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    Cosa c’è nell’acqua di Fukushima

    Caricamento playerGià il mese prossimo il Giappone potrebbe iniziare a disperdere nell’oceano Pacifico l’acqua radioattiva accumulata nell’ex centrale nucleare di Fukushima Daiichi, danneggiata dal grande tsunami del 2011. Il 4 luglio l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), un’organizzazione autonoma all’interno del sistema delle Nazioni Unite, ha detto che il piano giapponese per effondere gradualmente l’acqua nel Pacifico nel corso dei prossimi decenni rispetta le sue regole di sicurezza. Era l’ultima importante certificazione che serviva alla Tokyo Electric Power Company (Tepco), l’azienda energetica che gestisce la centrale, per cominciarne la dismissione.L’acqua in questione è sia quella che è stata usata per raffreddare le barre di combustibile nucleare della centrale subito dopo l’incidente del 2011 e mantenerle alla giusta temperatura da allora in poi (ancora oggi), sia quella piovuta o penetrata dal suolo all’interno degli edifici dei reattori nucleari prima che fossero isolati. È contaminata da alcune sostanze radioattive, anche se è stata sottoposta a un processo di filtraggio che ne ha rimosse la maggior parte. Complessivamente sono 1,33 milioni di tonnellate (pari all’acqua contenuta in più di 500 piscine olimpioniche), che si trovano all’interno di più di mille grandi serbatoi.Per rimuovere dall’acqua quasi tutti i 64 elementi radioattivi assorbiti dal combustibile nucleare è stato usato un sistema chiamato ALPS, acronimo dell’inglese “Advanced Liquid Processing System”, che sostanzialmente è composto da una sequenza di filtri chimici che trattengono quasi del tutto le diverse sostanze. L’acqua che ne esce non è però priva di contaminazioni: alcuni elementi non possono essere rimossi né con ALPS né con altre tecnologie disponibili, almeno a certe concentrazioni. Il principale è il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno naturalmente presente nell’acqua del mare e nell’atmosfera: è estremamente difficile separarlo dall’acqua dato che chimicamente è molto simile all’idrogeno, uno dei due elementi che la compongono.Il trizio è considerato poco pericoloso per la salute umana perché non può penetrare attraverso la pelle, sebbene possa avere degli effetti sulle molecole del DNA. Può però essere inalato o ingerito se si trova nell’acqua o nel cibo. Dato che gli scienziati pensano che in grandi quantità possa essere dannoso, in tutto il mondo sono stati fissati dei limiti sulla quantità di trizio che può essere contenuto nell’acqua potabile; variano molto tra i paesi in base al livello di cautela scelto.In Italia e negli altri paesi dell’Unione Europea deve essere inferiore ai 100 becquerel per litro, negli Stati Uniti inferiore a 740, mentre il limite fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) è molto più alto, pari a 10mila becquerel per litro (il becquerel è l’unità di misura dell’attività di un radionuclide, che corrisponde a un decadimento al secondo).Il piano del governo giapponese prevede di diluire l’acqua contaminata di Fukushima con acqua di mare fino ad arrivare a una quantità di trizio inferiore ai 1.500 becquerel per litro prima di riversarla nell’oceano, dove sarà ulteriormente diluita, tanto da non influire in modo apprezzabile sulla naturale concentrazione di trizio nell’oceano. In Giappone il limite legale per la presenza di trizio nell’acqua è di 60mila becquerel per litro.L’altro elemento radioattivo che non si riesce a rimuovere del tutto con il sistema ALPS è il carbonio-14, che secondo TEPCO nei serbatoi di Fukushima ha una concentrazione al di sotto del limite del 2 per cento fissato dalle regole internazionali: la società ha detto inoltre che la concentrazione sarà ulteriormente ridotta attraverso la diluizione con l’acqua di mare.Nel rapporto diffuso martedì e realizzato dopo due anni di studi di esperti di sicurezza nucleare di 11 paesi, l’IAEA ha detto che la dispersione dell’acqua contaminata di Fukushima nelle modalità previste dal piano della TEPCO avrà un effetto trascurabile sull’ambiente e sulle persone.Alcuni paesi vicini al Giappone e vari biologi hanno tuttavia espresso dei dubbi sulla sicurezza della dispersione dell’acqua e in particolare sulle possibili conseguenze dell’accumulo delle sostanze radioattive all’interno degli organismi marini attraverso la catena alimentare. Non preoccupa tanto la quantità di sostanze radioattive che un singolo pesce assorbirà dall’acqua, insomma, ma quella che si accumulerà soprattutto negli animali più grossi attraverso l’alimentazione, sebbene non si peschi più nell’area con raggio di 3 chilometri attorno alla centrale.«L’effetto della chimica della diluizione è invalidato dalla biologia dell’oceano», ha detto a Nature Robert Richmond, biologo marino dell’Università delle Hawaii; è uno dei cinque scienziati che stanno facendo da consulente sulla questione dell’acqua di Fukushima per il Pacific Islands Forum, un’organizzazione intergovernativa che riunisce 18 paesi del Pacifico, tra cui l’Australia, le Fiji e la Papua Nuova Guinea. Secondo Richmond, che ha studiato il piano della TEPCO e visitato la centrale di Fukushima, rimangono alcuni dubbi sulla sicurezza della dispersione dell’acqua.Shigeyoshi Otosaka, un oceanografo e chimico marino dell’Università di Tokyo, ha spiegato sempre a Nature che la comunità scientifica non conosce ancora con esattezza quali possano essere le conseguenze dell’accumulo di sostanze radioattive negli organismi marini. La TEPCO ha realizzato degli esperimenti di laboratorio in cui ha fatto crescere alcuni organismi all’interno di acqua trattata dal sistema ALPS e sostiene che le concentrazioni di trizio non superino le soglie di sicurezza. L’azienda e il governo giapponese hanno inoltre sottolineato più volte che in molte parti del mondo le centrali nucleari disperdono in mare acqua contenente trizio, anche in concentrazioni maggiori.La ragione per cui nel 2021 la TEPCO e il governo giapponese avevano deciso di disperdere l’acqua contaminata di Fukushima nell’oceano era che lo spazio per mettere nuovi serbatoi nel sito della centrale stava finendo e quello attualmente occupato dai serbatoi esistenti servirà per realizzare nuovi impianti per il trattamento dei materiali radioattivi della centrale. Era necessario insomma trovare una destinazione alternativa per l’acqua: l’alternativa che era stata considerata era di lasciarla evaporare nell’atmosfera, come era stato fatto nel 1979 dopo l’incidente della centrale nucleare statunitense di Three Mile Island, ma così facendo si avrebbe avuto un minore controllo sui livelli di sostanze radioattive disperse nell’ambiente.L’IAEA supervisionerà il processo di dispersione dell’acqua per tutta la sua durata, almeno quarant’anni, per controllare in maniera continuativa i livelli di radioattività. Avrà anche un ufficio permanente a Fukushima. LEGGI TUTTO

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    Il 3 luglio è stato il giorno più caldo mai registrato

