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    Con le alluvioni a Dubai c’entra il “cloud seeding”?

    Caricamento playerLe grandi inondazioni che hanno interessato gli Emirati Arabi Uniti, con alcune zone in cui sono stati registrati oltre 250 millimetri di pioggia (più di quanto piova solitamente in un intero anno nel paese), sono insolite per un paese famoso per le sue città costruite nel deserto. Talmente insolite che da un paio di giorni circolano teorie e ipotesi sul fatto che le piogge abbondanti e improvvise siano state causate da errori legati al “cloud seeding”, la pratica di indurre le nuvole a produrre più pioggia cospargendole di alcune sostanze.
    L’idea del cloud seeding (letteralmente “inseminazione delle nuvole”) nacque intorno alla fine della Seconda guerra mondiale e da allora le conoscenze intorno a questa pratica sono molto aumentate, anche se periodicamente emergono dubbi sulla sua efficacia e utilità. In estrema sintesi, ogni nuvola è formata da una miriade di minuscole goccioline di acqua, proveniente dai processi di evaporazione degli oceani, dei mari e dei corsi d’acqua, ma anche dell’acqua nel suolo e nella vegetazione in generale. Il vapore acqueo viene trasportato in alto nell’atmosfera dai venti (correnti ascensionali) e la pioggia si forma quando questo incontra i nuclei di condensazione, cioè minuscole particelle in grado di assorbire le molecole d’acqua fino alla formazione di gocce che per gravità tornano verso il suolo.
    I primi sperimentatori del cloud seeding si chiesero se non fosse possibile accelerare il processo o amplificarne gli esiti introducendo artificialmente nuclei di condensazione. Le prime esperienze furono effettuate con il ghiaccio secco (anidride carbonica nella sua forma solida) e in seguito con lo ioduro di argento, un composto con una struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio che si formano nelle nuvole, e che concorrono a fare aggregare le molecole d’acqua. Oggi si utilizzano tecniche simili e negli ultimi decenni sono stati sperimentati altri sali, più pratici da impiegare e non inquinanti.
    Le tecniche di cloud seeding sono state sviluppate soprattutto nei paesi interessati periodicamente dalla siccità, come avviene in alcune aree della Cina, oppure costruiti in zone desertiche come nel caso degli Emirati Arabi Uniti. Le prime esperienze negli Emirati risalgono a una trentina di anni fa e da allora il Centro nazionale di meteorologia (NCM) del paese ha svolto attività di ricerca e sperimentazioni, al punto da rendere il cloud seeding una pratica comune per provare a ottenere più pioggia facendo volare aerei che rilasciano i sali mentre sorvolano e attraversano le nuvole.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (REUTERS/Amr Alfiky)
    Dopo le alluvioni degli ultimi giorni, e in seguito alle numerose teorie circolate sui social network senza particolari prove, gli esperti di NCM hanno smentito la possibilità che le grandi piogge siano state causate dal cloud seeding. Prima o durante le grandi piogge non erano state svolte attività di questo tipo e Omar Al Yazeedi, il direttore generale di NCM, ha chiarito che: «Il punto centrale del cloud seeding consiste nel prendere di mira le nuvole nei loro primi stadi, quindi prima che si verifichino le precipitazioni. Effettuare attività di inseminazione durante una tempesta molto forte si rivelerebbe del tutto inutile».
    Numerosi esperti indipendenti e non coinvolti nelle attività di NCM hanno smontato le teorie circolate online sul cloud seeding, arrivando a conclusioni più o meno simili a quelle di Al Yazeedi. L’attività di inseminazione viene infatti effettuata su nuvole che altrimenti non produrrebbero pioggia o ne produrrebbero molto poca, non su sistemi nuvolosi più complessi e instabili che chiaramente produrranno forti piogge. Intervenire su questi ultimi non avrebbe alcuna utilità, oltre a rivelarsi una spesa inutile, visto che produrranno comunque grandi quantità di pioggia.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (AP Photo/Jon Gambrell)
    Durante le prime sperimentazioni del cloud seeding nel secondo dopoguerra si era valutata la possibilità di impiegare la pratica per produrre grandi eventi atmosferici, ma da tempo è diventato evidente che l’impatto dell’inseminazione delle nuvole è limitato e non può portare alla modifica di forti e complesse perturbazioni. Sugli Emirati Arabi Uniti e in particolare Dubai si è assistito a un anomalo transito di un fronte nuvoloso che ha scaricato in poco tempo grandi quantità di pioggia sul quale il cloud seeding sarebbe stato irrilevante, hanno segnalato diversi esperti.
    Lo scienziato del clima Daniel Swain ha detto al Guardian: «È importante capire le possibili cause della pioggia da record di questa settimana su Dubai e parte della penisola araba. Il cloud seeding ha avuto un ruolo? Probabilmente no! Ma che dire del cambiamento climatico? Probabilmente sì!». Diversi altri esperti come Swain hanno infatti segnalato che la perturbazione sugli Emirati è stata probabilmente esacerbata dagli effetti del cambiamento climatico, che negli ultimi anni ha reso più frequenti e potenti molti eventi atmosferici. Nelle prossime settimane saranno effettuati studi e analisi “di attribuzione” per verificare se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo, come sembra, nella produzione di precipitazioni così intense in poco tempo. LEGGI TUTTO

