuto nel 2020 con Eli Lilly. La grande azienda farmaceutica Roche ha iniziato a utilizzare la versione alternativa in alcuni processi di produzione e ha detto di volere estendere i test in altri ambiti, in modo da ridurre la dipendenza dal sangue blu. Molte altre società del settore preferiscono invece proseguire con il vecchio metodo, come dimostrato anche dall’aumento dei limuli coinvolti nei prelievi degli ultimi anni.A differenza del nostro, il loro sangue non è rosso ma quasi trasparente e assume una colorazione azzurro-blu appena entra in contatto con l’aria. Il fenomeno è dovuto all’ossidazione del rame presente nel loro sangue (nel nostro c’è il ferro, da qui il colore diverso). Dopo il prelievo vengono effettuati alcuni trattamenti per estrarre il coagulogen vero e proprio, che sarà poi utilizzato per i test. Non è chiaro quanto sia traumatico il prelievo per questi animali, che sembrano comunque riprendersi del tutto a pochi giorni di distanza dalla procedura. Alcune ricerche hanno indicato però che i prelievi rendono meno reattivi i limuli con evidenti conseguenze sulle loro capacità di riprodursi.Il sistema circolatorio dei limuli ricorda molto quello dei ragni ed è quindi diverso dal nostro. I limuli hanno ampie cavità che mettono direttamente in contatto il sangue con i tessuti, varchi ideali per i batteri che si trovano nella sabbia e che sono alla ricerca di un ospite da colonizzare. Il coagulogen evita che questo possa avvenire, incapsulando immediatamente i batteri formando il coagulo. Questa condizione ha permesso ai granchi di crescere in ambienti ricchi di batteri senza particolari problemi e di esistere da circa mezzo miliardo di anni.(AP Photo/Kathy Willens)Ora le loro popolazioni lungo la costa orientale degli Stati Uniti rischiano di ridursi sensibilmente, a quanto sembra non tanto per la pratica in sé dei prelievi, ma per il modo in cui i limuli vengono catturati sulle spiagge o rigettati in mare. Secondo documenti e registrazioni raccolte da NPR che riguardano le aziende che se ne occupano, gli operatori prendono i limuli soprattutto dalla coda, perché è più pratico e rapido, ma è sconsigliato perché può causare danni. Se si feriscono alla coda, questi animali sono più a rischio di non riuscire a girarsi, nel caso in cui si ribaltino trovandosi con le zampe all’aria. Il ribaltamento è una circostanza che si può verificare soprattutto quando le femmine si spostano dal fondale per deporre le loro uova.Maneggiarli in modo scorretto fa quindi aumentare il rischio che i limuli si riproducano di meno, peggiorando ulteriormente la situazione. I regolamenti su come trattarli sono decisi a livello statale, di conseguenza cambiano molto a seconda dei luoghi di raccolta così come cambiano le eventuali sanzioni nei confronti di chi non li rispetta.La minore disponibilità di limuli ha inoltre effetti sulle popolazioni di altri animali, come il piovanello maggiore (Calidris canutus, un uccello migratore diffuso in molte aree del mondo, ma che negli Stati Uniti è stato indicato come specie minacciata). Circa il 94 per cento di questi uccelli è scomparso negli ultimi 40 anni, in parte anche a causa della mancanza di quantità sufficienti di uova dei limuli, una importante fonte di energia per le loro migrazioni verso l’Artico.In una fase storica in cui si parla molto di sostenibilità e di impatto ambientale delle attività industriali, secondo i naturalisti sarebbe opportuno stimolare il dibattito anche intorno ai limuli e alle conseguenze del prelievo del loro sangue blu. L’alternativa altrettanto efficace per i test dovrebbe essere promossa soprattutto dalle istituzioni, in modo da indurre un cambiamento in un settore essenziale legato alla salute di tutti. LEGGI TUTTO

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    Come mai bere alcol di giorno sembra dare un effetto diverso

    Con l’inizio della stagione calda aumentano le probabilità di bere bevande alcoliche nelle ore centrali della giornata, tra un aperitivo anticipato e una birra per rinfrescarsi a pranzo o a metà pomeriggio. Chi lo fa segnala spesso di avere una sensazione diversa da quella del consumo di alcolici la sera, come se bere nelle ore diurne sortisse maggiori effetti e lasciasse più inebriati, se non proprio brilli. Non ci sono molte ricerche scientifiche per confermare o smentire questa impressione, ma ci sono comunque alcuni indizi che riguardano sia le nostre abitudini quando beviamo sia il modo in cui smaltiamo l’alcol, comunque dannoso per il nostro organismo.Che cosa ci fa l’alcolIn generale, l’ubriachezza deriva dall’effetto tossico dell’alcol (etanolo), per questo si parla spesso di “intossicazione da alcol” o “avvelenamento da alcol” per i casi gravi, nei quali la concentrazione di questa sostanza nel sangue diventa molto alta. Quando beviamo un bicchiere di vino, un cocktail o una birra, l’alcol contenuto nella bevanda viene rapidamente assorbito dallo stomaco e in seguito dall’intestino tenue, finendo con il distribuirsi nell’organismo. Il compito di smaltirlo spetta soprattutto al fegato che trasforma l’etanolo in acetaldeide e successivamente in acido acetico.È un lavoro molto intenso e il fegato riesce a smaltirne solo una certa quantità in un intervallo di tempo, pari a circa 8 grammi all’ora per una persona adulta di medio peso (intorno ai 70 chilogrammi). In un bicchiere di vino di media gradazione – quindi 12° – ci sono circa 10-12 grammi di etanolo, di conseguenza il tempo per smaltirlo nel nostro esempio è di poco più di un’ora, ma se si bevono più bicchieri o bevande con una gradazione alcolica più alta il tempo per smaltire l’etanolo aumenta molto.Oltre a far lavorare di più il fegato, circostanza che se si ripete spesso può portare a infiammazioni e malattie dell’organo come la cirrosi, l’alcol in generale fa aumentare il rischio di cancro. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti e solidi per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Nel medesimo gruppo ci sono anche l’amianto, il fumo e gli insaccati, per esempio.