    Lunedì 3 luglio è stato il giorno più caldo mai registrato a livello globale, secondo i dati analizzati dai Centri nazionali per la previsione ambientale (NCEP), che fanno parte del Servizio meteorologico nazionale del governo degli Stati Uniti. La temperatura media globale ha raggiunto i 17,01 °C, segnando un nuovo massimo dopo i 16,92 °C che erano stati registrati nell’agosto del 2016. Al nuovo record hanno contribuito le varie ondate di calore che nell’ultimo periodo hanno interessato diverse aree del pianeta.La giornata di lunedì è stata la più calda da quando è iniziato il rilevamento della temperatura media globale utilizzando i dati satellitari, alla fine degli anni Settanta dello scorso secolo. Le notizie sul giorno più caldo sono arrivate a pochi giorni di distanza dalle prime conferme sul mese di giugno appena finito, che si è rivelato il più caldo mai registrato nel Regno Unito.Le ondate di calore delle ultime settimane sono state attribuite alle condizioni atmosferiche locali in combinazione con l’arrivo del nuovo El Niño, sui cui effetti, soprattutto per quanto riguarda l’Europa, ci sono comunque ancora incertezze. Con “El Niño” si indica l’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e che influenza il clima in buona parte del pianeta, contribuendo tra le altre cose all’aumento della temperatura media globale. Gli effetti di El Niño sono diventati via via più significativi anche a causa degli effetti del riscaldamento globale dovuto all’aumento delle emissioni di anidride carbonica e altri gas serra, soprattutto per via delle attività umane.Nella parte meridionale degli Stati Uniti da settimane si registrano alte temperature ed eventi atmosferici estremi, mentre in Cina prosegue da giorni una intensa ondata di calore con temperature al di sopra di 35 °C in buona parte del paese. Nel Nord Africa sono state registrate temperature intorno ai 50 °C. In Antartide, dove ora è inverno, sono state rilevate anomalie nelle temperature con massime più alte del solito, che hanno contribuito a una accelerazione nella fusione del ghiaccio. In una delle stazioni di rilevamento antartiche è stata rilevata una temperatura di 8,7 °C, un nuovo record per il mese di luglio.In questa prima fase dell’estate le ondate di calore hanno interessato soprattutto la Spagna, ma sono state rilevate anomalie anche più a nord. Di recente è stato segnalato un aumento della temperatura nei mari attorno al Regno Unito e all’Irlanda, di 3-4 °C in più rispetto alla media registrata negli anni scorsi in questo periodo.È sempre difficile fare previsioni sull’andamento delle temperature nel breve periodo, ma secondo gli esperti è probabile che nel corso delle prossime settimane saranno superati nuovi record, sempre a causa di El Niño e di altri effetti riconducibili al cambiamento climatico. LEGGI TUTTO

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    Non sappiamo quali saranno gli effetti del nuovo El Niño sull’Europa

    L’8 giugno la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia, ha annunciato che è infine tornato il cosiddetto “El Niño”, quell’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e influenza il clima di gran parte del pianeta, portando tra le altre cose a un aumento della temperatura media globale. Per i prossimi anni dunque si prevedono nuovi record di alte temperature perché gli effetti del riscaldamento dovuto alle emissioni di gas serra saranno ulteriormente accentuati da quelli di El Niño.Ci saranno poi altre conseguenze del fenomeno atmosferico, che riguarderanno le precipitazioni: a causa di El Niño in alcune regioni pioverà di più e in altre di meno. Per la sua lontananza dal Pacifico, l’Europa non subirà gli effetti più forti di El Niño, ma un’influenza ci sarà comunque, specialmente se quello di quest’anno – ed eventualmente dei prossimi, se la situazione dovesse durare a lungo – sarà particolarmente intenso.Con l’espressione “El Niño” si fa riferimento a una delle tre fasi di quello che i climatologi chiamano ENSO, acronimo inglese di “El Niño-Oscillazione Meridionale”: una variazione dei venti e della temperatura della superficie della parte tropicale orientale del Pacifico che avviene periodicamente a intervalli irregolari. C’è una fase neutra in cui l’acqua superficiale del Pacifico è più fredda nella parte orientale dell’oceano rispetto a quella occidentale e i venti tendono a soffiare da est a ovest complessivamente.“El Niño” è invece la fase detta di riscaldamento, in cui i venti si indeboliscono o cambiano direzione, spingendo le acque più calde verso est invece che verso ovest: si scaldano così le acque superficiali del Pacifico orientale, sempre nella fascia tropicale. Il suo nome significa “il bambino” in spagnolo: deriva dal fatto che nel Diciassettesimo secolo i pescatori del Perù notarono che a intervalli di qualche anno le acque dell’oceano diventavano più calde nel periodo di Natale, cioè della festa di Gesù bambino.Convenzionalmente si dice che El Niño è iniziato quando la temperatura negli strati d’acqua superficiali nella fascia tropicale del Pacifico orientale aumenta di almeno mezzo grado Celsius rispetto alla media di lungo periodo, situazione che si è verificata tra fine maggio e inizio giugno.Come è cambiata la temperatura degli strati superficiali dell’acqua del Pacifico rispetto alla media tra il 30 gennaio e il 4 giugno 2023 rispetto alla media di lungo periodo (NOAA)Tra le altre cose El Niño potrebbe portare molte precipitazioni nel sud degli Stati Uniti e nel Golfo del Messico, e ridurle fino a condizioni di siccità nel sud-est asiatico, in Australia e nell’Africa centrale; al tempo stesso El Niño aumenta la frequenza di tempeste tropicali nel Pacifico e diminuisce quella di uragani nell’Atlantico.Un El Niño molto forte potrebbe avere effetti considerevoli, con alluvioni in alcune aree e siccità in altre, con danni per l’agricoltura e la pesca soprattutto per i paesi sulle coste del Pacifico. Si stima che tra il 1997 e il 1998 El Niño causò danni in giro per il mondo pari a quasi 35 miliardi di dollari, con 23mila morti riconducibili al fenomeno atmosferico. L’ultima volta in cui si è verificato fu nel 2016: l’anno con la temperatura media globale più alta mai registrata.Da zona a zona comunque gli effetti possono variare, anche a seconda dell’intensità dell’El Niño in questione, e sarebbe complicato elencarli tutti: alcune regioni del mondo potrebbero essere più fredde o più calde del solito in diversi momenti dell’anno.Per quanto riguarda l’Europa, ci sono molte incertezze su se e come il nuovo El Niño ne influenzerà le condizioni meteorologiche, sia per quanto riguarda la temperatura che le precipitazioni. Potrebbe causare inverni più freddi della media nel Nord Europa, ma non è certo: dipenderà da quanto sarà intenso, se fosse molto forte ci sarà invece una tendenza per temperature più alte. Altre possibilità sono che porti un’estate e un autunno più piovosi nella penisola iberica, cioè in Portogallo e Spagna, e un autunno più caldo nel Mediterraneo, Italia compresa.La terza fase di ENSO, quella di raffreddamento, è stata chiamata “La Niña”, al femminile, in quanto opposto di El Niño. Si verifica quando i venti diretti da est a ovest soffiano più forte, spingendo le acque calde ancora più a ovest rispetto alla fase neutra e rendendo particolarmente più fredde quelle del Pacifico orientale: succede infatti che acque più fredde risalgono dalle profondità oceaniche, raffreddando quelle in superficie.Generalmente due diverse fasi di El Niño avvengono a una distanza che va dai due ai sette anni e di solito durano dai nove mesi a un anno; non si alternano necessariamente con le fasi di La Niña, che peraltro sono meno frequenti.Fino allo scorso marzo eravamo in una fase di La Niña, la terza di fila dal 2020: nonostante il suo generale effetto di raffreddamento globale gli ultimi tre anni sono stati particolarmente caldi (il 2022 il terzo più caldo di sempre per temperatura media), un segno del fatto che anche in presenza di La Niña le conseguenze del cambiamento climatico causato dalle attività umane sono evidenti.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027 LEGGI TUTTO

