More stories

  • in

    Lo strato di ozono si sta riformando

    Secondo un nuovo rapporto realizzato da Nazioni Unite, Unione Europea e Stati Uniti, lo strato di ozono che avvolge la Terra si sta rigenerando, in particolare sopra l’Antartide dove a metà anni Ottanta ne era stata rilevata una preoccupante riduzione poi nota popolarmente come “buco nell’ozono”. I risultati recenti sono dovuti a un importante trattato internazionale che fu sottoscritto a Montreal, in Canada, nel 1987. Il rapporto da poco pubblicato dice che, se si continuerà a rispettare i termini dell’accordo, entro poche decine di anni la fascia di ozono potrebbe tornare a livelli normali con importanti benefici per l’ambiente.L’ozono è un gas che avvolge la Terra e che la protegge dai raggi ultravioletti dannosi del Sole. In quantità eccessive, questi possono causare seri problemi di salute a noi e alle altre specie animali, a cominciare da un aumentato rischio di sviluppare alcuni tipi di tumori, e hanno effetti anche sulle piante e di conseguenza sulle coltivazioni. Intorno al 1985, un gruppo di ricerca aveva scoperto che a 22 chilometri di altezza sopra i ghiacci dell’Antartide l’ozono si era fortemente rarefatto, comportando la formazione di una sorta di “buco” dal quale filtravano molto più facilmente le radiazioni solari dannose. Negli anni seguenti, ulteriori analisi avrebbero rilevato una riduzione dello strato di ozono al Polo Nord e in numerose altre aree del pianeta, seppure con una portata inferiore rispetto a quanto osservato in Antartide.Studi e analisi consentirono di identificare piuttosto rapidamente i colpevoli: i clorofluorocarburi (CFC), sostanze sviluppate a partire dagli anni Trenta del Novecento e molto utilizzati come refrigeranti nei frigoriferi e nei condizionatori d’aria, ma anche come gas da impiegare all’interno delle bombolette spray. Avevano avuto un grande successo perché non erano infiammabili ed erano molto meno tossici delle sostanze impiegate in precedenza. Da alcuni studi era però emerso come un eccessivo accumulo di CFC nell’atmosfera potesse incidere sui livelli di ozono. Le prime ricerche in tema risalivano agli anni Sessanta e Settanta, ma la prospettiva di rinunciare ai CFC non piaceva a numerosi settori industriali, di conseguenza il loro impiego continuò ancora per qualche anno.Grazie alle insistenze da parte dei ricercatori e alle pressioni degli attivisti, alla fine degli anni Settanta in paesi come Stati Uniti, Canada, Norvegia, Svezia e Danimarca furono approvati i primi regolamenti che limitavano o vietavano del tutto l’impiego dei CFC. Una decina di anni dopo, il trattato di Montreal portò a un importante accordo per regolare la produzione e l’utilizzo dei CFC in tutto il mondo, con la prospettiva di eliminarli del tutto insieme agli idroclorofluorocarburi (HCFC), altre sostanze dannose per l’ozono. Furono sostituiti con gli idrofluorocarburi (HFC), innocui per l’ozono, ma che si sarebbe poi scoperto contribuiscono all’effetto serra e per questo sono ora in fase di abbandono.– Ascolta anche: La storia del buco nell’ozono, raccontata in “Ci vuole una scienza”Negli anni successivi all’accordo di Montreal, l’assottigliamento dello strato di ozono iniziò a ridursi in buona parte del pianeta, mentre sopra l’Antartide iniziò a farlo solamente a partire dal 2000. Secondo il nuovo rapporto, agli attuali ritmi di ripristino, in una ventina di anni i livelli di ozono dovrebbero tornare ai valori dei primi anni Ottanta in tutto il mondo, fatta eccezione per le aree polari. L’area di ozono sull’Artico impiegherà qualche anno in più, almeno fino al 2045, mentre per quella sopra l’Antartide occorrerà attendere il 2066.Good news from #AMS2023: The ozone layer is on track to recover within four decades.Press release ➡️ https://t.co/htPbNDJ9VUExecutive summary ➡️ https://t.co/yO6o2dVOd3Partners 🤝🏽 @UNEP, @NOAA, @NASA, @EU_Commission pic.twitter.com/03FY2TQHPo— World Meteorological Organization (@WMO) January 9, 2023Il rapporto ricorda che i risultati raggiunti sono molto importanti, ma che i progressi delle nuove previsioni non devono essere dati per scontati. Negli scorsi anni è accaduto più volte che fossero rilevate tracce di CFC e altri gas dannosi per l’ozono nell’atmosfera. Queste emissioni possono derivare dall’impiego di vecchi impianti refrigeranti ancora dotati di CFC, ma anche da attività industriali che prevedono l’impiego di gas refrigeranti.Un aumento preoccupante era stato rilevato alcuni anni fa in Cina, portando la comunità internazionale a fare pressioni nei confronti del governo cinese per applicare più severamente i divieti. Vicende di questo tipo hanno portato a un lieve rallentamento nel processo di ripristino dei corretti livelli di ozono, ma non lo hanno comunque messo completamente a rischio.La perdita di ozono è rischiosa a causa della maggiore quantità di radiazione solare che filtra attraverso l’atmosfera, ma non ha un effetto diretto particolare per quanto riguarda il riscaldamento globale. Tuttavia, varie ricerche e analisi hanno mostrato come il trattato di Montreal abbia contribuito a eliminare l’impiego di altri gas con un marcato effetto serra. L’accordo è inoltre la dimostrazione della capacità della comunità internazionale di affrontare un problema globale ed è spesso segnalato come un esempio virtuoso da seguire nello sviluppo delle politiche internazionali per affrontare la crisi climatica. LEGGI TUTTO