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    Lo scorso marzo è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso mese è stato il marzo più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 14,14 °C, 0,10 °C più alta del precedente mese di marzo più caldo mai registrato, quello del 2016. Il Climate Change Service sottolinea inoltre come marzo del 2024 sia il decimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti.– Leggi anche: Cosa è stato fatto finora per contrastare la siccità LEGGI TUTTO

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    In Brasile e Colombia si è ridotta la distruzione delle foreste tropicali

    Caricamento playerNel 2023 sono stati abbattuti o bruciati circa 37mila chilometri quadrati di foreste tropicali, una superficie pari a quella di Toscana e Campania messe insieme, con una grave perdita per gli ecosistemi e in generale per il pianeta nel contrastare l’effetto serra. Secondo Global Forest Watch, l’iniziativa che ha diffuso i dati, il disboscamento continua a essere uno dei problemi ambientali più seri, ma ci sono stati comunque alcuni progressi, con una riduzione del 9 per cento del fenomeno tra il 2022 e il 2023, in particolare grazie ad alcune nuove politiche per la tutela delle foreste tropicali avviate in Sudamerica.
    Global Forest Watch offre una piattaforma online per tenere sotto controllo lo stato delle foreste del mondo e, insieme all’istituto di ricerca ambientale World Resources Institute, realizza periodicamente rapporti per confrontare negli anni la perdita di foresta pluviale primaria (cioè di foresta ancora incontaminata e non raggiunta dalle attività umane). Le analisi vengono fatte mettendo a confronto immagini satellitari di diversi periodi, in modo da verificare quali aree abbiano subìto attività di disboscamento anche in pochi mesi. Il sistema consente di verificare soprattutto le perdite dovute agli incendi, ma sono talvolta necessarie analisi successive per distinguere tra eventi naturali e fuochi appiccati intenzionalmente per guadagnare nuovo terreno per le coltivazioni.
    In Sudamerica si distruggono ogni anno grandi porzioni di foreste tropicali primarie per la costruzione di nuove strade e infrastrutture, oppure per rendere coltivabili i terreni. Il rapporto di Global Forest Watch segnala che nel 2023 sono stati distrutti circa 2mila chilometri quadrati di foreste tropicali in quella parte di mondo, un’area paragonabile a circa metà quella del Molise. La perdita è stata rilevante, ma inferiore del 24 per cento rispetto all’anno precedente, soprattutto grazie ai progressi raggiunti dai governi di Brasile e Colombia per limitare la distruzione delle foreste.
    Confronto tra 2022 e 2023 della perdita di foresta tropicale primaria nei dieci paesi del mondo in cui il fenomeno è più diffuso (Global Forest Watch)
    Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, rieletto nel 2022, si è impegnato a fermare completamente la deforestazione entro il 2030, un obiettivo molto ambizioso che non potrà essere raggiunto solamente attraverso l’intensificazione dei controlli. Lula ha revocato buona parte delle leggi che aveva fatto approvare il suo predecessore, Jair Bolsonaro, che di fatto avevano reso più semplice la deforestazione a scopi di sviluppo e commerciali, e ha riorganizzato l’agenzia governativa per la protezione per l’ambiente. Il presidente brasiliano intende inoltre aumentare le aree definite territorio per le popolazioni native, in modo da renderle protette e quindi rendere più difficile il disboscamento. In circa un anno sono già stati aggiunti otto nuovi territori, arrivando quasi a 500: l’intenzione è di riconoscerne altri 200 nel corso dei prossimi anni.
    In Colombia il presidente Gustavo Petro, eletto nel 2023, ha annunciato una nuova serie di politiche per ridurre la deforestazione comprese alcune campagne con contributi economici per le popolazioni locali in modo da disincentivare l’abbattimento degli alberi.
    Altri progressi sembra siano stati raggiunti in seguito ad alcune iniziative di Estado Mayor Central (EMC), il più importante gruppo dissidente delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (FARC). Il gruppo di guerriglieri controlla un’area importante dell’Amazzonia e dal 2022 impone multe dell’equivalente di svariate centinaia di euro a chi abbatte illegalmente gli alberi. Il gruppo sostiene di farlo per motivi ambientalisti, ma secondo gli osservatori l’iniziativa è uno dei modi per avere maggiori possibilità di contrattare con il governo colombiano la fine delle ostilità (nel 2016 l’EMC non aveva accettato gli accordi di pace tra governo e FARC). Stando ai dati forniti da Global Forest Watch, in Colombia nel 2023 la perdita di foresta tropicale è stata inferiore del 49 per cento rispetto al 2022.
    I progressi raggiunti in Colombia e Brasile si inseriscono comunque in un contesto ancora negativo legato alla deforestazione, se si considera che dal 2001 al 2023 in Sudamerica è andato distrutto quasi un terzo delle foreste tropicali. La perdita non implica solamente una riduzione nella capacità del pianeta di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, uno dei principali gas serra. La riduzione delle foreste porta a una marcata riduzione della biodiversità, cioè della varietà di specie che popolano un certo ambiente, con un ulteriore impoverimento di alcuni dei territori altrimenti più floridi del pianeta sia dal punto di vista della flora sia della fauna. LEGGI TUTTO