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    I SUV sono ancora un grande problema per l’ambiente

    Caricamento playerI SUV, gli “sport utility vehicle”, sono tra i veicoli a motore più venduti degli ultimi anni a livello globale, come dimostra la loro crescente presenza nelle città e sulle strade anche in Italia. L’alta domanda è stata assecondata dalle aziende automobilistiche, che nel tempo hanno espanso la presenza dei SUV nei loro cataloghi, concentrando spesso l’offerta di nuove tecnologie e optional accattivanti su questi modelli. La loro grande diffusione ha permesso al settore dell’auto di subire meno le cicliche e ricorrenti crisi che lo interessano, ma ha anche portato a un paradosso: proprio in un momento in cui c’è una maggiore consapevolezza sulle cause e gli effetti del riscaldamento globale, si vendono automobili più grandi e pesanti di un tempo, che in molti casi inquinano di più o comunque rallentano la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, il principale gas serra.I dati sulle vendite nel 2022 aiutano a farsi un’idea della dimensione del fenomeno. In generale l’anno scorso non è stata una buona annata per il settore dell’auto, con una riduzione dello 0,5 per cento rispetto all’anno precedente e una vendita complessiva di 75 milioni di automobili. La riduzione è stata più marcata nell’Unione Europea (-4 per cento) e negli Stati Uniti (-8 per cento), soprattutto a causa della mancanza dei componenti e delle materie prime.Le vendite dei SUV sono invece aumentate del 3 per cento tra il 2021 e il 2022 e quasi un’automobile su due (46 per cento) venduta lo scorso anno era un SUV. La crescita nelle vendite ha interessato soprattutto l’Europa, gli Stati Uniti e l’India, dove la domanda continua a mantenersi alta e quasi tutti i produttori danno molta più evidenza nelle pubblicità a questi modelli rispetto alle automobili compatte o totalmente elettriche.Naturalmente non tutti i SUV venduti nel 2022 erano a motore termico. Secondo uno dei rapporti dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) il 16 per cento dei SUV venduti erano elettrici, con una offerta di modelli di questo tipo mai raggiunta prima e superiore a quella delle altre tipologie di automobili elettriche. Per avere un’idea della dimensione del mercato, nel 2022 si stima siano stati venduti 10 milioni di automobili elettriche, con un aumento del 50 per cento rispetto al 2021 quando ne erano stati venduti 6,6 milioni.L’aumento dei SUV elettrici è di per sé positivo, ma non rimuove il problema del loro maggiore impatto ambientale rispetto ad altri veicoli. I SUV sono più pesanti e per questo meno efficienti dal punto di vista energetico, semplicemente perché occorre più energia per spostarli (a prescindere da come sia stata generata). Senza contare il maggiore impatto per costruire e trasportare automobili più pesanti e voluminose dalle fabbriche ai punti di vendita, circostanza che incide ampiamente sull’intero indotto dell’automobile.Sempre la IEA segnala che tra il 2021 e il 2022 il consumo di petrolio impiegato per i carburanti delle automobili è rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre è aumentato quello per i SUV. L’incremento stimato è stato di mezzo milione di barili di petrolio al giorno, circa un terzo dell’intera crescita di domanda di questa materia prima nel corso del 2022 rispetto all’anno precedente.Rispetto a un’automobile di medie dimensioni, un SUV consuma circa il 20 per cento in più di carburante, proprio perché è necessario un motore di una cilindrata maggiore per spostarlo. L’impiego di motori ibridi, che mettono insieme un motore termico e uno elettrico, consente di ridurre i consumi, che continuano comunque a essere alti se confrontati con quelli di un’automobile di medie dimensioni sempre dotata di tecnologia ibrida. Il risultato è che le emissioni prodotte non si riducono in maniera significativa.Autovetture totali (in blu), SUV (in verde) e percentuale di SUV (linea celeste) (IEA)L’IEA stima che nel 2022 le emissioni di anidride carbonica prodotte dai SUV siano aumentate di 70 milioni di tonnellate. In tutto il mondo i veicoli di questo tipo sulle strade sono circa 330 milioni che emettono un miliardo di tonnellate di anidride carbonica all’anno. Un ipotetico luogo fatto solo di SUV sarebbe il sesto paese per emissioni di anidride carbonica annue, dopo il Giappone.Il motivo del successo dei SUV deriva da numerosi fattori che riguardano sia chi compra le automobili sia chi le vende. Fino agli anni Novanta erano poco diffusi, soprattutto in Europa, costosi e ricordavano esteticamente i classici fuoristrada. Alla fine di quel decennio, l’offerta iniziò a differenziarsi con la comparsa di modelli che erano una sorta di via di mezzo tra le normali automobili e i fuoristrada, riscuotendo un certo successo. Man mano che diventavano disponibili nuovi modelli e soprattutto che i prezzi si abbassavano, la domanda si fece più alta e in molti paesi oggi è più probabile che qualcuno esca da un concessionario con un SUV che con una berlina.Al crescente successo di questi veicoli ha contribuito anche una certa percezione sulla loro sicurezza da parte di chi li acquista. I SUV sono visti come automobili più “sicure”, perché più grandi e all’apparenza solide, quindi in grado di proteggere meglio chi si trova al loro interno. È una percezione che riveste un ruolo importante al momento della scelta di una nuova automobile: chi è abituato ad avere auto di medie-piccole dimensioni sa che cosa significa essere nel traffico circondato da auto molto più grandi e pesanti, si sente meno al sicuro e quando deve cambiare la propria automobile valuta di passare a un SUV, per ridurre quel senso di insicurezza.I produttori di automobili promuovono volentieri i loro SUV rispetto agli altri modelli perché da questi riescono quasi sempre ad avere margini di guadagno più alti. I SUV sono più cari, fino al 50 per cento in più rispetto alle berline o alle due volumi di dimensioni comparabili, ma la loro produzione non costa molto di più se confrontata con quella delle altre auto. C’è di conseguenza un forte interesse a orientare gli acquisti verso i SUV, specialmente se con tecnologie ibride sulle quali si può fare comunque leva per vincere le eventuali ritrosie di chi compra e pensa all’impatto ambientale della sua scelta.Oltre a richiedere più materiale per essere costruiti, ad avere un peso maggiore e a produrre