  • in

    Il 2022 è stato l’anno più caldo in Italia dal 1800

    L’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (ISAC) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) ha diffuso un’analisi preliminare delle temperature registrate in Italia nel corso del 2022. I dati mostrano che il 2022 è stato l’anno più caldo dal 1800, cioè da quando disponiamo di dati sufficienti per fare un confronto. Più precisamente è stato l’anno la cui temperatura media dall’inizio di gennaio alla fine di dicembre, prendendo in considerazione l’intero paese, è stata la più alta dal 1800.Rispetto alla media del periodo compreso tra il 1991 e il 2020, il trentennio da usare per fare confronti di climatologia secondo le indicazioni dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO), la temperatura media è stata superiore di 1,15 °C.In tutta Italia nel 2022 la media delle temperature registrate è stata superiore a quella del 1991-2020, e nel nord-ovest del paese lo è stata così tanto da uscire dalla scala delle anomalie termiche usata dall’ISAC, il cui massimo arriva normalmente a +1,7 °C. Nel grafico sottostante sono le zone indicate con i quadrati neri.Grafico che mostra quanto si siano discostate le temperature medie del 2022 rispetto alle medie del periodo 1991-2020 nelle diverse parti d’Italia (ISAC-CNR)Nonostante le differenze regionali, il 2022 è stato l’anno con la temperatura media più alta per tutte e tre le aree in cui classicamente si divide il paese, cioè Nord, Centro e Sud.Nel Nord è stata più alta di 1,37 °C; al Centro e al Sud l’anomalia è stata meno pronunciata, rispettivamente di 1,13 °C e 1 °C. Anche per quanto riguarda la media delle temperature massime il 2022 è stato l’anno con i valori maggiori; la media delle temperature minime invece è stata la seconda più alta dal 1800.Il 2022 è stato l’anno più caldo mai registrato anche in altri paesi europei: ad esempio in Francia, dove la serie storica inizia dal 1900 e dove otto dei dieci anni più caldi sono successivi al 2010; nel Regno Unito, dove invece i dati cominciano dal 1884 e per la prima volta la temperatura media annuale ha superato i 10 °C; in Spagna, dove i confronti partono dal 1961, in Irlanda, dal 1900, e quasi sicuramente in Svizzera, dove le serie storiche iniziano dal 1864, e in Germania, dove i dati iniziano dal 1881.Anche l’inizio del 2023 è stato più caldo del solito in gran parte dell’Europa, e in particolare in alcuni paesi orientali come la Polonia. Secondo le prime previsioni, nell’anno appena cominciato le temperature medie globali potrebbero aumentare per la probabile fine della “Niña”, uno dei complessi di eventi atmosferici che influenzano il meteo di varie parti del mondo.– Leggi anche: Forse La Niña sta per finireTenendo conto dell’intero pianeta, le temperature medie del 2022 risulteranno quasi certamente al di sotto di quelle dei tre anni più caldi che siano mai stati osservati finora, cioè il 2016, il 2020 e il 2019 (manca ancora una stima generale della WMO).Secondo le prime previsioni per il nuovo anno del Met Office, il servizio meteorologico nazionale del Regno Unito, nel 2023 la temperatura media globale sarà superiore alla media del periodo 1850-1900, quando ancora le emissioni di gas serra prodotte dalle industrie non avevano causato effetti riscontrabili sul clima, di un valore compreso tra 1,08 °C e 1,32 °C.Il riscaldamento del pianeta provocato dalle attività umane è diventato sempre più evidente negli ultimi anni: è da dieci anni che le temperature medie globali annuali sono superiori ai livelli pre-industriali di almeno 1 °C. Secondo le più ottimistiche, per quanto sempre più improbabili, speranze internazionali i paesi del mondo dovrebbero evitare che superino di 1,5 °C le medie del periodo preindustriale per impedire gli effetti più gravi del cambiamento climatico, cioè aumenti della frequenza e dell’intensità di eventi disastrosi, come inondazioni e prolungati periodi di siccità.Com’era evidente dalla prolungata siccità in gran parte d’Europa, nel 2022 ha anche piovuto molto poco. In Italia la quantità di precipitazioni dell’intero anno è stata pari al 70 per cento della media tra il 1991 e il 2020. LEGGI TUTTO