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” su vino e rischio tumoriIl senso di ebbrezza che si ha dopo una bevuta dipende soprattutto dagli effetti dell’alcol sul sistema nervoso centrale. La sua presenza comporta una depressione di alcune attività dei neuroni e ha un effetto rilassante e ansiolitico, accompagnato da una disinibizione del comportamento. Ci sono effetti a carico del sistema cardiocircolatorio, con un aumento del flusso sanguigno, una maggiore perdita di calore (si ha l’impressione di avere più caldo, ma in realtà la termoregolazione diventa meno efficiente, quindi d’inverno una grappa non “scalda”) e una maggiore attività cardiaca, a volte accompagnata da aritmie e pressione sanguigna più alta. Nel caso dei bevitori cronici, tutti questi effetti possono avere gravi conseguenze a lungo termine, determinando un forte peggioramento della salute.Cibo e alcolCome abbiamo visto, l’assorbimento dell’alcol avviene in particolare a livello dello stomaco. Se beviamo qualcosa di alcolico a stomaco vuoto, il senso di ebbrezza potrà arrivare prima perché il passaggio dell’etanolo attraverso le pareti dello stomaco e dell’intestino tenue sarà pressoché immediato. Le cose di solito cambiano nel caso in cui si abbia lo stomaco pieno: l’assorbimento dell’alcol avverrà comunque, ma richiederà più tempo perché questo viene diluito nel cibo che è stato ingerito e ridotto in poltiglia con la masticazione. L’ebbrezza arriverà più gradualmente e se ne noteranno meno gli effetti, almeno all’inizio e a seconda di cosa e quanto si sta bevendo.Molto dipende anche dal cibo ingerito: alcuni alimenti come i carboidrati facilitano questo rallentamento rispetto ad altri. L’effetto è inoltre altamente soggettivo, perché siamo fatti tutti diversamente e ci sono componenti congenite e legate alle abitudini che determinano quanto ciascuno di noi regge il consumo di alcol (che dà comunque assuefazione).Sera e giornoDi sera è più probabile che si beva a stomaco pieno, per esempio perché si sta cenando o si è da poco finito di mangiare. In questo caso il senso di ebbrezza si manifesta più lentamente e ci si sente di avere più controllo di sé di quanto avviene per una birra bevuta in giornata a varie ore di distanza dall’ultimo pasto.L’effetto arriva prima e tendiamo a notarlo di più perché di solito di giorno dobbiamo svolgere più attività che richiedono concentrazione, rispetto a quanto avviene quando si esce a bere nelle ore serali e notturne dove il principale obiettivo è trovare la via da percorrere a piedi per tornare a casa o un taxi (mettersi alla guida dopo avere bevuto è rischioso per sé e per gli altri, oltre a essere vietato sopra una certa concentrazione di alcol nel sangue).Inoltre di giorno nella stagione calda si suda e ci si disidrata velocemente. Sopra un certo livello di disidratazione, l’effetto dell’intossicazione da alcol è più forte e ha maggiori conseguenze sul sistema nervoso centrale. È anche per questo motivo che dopo avere bevuto qualche bicchiere quando fa caldo il senso di ebbrezza è maggiore ed è spesso accompagnato da sensazioni poco gradevoli, come stordimento, capogiri e una generale sensazione di affaticamento. La minore quantità di acqua fa sì che siano in circolazione pochi minerali con ulteriori conseguenze sulle normali funzioni dell’organismo. L’alcol ha un effetto diuretico che porta a perdere ancora più velocemente i fluidi.Al di là di queste variabili, non ci sono molti elementi scientifici per sostenere che il nostro organismo gestisca diversamente l’alcol tra il giorno e la notte. Se dopo avere bevuto qualche bicchiere di giorno si iniziano ad avere i segni tipici del dopo sbornia (hangover), come mal di testa e di stomaco che di solito emergono il mattino dopo la bevuta, è semplicemente perché si è iniziato a bere prima del solito e l’organismo ha già smaltito una parte dell’alcol con tutte le conseguenze del caso.Quando si beve molto la sera, il successivo senso di malessere viene in parte stemperato dal fatto di andare a dormire. Il distaccamento dalla coscienza e dalla volontà dura svariate ore nelle quali l’organismo continua a smaltire l’alcol senza che ce ne rendiamo conto, ma al risveglio faremo comunque i conti con le conseguenze della disidratazione e dello scarso riposo. Interferendo con le attività del sistema nervoso centrale, l’alcol modifica le fasi del sonno, causa una maggiore quantità di microrisvegli e rende più difficile il recupero che ci consente al mattino di non sentire più la stanchezza.Tra l’ultimo bicchiere e il momento in cui si va a dormire viene di solito consigliato di attendere tra le tre e le quattro ore, ricordandosi di bere molta acqua nel frattempo o di fare un pasto. Il consiglio di bere acqua vale anche nel corso della giornata, evitando di provare a togliersi la sete con le bevande alcoliche.***Il Telefono Verde Alcol (TVAl) 800 632000 è un servizio nazionale di ascolto per il contrasto al consumo rischioso e dannoso di bevande alcoliche, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 16. Il servizio è anonimo e gratuito sotto la responsabilità del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità. LEGGI TUTTO

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    Non riuscire a capire i colori

    Una ciliegia rossa. Per la maggior parte delle persone sono sufficienti poche parole per immaginare un frutto con una particolare forma e soprattutto con un colore specifico, quello che del resto associamo nel nostro immaginario alle ciliegie mature al punto giusto. Eppure ci sono persone che a causa dei loro problemi di visione non sanno che cosa sia il rosso, o qualsiasi altro colore. Hanno una rara condizione che si chiama “agnosia per il colore” e non riguarda problemi di percezione o il daltonismo, ma è piuttosto una incapacità di capire il colore.Studiare queste persone è importante non solo per provare ad alleviare i loro problemi, ma anche per capire meglio come funziona il nostro cervello, come distingue i colori e come organizza le informazioni che derivano dalla loro presenza per dare un senso a ciò che abbiamo intorno.L’agnosia per il colore è nota da tempo, ma ha ricevuto particolari attenzioni negli ultimi vent’anni soprattutto grazie a un paziente chiamato MAH dai ricercatori per tutelarne la privacy. È una delle pochissime persone che a quanto pare ha ereditato questo