più emissioni a parità di persone che possono trasportare, i SUV inquinano di più anche in altri modi. I veicoli più pesanti consumano in modo diverso gli pneumatici, per esempio, portando a una maggiore produzione di polveri sottili che rimangono a lungo in sospensione nell’aria e che possono costituire un rischio per la salute, specialmente nei contesti urbani. Le città in molti casi non sono inoltre attrezzate per veicoli che occupano molto più spazio rispetto alle normali automobili: ciò comporta maggiori problemi di traffico, tempi più lunghi per trovare parcheggi con relativi aumenti delle emissioni e problemi di sicurezza per chi va a piedi o utilizza la bicicletta.In generale, i SUV sono più sicuri per chi viaggia al loro interno e più pericolosi per gli altri, rispetto alle auto di medie dimensioni. Uno studio realizzato un paio di anni fa negli Stati Uniti ha rilevato come sia otto volte più probabile che una persona alla guida di un SUV investa e uccida un bambino in un incidente rispetto alle persone sulle altre automobili, e come quel tipo di veicolo sia più rischioso e a volte letale anche per i pedoni e i ciclisti. I dati e le loro analisi variano molto a seconda degli studi ed è quindi difficile stabilire quale sia l’effettivo impatto dei SUV in termini di sicurezza stradale. È stata comunque rilevata una maggiore pericolosità di questi veicoli nel caso di impatti laterali contro automobili più piccole, i cui sistemi di protezione non sono sempre sufficienti per ridurre gli effetti dello scontro e proteggere chi si trova nell’abitacolo da quel lato.Il problema era presente soprattutto con i primi modelli di SUV ed è stato affrontato, con qualche miglioramento, negli ultimi anni grazie all’introduzione di nuove regole di sicurezza per i costruttori. Le stime più recenti riferite al 2013-2016 dicono che chi si trova in auto ha il 28 per cento di probabilità in più di morire in uno scontro con un SUV rispetto a una normale automobile, rispetto al 59 per cento rilevato nel periodo tra il 2009 e il 2012.I problemi di sicurezza sono anche legati all’ingombro sulle strade più vecchie, dove il passaggio di due veicoli negli opposti sensi di marcia era già normalmente difficoltoso. Essendo più grandi e massicci, i SUV possono interferire con la visibilità nei veicoli di minori dimensioni, per esempio quando si vogliono effettuare sorpassi. Di notte ai problemi di visibilità si aggiungono i rischi legati ai fari più alti rispetto a quelli delle normali automobili, con il rischio di rimanere abbagliati se non sono orientati correttamente.Mentre gli effetti sulla sicurezza sono ancora dibattuti, quelli sull’impatto ambientale dei SUV sono ormai assodati grazie ai dati raccolti negli ultimi anni, nell’ambito di studi e ricerche sulle emissioni prodotte dai mezzi di trasporto. Le aziende che li producono sostengono spesso che con l’elettrificazione il problema sarà risolto, ma – al di là di alcuni processi industriali per la costruzione che avverranno ancora a lungo bruciando combustibili fossili – il consumo di energia continuerà a essere un punto critico soprattutto per un motivo: un’automobile elettrica pesa spesso di più del suo modello equivalente con motore termico. È un problema che riguarda molti modelli e non solo i SUV. Una FIAT 500 ha una massa intorno alla tonnellata, mentre una FIAT 500 elettrica ha una massa di circa 300 chilogrammi in più.L’aumento della massa è dovuto soprattutto alle batterie e alla necessità di rinforzare la scocca per reggerne il peso. Nel caso di alcuni modelli di SUV l’aumento è significativo perché la massa più grande dovuta alle maggiori dimensioni richiede di usare motori più potenti e batterie più grandi, portando a un veicolo piuttosto pesante.È un dilemma difficile da risolvere e che diventerà sempre più centrale se continuerà a esserci un’alta domanda di SUV, specialmente se saranno venduti come una alternativa “verde” perché completamente elettrici. Alcuni esperti segnalano che la soluzione al problema passi dall’introduzione di imposte più alte per l’acquisto dei SUV, in base alla loro massa, in modo da disincentivare almeno in parte l’acquisto di veicoli pesanti e voluminosi. Alcuni governi stanno valutando o hanno introdotto misure simili, che potrebbero aiutare a recuperare parte del denaro che veniva raccolto attraverso le accise sui carburanti, che diventeranno sempre più marginali man mano che si passerà ai motori elettrici.Veicoli più costosi a causa delle imposte potrebbero anche essere un incentivo per spingere i produttori di automobili a investire nella ricerca e nello sviluppo di batterie di nuova generazione, meno pesanti e comunque efficienti. Nell’ultimo decennio i progressi nel settore sono stati notevoli, ma sono stati sfruttati soprattutto per estendere la quantità di chilometri che un veicolo elettrico riesce a percorrere con una sola carica. Di conseguenza man man che diventavano più compatte si aggiungevano batterie, senza riduzioni significative della massa dei veicoli. La progressiva diffusione di stazioni di ricarica e tempi più rapidi per caricare le batterie stanno iniziando a cambiare le cose, rendendo meno centrale nella percezione delle persone l’autonomia. La maggior parte degli spostamenti giornalieri consiste inoltre in poche decine di chilometri, enormemente al di sotto della capacità degli ultimi modelli delle automobili elettriche.Alcune aziende automobilistiche come Tesla e Volvo sono inoltre al lavoro per ottimizzare il peso della scocca, per esempio integrandola con le batterie in modo da ridurre la massa complessiva. È un lavoro di ricerca complesso che richiede la sperimentazione di nuovi materiali da sostituire agli attuali. Rispetto a metà anni Novanta, mediamente un veicolo dei giorni nostri ha il 44 per cento in meno di acciaio, grazie all’impiego di alluminio, di altre leghe metalliche e di materiali come la fibra di carbonio. Non tutti i materiali sono però adeguati o in alcuni casi richiedono comunque molta energia nella loro fase di produzione, in un contesto in cui molta dell’energia viene ancora derivata dall’impiego dei combustibili fossili.Che siano SUV elettrici e a peso ridotto o veicoli compatti, le automobili continuano comunque a essere un sistema di trasporto inefficiente dal punto di vista energetico in buona parte dei contesti, soprattutto se confrontato con i trasporti collettivi. Alcune lo sono più delle altre. LEGGI TUTTO