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    Dopo due anni, quest’inverno non c’è stata carenza di neve in Italia

    Grazie alle nevicate di febbraio e marzo la quantità d’acqua che si è accumulata sulle montagne italiane sotto forma di neve nell’inverno appena concluso è superiore alla mediana degli ultimi 12 anni. Significa che dopo due inverni in cui c’era stata una grossa carenza di neve sulle montagne, che aveva molto contribuito alla grave siccità del Nord Italia durata dall’inizio del 2022 all’estate del 2023, attualmente ce n’è un surplus, che sarà un’importante fonte d’acqua per i mesi estivi. Tuttavia se il bilancio è positivo per le Alpi, non lo è per gli Appennini, dove c’è ancora una situazione di scarsità d’acqua.A dirlo è l’ultima analisi della Fondazione CIMA, Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, un ente di ricerca nelle scienze ambientali che è stato fondato e collabora con il dipartimento di Protezione civile. Da quattro anni la Fondazione CIMA raccoglie dei dati sul territorio e dai satelliti per stimare un parametro chiamato snow water equivalent (in italiano “equivalente idrico nivale”) e indicato con la sigla “SWE”, che indica la quantità d’acqua contenuta nella neve.
    Il parametro SWE può essere calcolato a livello nazionale, ma anche per singoli bacini fluviali, perché le montagne del paese possono essere suddivise in base al fiume principale che riforniscono d’acqua quando tra la primavera e l’estate la neve si scioglie.

    L’attuale abbondanza di neve avrà un effetto positivo soprattutto per i fiumi del Nord Italia e in particolare il Po, il più lungo fiume italiano. La Fondazione CIMA ha stimato che secondo i dati aggiornati al primo aprile il bacino idrografico del Po può contare su una quantità d’acqua dovuta alla neve che è superiore del 29 per cento rispetto alla mediana (il valore centrale, non la media) del periodo 2011-2022. Per quanto riguarda l’Adige, un altro importante fiume del Nord Italia e il secondo più lungo del paese, il valore dello SWE è inferiore alla mediana (del 4 per cento) ma è comunque doppio rispetto a quello di inizio aprile dello scorso anno.
    La situazione è molto diversa per il Centro e il Sud Italia. Sugli Appennini si sono registrate temperature parecchio alte quest’inverno (a marzo anche superiori di 2,5 °C rispetto ai valori mediani dello scorso decennio) e per questo anche la neve che c’era si è fusa. Per quanto riguarda il bacino del Tevere, il terzo fiume italiano per lunghezza, che scorre in Toscana, Umbria e Lazio, la Fondazione CIMA ha stimato un deficit dell’80 per cento rispetto alla mediana di riferimento al primo aprile.
    Anche al Nord comunque ci sono dei rischi per le risorse d’acqua dei prossimi mesi, molto importanti sia per la produzione agricola che per le centrali elettriche. «Se e quanto l’acqua ora finalmente presente nel bacino del Po sotto forma di neve potrà sostenere i mesi primaverili ed estivi, però, dipende dalle temperature», ha spiegato Francesco Avanzi, idrologo di Fondazione CIMA: «Le temperature elevate possono ancora causare, anche sulle Alpi, fusioni precoci: perché sia davvero utile nei periodi in cui l’acqua ci è più necessaria, la neve deve restare tale ancora per alcune settimane».
    In ogni caso per questa stagione le nevicate dovrebbero essere finite. Generalmente in Italia il picco della quantità di neve sulle montagne si registra a marzo e da aprile inizia il periodo di fusione. LEGGI TUTTO

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    La polvere del Sahara fa molte cose in giro per il mondo