condizione, invece di svilupparla in seguito a un evento traumatico come un ictus. Solitamente sono infatti episodi di questo tipo a danneggiare le aree del cervello deputate alla visione, che smettono di funzionare come dovrebbero, mentre è estremamente raro che l’agnosia per il colore sia trasmessa per linea familiare.La storia di MAH è particolare. Aveva una quarantina di anni quando ebbe un ictus, che non gli lasciò particolari conseguenze. Aderì a un programma di riabilitazione e fu in quell’occasione che i neurologi che lo seguivano notarono qualcosa di strano quando si trattava di sottoporlo ai test che riguardavano i colori. Era restio a svolgere prove sul riconoscimento di un colore dall’altro e si sbagliava spesso. Inizialmente i medici avevano pensato che quelle stranezze fossero dovute all’ictus: MAH però aveva poi confidato di avere da sempre problemi con i colori.MAH riusciva a vederli normalmente tutti, non era daltonico quindi, e riusciva a svolgere vari test, come quelli in cui si devono raggruppare oggetti dello stesso colore. Se però gli veniva chiesto di ordinare in una certa sequenza degli oggetti colorati, non riusciva a superare il test. Non era in grado di associare il concetto di rosso a un oggetto rosso e nemmeno di immaginare il colore di oggetti a lui familiari, come quello della sua automobile. Se gli veniva mostrato il disegno di un frutto di un colore diverso da quello che avrebbe dovuto avere non notava nulla di strano.Gli esiti dei test avevano lasciato perplessi i medici: la spiegazione più logica era che MAH avesse subìto un danno cerebrale, ma dagli esami non erano emersi elementi per ritenerlo. Lo stesso MAH, oltre a confermare di avere avuto sempre quella condizione, aveva spiegato che anche sua madre soffriva di agnosia per il colore, e così anche la sua figlia più grande. Era il primo caso osservato di agnosia per il colore di tipo familiare, o “dello sviluppo” come sarebbe stata in seguito definita dai gruppi di ricerca.Come racconta all’Atlantic, il neuroscienziato J. Peter Burbach ha trascorso gli ultimi anni alla ricerca di altre persone con la medesima condizione, cercando di distinguerle da quelle che hanno invece sviluppato l’agnosia per il colore in seguito a un evento traumatico. Burbach dice che finora è stato «un compito pressoché impossibile». È impensabile che la famiglia di MAH sia l’unica, ma trovare altre persone non è semplice perché chi è nato con quella condizione vive una normalità diversa e non è detto che ne abbia consapevolezza. Anche per questo motivo è difficile fare una diagnosi, che avviene solo nel caso in cui un medico insista mentre sta conducendo la visita per altri problemi neurologici più evidenti.L’agnosia per il colore non deve essere confusa con l’acromatopsia cerebrale, altra condizione che porta chi ne soffre a vedere il mondo sostanzialmente in tonalità di grigio a causa dell’incapacità del cervello di elaborare correttamente i colori. Non dipende insomma da parti del sistema visivo come occhi e nervo ottico, che inviano correttamente i segnali sulla presenza del colore al cervello.Le condizioni neurologiche intorno ai colori sono del resto numerose e non sempre semplici da distinguere e diagnosticare. Un altro tipo di disturbo impedisce per esempio alle persone di dare un nome al colore che vedono, ma non gli impedisce di indicarne uno richiesto tra una serie di opzioni disponibili.Marlene Behrmann, una ricercatrice che si occupa di visione all’Università di Pittsburgh (Stati Uniti) ha detto sempre all’Atlantic che le persone con agnosia per il colore riescono a percepire il rosso o il verde, per esempio, ma «hanno in un certo senso perso il concetto stesso di colore». Non riescono a costruire e mantenere nella loro mente l’idea di un determinato colore e per questo non trovano particolarmente strano il disegno di una ciliegia viola.Trovare altre persone con una forma di agnosia per il colore come quella di MAH potrebbe aiutare i gruppi di ricerca a portare avanti le conoscenze sulla visione in generale, un meccanismo altamente complesso. Il confronto tra queste persone e il resto della popolazione vedente potrebbe inoltre offrire spunti importanti per comprendere in generale come vediamo e interpretiamo le cose che abbiamo intorno.Un maggior numero di persone con la forma di agnosia per il colore che ha MAH consentirebbe inoltre di effettuare studi genetici alla ricerca delle mutazioni che lo determinano. Il gene o i geni interessati potrebbero influenzare altri meccanismi legati allo sviluppo cerebrale, tali da offrire nuove opportunità di studio. La ricerca non è semplice, ma i ricercatori confidano che facendo conoscere più diffusamente questa condizione alcune persone interessate si sentano incentivate a mettersi in contatto con loro. LEGGI TUTTO

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    In Irlanda le etichette degli alcolici dovranno indicare i rischi per la salute

    Il ministro della Salute dell’Irlanda, Stephen Donnelly, ha firmato oggi una discussa legge che renderà obbligatoria l’indicazione sulle etichette degli alcolici di varie informazioni sulla salute, dalle calorie per ogni porzione al rischio di sviluppare tumori e altre malattie. I produttori di alcolici avranno tre anni per mettersi in regola, modificando le etichette dei loro prodotti. La firma della legge era attesa da tempo, considerato che il governo irlandese aveva annunciato le nuove regole mesi fa, ricevendo critiche soprattuto dai grandi produttori di vino, birra e altre bevande alcoliche.La nuova legge è la prima di questo genere a richiedere indicazioni così dettagliate e avvisi sulla salute, come avviene già da tempo per le sigarette. Per questo motivo l’Irlanda aveva prima chiesto un parere alla Commissione Europea e all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), in modo da non rischiare sanzioni o di dover correggere alcune parti del nuovo provvedimento una volta entrato in vigore.In un comunicato, Donnelly ha detto che l’Irlanda «è il primo paese al mondo a introdurre indicazioni sulle etichette legate alla salute sui prodotti alcolici» e che confida ci possano essere «altri paesi che seguiranno il nostro esempio». Al momento