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    Non si può ancora dire se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo nelle alluvioni in Romagna

    Caricamento playerUn gruppo di ricerca internazionale ha realizzato un primo studio per verificare se – ed eventualmente in quale misura – il cambiamento climatico dovuto alle attività umane abbia contribuito alle alluvioni di maggio in Romagna, e non ha trovato prove del fatto che abbia reso più probabili o intense le precipitazioni che le hanno causate. Tuttavia saranno necessarie altre ricerche, più approfondite, per dare risposte più chiare e definite sul tema e capire bene le eccezionali dinamiche atmosferiche che hanno portato alle alluvioni. Per questo gli scienziati che hanno partecipato allo studio non escludono ancora che il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo.Le uniche analisi scientifiche che si possono fare molto a ridosso di un evento meteorologico estremo sono statistiche. In questo caso la quantità di pioggia responsabile delle alluvioni è stata confrontata con i dati sulle precipitazioni in Emilia-Romagna che partono dagli anni Sessanta. Poi sono state usate 19 diverse simulazioni climatiche computazionali per vedere se la probabilità che cadesse quella stessa quantità di pioggia nell’arco di 21 giorni di primavera sarebbe stata diversa in assenza del cambiamento climatico: nessuna simulazione ha indicato che quelle precipitazioni sarebbero state meno probabili o meno intense. Il limite di questa analisi, e la ragione per cui lo studio non è definitivo, è che non dice nulla sulle ragioni fisiche per cui tre cicloni si sono sono susseguiti in breve tempo e sono stati tanto persistenti, e non spiega se l’aumento della temperatura media globale abbia avuto un ruolo nel loro sviluppo.Lo studio è stato condotto dalla World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra scienziati esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, tra cui l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica potesse rispondere il più velocemente possibile e nel dettaglio alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che si verifica un evento meteorologico estremo particolarmente disastroso.Allo studio sulle alluvioni in Romagna hanno partecipato 13 scienziati. Hanno preso in considerazione i tre eventi di pioggia abbondante e concentrata nel tempo che sono avvenuti intorno al 2, al 10 e al 16 maggio e che sono stati causati tra tre diversi cicloni formatisi sul mar Tirreno. Il primo ha provocato l’esondazione di alcuni corsi d’acqua e un numero limitato di allagamenti; il secondo non ha causato inondazioni, ma ha contribuito a saturare di acqua il suolo, rendendo così più disastrosi gli effetti del terzo ciclone: a quel punto il terreno non poteva più assorbire le precipitazioni. Questo terzo evento ha causato l’esondazione di 23 corsi d’acqua, l’allagamento di numerosi centri abitati e campi coltivati, più di 400 frane e tutti i gravi danni che ne sono conseguiti.Complessivamente la quantità di pioggia caduta nei primi 21 giorni di maggio è stata la maggiore mai registrata in Emilia-Romagna in tre settimane consecutive tra aprile e giugno. È stato stimato che un evento del genere abbia un tempo di ritorno di 200 anni, un’espressione scientifica che significa che la probabilità che si verifichi in un dato anno è circa dello 0,5 per cento. Da quando abbiamo cominciato a registrare dati sulle precipitazioni questa probabilità non è aumentata, stando al confronto dei dati storici.«Si può dire che quello che è successo apre un campo di ricerca perché la successione degli eventi, i tre cicloni che hanno seguito la siccità, è stata straordinaria», commenta Davide Faranda, fisico del clima e ricercatore dell’LSCE e tra i membri del gruppo di ricerca che ha condotto lo studio del WWA. «È un evento senza precedenti e quindi è anche molto difficile trovare cose che gli somigliano nei dati storici, ma anche nelle simulazioni future o presenti. I metodi per studiare le catene di eventi li stiamo ancora sviluppando». Faranda sottolinea che il confronto sulla precipitazione cumulata, cioè sulla quantità d’acqua piovuta complessivamente nell’intervallo di tempo considerato, è solo un pezzo della storia, perché non dice nulla su come è piovuta.Gli scienziati della WWA hanno anche utilizzato le simulazioni climatiche, cioè dei programmi simili a quelli che si usano per fare le previsioni del tempo che mostrano che tipi di eventi meteorologici si potrebbero verificare in diversi scenari climatici in parti differenti del mondo. Ne esistono tanti diversi e nel caso dello studio sulle alluvioni in Romagna hanno dato lo stesso risultato: con o senza cambiamento climatico la bassissima probabilità che cada così tanta pioggia come successo a maggio non cambia.Tuttavia bisogna considerare che anche questa conclusione ha un limite. Sono state usate simulazioni che hanno una risoluzione spaziale di 12 chilometri, che cioè mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici in una superficie di 144 chilometri quadrati, spiega Erika Coppola, fisica del clima e ricercatrice del Centro internazionale di fisica teorica Abdus Salam (ICTP) di Trieste, che ha a sua volta partecipato alla studio: «Non è detto che su questa scala si riescano a vedere gli effetti di un clima più caldo sul territorio». La complessa geografia dell’Emilia-Romagna, stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico, dovrebbe essere presa in considerazione su una scala minore per valutare meglio l’effetto della forma del territorio sui venti, ad esempio.All’ICTP possono fare anche simulazioni più sofisticate, con risoluzione di 3 chilometri, ma richiedono molta più potenza di calcolo, più tempo e una maggiore quantità di dati, e per questo hanno costi elevati: finora è stato possibile realizzarne prendendo solo alcuni intervalli di tempo definiti, non ci sono serie continue di dati che invece servirebbero per studiare eventi rari come la sequenza di cicloni che ha interessato la Romagna. «Una ragione in più per dire che bisognerebbe dare finanziamenti più sostanziosi alla ricerca», aggiunge Faranda.Parlando invece del modo in cui il risultato di questo primo studio potrebbe essere interpretato dall’opinione pubblica Faranda dice: «Frequento i social e so che il messaggio dello studio potrebbe essere riportato in modo impreciso. Io voglio dare il messaggio più veritiero possibile, non sono un attivista ambientalista ma uno scienziato, mi interessa dare il messaggio corretto, però non voglio che questo messaggio venga usato dagli scettici del cambiamento climatico per dire cavolate».La climatologia ha mostrato che in generale il riscaldamento globale ha reso e renderà più frequenti le alluvioni, ma questo non vale per tutte le parti del mondo. In altre zone si prevede invece un aumento della frequenza di altri fenomeni meteorologici estremi, come le siccità. Può anche succedere che in certe parti del mondo sia prevista una più alta frequenza di alluvioni in una specifica stagione dell’anno e meno precipitazioni nelle altre: l’Italia ha un territorio morfologicamente complesso e diverso nelle sue parti, per cui le conseguenze del riscaldamento globale potrebbero essere diverse da regione a regione.E potrebbero anche sembrare in controtendenza le une con le altre. «Il Mediterraneo per il ciclo dell’acqua è una zona veramente particolare del globo», spiega Federico Grazzini, meteorologo dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna (Arpae) e ricercatore all’Università di Monaco di Baviera, che ha a sua volta collaborato con la WWA: «In generale c’è una forte diminuzione delle piogge sulla quantità totale annuale, però questa tendenza si manifesta in tutte le stagioni tranne l’autunno: in autunno invece c’è una tendenza all’aumento. In media le piogge diminuiscono, ma quando piove sono più intense, e questo sul suolo ha effetti molto diversi». Grazzini sta lavorando a uno studio sulle precipitazioni sull’Italia centro-settentrionale che mostra che gli eventi di pioggia estremi stanno diminuendo in frequenza, ma aumentando in intensità.Gli scienziati della WWA ricordano sempre che i disastri legati a eventi meteorologici estremi vanno oltre gli eventi meteorologici presi singolarmente: sono sempre dovuti anche alla vulnerabilità della società ai loro effetti. Per questo nel caso delle alluvioni in Romagna hanno sottolineato che l’urbanizzazione e lo sfruttamento del territorio, molto elevato nella regione, aumentano i rischi legati alle piogge intense.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati prima di essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Gli scienziati che collaborano alla WWA lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO

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    Qual è il legame tra il cambiamento climatico e le alluvioni in Emilia-Romagna