  • in

    L’anno è iniziato con temperature molto alte in Europa

    Nei primi giorni del 2023 sono state registrate temperature particolarmente alte per la stagione in gran parte d’Europa e in otto paesi sono stati superati i record nazionali delle temperature più alte mai osservate a gennaio. Il fenomeno ha colpito in modo particolare il nord-est del continente, dove le temperature medie del primo giorno dell’anno sono state anche di più di 10 °C superiori alla media riferita al periodo 1979-2010.#caldo eccezionale in Europa in questi giorni. Battuti centinaia di record specialmente nel settore centrale e orientale del continente. In alcune zone le temperature minime hanno superato valori tipici di luglio. pic.twitter.com/UFmkA83caX— Consorzio LaMMA (@flash_meteo) January 2, 2023Uno dei paesi in cui sono stati battuti i record nazionali è la Polonia, dove generalmente gli inverni sono molto rigidi. Il primo gennaio nella capitale Varsavia sono stati registrati 18,9 °C. Il precedente record, risalente al 1999, era più basso di 4 °C: non è inusuale che i valori massimi si aggiornino, ma è raro che accada con una differenza tanto pronunciata: di solito si tratta di qualche decimo di grado.Nel corso della stessa giornata in tutto il paese le temperature massime sono state superiori ai 10 °C.”Nowy Rok jaki, cały rok taki” 1 dnia roku padł rekord ciepła dla stycznia z 1999 roku a w wielu miastach rekordy ciepła dla całego okresu zimowego. W Warszawie temp max wyniosła 18,9°C i utrzymała się przez kilkadziesiąt minut w środku zimy#IMGW @IMGW_CMM pic.twitter.com/f4G0KD9aXH— IMGW-PIB METEO POLSKA (@IMGWmeteo) January 1, 2023Gli altri paesi in cui i record nazionali di temperatura massima per gennaio sono stati battuti sono la Bielorussia, la Danimarca, la Lettonia, il Liechtenstein, la Lituania, i Paesi Bassi e la Repubblica Ceca. Ma record locali sono stati superati anche in altri paesi. Ad esempio a Bilbao, nel nord della Spagna, è stata registrata la temperatura massima di 25,1 ºC, sempre il primo gennaio: il precedente record era inferiore di quasi un grado. Lo stesso giorno nella regione intorno alla città basca le temperature minime sono state comprese tra 14 e 16 °C, valori che normalmente si osservano a luglio.A Berlino, in Germania, sono stati registrati 16 °C il primo gennaio. Nella notte tra il 3 e il 4 in Inghilterra e Galles le temperature minime sono state intorno ai 10 °C, mentre normalmente in questo periodo dell’anno sono intorno ai 2-3 °C.🌡️ Temperatures would usually be expected to drop to around or just above freezing in early January📈 But tonight, temperatures will stay in double figures across large swathes of England and Wales with any frost confined to central and northern Scotland pic.twitter.com/HT22TrX9yp— Met Office (@metoffice) January 3, 2023Questa ondata di caldo è dovuta a un fenomeno ricorrente: il raffreddamento della stratosfera, il secondo degli strati in cui si divide l’atmosfera partendo dal suolo, dopo la troposfera, al di sopra del Polo Nord. Tale raffreddamento ha l’effetto di compattare il vortice artico della troposfera, un’ampia area di bassa pressione sul mare Artico che influenza grandemente le condizioni meteorologiche invernali dell’emisfero settentrionale.Il vortice è “trattenuto” sopra l’estremo Nord da una corrente a getto, cioè un veloce flusso d’aria che si trova a sud del Polo, che soffia da ovest a est e che è più caldo. La corrente a getto fa da barriera al vortice artico come se fosse il bordo di una ciotola: l’aria fredda sopra il Polo, che è più pesante, è arginata da questa aria relativamente più calda, che crea una specie di barriera. A grandi linee, la barriera diventa particolarmente efficiente quando la troposfera artica è particolarmente fredda: per questo arriva meno aria fredda alle medie latitudini, quelle in cui si trova gran parte dell’Europa continentale, e le temperature possono salire.È comunque possibile che l’intensità dell’attuale ondata di caldo, essendo molto marcata, sia influenzata anche ad altri fattori, legati al cambiamento climatico.Il raffreddamento della stratosfera artica è associato anche a forti tempeste di vento nell’Europa settentrionale e a scarse precipitazioni nell’Europa meridionale, Italia compresa. Ha degli effetti anche dall’altra parte dell’oceano Atlantico, in Nord America: pure lì, dopo che intorno a Natale ci sono stati giorni di freddo intenso e tempeste di neve dovuti a un precedente riscaldamento dell’Artico, le temperature sono notevolmente aumentate.Secondo le previsioni continueranno a essere registrate temperature più alte del solito per questa stagione fino a metà mese, anche se in modo meno estremo. LEGGI TUTTO