nessun altro paese europeo ha comunque annunciato iniziative simili, anche perché alcuni paesi come Italia e Spagna avevano protestato per la scelta dell’Irlanda rivolgendosi alla Commissione Europea. Diversi esponenti del governo italiano avevano criticato duramente l’Irlanda e sostenuto che una legge di questo tipo avrebbe penalizzato le esportazioni di vino.Entro il 22 maggio 2026, tutti i produttori di alcolici dovranno indicare sulle etichette di ogni bottiglia e lattina l’apporto calorico dei loro prodotti, accompagnato da avvisi sul rischio di cancro derivante dal consumo di alcol e di altre malattie, come per esempio quelle legate al fegato. Le indicazioni dovranno essere riportate anche ai banconi dei bar e dei pub che somministrano birra alla spina e altre bevande alcoliche.Drinks Ireland, uno dei più grandi gruppi d’interesse in Irlanda legato alla produzione e alla vendita delle bibite alcoliche, ha criticato la legge dicendo che potrebbe indurre alcuni produttori di vino a non esportare più i loro prodotti in Irlanda, per evitare di dover utilizzare etichette diverse da quelle impiegate nel resto del mondo. Secondo l’organizzazione la scelta per i consumatori si potrebbe quindi ridurre, ma è ancora presto per capire come si regoleranno i produttori europei in un mercato comunque molto importante come quello irlandese.Altri gruppi di interesse nei mesi scorsi avevano detto di essere contrari alla nuova legge perché non ci sono elementi per sostenere che il consumo di vino e altri alcolici faccia aumentare il rischio di ammalarsi di cancro. In realtà la questione è stata studiata per decenni e – sulla base delle numerose ricerche scientifiche svolte – l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti e solidi per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Nel medesimo gruppo ci sono anche l’amianto, il fumo e gli insaccati, per esempio.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” su vino e rischio tumoriLe sostanze negli altri gruppi non sono necessariamente meno rischiose per la nostra salute, ma semplicemente si trovano in classi più basse di rischio perché non ci sono ancora studi convincenti come per quelli del Gruppo 1 (e potrebbero non esserci mai). Una sostanza è cancerogena oppure non lo è: la parola stessa “cancerogeno” indica qualcosa che fa aumentare il rischio di insorgenza di un certo tipo di tumore. Ogni cancerogeno agisce in modo diverso su un rischio che varia a seconda del tipo di tumore e che dipende da come si è fatti e dal proprio stile di vita.Nell’Unione Europea si parla da tempo della possibilità di introdurre etichette che mettano meglio in evidenza i rischi per la salute legati al consumo di determinate sostanze, un po’ come si fa già con il fumo. Per questo nei mesi scorsi alcuni paesi avevano chiesto all’Irlanda di attendere che fossero introdotte regole comuni, che potrebbero però escludere alcune indicazioni come i rischi legati ai tumori. Si è per esempio parlato della possibilità di inserire nelle etichette rimandi ai siti web dei produttori, con indicazioni più dettagliate, ma che secondo i detrattori sarebbero meno efficaci nel segnalare la presenza dei rischi. LEGGI TUTTO

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    Il mito dei diecimila passi al giorno

    È probabile che le smartphone sul quale state leggendo questo articolo stia diligentemente prendendo nota del numero di passi che state facendo oggi, in modo da scoprire se a fine giornata abbiate raggiunto i diecimila, l’obiettivo su cui sono tarati praticamente tutti i pedometri e gli altri dispositivi che tengono traccia della propria attività fisica. È un traguardo talmente noto e promosso da applicazioni, tracker per il fitness e pubblicità da essere diventato per molte persone il metodo principale per distinguere le giornate in cui si è fatto qualcosa per la propria salute da quelle in cui si è stati indolenti e sedentari. Eppure lo standard dei diecimila passi non ha solide basi scientifiche e nacque molti anni fa più per ragioni di marketing che altro.La storia del contapassi ha origini incerte e ancora oggi dibattute, ma la sua invenzione viene spesso fatta risalire all’orologiaio svizzero Abraham-Louis Perrelet, il quale nel 1777 aveva perfezionato un primo meccanismo per la carica automatica degli orologi portatili che sfruttava i movimenti di chi li indossava. Partendo da quel sistema, tre anni dopo Perrelet aveva inventato un pedometro basato su alcuni principi di funzionamento dei suoi orologi e che consentiva di contare il numero di passi e di calcolare la distanza percorsa.Perrelet aveva probabilmente elaborato la propria idea basandosi su invenzioni e prototipi realizzati in passato, se si considera che già un secolo prima era stata segnalata l’esistenza di strumenti per misurare i passi e che già Leonardo da Vinci nel sedicesimo secolo aveva ipotizzato la costruzione di un pedometro a scopo militare (Leonardo aveva progettato anche un odometro, per misurare le distanze).Sarebbero stati però necessari circa due secoli dall’invenzione di Perrelet e alcuni intraprendenti giapponesi per rendere popolari i pedometri, la camminata come attività per tenersi in forma e l’obiettivo dei diecimila passi. Iniziò tutto un anno prima delle Olimpiadi di Tokyo del 1964, quando l’attenzione verso lo sport era crescente tra i giapponesi e l’eminente medico Iwao Ohya aveva iniziato a mettere in dubbio le abitudini di vita dei suoi connazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale il settore terziario in Giappone si era rapidamente espanso e molte persone avevano iniziato a condurre una vita sedentaria, con molte ore passate alle scrivanie dei loro uffici.Stava per iniziare l’evento sportivo più conosciuto al mondo e Ohya riteneva che si dovesse fare qualcosa per spingere i giapponesi a muoversi di più per tenersi in salute. Si mise in contatto con Juri Kato dell’azienda produttrice di orologi Yamasa Tokei Keiki, proponendogli di costruire un pedometro impostato per contare diecimila passi al giorno. Non è chiaro perché avesse scelto proprio quell’obiettivo, ma dalle ricostruzioni sembra che fosse stata una scelta piuttosto arbitraria e legata alla necessità di