    Caricamento playerLe due alluvioni in Emilia-Romagna avvenute in pochi giorni questo mese sono state eventi meteorologici estremi. In particolare, le piogge che tra il 15 e il 17 maggio hanno causato numerose esondazioni e frane nel territorio compreso tra la provincia di Bologna e le Marche sono state classificate così dall’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (IRPI) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), sia per la quantità d’acqua precipitata nell’arco di tempo considerato sia per l’ampia estensione geografica del fenomeno.È assodato e noto che il cambiamento climatico causato dalle emissioni di gas serra legate alle attività umane è e sarà responsabile di un generale aumento degli eventi meteorologici estremi come alluvioni e siccità in molte parti del mondo, compresa l’Europa e il bacino del Mediterraneo. Il semplice fatto che avvenga un fenomeno meteorologico estremo però non significa di per sé che la causa sia il cambiamento climatico – se ne verificavano anche in passato – e le relazioni tra un singolo evento e l’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera sono complicate da ricostruire anche per i climatologi. Questo non significa che la crisi mondiale del clima non c’entri nulla con le alluvioni di questi giorni, al contrario. E secondo gli scienziati le attività di prevenzione dei danni da alluvione devono tenere ben conto del contesto della crisi climatica.Silvio Gualdi, geofisico e climatologo del Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), uno dei principali enti di ricerca che si occupano del tema in Italia, ha spiegato al Corriere della Sera che tra i fattori che probabilmente hanno influenzato le piogge sull’Emilia-Romagna c’è il riscaldamento globale perché «un’atmosfera più calda contiene una maggiore quantità di vapore acqueo che, quando si verificano queste condizioni meteorologiche, è quindi in grado di produrre molta più pioggia». Si deve anche considerare l’effetto della siccità che riguarda il Nord Italia dalla fine del 2020, «perché un terreno particolarmente secco non riesce ad assorbire le precipitazioni in modo efficace, pertanto la pioggia tende a scorrere sul terreno». E uno studio ha ricondotto tale siccità, che riguarda anche altri paesi europei, al cambiamento climatico: un altro collegamento che poteva sembrare scontato a livello intuitivo, ma che non era così immediato da provare scientificamente.In un’altra intervista al Corriere Massimiliano Pasqui, ricercatore dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e membro dell’Osservatorio Siccità, ha spiegato che «alluvioni e siccità sono eventi complementari che non si annullano. Per mesi i terreni hanno perso umidità ma seccandosi sono rimasti privi della capacità di assorbire l’acqua piovana che, cadendo nelle quantità enormi di queste ore, passa sopra le superfici riarse, spianando la via agli allagamenti».Gli eventi meteorologici sono influenzati da tanti fattori diversi e alcune delle condizioni che hanno portato alle alluvioni attuali sono state presenti anche in passato, prima che il riscaldamento globale fosse ai livelli di oggi. Come ha spiegato sempre al Corriere Paola Mercogliano, un’altra climatologa del CMCC: «Le attuali condizioni estreme sono simili a quelle che portarono all’alluvione del Po nel 1994 e nel 2000. Quindi non possiamo affermare che si tratti di eventi mai visti prima ma sicuramente il cambiamento climatico amplifica la loro frequenza e intensità».Nel 2020 il CMCC ha pubblicato un lungo rapporto intitolato Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia che spiega cosa sappiamo (e cosa no) delle conseguenze del cambiamento climatico in Italia, anche relativamente alle alluvioni. Chiarisce che a differenza delle variazioni di temperatura è più complesso studiare quelle nel regime delle precipitazioni, dato che «si verificano con spiccata eterogeneità spaziale»: dunque non si può fare un discorso generale che valga per tutta l’Italia, un territorio che per la sua conformazione fisica è molto diverso nelle sue parti, ma solo su contesti locali.Servirebbero maggiori studi, ma a grandi linee «gli eventi estremi di precipitazione sembrano essere aumentati in tutta Italia, in accordo quindi ad un’analisi sull’aumento in frequenza di eventi estremi di pioggia estesa a tutto l’emisfero Nord. Accanto a questo andamento ve ne è un secondo, riscontrato grazie all’analisi eseguita su lunghe serie storiche giornaliere, che evidenzia invece una diminuzione della quantità di precipitazione totale sull’anno specie per l’area meridionale».Per quanto riguarda le conseguenze degli eventi estremi, «cresce il rischio idraulico per i bacini di modesta estensione», come quelli dei fiumi romagnoli, perché «in caso di precipitazione intensa esondano prima di bacini più grandi».La meteorologia e la climatologia sono scienze complicate: producono previsioni associate a probabilità perché – dato che riguardano sistemi fisici molto grandi, vari e interdipendenti tra loro (l’atmosfera, gli oceani e i continenti, giusto per fare una prima distinzione grossolana) – si basano su un gran numero di dati diversi. La fisica dell’atmosfera insomma è molto lontana da quella delle sfere ideali che rotolano su piani inclinati a scuola.Per questo non è banale individuare nel dettaglio la relazione tra l’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera e un singolo fenomeno meteorologico come le alluvioni in Emilia-Romagna, e spesso non ha nemmeno tanto senso per il tipo di lavoro che richiede. Ci sono eventi meteorologici che sono più facilmente attribuibili al cambiamento climatico, come le ondate di calore; per altri, come le precipitazioni e le siccità, è più complicato.Negli ultimi vent’anni si è sviluppata una branca della climatologia, la cosiddetta “attribution science”, letteralmente “scienza dell’attribuzione”, che indaga questo ambito, sviluppando i metodi per trovare eventuali collegamenti, ma di solito viene praticata in caso di fenomeni molto vasti, come ad esempio la siccità che da più di un anno riguarda il Nord Italia, la Francia, la Spagna e altri paesi europei.Ma a prescindere da questo gli scienziati che si occupano di meteo, clima e dissesto idrogeologico in Italia sono concordi nel dire che bisognerebbe intervenire sull’adattamento ai cambiamenti climatici, e nello specifico alle precipitazioni intense che causano alluvioni, visto che si sa che sono rese più frequenti dalla crisi climatica e a maggior ragione nelle zone più a rischio. La Romagna è una di queste secondo le valutazioni dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA).Mappa dell’Italia colorata in base al valore di un indicatore che mostra la popolazione residente in aree allagabili nello scenario di pericolosità idraulica media, indicata da MPH (ISPRA)Mauro Rossi, ricercatore dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (IRPI) del CNR, ha spiegato nel podcast Start On Air che nel contesto di queste alluvioni bisogna considerare l’effetto di alcune scelte della gestione del territorio e di come si è tenuto conto (o meno) dei rischi legati alle sue caratteristiche specifiche. L’Appennino romagnolo e le zone collinari a nord sono infatti «altamente propense al dissesto» per loro natura.Per Rossi sono stati fatti degli errori sia sui versanti dei rilievi, dove si è disboscato e livellato il suolo in eccesso, favorendo il deflusso d’acqua verso valle, sia in pianura, in prossimità dei fiumi: «La gestione dei fiumi nel tempo ha favorito l’esposizione a certi fenomeni. Molti di questi fiumi sono di tipo pensile: significa che il livello del fiume adesso è sopra il piano campagna. Laddove sono stati costruiti degli argini e cedono, per tutta una serie di motivi, tutta la zona che sta intorno, essendo il livello dell’acqua più alto, si allaga». LEGGI TUTTO

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    Se piove finisce la siccità?