  • in

    Perché in Europa non c’è il gran freddo che ha colpito il Nord America

    Caricamento playerIl gran freddo che negli ultimi giorni ha colpito gli Stati Uniti, causando la morte di almeno 57 persone secondo il conteggio di NBC News, non è insolito. Periodicamente, durante l’inverno, grandi masse d’aria fredda si espandono sul Nord America portando tempeste di neve: era successo anche nel febbraio del 2021, quando in Texas si registrarono alcune delle temperature più basse dei precedenti 30 anni e almeno 250 persone morirono per le conseguenze.Questi fenomeni meteorologici sono legati al vortice artico, l’ampia area di bassa pressione che si trova sopra al Polo Nord. Sull’Europa non ha effetti analoghi per via delle diverse caratteristiche geografiche dei due continenti: mentre in buona parte degli Stati Uniti venivano registrate temperature inferiori alle medie stagionali degli ultimi decenni, infatti, in Europa ha fatto meno freddo del solito.The US braces for extreme cold weather but other parts of the world – including Europe and the Arctic – are unusually warm. Please heed all warnings and stay safe.Note that even in an era of climate change, we will still see cold weather.https://t.co/5bCBRoHfWj pic.twitter.com/6NlmFbuOos— World Meteorological Organization (@WMO) December 22, 2022In Canada e Stati Uniti il meteo dell’ultima settimana è stato profondamente influenzato da un’estensione del vortice artico. Generalmente il vortice è “trattenuto” sopra l’estremo Nord da una corrente a getto, cioè un veloce flusso d’aria che si trova a sud del Polo, che soffia da ovest a est e che è più caldo. La corrente a getto fa da barriera al vortice artico come se fosse il bordo di una ciotola: l’aria fredda sopra il Polo, che è più pesante, è arginata da questa aria relativamente più calda, che crea una specie di barriera. Ma quando le temperature nell’Artico aumentano, parte del vortice di venti freddi, che sono un po’ meno freddi, può oltrepassare il bordo della “ciotola”, superando i consueti limiti della corrente a getto e arrivando così sulle zone continentali.Quest’aria per il clima artico ha temperature maggiori del solito, ma rispetto alle temperature continentali è molto fredda e causa fenomeni meteorologici estremi, come le recenti tempeste di neve.Il Nord America e l’Europa si trovano a latitudini simili (quella di New York è simile a quella di Napoli). Tuttavia succede raramente che i due continenti siano colpiti contemporaneamente da ondate di freddo, e in Nord America questi fenomeni invernali sono molto più frequenti e intensi. Le ragioni delle differenze sono diverse, ha spiegato qualche giorno fa Giulio Betti, meteorologo del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e dell’AMPRO, l’associazione dei meteorologi professionisti.La prima è che sebbene anche l’Europa possa essere influenzata dal vortice polare, l’aria che la raggiunge passa prima sul Nord Atlantico invece che sul Canada: in generale d’inverno l’aria sulle masse di terra è più fredda di quella presente al di sopra degli oceani, e questo vale in particolare a nord dell’Europa per via della calda corrente del Golfo, la ragione principale per cui il clima nordeuropeo è più mite di quello canadese e nordamericano.Le coste nordamericane al contrario sono sottoposte all’influsso di correnti marine fredde. L’Europa invece può contare anche, oltre che sulla corrente del Golfo, sul mar Mediterraneo, un altro “serbatoio” di calore.– Leggi anche: Il freddo causato dal vortice artico è influenzato dal cambiamento climatico?Un’altra ragione per cui il Nord America è più esposto all’aria fredda proveniente da nord ha a che fare con le montagne. Le Montagne Rocciose, che si allungano da nord a sud dalla Columbia Britannica, in Canada, al Nuovo Messico, negli Stati Uniti, non costituiscono un ostacolo per i venti settentrionali. Viceversa contribuiscono a dirigerli verso est.In Europa la catena montuosa principale, cioè le Alpi, è invece disposta in senso latitudinale e quindi fa da barriera per l’aria fredda proveniente da nord, contribuendo al clima mite dell’Italia. Gli Urali, le montagne che dividono la Russia europea da quella asiatica, sono disposti in senso longitudinale, ma nonostante questo hanno a loro volta un ruolo che aiuta a bloccare l’aria fredda: quella che proviene dalla Siberia, cioè la grande massa continentale fredda più vicina. Questa regione è comunque molto più lontana dall’Europa rispetto alla distanza che c’è tra nord del Canada e Stati Uniti, dunque «non sempre riesce a influenzare le condizioni meteorologiche del continente», ha spiegato Betti.La neve e il freddo di questi ultimi giorni hanno colpito in modo particolare la contea di Erie, nello stato di New York, dove si trova la città di Buffalo: solo lì sono morte 27 persone, di cui la metà all’aperto, e si teme che questo numero possa aumentare. «Sfortunatamente stiamo ancora trovando cadaveri», ha detto lunedì il commissario della polizia della città Joseph Gramaglia, parlando delle attività di soccorso.– Leggi anche: Il riscaldamento globale c’è, anche se fa un gran freddo LEGGI TUTTO