proporre un numero tondo, facile da ricordare e ragionevolmente raggiungibile in una giornata.Una delle prime pubblicità del Manpo-kei (Yamasa Tokei Keiki)Juri Kato lavorò un paio di anni realizzando infine un pedometro meccanico, il Manpo-kei, nome traducibile dal giapponese come “contatore di diecimila passi”. Fu messo in vendita con una vasta campagna pubblicitaria, che metteva bene in evidenza la possibilità di contare i passi e soprattutto di assicurarsi che fossero almeno diecimila. In Giappone nacquero associazioni per promuovere l’importanza della camminata come attività sportiva accessibile a buona parte della popolazione, senza particolari distinzioni legate alle condizioni fisiche e all’età. Tra le strade di Tokyo e delle altre città giapponesi diventava sempre più frequente osservare persone con il Manpo-kei per tenere traccia dei loro passi.Nei decenni successivi furono messe in vendita versioni alternative e imitazioni di quel pedometro non solo in Giappone, ma in vari altri paesi occidentali, dove iniziava ad affermarsi la moda dei 10mila passi. La miniaturizzazione dei componenti elettronici e la progressiva diffusione dei dispositivi digitali portò i contapassi a essere sempre più diffusi, sia come singoli gadget elettronici sia all’interno di lettori MP3, poi dei cellulari e infine degli smartphone e dei tracker.Mentre i primi pedometri meccanici utilizzavano un piccolo pendolo o una piccola sfera di metallo per rilevare il movimento e far scattare un contatore, gli attuali dispositivi elettronici impiegano sistemi microelettromeccanici (MEMS), che mettono insieme sensori di vario tipo per rilevare il movimento. Sono solitamente più affidabili, anche grazie agli algoritmi che utilizzano i dati rilevati dai MEMS per valutare se sia stato effettivamente compiuto un passo o un altro movimento del corpo. Grazie agli accelerometri e ad altri sensori, per esempio, gli smartphone possono ricostruire la loro posizione nello spazio (se sono messi in tasca rivolti verso l’alto o verso il basso per esempio), utilizzando queste informazioni per calcolare correttamente i passi, con un margine di errore relativamente basso.Tra dispositivi e applicazioni l’assortimento è ormai molto ampio, ma una costante è rimasta: sono quasi tutti impostati con l’obiettivo dei diecimila passi giornalieri, pari a circa 7 chilometri.Un pedometro offerto dalla catena di fast food McDonald’s nell’ambito di un’iniziativa di marketing nel 2004 (Getty Images)Diecimila è un numero tondo e chiaro, facile da comunicare e ricordare, ma come mostra la storia del pedometro moderno non è sostenuto da particolari basi scientifiche. Camminare fa sicuramente bene ed è un’attività fisica a basso impatto per l’organismo, ma ogni persona è fatta diversamente e le sue condizioni di salute variano nel tempo a causa dell’invecchiamento e di altri fattori, di conseguenza non può esserci un numero di passi “salutare” uguale per tutti.Alcuni gruppi di ricerca hanno comunque messo alla prova la teoria dei diecimila passi, per vedere se porti effettivamente a qualche beneficio. Uno studio pubblicato nel 2019, per esempio, ha preso in considerazione 16.741 volontarie con un’età compresa tra 62 e 101 anni che tra il 2011 e il 2015 avevano utilizzato un pedometro per calcolare il numero di passi compiuti ogni giorno. Dall’analisi dei dati è emerso che le donne più sedentarie non superavano i 2.700 passi al giorno e che per le volontarie con una media di 4.400 passi giornalieri era stimabile una riduzione della mortalità pari al 41 per cento. La riduzione continuava a progredire all’aumentare dei passi giornalieri per poi stabilizzarsi intorno alla media di 7.500 passi al giorno. Oltre questo numero i benefici non erano sostanzialmente apprezzabili, secondo la ricerca a indicazione del fatto che basta camminare meno rispetto al diffusissimo obiettivo dei diecimila passi per ottenere comunque benefici.Lo studio aveva però preso in considerazione solamente la mortalità, trascurando altri fattori importanti, ma più difficili da stimare come la qualità della vita, le capacità cognitive e il mantenimento di particolari condizioni fisiche.Un’altra ricerca pubblicata nel 2020 aveva invece coinvolto 5mila persone, arrivando a conclusioni simili sul fatto che diecimila passi non influiscano sulla longevità. Dallo studio era emerso che per le persone che facevano 8mila passi al giorno il rischio di morte prematura era circa la metà rispetto a chi non ne faceva più di 4mila. Anche in questo caso non erano stati rilevati benefici statisticamente rilevanti nel fare più passi oltre gli 8mila giornalieri. Risultati simili erano stati ottenuti da un altro studio pubblicato nel 2021.– Ascolta anche: La scienza dei diecimila passi raccontata da “Ci vuole una scienza”Le ricerche effettuate negli anni hanno poi segnalato come siano poche le persone che fanno diligentemente almeno diecimila passi ogni giorno, seguendo per esempio le indicazioni dei loro dispositivi per contare i passi. Uno studio svolto in Belgio e spesso citato era consistito nel fornire pedometri ad alcune centinaia di volontari, incentivandoli a effettuare almeno diecimila passi al giorno per un anno. Tra le circa 660 persone che arrivarono alla fine della sperimentazione, solo l’8 per cento raggiunse l’obiettivo. A quattro anni di distanza, praticamente nessuno dei partecipanti allo studio aveva mantenuto l’abitudine di camminare a lungo nella giornata, tornando alla propria media personale prima dell’esperimento.Secondo gli esperti e le principali istituzioni sanitarie, camminare è una delle attività fisiche più semplici ed efficaci per mantenersi in forma. In generale, il consiglio è di dedicare all’attività fisica circa due ore e mezza ogni settimana, come extra rispetto a quella che eventualmente già si fa per lavorare o nel quotidiano. Considerando una media di circa cinquemila passi effettuati nel corso di una giornata, l’aggiunta di due-tremila passi equivalenti a una breve camminata può essere un obiettivo realistico per la maggior parte delle persone e fa raggiungere la quantità di passi segnalata negli ultimi anni dalle ricerche che hanno messo in dubbio il mito dei diecimila passi. LEGGI TUTTO