    Le piogge delle ultime settimane hanno fatto aumentare la quantità d’acqua presente sia nei laghi che nei fiumi del Nord Italia. Per qualche giorno all’inizio del mese la portata del Po è molto aumentata lungo tutto il corso del fiume e il 10 maggio i livelli del lago Maggiore, di quelli di Como e d’Iseo erano sopra le medie stagionali. Grazie a queste precipitazioni la condizione di siccità che da più di un anno riguarda tutto il Nord, e il Piemonte in modo particolare, si è attenuata, portando benefici per le coltivazioni e le foreste e riducendo il bisogno di consumare acqua delle riserve per l’irrigazione per qualche settimana. Tuttavia non si può dire che la siccità sia finita.La siccità non è data da una semplice assenza o forte carenza di pioggia. Si sviluppa lentamente, con mesi di precipitazioni insufficienti associate a temperature particolarmente alte, e si risolve altrettanto lentamente, soprattutto se dura da tanto come quella attuale, che ha avuto origine alla fine del 2021, quando nevicò pochissimo sulle Alpi. «È probabile che fino a quest’autunno ci sarà ancora un deficit d’acqua», spiega Ramona Magno, ricercatrice dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e coordinatrice scientifica dell’Osservatorio Siccità: «Finché le riserve idriche non cominceranno a tornare alla normalità il problema rimarrà».Le riserve idriche non sono solo i laghi, ma anche le falde sotterranee e in generale la quantità d’acqua presente nel suolo. Perché tornino a riempirsi dopo una siccità prolungata servono precipitazioni nella media o abbondanti per un lungo periodo. Le piogge dell’ultimo periodo hanno sicuramente aumentato l’umidità del suolo, ma possono aver rimpinguato solo le riserve idriche più superficiali.Ramona Magno cura il bollettino mensile dell’Osservatorio Siccità di cui è appena uscito l’aggiornamento relativo al mese di aprile. Il rapporto segnala innanzitutto che, nonostante ora la situazione di molti grandi laghi non sia più preoccupante, il lago di Garda, il più grande dei laghi italiani, sia pieno per il 48,6 per cento («è un problema soprattutto per le aree agricole a valle», commenta Magno), e sottolinea che nel giro di qualche giorno l’aumento della portata del Po si è esaurito e ora i livelli d’acqua nel fiume sono tornati inferiori alla media di questo periodo dell’anno.– Leggi anche: Il piano per limitare gli sprechi d’acqua non sta andando come previstoIl bollettino contiene una serie di mappe che mostrano le condizioni di siccità in modi diversi. Per farsi un’idea della situazione Magno consiglia di osservare quelle basate sull’indice pluviometrico SPI (la sigla sta per l’inglese “Standardised Precipitation Evapotranspiration”), un valore che viene usato per rilevare le siccità meteorologiche, cioè quelle riduzioni delle precipitazioni al di sotto della media climatologica (almeno 30 anni) per un certo periodo in una determinata area. L’indice si basa sulla quantità di pioggia precipitata in uno o più mesi e quantifica di quanto è stata inferiore o superiore rispetto ai valori medi. La mappa che mostra l’SPI considerando il solo mese di aprile 2023 segnala perlopiù condizioni di siccità moderata e in poche zone: un po’ in Piemonte, lungo le coste della Romagna e nei vicini Appennini. È così appunto grazie alle piogge recenti.(Osservatorio Siccità)Tuttavia confrontando la mappa con una che invece mostra l’SPI calcolato tra il maggio del 2022 e il mese scorso, diventa evidente che la siccità non può considerarsi finita come potrebbe erroneamente suggerire la prima mappa. In Piemonte, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia ci sono in realtà zone in condizioni di siccità estrema per quanto poco è piovuto. «Le piogge di un mese non sono sufficienti per appianare il deficit del lungo periodo, la siccità idrologica», spiega Magno: i territori indicati in giallo, arancione e ancor di più rosso continuano a mostrare gli effetti della carenza d’acqua che dura da più di un anno.(Osservatorio Siccità)Un’altra mappa del rapporto mette insieme i valori sulle precipitazioni a quelli sulle temperature e mostra che le regioni che più hanno subìto l’effetto combinato di carenza di piogge e temperature maggiori della media sono Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna. Le alte temperature aumentano l’evaporazione dal suolo e la traspirazione delle piante, aggravando la carenza d’acqua.(Osservatorio Siccità)Le previsioni dei centri meteorologici europei dicono che da giugno ad agosto le temperature saranno probabilmente sopra la media in tutta l’Europa e in particolare in alcune zone già interessate dalla siccità: i paesi centro-occidentali e il Mediterraneo. Si prevede anche che saranno tre mesi più piovosi della media, ma bisogna ricordare che in generale in estate piove poco in Europa. Ancora per diversi mesi, aggiunge Magno, non si vedranno effetti legati a El Niño, quel complesso fenomeno climatico che avviene periodicamente nell’oceano Pacifico meridionale e che influenza gran parte del meteo terrestre: tornerà prossimamente secondo le valutazioni dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) dopo anni di La Niña, la fase opposta.«Da noi gli effetti si cominceranno a vedere verso la fine dell’anno e soprattutto l’anno prossimo», spiega Magno. Per via del Niño in molti paesi del mondo ci si aspetta un aumento delle temperature, anche in Europa, che si andrà a unire alla generale tendenza legata alla crisi climatica – a cui peraltro è stata ricondotta anche la siccità sia nell’Europa occidentale che in Nord Italia. Mentre l’influenza del Niño sulle precipitazioni in Europa non è ancora ben definita.Il dato apparentemente più positivo presente nel bollettino dell’Osservatorio Siccità riguarda la produzione di energia idroelettrica che nel mese di aprile è stata maggiore sia rispetto all’aprile del 2022 che a quello del 2021. Questo aumento però è stato possibile grazie alle alte temperature registrate sulle Alpi che hanno fatto fondere una buona percentuale della neve accumulatasi nei mesi invernali.Bisogna inoltre precisare che quest’anno di neve non se ne è accumulata moltissima. L’abbondante fusione di aprile e le nevicate limitate nei mesi precedenti sono la ragione per cui a metà aprile il deficit di neve accumulata sulle Alpi rispetto alla media dei precedenti 12 anni era del 67 per cento (la stima è stata fatta dalla Fondazione CIMA, Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, ente di ricerca nelle scienze ambientali), e del 73 per cento considerando solo il bacino del fiume Adige – che scorre vicino al lago di Garda.(Osservatorio Siccità)– Leggi anche: Perché l’alluvione in Emilia-Romagna è stata causata anche dalla siccità LEGGI TUTTO

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    Gli ibis a cui era stato insegnato a migrare in Toscana saranno guidati in Andalusia