  • in

    Perché c’è meno nebbia di una volta nella Pianura Padana

    Nella Pianura Padana, sia nelle città come Milano che nelle campagne, c’è meno nebbia di una volta. Diversi studi realizzati negli anni Duemila hanno confermato che in Europa in generale, e nel Nord Italia in particolare, sono diminuiti i giorni di nebbia annuali rispetto agli anni Ottanta e ai decenni precedenti. È una buona notizia, visto che la diminuzione della nebbia è dovuta anche a un miglioramento della qualità dell’aria, a una sua maggiore salubrità.Uno studio pubblicato nel 2009 sull’autorevole rivista Nature Geoscience ha stimato che la frequenza di condizioni di bassa visibilità dovute a nebbia e foschia si è dimezzata in trent’anni, tra l’inizio degli anni Ottanta e gli anni Duemila.Un altro studio, realizzato dall’Istituto di scienza dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR) di Bologna e pubblicato nel 2014, aveva raccolto alcune serie di dati che mostravano la diminuzione della nebbia nella Pianura Padana. Diceva che nel periodo tra il 1991 e il 2000 a Milano, in città, i giorni di nebbia in cui non si vedevano oggetti distanti più di un chilometro erano diminuiti del 73 per cento rispetto al periodo 1960-1969. Nella zona dell’aeroporto di Bologna tra il 2004 e il 2013 le ore di nebbia invernali erano diminuite del 47 per cento rispetto al periodo 1984-1994. Un calo analogo era stato registrato tra la fine degli anni Ottanta e Novanta anche a San Pietro Capofiume, una località di campagna bolognese, vicina al fiume Reno, dove ha sede il centro operativo del Servizio Idrometeorologico dell’ARPA Emilia-Romagna.Negli anni sono state registrate riduzioni maggiori nelle città rispetto alle campagne, per via dei meccanismi che portano alla formazione della nebbia.«La nebbia è a tutti gli effetti una nuvola, una nuvola a contatto con il suolo», spiega il ricercatore dell’ISAC Sandro Fuzzi, tra gli autori dello studio del 2014 e uno degli scienziati che hanno lavorato agli ultimi tre rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite. La nebbia è quindi costituita da particelle di acqua liquida sospese nell’atmosfera, prodotte dalla condensazione di parte del vapore acqueo presente nell’aria. Perché ci sia, quindi, ci deve essere prima di tutto un certo grado di umidità, ma anche altre condizioni.Una riguarda la temperatura, o meglio la differenza di temperatura tra il suolo e l’aria dell’atmosfera: la condensazione dell’acqua avviene quando il vapore acqueo viene raffreddato. La nebbia di San Francisco, ad esempio, si forma quando l’aria marina si diffonde sulla terraferma, che è più fredda della superficie dell’oceano. La nebbia della Pianura Padana invece si forma d’inverno, quando c’è alta pressione e quindi bel tempo: «Il suolo si raffredda molto più velocemente dell’atmosfera, e così nell’aria, che è umida, si raggiunge il punto di rugiada e si formano le goccioline della nebbia».Nelle città di oggi c’è meno nebbia rispetto alle campagne e ci sono stati cali maggiori dei giorni di scarsa visibilità rispetto al passato. Il motivo dipende dalla presenza dell’asfalto, che trattiene di più il calore del suolo, e dalle varie fonti di calore presenti in città come gli impianti di riscaldamento: questi due elementi hanno fatto sì che la differenza di temperatura tra aria e suolo sia meno pronunciata, così come il tasso di umidità. Dati sulla nebbia a Milano sono stati raccolti anche nella zona dell’aeroporto di Linate, a 7 chilometri dal centro, dunque in una zona meno cementificata: lì la diminuzione dei giorni di nebbia con visibilità inferiore al chilometro nel periodo 1991-2000 rispetto al periodo 1960-1969 è stata “solo” del 52 per cento, contro il 73 per cento delle zone più urbanizzate.Perché si formi la nebbia comunque deve verificarsi una seconda condizione, che vale anche per le nuvole in cielo: la presenza di particelle solide attorno alle quali il vapore acqueo può condensare. Queste particelle possono avere origini naturali, come nel caso di pollini e polvere, ma anche umane: le industrie, i trasporti alimentati con i combustibili fossili e gli impianti di riscaldamento a gas generano, oltre all’anidride carbonica, anche le cosiddette “polveri sottili”, che sono peraltro una delle forme di inquinamento dell’aria che possono avere ripercussioni sulla salute umana.