    Caricamento playerTra mercoledì e giovedì in molte zone del Sud Italia il cielo è stato offuscato dal venti che hanno portato verso l’Italia grandi quantità di polvere dal deserto del Sahara, in Nord Africa. È un fenomeno tutt’altro che raro: nei deserti ci sono grandi quantità di sedimenti leggeri e secchi, polveri appunto, che possono essere sollevate dal vento fino a migliaia di metri d’altezza e poi trasportate oltre mari e oceani.
    Dal solo Sahara, che è il deserto più grande del mondo, proviene più di metà della polvere presente nell’atmosfera della Terra. A seconda delle stagioni dell’anno, che influenzano le direzioni dei venti, le sue polveri sono trasportate in diverse direzioni: l’inizio della primavera è il periodo in cui succede più spesso che arrivino in Europa. Ma l’offuscamento dei cieli (e le eventuali conseguenze sulla qualità dell’aria) è solo uno degli effetti della polvere sahariana, che forse contribuisce alla crescita della vegetazione in Amazzonia ma anche alla fusione dei ghiacciai delle Alpi. Si pensa inoltre che influenzi il clima in vari modi, forse contrastando la formazione di tempeste tropicali nell’Atlantico, anche se gli studi sull’argomento sono ancora in corso.
    Quando si parla di polvere proveniente dal Sahara non bisogna immaginare la sabbia delle dune che solitamente associamo a questo deserto: i granelli di sabbia sono troppo pesanti per essere sollevati all’altezza delle correnti atmosferiche. La polvere è fatta di particelle molto più piccole che si accumulano nelle zone pianeggianti dei deserti, dove magari anticamente si trovavano dei laghi, come la depressione Bodélé, nel nord del Ciad.
    Polvere sahariana diretta verso l’Italia fotografata dal satellite Sentinel-3 il 28 marzo 2024 (Unione Europea, Copernicus Sentinel-3)
    L’effetto forse più stupefacente del trasporto di questa polvere attraverso l’atmosfera è la concimazione del fitoplancton dell’Atlantico, cioè dei microrganismi vegetali che vivono negli strati superficiali delle acque marine. Infatti le polveri sahariane contengono sostanze importanti per la crescita delle piante, come il fosforo, il ferro e l’azoto. Uno studio pubblicato l’anno scorso sulla rivista Science ha trovato una corrispondenza tra l’arrivo di polveri dal deserto e i periodi di grande crescita del fitoplancton, che si possono osservare dalle fotografie satellitari grazie al colore verde della clorofilla prodotta da questi organismi.
    Questo significa che il Sahara contribuisce alla vita negli oceani, perché il fitoplancton è alla base della catena alimentare marina, oltre ad assorbire anidride carbonica (la CO2, il principale gas serra) dall’atmosfera.
    C’è poi un dibattito tuttora aperto all’interno della comunità scientifica sul ruolo di concime che le polveri sahariane potrebbe svolgere in un altro contesto, cioè la foresta pluviale dell’Amazzonia. È uno degli ambienti della Terra in cui crescono più piante e più specie di piante diverse, tuttavia ha un suolo molto povero di sostanze nutritive: le piante quindi ricavano ciò di cui hanno bisogno per crescere dai resti di piante morte, che però vengono in parte portati via dalla pioggia e dai corsi d’acqua. Per questo da decenni si ritiene che la mancanza di nutrienti debba essere compensata anche da ciò che arriva attraverso l’atmosfera.
    Almeno per una parte dell’Amazzonia questo nutrimento arriverebbe proprio dalle polveri sahariane, secondo alcuni studi: nel 2015, usando dei dati satellitari, un gruppo di scienziati della NASA aveva stimato che in media ogni anno 22mila tonnellate di fosforo proveniente dal Sahara arrivino nell’Amazzonia.
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    La polvere sahariana che raggiunge le coste americane ci arriva con il cosiddetto “strato d’aria sahariana”, una massa d’aria calda e secca che tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno è periodicamente sospinta dal Sahara verso ovest. Si ritiene che quest’aria contribuisca alle condizioni meteorologiche dell’Atlantico e delle regioni che lo circondano, sebbene non sia ancora del tutto chiaro in quali modi.
    Prima di tutto si pensa che la polvere sospesa nell’atmosfera schermi la luce solare. Facendo ombra la polvere causa probabilmente un abbassamento della temperatura, ma al tempo stesso l’assorbimento della radiazione solare da parte delle particelle di polvere potrebbe anche provocare un riscaldamento localizzato nella porzione dell’atmosfera in cui si trovano. Non si sa ancora se il bilancio netto di questi effetti sia un riscaldamento o un raffreddamento.
    Allo stesso tempo non si sa bene in che modo la polvere sahariana influenzi la formazione di tempeste tropicali nell’Atlantico (ed eventualmente uragani, le tempeste tropicali più intense). In teoria la presenza di polvere nell’atmosfera dovrebbe favorire la formazione di nubi, perché le piccole quantità di acqua liquida che le formano hanno bisogno di particelle solide nell’aria attorno a cui condensare. Al tempo stesso però la temperatura relativamente alta dello strato d’aria sahariana e la sua bassa umidità potrebbero moderare lo sviluppo delle tempeste, legate allo spostamento di masse d’aria molto umida.
    Polvere sahariana sulla neve dei Pirenei francesi, il 16 marzo 2022 (Borja Delgado/Dersu.uz/via ZUMA Press, ANSA)
    Si sa invece che la polvere sahariana può accelerare i processi di fusione, cioè di scioglimento, delle nevi e dei ghiacci dei Pirenei e delle Alpi, le principali catene montuose europee. Posandosi sulla neve e sul ghiaccio infatti la polvere riduce l’albedo, cioè la quantità di radiazione solare riflessa nell’atmosfera: significa che una maggiore quantità di energia viene assorbita dalla neve e dal ghiaccio, che così fondono.
    Secondo uno studio del 2019, pubblicato sulla rivista The Cryosphere e realizzato da un gruppo di ricerca internazionale di cui fanno parte alcuni scienziati dell’Università Bicocca di Milano, le polveri sahariane riducono il periodo dell’anno in cui le Alpi sono coperte da nevi e per questo possono avere degli effetti sugli equilibri idrogeologici della regione e, tra le altre cose, rendere il Nord Italia più vulnerabile alle siccità estive.
    La neve di una pista da sci di fondo di La Fouly, in Val Ferret, Svizzera, vicino al confine con l’Italia, colorata dalle polveri sahariane, il 6 febbraio 2021 (EPA/SALVATORE DI NOLFI, ANSA)
    Un altro effetto negativo della polvere del Sahara è l’abbassamento della qualità dell’aria per la salute umana che può provocare se si trova relativamente a bassa quota nell’atmosfera. È un problema che può riguardare soprattutto i paesi del Mediterraneo meridionale come la Spagna e l’Italia. Le polveri sahariane infatti hanno le dimensioni del particolato, le particelle solide e liquide che rappresentano una delle forme di inquinamento dell’aria e possono causare danni all’apparato respiratorio umano se inalate in quantità abbondanti.
    Per questo nelle regioni più colpite dall’arrivo delle polveri sahariane, come le isole Canarie, che si trovano nell’Atlantico al largo dell’Africa nord-occidentale, vengono diffuse allerte meteorologiche apposite per segnalare la loro presenza: in quei giorni le persone sono invitate dalle autorità a stare il più possibile al chiuso. Alle Canarie i venti che trasportano le polveri hanno anche un nome specifico: calima.
    Proprio in Spagna la polvere sahariana e i suoi effetti sono particolarmente studiati. A febbraio un gruppo di ricerca spagnolo ha pubblicato sulla rivista Science of The Total Environment uno studio secondo cui tra il 1940 e il 2021 la frequenza degli eventi atmosferici che portano polveri sahariane in Spagna è aumentata. Si ipotizza che tale aumento – particolarmente osservato negli ultimi anni, anche nell’inverno appena concluso – sia legato ad alcuni cambiamenti nella circolazione atmosferica avvenuti negli ultimi decenni. Potrebbero entrarci l’aumento della temperatura del mar Mediterraneo, che è legata al più generale riscaldamento globale, e le siccità nel Nord Africa.
    Il cielo di Monaco di Baviera reso giallo dalle polveri sahariane, il 15 marzo 2022 (Sven Hoppe/dpa, ANSA) LEGGI TUTTO

