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    Stellantis litiga anche nel Regno Unito

    La transizione verso la mobilità elettrica non dà pace ai big del settore. Carlos Tavares, ad di Stellantis, come riferisce l’agenzia Reuters, è ai ferri corti con il governo britannico. Una tensione, quella con Londra, che si aggiunge ai rapporti sempre più delicati con l’esecutivo italiano e i sindacati, in questo caso sul futuro per nulla chiaro del sistema produttivo nella Penisola. Mirafiori docet.A Tavares, guardando al Regno Unito, non va proprio giù il piano cosiddetto Zev (Zero Emission Vehicle) introdotto all’inizio dell’anno che impone obiettivi minimi di vendita, praticamente immediati, di veicoli elettrici. In caso di mancato raggiungimento dei target, la norma prevede la somministrazione di multe salate. Ecco allora il top manager alla guida di Stellantis definire come «pessimo per il Paese» tale provvedimento.Secondo Tavares questa disposizione è completamente scollegata dalla realtà in quanto lo stato dell’arte vede la domanda del mercato britannico di veicoli elettrici rappresentare la metà del target imposto (quota minima del 22% nel 2024, che progressivamente diventa dell’80%, entro il 2030, e del 100% al 2035). «Siamo al doppio della domanda reale», sottolinea Tavares. «È una norma – avverte sempre l’ad di Stellantis – che oltre a mettere a rischio i margini, costringerebbe i costruttori a dar vita a una vera guerra sui listini con gravi ripercurssioni sulla redditività».Quanto accade nel Regno Unito rappresenta solo uno dei tanti problemi non messi in conto dal piano Ue al «tutto elettrico» dal 2035, con il contestuale stop alla produzione e vendita di veicoli endotermici. Decisioni affrettate e dettate dall’ideologia che cominciano a far emergere situazioni di disagio e forti timori occupazionali.L’ultimo aggiornamento sullo scenario automotive mondiale, redatto da AlixPartners, evidenzia, in proposito, come la svolta dell’elettrico «per i costruttori occidentali di auto oggi non ha ancora un riscontro in termini di domanda e di sostenibilità economica e finanziaria». Inoltre, avverte sempre AlixPartners, «in Italia il 30% della forza lavoro delle aziende della componentistica sarà impattata dalla transizione elettrica che, salvo ripensamenti normativi sempre più attesi, guida la maggior parte della sfida di riconversione insieme, ovviamente, ai volumi espressi dal mercato; il rischio per i componentisti italiani è di 7 miliardi di perdita di valore al 2030 e 40mila posti in potenziale esubero». LEGGI TUTTO

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    Crt, il Mef scende in campo via all’indagine sul ribaltone

    Come era prevedibile, il Mef è piombato sulla vicenda del terremoto ai vertici di Fondazione Crt che ha portato alle dimissioni del presidente Fabrizio Palenzona. Ieri il ministero dell’Economia ha inviato una lettera a Fondazione firmata da Marcello Sala, il direttore generale del Dipartimento Economia cui fa capo la vigilanza delle Fondazioni bancarie. Di fatto l’avvio delle indagini. «Lo scrivente ministero», si legge nella lettera consultata da Il Giornale, «ha monitorato con attenzione l’evolversi dei fatti», prendendo atto «dell’eco mediatica delle vicende che ha anche rappresentato una fonte da cui apprendere l’evolversi di alcune situazioni». E ha richiesto a Crt, a carattere di urgenza ed entro 10 giorni, «di far pervenire una adeguata informativa sui fatti, corredata dalle valutazioni di ciascun organismo di indirizzo». Inoltre, saranno «altresì trasmessi i verbali delle deliberazioni del Consiglio di indirizzo del 19 aprile» e dei cda del 19 e 22 aprile «nonché ogni deliberazione assunta anche non approvata».Nel frattempo, si è appreso di altri pareri legali che erano stati richiesti da Palenzona prima dell’invio dell’esposto al Mef. «Ritengo in definitiva» che «il Presidente debba senza indugi formulare al Mef, in qualità di autorità di Vigilanza, apposito esposto in merito al Patto, trasmettendo altresì il relativo documento», così conclude il suo parere l’avvocato Andrea Zoppini, tra i più brillanti legali italiani, in merito all’opportunità di segnalare al Mef il patto occulto promosso dall’allora consigliere Corrado Bonadeo, che avrebbe potuto creare una sorta di fondazione nella Fondazione per orientare le politiche più strategiche dell’ente. Una scelta contestata dai quattro membri del cda ribelli, che hanno sfiduciato il segretario generale Andrea Varese e spinto Palenzona a dimettersi. LEGGI TUTTO