«La Pianura Padana ha un’orografia molto particolare», continua Fuzzi, «è circondata da tre parti da monti, le Alpi e gli Appennini, con il mare Adriatico come unico punto d’apertura. Quindi si crea una stagnazione dell’aria che d’inverno, nelle condizioni di bel tempo, favorisce la formazione della nebbia durante la notte o anche durante il giorno». È peraltro la regione d’Italia in cui sono presenti alcune delle città più grandi del paese ed è densamente industrializzata: per questo vengono emesse grandi quantità di sostanze inquinanti che a causa della mancanza di vento ristagnano sulla pianura.L’Italia fotografata dal satellite Copernicus Sentinel-3 il 17 dicembre 2020: si vede chiaramente la nebbia nella Pianura Padana (Copernicus Sentinel data (2020), processed by ESA)La diminuzione della nebbia rispetto ai decenni passati è un fenomeno ancora in corso di studio, anche all’ISAC, ma c’entra probabilmente il cambiamento climatico e sicuramente la diminuzione dell’inquinamento dell’aria, almeno per quanto riguarda certe sostanze.L’aumento delle temperature medie può avere avuto un ruolo perché «riduce l’umidità relativa nell’atmosfera, uno dei parametri necessari alla formazione della nebbia». Ma i dati che abbiamo a disposizione dicono che negli ultimi vent’anni la frequenza dei giorni di nebbia ha smesso di diminuire, a fronte di un riscaldamento sempre più evidente, quindi c’è almeno un altro fattore da considerare.«La quantità di inquinamento dell’aria in Europa, e nella Pianura Padana in particolare, è calato in modo sostanziale dagli anni Sessanta e Settanta. Ancora oggi c’è inquinamento ma dal 1990 a 2010 l’anidride solforosa [o diossido di zolfo] nell’aria è diminuita del 90 per cento. Nello stesso periodo gli ossidi di azoto sono calati meno, ma comunque in modo significativo, del 44 per cento, grazie all’introduzione delle marmitte catalitiche. E così si è ridotto anche il particolato emesso nell’atmosfera, dato che si forma principalmente a causa di reazioni chimiche tra gli inquinanti». E meno particolato significa anche meno nebbia.Bisogna quindi immaginare che prima della rivoluzione industriale i giorni di nebbia nella Pianura Padana fossero meno frequenti rispetto ai decenni compresi tra il Dopoguerra e gli anni Ottanta? Le ore di nebbia si misurano valutando la visibilità, cosa che un tempo si faceva usando dei paletti a distanze regolari e osservando quali fossero visibili da una data posizione e che oggi si fa con strumenti a laser chiamati trasmissometri, e andando indietro nel tempo non si hanno dati del genere. Le uniche informazioni sulla nebbia nell’Ottocento e nei secoli precedenti sono contenute all’interno di cronache e altri documenti che non furono scritti seguendo criteri scientifici. «Ma l’idea che nel tempo antico l’aria fosse più pulita è una concezione errata», ci tiene a dire Fuzzi, «perché per riscaldarsi e per produrre energia nell’Ottocento si usavano il carbone e la legna, che producono molto inquinamento».All’epoca probabilmente le goccioline d’acqua che compongono la nebbia si creavano attorno a maggiori quantità di sostanze inquinanti, dannose per la salute. Per questo quando si parla della diminuzione recente della nebbia bisogna tenere conto della correlazione positiva con il miglioramento della qualità dell’aria. Un altro grosso vantaggio, ricorda Fuzzi, è il contributo alla diminuzione degli incidenti stradali, perché sono diminuite le occasioni in cui la visibilità sulle strade è scarsa.C’è però anche un lato negativo legato alla diminuzione della nebbia: «La presenza di nebbia evita che si formi il ghiaccio, quindi le gelate. Per l’agricoltura è molto importante, per questo nel caso della Pianura Padana si possono valutare vantaggi e svantaggi della riduzione della nebbia».– Leggi anche: I danni da gelate sono peraltro legati al cambiamento climatico LEGGI TUTTO