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    Non ci sono più mufloni sull’isola del Giglio

    Caricamento playerIl 28 febbraio il tribunale amministrativo della Toscana (TAR) ha firmato un’ordinanza per sospendere le uccisioni dei mufloni sull’isola del Giglio da parte dei cacciatori, fino alla fine della stagione di caccia. La misura, che è stata decisa in seguito al ricorso di alcune organizzazioni animaliste, ha una durata molto limitata, dato che la stagione di caccia terminerà il 15 marzo. Probabilmente però sia il ricorso sia la sospensione non hanno avuto particolari effetti, perché sembra che già il 28 febbraio sull’isola del Giglio non ci fosse nessun muflone. Negli ultimi cinque anni infatti il Parco nazionale dell’Arcipelago toscano ha portato avanti un progetto di eradicazione della specie dall’isola e lo scorso dicembre ha dichiarato conclusa l’operazione.
    Capire come si è arrivati a questo provvedimento, apparentemente insensato, è importante perché da tempo si sta parlando di una possibile eradicazione dei mufloni anche sulla vicina isola d’Elba, che è molto più grande dell’isola del Giglio: uno studio sulla fattibilità del progetto è atteso per la fine di marzo.
    Molto in breve, i mufloni si potrebbero descrivere come pecore selvatiche. Il tema è ancora dibattuto nella comunità scientifica, ma è molto probabile che le pecore siano state ottenute attraverso la domesticazione, cioè con un processo di selezione artificiale, proprio dai mufloni, che in origine vivevano in Asia. I mufloni che oggi si trovano in Italia e in altri paesi europei invece discendono quasi sicuramente da pecore primitive, quindi non del tutto domesticate, che ancora in epoca antica sfuggirono ai loro allevatori e si rinselvatichirono.
    Tutti i mufloni che vivono in libertà in Europa arrivano dalla Sardegna: si ritiene che furono portati sull’isola dagli esseri umani in epoca neolitica, circa 6mila anni fa, e che lì siano sopravvissuti per secoli dopo essersi rinselvatichiti mentre i mufloni sul continente diventavano sempre più simili alle pecore di oggi. Dalla fine del Settecento, e per vari decenni, gruppi di mufloni sardi vennero portati in varie zone d’Italia e d’Europa, dove diedero origine a nuove popolazioni selvatiche. In tutti questi contesti i mufloni sono considerati una specie aliena (o “alloctona”), mentre nella sola Sardegna sono considerati “para-autoctoni” perché pur se introdotti dagli esseri umani fanno parte della fauna locale da vari millenni.
    Per questo quasi ovunque in Europa e in Italia i mufloni non sono una specie protetta e possono essere cacciati. Solo in Sardegna sono tutelati, anche perché nei decenni passati il loro numero era molto diminuito (si stima che oggi possano essercene circa 8mila nell’intera regione).
    Mufloni in una zona del porto di Arbatax nell’agosto del 2023 (ANSA)
    Nell’Arcipelago toscano, di cui l’isola del Giglio e l’isola d’Elba fanno parte, i mufloni vennero portati in epoca molto recente, negli anni Cinquanta. All’epoca le leggi sulla fauna erano molto permissive, sia per la caccia che per l’introduzione di animali alloctoni in nuovi territori. Il proprietario terriero e cacciatore Ugo Baldacci, che possedeva un’azienda faunistico-venatoria (cioè una riserva di caccia) in provincia di Pisa e dei terreni al Giglio, portò sette mufloni sull’isola, all’interno di un’area recintata. All’epoca si pensava che i mufloni sardi avrebbero potuto estinguersi, cosa che Baldacci voleva evitare, e le conoscenze sull’impatto dannoso delle specie alloctone non erano le stesse di oggi.
    Quattro dei mufloni portati da Baldacci provenivano direttamente dalla Sardegna, altri tre dalla Germania: discendevano da mufloni sardi portati in Ungheria nell’Ottocento. Gli animali si trovarono bene al Giglio e si riprodussero. Negli anni Ottanta, a causa dell’incuria della recinzione, si diffusero in tutta l’isola.
    Sono animali molto adattabili ed è possibile che nel loro periodo di massima prosperità sull’isola fossero tra 50 e 150. Il Giglio ha meno di 1.500 residenti e ha un’area di 24 chilometri quadrati, di cui una buona parte rientra nel Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, dove fauna e flora sono protette.
    Diffondendosi nell’intero territorio dell’isola, i mufloni diventarono una delle specie che si potevano cacciare al Giglio, almeno nelle aree al di fuori del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano. Dentro ai parchi nazionali infatti le uniche uccisioni di animali selvatici sono quelle compiute dagli enti che gestiscono i parchi stessi, allo scopo di preservare al meglio la biodiversità sulla base di conoscenze scientifiche condivise.
    Dal punto di vista della biodiversità, cioè della ricchezza di specie animali e vegetali, le piccole isole sono luoghi particolari. Da un lato sono molto più vulnerabili agli effetti negativi dell’invasione di una specie alloctona: avendo un territorio ridotto possono essere interamente colonizzate in tempi brevi, e quindi in tempi brevi una specie aliena può portare all’estinzione di una locale. Dall’altro però sono anche luoghi in cui è più facile eradicare una specie dannosa. Al Giglio sono (o erano) presenti varie specie alloctone, animali e vegetali: per questo nel 2019 è iniziato il progetto “LetsGo Giglio”, portato avanti dal Parco nazionale dell’Arcipelago toscano e finanziato dall’Unione Europea, con l’obiettivo di rimuoverle o ridurle in maniera consistente per preservare le specie locali.
    Per quanto riguarda i mufloni, la principale specie minacciata è il leccio (Quercus ilex), un albero tipico della regione del Mediterraneo, ma anche varie specie di arbusti: i mufloni mangiano queste piante quando sono molto giovani, impedendo che crescano. Gli effetti possono essere considerevoli.
    Uno studio realizzato nel 2019 dall’Università di Firenze sul territorio dell’Elba ha mostrato che nella parte occidentale dell’isola, dove i mufloni sono presenti, la vegetazione boschiva si rinnova molto più lentamente rispetto alla parte orientale dell’isola. Nel 2021 peraltro questi animali sono stati giudicati i più dannosi tra gli ungulati (cioè tra i mammiferi erbivori che hanno gli zoccoli) quando si diffondono in ambienti in cui sono alieni: è la conclusione di uno studio che ha preso in considerazione gli effetti a livello globale.
    Inizialmente il progetto “LetsGo Giglio” prevedeva che i mufloni fossero eradicati dall’isola in due modi: attraverso l’abbattimento o la cattura e la sterilizzazione. «Per arrivare a un’eradicazione la cosa migliore è utilizzare tecniche miste», spiega Giampiero Sammuri, zoologo e presidente del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano: «Ci sono animali che è più facile catturare, proprio per via del loro comportamento individuale, e altri che è più facile abbattere. In tutte le operazioni di eradicazione di ungulati si privilegia la forma mista».