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    Dongfeng, in pista Paolo Berlusconi

    Il big dell’auto cinese Dongfeng, tuttora socio di Stellantis con una quota minima, affonda le radici in Italia. Per ora solo dal punto di vista commerciale, in futuro magari anche con un sito produttivo, visti i colloqui in corso tra il gruppo e il ministro Adolfo Urso. E un passo importante riguarda l’ingresso di Paolo Berlusconi, attraverso la sua holding Pbf, nell’azionariato della nascente Df Italia (Dongfeng Italia). L’operazione nasce intorno alla società Car Mobility, una srl controllata dalla Tailor Finance di Bruno Mafrici al 90%, con la Pbf di Berlusconi al 10%. Car Mobility è il veicolo destinato a diventare la futura Df Italia, e a distribuire le auto (elettriche) in Italia, quando saranno completati i necessari passaggi societari e contrattuali.Mafrici, oltre a occuparsi di mercati internazionali e di innovazione, ha fondato M Management, gruppo di imprese italiane e svizzere, e Bm Advisory, leader nella consulenza finanziaria aziendale automotive. Quasi in concomitanza con la nascita della newco, lo stesso Mafrici ha siglato un accordo strategico con Ca Auto Bank «allo scopo di offrire ai nostri clienti un accesso privilegiato alle più recenti innovazioni nel campo della e-mobility», il suo commento in occasione del recente Fuorisalone milanese che ha visto Dongfeng presentare il Suv elettrico premium Free con il marchio Voyah.La prospettiva è dunque quella dell’avvio di un nuovo business, quello della distribuzione dei veicoli cinesi di Dongfeng in Italia, proprio nel momento in cui i costruttori di Pechino accelerano i piani di espansione nel Vecchio continente. Sempre al Fuorisalone, tra l’altro, il capo europeo di Dongfeng, Qian Xe, aveva sottolineato come «per una casa cinese avere una produzione locale di veicoli significa poter rifornire tutti gli altri Paesi dell’area». Chiaro il riferimento anche all’Italia e ai colloqui in atto da alcuni mesi con il ministro Urso. LEGGI TUTTO

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    Stm, la crisi automotive piega i ricavi