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    Sappiamo ancora poco degli effetti dei tatuaggi sulla salute

    Caricamento playerIn Italia oltre 7 milioni di persone hanno almeno un tatuaggio e la pratica di decorarsi la pelle con scritte e disegni permanenti è sempre più seguita in molte aree del mondo. Nonostante i tatuaggi siano tra gli interventi più praticati di modificazione del corpo, a oggi non ci sono molti dati chiari sui loro effetti sulla salute, sul perché alcune volte sbiadiscano e soprattutto su cosa determini la loro presenza per il nostro sistema immunitario, che è fatto per distruggere ciò che di estraneo si intrufola nell’organismo.La forma più conosciuta e diffusa per tatuarsi è quella “ad ago”, dove l’inchiostro viene introdotto nella pelle con un ago che pratica tante minuscole punture. È una tecnica diffusa da millenni e che nel suo principio di base non è sostanzialmente cambiata se non per l’attenzione all’igiene. Una volta introdotte nella pelle a qualche millimetro di profondità, le molecole di inchiostro rimangono intrappolate tra le cellule dove rimarranno per sempre, costituendo ciò che rende visibile il tatuaggio. L’inchiostro è però una sostanza estranea e la sua presenza determina una reazione da parte del sistema immunitario, che vorrebbe liberarsene. Come e perché non ci riesca è oggetto di dibattito da tempo, ma negli ultimi anni alcune ricerche hanno portato nuovi dati e valutazioni, come ha raccontato di recente Katherine J. Wu sull’Atlantic.Un gruppo di ricerca internazionale ha per esempio studiato la presenza di particolari sostanze, come lo zinco e il cobalto, nei pigmenti utilizzati per gli inchiostri dei tatuaggi. Quando finiscono nella pelle, determinano una reazione da parte dei macrofagi, le cellule del sistema immunitario che hanno il compito di inglobare e poi distruggere i patogeni (come virus e batteri) e più in generale di fare pulizia. I macrofagi provano a fare altrettanto anche con le molecole di inchiostro, ma queste sono troppo grandi per loro e non riescono a digerirle.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” sui tatuaggiIl periodo di vita di un macrofago può variare a seconda delle circostanze, ma in media non va oltre qualche giorno o settimana. Quando la cellula immunitaria muore, l’inchiostro che era riuscita a catturare torna libero e diventa preda di un nuovo macrofago, che a sua volta tenterà invano di distruggere quelle strane molecole. Alla sua morte ne subentrerà un altro e così via, potenzialmente per tutta la vita, anche se non è chiaro se dopo un certo periodo subentri un certo adattamento alla situazione.Questo processo potrebbe essere una delle cause per cui con il passare del tempo i contorni dei tatuaggi diventano meno netti, con le scritte e i disegni che appaiono quasi sfumati. I nuovi macrofagi nelle vicinanze, che ereditano dai loro predecessori il compito di occuparsi del problema, spostano lievemente le molecole dei pigmenti, che quindi cambiano di qualche frazione di millimetro la loro posizione. Il cambiamento dei tatuaggi nel tempo è probabilmente dovuto ad altri fattori aggiuntivi, per esempio al modificarsi delle cellule della pelle, che invecchiando tendono a essere meno toniche e a cedere a causa dell’effetto della gravità.Altre ricerche hanno invece evidenziato come minuscole parti dei tatuaggi possano essere trasportate dalle cellule immunitarie verso i linfonodi, strutture molto importanti per il sistema immunitario. Nelle persone molto tatuate è stata osservata una colorazione di alcuni dei loro linfonodi, si sospetta proprio a causa della migrazione dei pigmenti. Anche in questo caso gli studi sono per ora parziali e non ci sono elementi per valutare gli eventuali effetti sulla salute di questo spostamento.La difficoltà nell’avere elementi chiari dipende da una condizione piuttosto comune in medicina: siamo sostanzialmente tutti diversi e reagiamo in modo diverso a molte delle sostanze con cui entriamo in contatto e a cui siamo esposti. Nelle ore e nei primi giorni dopo un tatuaggio alcune persone avvertono un lieve fastidio, mentre altre sviluppano irritazioni della pelle più importanti, che tendono comunque a risolversi con il tempo. Queste derivano dalle sollecitazioni meccaniche dell’ago sulla pelle e da una risposta del sistema immunitario, che porta i tessuti a infiammarsi in modo da renderli meno ospitali per agenti che potrebbero infettarli, come i batteri.Le infezioni per lo più batteriche interessano fino al 6 per cento circa delle persone che si sottopongono ai tatuaggi (le stime variano molto) e di solito possono essere risolte applicando creme antibiotiche, o altri farmaci su indicazione del medico. Le complicazioni sono più rare rispetto a un tempo soprattutto grazie al miglioramento delle tecnologie utilizzate e a una maggiore attenzione all’impiego di materiale sterile. La reazione dei primi giorni al tatuaggio lascia poi spazio a una condizione che sembra essere costante, ma di minore entità, legata all’attività dei macrofagi e di altre cellule immunitarie.Alcuni studi hanno riscontrato che le persone che si tatuano di frequente tendono ad avere livelli più alti di anticorpi e altre sostanze del sistema immunitario, rispetto alle persone che si tatuano meno. Un’ipotesi è che a ogni tatuaggio l’organismo sia stimolato ad aumentare l’attività immunitaria, ma non si può invece escludere che la correlazione sia inversa, e cioè che le persone con un sistema immunitario più attivo tendano a tatuarsi più spesso perché non avvertono gli effetti meno piacevoli, come i giorni di infiammazione e prurito del tratto di pelle interessato.Non è inoltre chiaro se la costante sollecitazione dovuta alla presenza dell’inchiostro distolga parti del sistema immunitario da altre attività. Una ricerca segnalata da Wu e pubblicata lo scorso anno aveva segnalato che i pigmenti dei tatuaggi potrebbero interferire su alcune proteine, che i macrofagi utilizzano per comunicare con altre cellule, che di conseguenza sarebbero meno preparate ad affrontare eventuali minacce. Il sistema immunitario è però estremamente complesso e articolato, può aumentare enormemente le proprie capacità nel caso in cui sia