    Con i primi abbattimenti cominciarono anche le proteste delle organizzazioni che si occupano di difesa dei diritti degli animali. Il Parco allora si confrontò con le organizzazioni e nel novembre del 2021 fece un accordo con due di queste, il WWF e la LAV: si impegnò a sospendere gli abbattimenti e a proseguire con l’eradicazione aumentando le catture. Da parte loro le due organizzazioni promisero di occuparsi del mantenimento dei mufloni catturati e sterilizzati in strutture private sulla penisola, come il Centro di recupero per animali selvatici ed esotici di Semproniano, in provincia di Grosseto, che è gestito dall’associazione Irriducibili Liberazione Animale.
    Altri gruppi animalisti e il comitato di residenti del Giglio “Save Giglio”, che non avrebbe voluto né l’abbattimento dei mufloni né il loro trasferimento, continuarono comunque a protestare in vari modi, ottenendo anche un’interrogazione parlamentare nel marzo del 2023. Negli ultimi due anni ENPA, LNDC Animal Protection, VITADACANI e la Rete dei Santuari hanno comunicato in più occasioni la loro contrarietà all’eradicazione dei mufloni e portato avanti varie iniziative, tra cui il ricorso al TAR.
    Secondo quanto riferito dal Parco, qualcuno avrebbe inoltre compiuto «numerose azioni di disturbo» durante le pratiche di cattura dei mufloni: gli addetti a queste operazioni «sono stati pedinati e filmati mentre lavoravano e numerose sono state le azioni di sabotaggio, danneggiamento e, addirittura, di furto delle attrezzature utilizzate per le catture». Per questo il Parco aveva chiesto l’aiuto dei carabinieri per completare l’eradicazione e aveva vietato il passaggio su alcuni sentieri.
    A dicembre il Parco ha dichiarato conclusa l’eradicazione e ha fatto sapere che dopo l’accordo con WWF e LAV sono stati abbattuti 35 mufloni mentre altri 52 sono stati catturati e trasferiti. Per più di un anno dall’accordo non sono stati fatti abbattimenti.
    Più di recente è arrivata la decisione del TAR, che però non riguarda il progetto di eradicazione ma il piano della Regione Toscana che autorizzava le uccisioni dei mufloni sul territorio per la stagione di caccia 2023-2024, iniziata il primo ottobre. Il TAR ha sospeso per le ultime due settimane il permesso di cacciare mufloni sull’isola del Giglio, dunque di ucciderli al di fuori del territorio del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano.
    «Penso che in realtà in questa stagione venatoria di caccia al muflone non ci sia andato nessun cacciatore a caccia di mufloni al Giglio», commenta Sammuri: «All’inizio di ottobre qualche muflone c’era ancora, perché gli ultimi li abbiamo prelevati tra ottobre e dicembre, ma erano pochissimi. Chi vuole andare a caccia di mufloni va dove ce ne sono molti».
    Ad esempio sull’isola d’Elba, dove secondo Sammuri sono stati cacciati circa 150 mufloni nella stagione che sta finendo. Nello stesso periodo all’interno del territorio del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, che si estende in parte anche sull’isola d’Elba, sono stati abbattuti circa 400 mufloni. «Quest’anno è stato un po’ un record, però almeno 300 all’anno nel Parco li abbiamo sempre abbattuti», dice ancora Sammuri, «e io non ho mai capito perché di 300 all’isola d’Elba non gliene importa niente a nessuno e invece queste poche decine dell’isola del Giglio hanno avuto questa grande attenzione».
    All’Elba sembra prevalere un’opinione pubblica favorevole alla possibilità di un’eradicazione della specie: ci sono ben due comitati locali che chiedono di eliminare mufloni e cinghiali dall’isola per via dei danni all’agricoltura e ai giardini e agli incidenti stradali causati da impatti con gli animali. I comuni dell’isola hanno finanziato uno studio di fattibilità per stimare costi e tempi necessari per l’eradicazione delle due specie. Servirebbero probabilmente molti più soldi di quelli con cui è stato finanziato “LetsGo Giglio” (1,6 milioni di euro) e in parte usati per i mufloni: l’isola d’Elba ha una superficie quasi dieci volte superiore a quella del Giglio, una popolazione venti volte superiore e centinaia di mufloni e cinghiali.
    In un incontro pubblico organizzato per discutere della possibile eradicazione delle due specie c’erano anche alcune persone contrarie, ma su fronti opposti: si dividevano tra animalisti e cacciatori che vorrebbero continuare ad andare a caccia sull’isola.
    Il TAR si esprimerà nuovamente sul ricorso che riguarda il Giglio a luglio. Per allora saranno stati fatti i controlli per verificare che davvero sull’isola non siano rimasti più mufloni, come previsto dai protocolli di “LetsGo Giglio”, e secondo Sammuri «mancherà il tema del contendere». Il presidente del Parco è certo che l’anno prossimo la Regione Toscana non farà un piano di caccia al muflone per l’isola, perché non ce ne sarà nessuno. LEGGI TUTTO