    La crisi del settore automotive e la complessa corsa all’elettrico mandano in tilt i conti del primo trimestre di Stm, la società dei chip controllata pariteticamente da Roma e Parigi: Stm holding (che ha il 27,5% di Stm) è infatti divisa al 50% tra il Mef e lo Stato francese attraverso la banca pubblica di investimento, Bpi France, del gruppo Caisse de Dépots). Come per Stellantis, anche in casa Stm è in corso un complesso braccio di ferro sul reale peso italiano che, secondo Palazzo Chigi, sarebbe in calo sia sul fronte dei manager, sia su quello strettamente produttivo.In questo quadro – e nella flessione del comparto auto, a cui Stm fornisce semiconduttori – si inseriscono i negativi conti di bilancio diffusi ieri. Il gruppo guidato da Jean-Marc Chery – che ha da poco incassato la conferma al vertice, attesa nella prossima semmblea dei soci – ha visto dimezzarsi l’utile netto trimestrale (-50,9%) e ha rivisto al ribasso le prospettive annuali in termini di fatturato e margine. In particolare, nei primi tre mesi dell’anno, l’utile netto è sceso a 513 milioni di dollari, sulla scia di un calo delle vendite del 18,4% a 3,5 miliardi di dollari, mentre il margine lordo è sceso di 8 punti percentuali al 41,7%.ll gruppo ha rivisto al ribasso le sue previsioni annuali: ora punta a un fatturato tra i 14 e i 15 miliardi di dollari, rispetto all’obiettivo iniziale di 15,9-16,9 miliardi di dollari. Male anche i ricavi che sono scesi del 18,4% anno su anno (-19,1% su base trimestrale) a 3,4 miliardi di dollari, contro i 3,6 miliardi stimati dalla società come valore intermedio a fine quarto trimestre. Nel confronto anno su anno, i ricavi della divisione Apms (a cui fanno capo anche le soluzioni smart power per l’automotive) sono calati dell’11,8% a 2,037 miliardi di dollari, mentre nel gruppo Mdrf (di cui fanno parte anche i microcontrollori per l’automotive) i ricavi sono calati del 26,3% a 1,42 miliardi.Durante il primo trimestre, «gli ordini dei nostri clienti sono rimasti deboli nella divisione Industrial in tutte le aree geografiche e molto inferiori alle aspettative. Questo indica che la correzione delle scorte nell’area Industrial sarà più forte e durerà più a lungo di quanto previsto a gennaio.Inoltre, verso la fine del trimestre abbiamo iniziato a vedere una riduzione del nostro portafoglio ordini nell’automotive», ha chiarito l’ad Chery spiegando che «l’automotive è entrato in una fase di decelerazione, con una domanda in rallentamento rispetto alle nostre aspettative». Implicito il riferimento all’imminente data fissata in Europa per lo stop alla produzione di motori endotermici (nel 2035), che condiziona i consumatori. LEGGI TUTTO

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    Ita-Lufthansa, Giorgetti incontra Vestager: “Importante il rispetto dei tempi della decisione”

    Un colloquio”franco cordiale e costruttivo” quello che si è svolto oggi a Bruxelles tra il ministro dell’Economia e finanze Giancarlo Giorgetti e la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager. Sul tavolo il progetto di acquisizione graduale di Ita da parte del gruppo tedesco Lufthansa: il vertice non ha portato ancora a risultati risolutivi, anche se le trattative sembrano indirizzate verso una “traiettoria positiva”. Secondo quanto reso noto dal Mef, il titolare del Tesoro ha posto l’accento sull’importanza del rispetto dei tempi della decisione da parte della Commissione europea per garantire un futuro positivo alla compagnia aerea italiana, nonché ai suoi lavoratori e ai viaggiatori. Le parti sottoporranno nei tempi dovuti alcuni ulteriori ulteriori rimedi, per rispondere alle preoccupazioni sollevate dalla Commissione, compresa la questione di alcune rotte.Domani scade il termine entro cui Lufthansa e il Mef hanno la possibilità di presentare alla Commissione Ue i “rimedi” alle tre preoccupazioni avanzate dalla Vestager. Le criticità riguardano la concorrenza nello scalo di Milano Linate, il city airport del capoluogo lombardo, nonché su alcune rotte che collegano il Belpaese con l’Europa Centrale, il Nordamerica e il Giappone. L’integrazione tra le due realtà potrebbe ridurre la concorrenza su un certo numero di rotte a corto raggio che collegano l’Italia con i Paesi dell’Europa Centrale, è la versione dell’esecutivo europeo. Lufthansa e Ita competono testa a testa principalmente, con voli diretti ma anche con voli indiretti su queste rotte: “La concorrenza su queste rotte appare limitata e proviene principalmente da vettori low cost, come Ryanair, che in molti casi operano da aeroporti più remoti”.Ma non solo. Come anticipato, secondo la Commissione l’integrazione tra i due vettori potrebbe diminuire la concorrenza su un certo numero di rotte a lungo raggio tra Italia e Stati Uniti, Canada e Giappone. Su queste rotte, il vettore nostrano, quello tedesco e i suoi partner competono testa a testa con voli diretti e indiretti. La concorrenza di altre compagnie appare “insufficiente”. Il ministero e il gruppo tedesco hanno avanzato delle soluzioni a metà aprile. In particolare, un portavoce della Lufthansa aveva fatto riferimento ad una”soluzione globale e costruttiva” per rispondere alle preoccupazioni della commissione sulle rotte in questione e sulla situazione all’aeroporto di Milano Linate. Inoltre, il progetto di intesa è perfettamente compatibile con la realtà economica del mercato nostrano altamente competitivo.La scadenza per esaminare i già citati “rimedi” è fissata per il 6 giugno, ma non è escluso che possa essere concordata, con il benestare di tutte le parti coinvolte, una lieve proroga che può essere al massimo di 20 giorni lavorativi. Così fronti di Bruxelles:”Può essere anche di pochi giorni ma va concordata e al momento la questione non è stata ancora affrontata ma tutte le opzioni sono sul tavolo. In ogni caso una mini-proroga non è inusuale in questo tipo di operazioni”. LEGGI TUTTO