    Tra i vari progetti per ripopolare l’Europa di specie animali che si erano estinte nel continente ce n’è uno particolarmente affascinante per il metodo con cui da quasi vent’anni viene portato avanti. È quello che riguarda gli ibis eremiti, uccelli molto diffusi fino al Seicento: alla fine dell’estate un gruppo di scienziati vola dall’Austria, dalla Svizzera o dal sud della Germania in direzione della Toscana a bordo di una coppia di velivoli leggeri allo scopo di farsi seguire da uno stormo di giovani ibis e insegnare loro a migrare verso un clima più mite, come facevano i loro antenati.Il progetto sta funzionando piuttosto bene, e oggi c’è una popolazione di circa 200 ibis che in primavera si riproduce a nord delle Alpi e sverna attorno alla laguna di Orbetello, in provincia di Grosseto. Quest’anno tuttavia, per la prima volta dal 2004, non ci sarà una migrazione a guida umana verso l’Italia, bensì verso la Spagna, e la causa è il riscaldamento globale.Nei secoli passati gli ibis eremiti passavano la maggior parte della primavera e dell’estate nell’Europa continentale e i mesi freddi in Africa, più precisamente nelle regioni che oggi fanno parte della Mauritania e del Senegal o dell’Etiopia e dell’Eritrea. Ma vennero cacciati a dismisura, fino all’estinzione, e i pochi superstiti, rimasti in Marocco e in Turchia, smisero di migrare. Negli ultimi decenni gruppi di ibis cresciuti negli zoo sono stati liberati in alcune parti d’Europa, ma perché la popolazione cresca al punto da essere autonoma e prosperare senza l’intervento umano è necessario che torni a migrare, perché d’inverno non ci sarebbe abbastanza cibo per sostenere un gran numero di ibis.Questa è la ragione per cui il gruppo di ricerca Waldrappteam, guidato dal biologo austriaco Johannes Fritz, ha cercato un modo per insegnare agli ibis la migrazione, scegliendo la Toscana come meta per questioni di fattibilità. Dal 2004, quasi ogni anno, il Waldrappteam – Waldrapp è la parola tedesca per “ibis” – ha guidato una ventina di giovani ibis nati in cattività fino a Orbetello. Nel 2011 per la prima volta una ibis tornò in autonomia a nord delle Alpi, facendo il percorso in senso contrario, e quando poi intraprese il viaggio di ritorno in Toscana fu seguita da un gruppo di ibis a cui la migrazione non era stata insegnata dagli umani, ma che avevano comunque l’istinto a volare verso zone più calde.Da allora la migrazione avviene spontaneamente e si è pian piano creata la piccola popolazione migratoria di oggi, composta da uccelli nati in cattività e da altri del tutto selvatici che hanno imparato la via per l’Italia dai loro simili. Tutto sembrava procedere nella giusta direzione per arrivare a una popolazione di 260 ibis, giudicata sufficientemente grande per sopravvivere in autonomia, senza il sostegno umano, se non fosse stato per le temperature eccezionalmente alte registrate in Europa lo scorso ottobre, che fanno parte di una tendenza legata al cambiamento climatico.Nei primi anni della migrazione in autonomia gli ibis iniziavano il viaggio attraverso le Alpi intorno ai primi giorni di ottobre. Da allora però la data di partenza si è via via spostata in avanti, probabilmente per via delle temperature più miti che ci sono state di anno in anno. L’ottobre del 2022 è stato il più caldo dal 1800 nel Nord Italia, anche in Austria, in Svizzera e nel sud della Germania sono stati registrati dei record, e gli ibis hanno cominciato a mettersi in viaggio solo verso la fine del mese. La partenza ritardata però è problematica: dei 60 ibis che passano l’estate nelle tre colonie più settentrionali della popolazione, solo 5 sono riusciti ad arrivare in Toscana da soli.Gli altri 55 hanno provato più volte ad attraversare le Alpi senza successo. «Gli ibis eremiti sfruttano le correnti ascensionali per volare più in alto durante la migrazione», spiega Johannes Fritz, «in particolare quando devono attraversare i passi di montagna. Abbiamo osservato che più avanti nel corso dell’anno hanno difficoltà ad attraversare le Alpi e riteniamo che sia perché all’avvicinarsi dell’inverno vengono a mancare le correnti ascensionali di cui hanno bisogno. Ce lo suggerisce anche la nostra esperienza di piloti».I 55 ibis che l’anno scorso erano rimasti bloccati a nord delle Alpi sono poi stati aiutati dal Waldrappteam, che li ha catturati e trasportati a sud delle montagne. Una volta liberati, hanno subito ripreso il viaggio e hanno raggiunto da soli la Toscana.Non è detto che anche quest’anno gli ibis eremiti si trovino ad affrontare lo stesso problema: anche se è in corso un generale aumento delle temperature, di anno in anno resta una certa variabilità e può darsi che il prossimo ottobre le condizioni meteorologiche facilitino la migrazione. Tuttavia sul lungo termine il cambiamento climatico potrebbe danneggiare il progetto di reintroduzione degli ibis eremiti e per questo il Waldrappteam ha deciso di insegnare una rotta migratoria alternativa agli ibis, che non richiede di superare le Alpi, ma solo i più bassi Pirenei: in Andalusia, nel sud della Spagna, esiste una colonia sedentaria di ibis e la migrazione a guida umana del 2023, che si terrà ad agosto, sarà diretta lì.In rosa la rotta per la migrazione a guida umana del 2023, in lilla quelle delle migrazioni degli ibis che svernano in Toscana (Waldrappteam Conservation & Research)Per il gruppo di ricerca sarà una sfida impegnativa perché il percorso di viaggio sarà nuovo per la componente umana della missione e lungo il triplo di quello verso la Toscana. «Ci sarà poi la complicazione di dover chiedere permessi di vario genere in due nuovi paesi, la Francia e la Spagna, e gli aspetti logistici relativi all’alimentazione degli ibis potrebbero essere difficili», aggiunge Fritz: «Ci preoccupano particolarmente le temperature e la siccità che potremmo incontrare lungo questa rotta migratoria. Ma ci stiamo preparando».Sebbene quest’anno nei cieli italiani non si vedranno i paraplani del Waldrappteam seguiti da un piccolo stormo di ibis, non significa però che il progetto di reintroduzione non riguarderà più l’Italia. Fritz e i suoi collaboratori continueranno a lavorare con i partner italiani, tra cui il Parco Natura Viva di Bussolengo, in provincia di Verona, per contrastare le morti di ibis dovute a errori dei cacciatori o a caccia illegale e per sostenere la popolazione che sverna a Orbetello.Secondo Fritz, anche con le difficoltà causate dal cambiamento climatico l’Italia potrà continuare a essere frequentata dagli ibis. Innanzitutto perché alcuni degli ibis reintrodotti in Austria passano l’estate in Carinzia e da lì non devono attraversare montagne tanto alte da risultare invalicabili a fine ottobre. Poi perché è in programma la creazione di una nuova colonia in Friuli e infine perché gli scienziati sono ottimisti sul fatto che anche tra gli uccelli che si accoppiano più a nord alcuni riusciranno a raggiungere la Toscana anche in futuro.«La nuova rotta migratoria e la creazione di una nuova area di svernamento è un’estensione del progetto che aumenterà la flessibilità ecologica della popolazione di ibis e speriamo che li aiuterà ad affrontare le conseguenze del cambiamento climatico», conclude Fritz: «Speriamo che il nostro progetto faccia da modello nella mitigazione degli effetti del cambiamento climatico per le popolazioni animali».– Leggi anche: Come si insegna a migrare agli uccelli LEGGI TUTTO