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    Lo scorso febbraio è stato il più caldo mai registrato, secondo il programma dell’Unione Europea sull’osservazione della Terra

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso febbraio è stato il più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 13,54 °C, 0,12 °C più alta del precedente febbraio più caldo mai registrato, quello del 2016. Febbraio del 2024 è il nono mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale.Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti. Carlo Buontempo, direttore del Climate Change Service di Copernicus, ha detto che la temperatura media del febbraio appena trascorso «non è davvero sorprendente, perché il continuo riscaldamento del sistema climatico porta inevitabilmente a nuovi estremi di temperatura». LEGGI TUTTO

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    Il clima di un pezzo di Africa cambierà grazie alla “Grande muraglia verde”?

    Caricamento playerDal 2007 undici paesi stanno portando avanti un progetto molto ambizioso per influenzare il clima (e quindi l’abitabilità) e lo sviluppo economico di un grosso pezzo di Africa: la realizzazione di una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri tra Dakar, in Senegal, sulla costa occidentale del continente, e Gibuti, la capitale del paese omonimo, sulla costa orientale. Il progetto si chiama “Grande muraglia verde”, e i risultati di una simulazione da poco pubblicati sulla rivista scientifica One Earth dicono che porterà un aumento delle precipitazioni medie e una diminuzione della durata dei periodi di siccità.