necessario un intervento massiccio, di conseguenza sembra improbabile che altri patogeni o processi pericolosi possano sfuggirgli, mentre una sua parte è alle prese coi tatuaggi.Considerate le grandi incertezze e le difficoltà nel condurre studi che devono durare anni, gli inchiostri per i tatuaggi sono altamente normati e sottoposti a numerosi principi di precauzione. Nel 2015, per esempio, la Commissione Europea chiese all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) una valutazione dei rischi per la salute delle sostanze chimiche contenute negli inchiostri per i tatuaggi e in quello che viene definito “trucco permanente”, che è comunque un tatuaggio. Dopo circa cinque anni di lavoro, nel luglio del 2020 l’ECHA propose alla Commissione alcune limitazioni dei prodotti fino ad allora impiegati. Sulla base di quelle indicazioni, la Commissione aveva poi definito nuove regole entrate in vigore all’inizio del 2022.I tecnici dell’ECHA avevano valutato alcune sostanze in maniera esclusivamente qualitativa, senza indicarne una dose massima considerata la mancanza di soglie di sicurezza per quelle sostanze. Tra queste ne erano comprese di note per essere cancerogene e per causare mutazioni del materiale genetico, oppure per contenere tracce di piombo. Le analisi semi-quantitative avevano invece interessato diverse altre sostanze per le quali erano disponibili dati tossicologici. Infine, l’ECHA aveva condotto analisi sull’esposizione, perché non tutti i tatuaggi sono uguali e l’esposizione a certe sostanze varia a seconda della loro grandezza.Le limitazioni alla fine avevano interessato circa 4mila sostanze, tra le proteste di molti operatori del settore. L’entrata in vigore delle nuove regole li aveva costretti a gettare parte delle loro scorte di inchiostri, non più utilizzabili, ad avere difficoltà nel reperire quelli nuovi perché i produttori dovevano cambiare le formulazioni e a imparare a lavorare con inchiostri di nuovo tipo, quindi con rese e caratteristiche diverse dalle precedenti anche in merito alla loro pigmentazione.Come in molte altre circostanze, l’ECHA ha mantenuto un approccio di precauzione, in attesa che nuove ricerche offrano elementi più solidi su alcune sostanze sulle quali ha imposto limitazioni, che in futuro potrebbero rivelarsi non necessarie oppure molto importanti. L’attenzione in questi anni si è concentrata soprattutto sui rischi legati ai tumori, ma come ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a oggi è impossibile dire se le persone tatuate abbiano un rischio più alto di sviluppare un tumore.L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), che fa parte dell’OMS, ha avviato alcuni importanti studi epidemiologici sui tatuaggi. Le analisi richiederanno però decenni per essere svolte, proprio per poter osservare eventuali effetti dei tatuaggi nel lungo periodo, e non saranno quindi disponibili ancora per molto tempo. Per questo motivo prevale il principio di precauzione con alcune sostanze, già osservate e studiate in altri ambiti legati alla valutazione del rischio in ambito tumorale.Come per tutte le altre cose che comportano una modifica al nostro organismo, molto temporanea come l’assunzione di un determinato farmaco o nel lungo periodo come nel caso di una protesi o di un tatuaggio permanente, è importante che la persona coinvolta sia informata e consapevole degli eventuali rischi. Oltre ad assicurarsi delle condizioni igieniche delle strumentazioni con cui si verrà tatuati, può essere utile informarsi sui tipi di inchiostri che saranno utilizzati e che devono riportare la lista delle sostanze che li compongono.Nel caso dell’Unione Europea, per essere venduti e utilizzati gli inchiostri devono essere in regola con le normative più recenti. Sulle confezioni devono essere riportate indicazioni come «Preparazione per l’impiego nei tatuaggi e nel trucco permanente» e deve essere riportato un lotto di produzione, che consenta di risalire al produttore e al momento in cui è avvenuta la sua preparazione. Gli inchiostri che non osservano le indicazioni UE devono contenere l’esplicita indicazione: «Non utilizzabile nell’Unione Europea».Per le persone tatuate da tempo è quasi sempre impossibile sapere quali sostanze fossero state impiegate. Tuttavia, i colori possono fornire qualche indizio. I tatuaggi monocolori di solito utilizzano solo il nero che viene prodotto utilizzando pigmenti a base di ferro o carbonio; i colori più brillanti sono ottenuti partendo da tinture organiche mentre i vecchi colori più spenti possono contenere maggiori quantità di metalli.È importante ricordare che il fatto che determinate sostanze siano studiate, analizzate e sottoposte a limitazioni non implica necessariamente che siano pericolose per la salute. Le ricerche servono proprio per verificarlo e gli esiti stessi possono cambiare nel corso del tempo, sulla base dei nuovi studi e di sistemi di analisi più precisi.Tatuarsi implica comunque effettuare una modifica permanente al proprio corpo, che non può essere portata indietro nemmeno nel caso in cui il tatuaggio venga poi rimosso. Come spiega sempre l’OMS, a oggi non ci sono metodi sicuri per rimuovere i tatuaggi, anche se alcune tecniche sono considerate meno a rischio di altre. Il metodo più diffuso consiste nell’utilizzare il laser: la procedura permette di distruggere i pigmenti iniettati nella pelle, ma fa anche sì che una grande quantità di sostanze potenzialmente tossiche finiscano in giro per il resto dell’organismo.Non ci sono ancora molte ricerche in merito, ma si ritiene che la distruzione dei pigmenti sia probabilmente più rischiosa del mantenere gli stessi pigmenti nella loro forma più “stabile” e poco solubile nella pelle. Il laser è inoltre più efficace su alcuni tipi di pigmenti rispetto ad altri, quindi può essere necessaria più di una seduta per effettuare la rimozione e con risultati non sempre corrispondenti ai desideri di chi vorrebbe far sparire un tatuaggio. L’OMS su questo ha un consiglio piuttosto netto: «Il modo più sicuro per evitare di dover rimuovere un tatuaggio è semplicemente non tatuarsi». LEGGI TUTTO

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    Meglio lavarsi i denti prima o dopo colazione?