  • in

    È difficile sapere dove finisce tutta la plastica

    Caricamento playerIn meno di un secolo dalla sua diffusione, la plastica è diventata uno dei materiali più diffusi e utilizzati al mondo. Pratica ed economica, ha cambiato il nostro rapporto con gli oggetti, rendendo normale e accettato il concetto di “usa e getta”, e ha aperto grandi opportunità nella ricerca e nello sviluppo di nuovi materiali in moltissimi ambiti, da modi più efficienti per conservare il cibo ai dispositivi per curare le persone. Questi enormi benefici non sono stati però privi di costi e il più grande di tutti riguarda l’ambiente: la plastica è talmente diffusa e utilizzata da avere colonizzato praticamente qualsiasi ecosistema, diventando un problema sempre più grande e urgente da affrontare.Dopo decenni di promesse mancate e impegni non mantenuti da parte di numerosi governi e istituzioni, quel senso di urgenza potrebbe infine trasformarsi in un trattato internazionale vincolante per ridurre l’inquinamento che deriva dalla plastica. Alla fine di novembre in Uruguay si terrà la prima riunione del comitato intergovernativo delle Nazioni Unite che ha il compito di gestire i negoziati per definire i termini del trattato, dopo che lo scorso marzo 175 paesi avevano sottoscritto a Nairobi, in Kenya, un impegno per l’adozione di un documento internazionale sul tema. Dopo l’Uruguay ci saranno altri incontri nel corso del 2023, con l’obiettivo di completare il lavoro entro il 2024.Attraverso i negoziati, i governi dovranno formalizzare regole per rendere il più possibile tracciabile il ciclo della plastica, dalla provenienza delle materie prime per produrla, come il petrolio (compresi i pozzi da cui viene estratto), ai prodotti finiti e alla loro trasformazione in rifiuti. Ogni paese si dovrà inoltre impegnare a livello regionale, nazionale e internazionale con iniziative per prevenire l’inquinamento derivante dalla plastica ed eliminare quello ormai esistente. E di rifiuti plastici ce ne sono davvero tantissimi.Si stima che la quantità di plastica non riciclata prodotta tra il 1950 e il 2017 equivalga a oltre 9 miliardi di tonnellate: circa la metà è stata prodotta dall’inizio di questo secolo e meno di un terzo è ancora oggi in uso. Ciò che è diventato rifiuto è finito per l’80 per cento nelle discariche o disperso nell’ambiente, andando a inquinare il suolo, i corsi d’acqua e gli oceani. Agli attuali ritmi, la quantità di rifiuti di plastica potrebbe triplicare entro il 2060, mentre le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’intero ciclo di vita della plastica potrebbero raddoppiare nei prossimi 40 anni, secondo le stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD).Rifiuti di plastica estratti dal fiume Citarum, in Indonesia (Ed Wray/Getty Images)Quando pensiamo ai rifiuti di plastica ci vengono in mente soprattutto le bottiglie per l’acqua e le bibite, i flaconi di saponi e detersivi o ancora gli involucri che proteggono gli alimenti confezionati. In realtà la plastica è presente in una quantità enorme di prodotti, dai cosmetici ai fertilizzanti passando per i detersivi stessi. Non esiste inoltre un solo tipo di plastica: dagli anni Cinquanta sono state sviluppate decine di molecole di vario tipo, con caratteristiche diverse e con uno specifico impatto sull’ambiente. Sappiamo che esistono, ma oggi non sappiamo di preciso dove vadano a finire tutte queste sostanze, e questo potrebbe essere un serio problema per definire con precisione gli scopi del nuovo trattato.Come hanno spiegato vari gruppi di ricerca al sito della rivista scientifica Nature, è sempre più importante sapere da dove arriva la plastica e dove va a finire. Per questo motivo negli ultimi anni sono aumentate le ricerche e gli studi scientifici per sviluppare nuovi sistemi per