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    Patto occulto Crt, ecco i 13 firmatari

    «Le Parti si impegnano e obbligano reciprocamente a tenere confidenziale e riservato il contenuto della presente Scrittura Privata per tutta la durata della stessa; conseguentemente ogni divulgazione di notizie connesse con la Scrittura Privata dovrà essere concordata preventivamente per iscritto tra le Parti. Si intendono riservati e confidenziali anche i contenuti delle riunioni periodiche effettuate». Tra le righe del parere legale dell’avvocato Maurizio Riverditi che l’ex presidente di Fondazione Crt, Fabrizio Palenzona, ha portato in consiglio d’amministrazione, si leggono le disposizioni dell’articolo 6.1 del famigerato patto occulto sottoscritto da ben 13 firmatari del Consiglio di indirizzo di Fondazione Crt, con in testa il dimissionario Corrado Bonadeo. Disposizioni che, secondo Riverditi, presentano «alcuni significativi profili di criticità, ponendosi in contrasto con gli obblighi – imposti dalla legge e dallo statuto – di trasparenza e di tracciabilità delle decisioni assunte in seno alle fondazioni bancarie». E ancora: l’intesa tra i consiglieri «genera il rischio che vengano veicolate nella vita della Fondazione, in modo occulto rispetto al normale processo decisionale, interessi di natura extrasociale, anche potenzialmente confliggenti con l’interesse dell’Ente». Insomma, una sorta di fondazione nella Fondazione che avrebbe mirato a indirizzare la vita e le scelte dell’Ente. Va da sé che, nell’ipotesi che il patto avesse prodotto effetti, poteva «costituire un ostacolo all’attività di vigilanza.È, infatti, pacifico che tutte le regole statutarie e la loro modificazione debbano essere comunicate e approvate dal ministero dell’Economia e delle Finanze, che ha la vigilanza sulle Fondazioni bancarie». Ma a che punto era il perfezionamento del patto? In base alle informazioni giunte all’avvocato, tra cui diverse conversazioni Whatsapp anche fra alcuni partecipanti, l’accordo «parrebbe essere stato concluso e posto in esecuzione», scrive Riverditi. Alla luce di tali fatti, la denuncia al Mef firmata da Palenzona, per la quale il segretario generale Andrea Varese fu sfiduciato dal cda, costituiva «l’adempimento di un potere/dovere di tutelare gli interessi della Fondazione». Nelle conclusioni del parere legale, si afferma che il documento intitolato «Patto di consultazione e di pre-adesione a Gruppo Consiliare La Fondazione di Domani nel Consiglio di Indirizzo FCRT» potrebbe determinare gli estremi del reato di ostacolo alle funzioni di vigilanza, il rischio di distorsione delle procedure (e delle maggioranza prescritte dalla Statuto) e di indebita rivelazione agli organi di stampa della questione concernente l’esistenza del patto. Il riferimento è a un articolo sulle pagine del Corriere-Torino del 10 aprile 2024, dal titolo Palenzona stoppa il patto degli ex fedelissimi. LEGGI TUTTO

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    Enel, accordo raggiunto con i sindacati: fino a 2mila ingressi in 3 anni