    Nell’idea iniziale, che risale agli anni Ottanta e a Thomas Sankara, leader carismatico e primo presidente del Burkina Faso, la Grande muraglia verde doveva essere davvero una specie di lunga barriera di alberi. Si riteneva che avrebbe potuto arginare un processo che avrebbe reso il Sahel, l’arida regione a sud del Sahara, più simile al deserto vero e proprio. Poi il progetto venne corretto tenendo conto di analisi scientifiche aggiornate e dei vantaggi socio-economici di foreste, praterie e terre coltivate per la popolazione locale. Nella forma attuale il progetto prevede di realizzare un “mosaico” di terreni coperti da vari tipi di vegetazione che dovrebbe occupare 1 milione di chilometri quadrati, più o meno la stessa superficie di Francia e Germania messe insieme, entro il 2030. In parte saranno riforestati piantando nuovi alberi, in parte coltivati.
    I principali paesi coinvolti sono, da est a ovest, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Sudan, Ciad, Niger, Nigeria, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Senegal, e il progetto è stato approvato dall’Unione Africana, l’organizzazione internazionale di paesi africani che ha per modello l’Unione Europea.
    Una zona forestata nel Sahel senegalese, l’11 luglio 2021 (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Lo studio uscito su One Earth è stato fatto da Roberto Ingrosso e Francesco Pausata, due climatologi italiani che lavorano all’Università del Québec, in Canada, ed è il primo ad aver valutato i possibili impatti sul clima del Sahel della versione più aggiornata della Grande muraglia verde. È basato su modelli di simulazione climatica con una risoluzione spaziale di circa 13 chilometri: mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici su superfici minime di 169 chilometri quadrati, cioè con un buon approfondimento tenendo conto dell’ampiezza complessiva del territorio interessato.
    Le simulazioni sono state fatte tenendo conto di diverse densità di vegetazione che si potrebbero ottenere con la Grande muraglia verde. E sono stati considerati due diversi scenari di cambiamento climatico globale: quello in cui grazie alle politiche di contrasto alle emissioni di gas serra si raggiungono gli obiettivi più ambiziosi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, e quello in cui invece le emissioni continuano ad aumentare e l’atmosfera del pianeta a riscaldarsi. Per entrambi gli scenari, nel caso di un aumento significativo della densità di vegetazione, Ingrosso e Pausata hanno previsto un aumento delle precipitazioni in alcune zone del Sahel, una diminuzione dei periodi di siccità e delle temperature estive.
    Al tempo stesso però i modelli indicano che in relazione alla Grande muraglia verde ci sarà un maggior numero di giorni dell’anno con temperature estremamente alte, in particolare prima della stagione delle piogge. «Questi risultati sottolineano gli effetti contrastanti della Grande muraglia verde», spiega lo studio, «e dunque la necessità di fare valutazioni complessive nel decidere politiche future». Gli effetti saranno diversi a livello locale e se complessivamente la regione sarà meno arida – posto che effettivamente si riesca a ottenere una buona densità di vegetazione con il progetto – in alcune zone aumenteranno i giorni con temperature molto alte, cosa che può avere effetti rilevanti per la popolazione.
    Illustrazione dallo studio di Roberto Ingrosso e Francesco Pausata: in verde l’area interessata dalla Grande muraglia verde, in azzurro quella in cui è stato previsto un potenziale aumento delle precipitazioni. Le nuvole indicano le zone in cui potrebbero diminuire i periodi di siccità, i termometri quelle in cui potrebbero registrarsi temperature massime più alte
    Nel Sahel così come nel Sahara le precipitazioni sono legate all’intensità del monsone dell’Africa occidentale, quel sistema periodico di perturbazioni che interessa la regione tra giugno e ottobre e a cui si deve la sopravvivenza di milioni di persone. Dagli anni Settanta in poi però questa parte dell’Africa è diventata meno ospitale a causa di intense siccità, molto probabilmente legate all’aumento della temperatura superficiale dell’oceano Atlantico, oltre che al modo in cui il territorio è stato sfruttato. L’idea di usare la vegetazione per contrastare questi effetti nasce dal fatto che le piante contribuiscono a conservare l’acqua nel suolo e con i loro processi biologici influenzano anche la quantità di umidità nell’aria.
    È inoltre possibile che l’aumento del suolo coperto da foreste riduca la forza dei venti sulla regione, dice lo studio di Ingrosso e Pausata, e per questo contribuisca a un aumento di precipitazioni.
    Un rapporto del 2020 della Convenzione contro la desertificazione delle Nazioni Unite (UNCCD) ha cercato di stimare in quale misura l’obiettivo fissato per il 2030 sia già stato raggiunto: non è chiarissimo perché i confini dei territori coinvolti non sono stati fissati in modo inequivocabile, quindi si è parlato di una percentuale compresa tra il 4 e il 18 per cento, sulla base delle informazioni fornite dai paesi coinvolti. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno promesso un consistente finanziamento del progetto per accelerarlo: sono stati annunciati 14,3 miliardi di dollari di finanziamento entro il 2025, di cui 2,5 sono stati consegnati tra il 2021 e il 2023.
    I lavori per la creazione di un giardino che fa parte della Grande muraglia verde a Boki Diawe, in Senegal, il 10 luglio 2021: questo genere di giardini prevede di piantare piante adatte a condizioni climatiche aride all’interno di buche circolari che permettono di sfruttare al meglio le risorse idriche (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Al di là delle risorse economiche necessarie per portarla avanti, la Grande muraglia verde ha altri ostacoli, di natura politica e di sicurezza. Infatti nel Sahel sono attivi molti gruppi terroristici, come il nigeriano Boko Haram, e in alcune zone ritenute particolarmente pericolose sia le organizzazioni che si stanno occupando di riforestazione che gli abitanti locali sono restii a portare avanti i progetti legati alla Grande muraglia verde.

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