    Caricamento playerLa maggior parte dei dentisti consiglia di lavarsi i denti almeno due volte al giorno, in modo da mantenere una buona igiene orale. Per questo molte persone scelgono di farlo poco prima di andare a letto la sera e al mattino quando si svegliano. Mentre sullo spazzolarsi i denti prima di dormire non ci sono dubbi, le cose si complicano su quale sia il momento più adatto per usare spazzolino e dentifricio al mattino: è meglio prima o dopo avere fatto colazione?Per alcuni non c’è nemmeno da chiederselo perché “i denti si lavano dopo mangiato e basta”, per altri è un dubbio esistenziale che si ripresenta ogni mattina, altri ancora probabilmente non si erano mai posti il problema, magari fino alla lettura del titolo di questo articolo. L’argomento è del resto dibattuto, ma nonostante ciò non si trovano molte informazioni nella letteratura scientifica su quale sia la migliore pratica da seguire. Entrambi gli approcci hanno vantaggi e svantaggi, che conviene conoscere per scegliere da che parte stare.Lavare i denti prima di colazioneNel corso della notte la salivazione si riduce sensibilmente e ciò contribuisce, insieme ad altri fattori, a un aumento dei batteri che popolano la nostra bocca. Il risultato più evidente di questa circostanza è la secchezza delle fauci appena svegli accompagnata da un alito non sempre piacevolissimo, dovuto anche a ciò che abbiamo mangiato la sera precedente.Le colonie di batteri che abbiamo in bocca si nutrono soprattutto di carboidrati, di conseguenza per loro una brioche, dei biscotti, dei cereali o ancora del pane e marmellata costituiscono un gran banchetto per avere nuove energie per continuare a replicarsi. Nel farlo, si producono acidi che possono intaccare lo smalto dentale rendendo più sensibili e deboli i denti, o causando infiammazioni a livello gengivale.Lavarsi i denti prima di colazione permette di ridurre la presenza dei batteri, evitando di accrescere il loro effetto sui denti. Spazzolino e dentifricio favoriscono inoltre la produzione di saliva, che contribuisce a ridurre gli effetti dei batteri e più in generale la corrosione dello smalto dentale.Dopo i pasti sarebbe opportuno attendere tra i 30 e i 60 minuti prima di lavarsi i denti perché gli alimenti acidi indeboliscono temporaneamente lo smalto, che potrebbe essere poi rimosso dalle setole dello spazzolino o da un dentifricio eccessivamente abrasivo. A colazione si consumano spesso sostanze acide, come succo d’arancia o caffè, di conseguenza ci sono rischi maggiori per la salute dello smalto. Il problema si pone meno alla sera perché di solito passa qualche ora tra la cena e il momento in cui ci si lava i denti prima di andare a dormire.Lavare i denti dopo colazioneIl vantaggio principale di lavarsi i denti dopo avere fatto colazione è piuttosto evidente: si rimuovono eventuali residui di cibo, che rimanendo in bocca potrebbero favorire l’aumento della carica batterica o rendere più acido il cavo orale. Considerato che dopo colazione passano molte ore prima del pasto successivo, si può avere la bocca “più pulita”.Per quanto riguarda i batteri, benché non ci siano molte ricerche scientifiche su cui basarsi, si ritiene che la colazione sia un pasto troppo breve per portare a un aumento significativo della loro presenza mentre si mangia, di conseguenza l’eventuale effetto negativo è alquanto limitato. Il fatto stesso di lavarsi i denti dopo la colazione permette di eliminare una parte consistente di quei batteri, prima che possano fare danni particolari.Anche sul potenziale danno dovuto a spazzolarsi i denti subito dopo avere consumato la colazione ci sono opinioni discordanti. È vero che si consumano sostanze acide, ma il tempo di esposizione e la rapidità del pasto probabilmente rendono marginale l’effetto sullo smalto. Un consiglio è di fare uno sciacquo con l’acqua per ridurre la presenza di residui, in attesa di spazzolarsi i denti più tardi.Quindi?Come avrete intuito non c’è una risposta chiara, soprattutto per la difficoltà di condurre studi che portino poi a risultati non solo significativi, ma anche affidabili. Le cause dei problemi dentali sono molte, derivano dalle abitudini di ogni individuo e in ultima istanza dal modo in cui è fatto, come avviene spesso con le cose che riguardano la salute.In mezzo a tanta incertezza, si può comunque aderire a un certo pragmatismo. Considerato che è importante lavarsi i denti almeno due volte al giorno, conviene scegliere la routine che rende più facile possibile questa condizione. Per esempio, chi al mattino è sempre in ritardo e scappa con la colazione ancora in gola, o decide di farla velocemente fuori casa, ha più possibilità di non scordarsi di lavarsi i denti se lo fa come prima cosa appena si sveglia, rispetto a chi riesce a dedicare più tempo a cereali, frollini e marmellate. LEGGI TUTTO