    Nuovi ingressi tra il 2024 e il 2026 e un percorso condiviso sulla rete: sono questi i pilastri su cui poggia l’intesa raggiunta tra Enel e le organizzazioni sindacali elettriche Filctem Cgil, Flaei-Cisl e Uiltec. L’azienda e i sindacati sono riusciti a trovare un accordo che nei fatti permetterà non solo di superare la vertenza avviata nei mesi scorsi, ma anche di individuare una strada unitaria puntando in particolar modo sulle reti e sulla transizione energetica. L’8 marzo scorso – dopo il fallimento di numerosi tentativi di dialogo – si è tenuto lo sciopero nazionale del settore elettrico per ribadire la contrarietà dei lavoratori al piano di sviluppo industriale presentato dal nuovo management, da poco nominato alla guida del gruppo.La volontà è quella di fare sponda per dare seguito al processo di valorizzazione degli asset strategici come ad esempio la rete di distribuzione italiana, fondamentale nell’ottica della transizione energetica e – non a caso – al centro del Piano Industriale con investimenti per 12,2 miliardi. Quanto al sostegno dell’implementazione del Piano Strategico, Enel e le organizzazioni sindacali hanno concordato fino a 2mila nuovi ingressi nell’ambito della rete negli anni 2024-2026. Il tutto muovendosi su un terreno comune e seguendo una linea di principio: “La continuità geografica della rete elettrica e l’esperienza del Gruppo Enel e delle sue persone nella gestione di una infrastruttura così cruciale e complessa rappresentano elementi da valorizzare e preservare a beneficio del Paese, dei cittadini e delle imprese”.La convergenza conferma l’attuale organizzazione delle attività e allo stesso tempo dà il via a un approfondimento tecnico sui nuovi modelli operativi. L’obiettivo è quello di individuare le migliori soluzioni per quanto riguarda la flessibilità, l’efficienza e la sicurezza sui luoghi di lavoro. “Il confronto tra le parti ha portato a soluzioni condivise che contribuiranno alla crescita economica del territorio e allo sviluppo del sistema Paese, favorendo l’elettrificazione dei consumi”, viene spiegato nella nota diffusa. LEGGI TUTTO

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    Generali fa festa solo a metà. Schiaffo Delfin-Caltagirone

    L’assemblea 2025 di Generali, con all’ordine del giorno il rinnovo del cda, sarà il vero appuntamento decisivo per il futuro del Leone in quanto testerà le nuove previsioni del ddl Capitali che garantisce alle minoranze una più congrua rappresentanza. Questo è il motivo per il quale ieri né Delfin, la holding degli eredi di Leonardo Del Vecchio titolare del 9,9%, né il gruppo Caltagirone con il suo 6,19% hanno disertato l’assise di Trieste convocata per approvare il bilancio 2023. Evidente l’intento polemico nei confronti dell’attuale management guidato dal ceo Philippe Donnet che non ha mai perso occasione sia indirettamente (vedi articoli sul Financial Times o le prese di posizione di Assogestioni) sia direttamente (con unai ntervista a Repubblica) per stigmatizzare l’impianto normativo voluto dal governo Meloni per aprire la governance delle società quotate e «cambiare l’aria» nei salotti buoni.Ieri è stato il presidente delle Generali e della Bocconi, Andrea Sironi, a mettere da parte il suo tradizionale aplomb stroncando nuovamente il testo approvato dai due rami del Parlamento. «Occorre superare le deviazioni dalle migliori pratiche interazionali – penso al sostanziale disincentivo alla possibilità per un cda uscente di formulare proposte all’assemblea dei soci per il consiglio futuro», ha detto auspicando la rimozione di «vincoli estranei alle best practice internazionali, per di più di dubbia costituzionalità».L’obiettivo è chiaro: aumentare l’intensità della moral suasion nei confronti del decisore pubblico in vista dell’attuazione della delega sulla riforma del Tuf affinché elimini sia i vincoli alla presentazione della lista del board (ok da due terzi del cda e voto nome per nome in assemblea sui componenti della lista che dovranno essere in numero maggiorato di un terzo rispetto all’entità del board) che le prerogative delle minoranze (20% di posti garantiti alle liste con almeno il 3% dei voti e rappresentanza pro quota se superano il 20%). LEGGI TUTTO