rilevare la presenza della plastica negli ecosistemi, che può essere presente in frammenti minuscoli e a noi invisibili, e per valutare se questa abbia effetti sulla salute degli esseri viventi, noi compresi.Uno dei rapporti più recenti e rilevanti sul tema è stato prodotto dalle Accademie nazionali delle scienze, dell’ingegneria e della medicina degli Stati Uniti (NASEM). Oltre a segnalare la necessità di organizzare strategie per ridurre la presenza di rifiuti plastici negli oceani, il rapporto indica le numerose lacune che ci sono ancora per analizzare completamente il ciclo della plastica e trovare soluzioni per renderla pienamente riciclabile. Il problema da risolvere con maggiore urgenza riguarda la mancanza di un sistema che sia scientificamente affidabile per tracciare e tenere sotto controllo la diffusione della plastica su scala globale.(David Silverman/Getty Images)Nella maggior parte dei paesi del mondo, chi produce plastica deve osservare vincoli nel momento della produzione, mentre non ha poi particolari responsabilità una volta che i suoi prodotti vengono venduti. Per la plastica usa e getta le responsabilità ricadono sui singoli consumatori, per esempio, ma non c’è modo di tracciare completamente il percorso che fa un involucro dalle materie prime con cui è stato realizzato alla discarica. La plastica è leggera e si degrada spesso in componenti molto piccole (microplastiche), che possono finire ovunque ed essere rilevate dai gruppi di ricerca, ma difficilmente si può risalire con precisione alla loro origine. E se non si sa da dove arrivano i polimeri trovati nel suolo o nell’acqua, diventa difficile intervenire sulla fonte che ha causato il problema.Per provare a migliorare le cose, anche in vista del trattato in lavorazione, le Nazioni Unite e altre istituzioni hanno prodotto alcune linee guida su come i gruppi di ricerca dovrebbero raccogliere i dati sulla plastica che analizzano e su come dovrebbero poi condividerli con il resto della comunità scientifica. Queste attività di armonizzazione coinvolgono università e centri di ricerca, che lavorano per creare set di dati che possano essere confrontati facilmente tra loro, in modo da identificare andamenti specifici e anomalie. Benché ci siano ancora numerose lacune, il confronto dei dati inizia a offrire qualche spunto, anche se è difficile risalire dall’inquinamento rilevato alle sue origini.Il rapporto di NASEM ha indicato come il ciclo produttivo della plastica sia poco trasparente e sia quindi necessario intervenire sulla mancanza di dati. Ci dovrebbe essere la stessa attenzione che si ha sui consumatori finali, che materialmente gettano la plastica quando ha esaurito il proprio scopo, anche su chi produce plastica, come ha ricordato a Nature Jenna Jambeck, autrice di un importante studio sui milioni di tonnellate di plastica che ogni anno finiscono negli oceani: «Ci preoccupiamo molto quando questo materiale finisce nell’ambiente: è la cosa che ci indigna. Ma non ci occupiamo di ciò che avviene prima di questo punto. Se vuoi evitare che finisca nell’ambiente, dobbiamo occuparci di ciò che accade molto prima nella catena produttiva, e tenere traccia di quei dati».Ciò non significa naturalmente trascurare ciò che avviene a valle della produzione della plastica, quando entra nel ciclo dei rifiuti. Tra le risorse più importanti per i gruppi di ricerca ci sono i dati forniti dal sistema Comtrade delle Nazioni Unite, anche se parziali e privi di dettagli su che cosa accada ai rifiuti di plastica nelle loro ultime fasi quando vengono distrutti, riciclati o venduti da un paese a un altro che si occupi del loro smaltimento.Per lungo tempo la Cina era stata tra i più grandi paesi importatori di rifiuti di plastica, al punto da raccogliere circa il 45 per cento di tutti quelli prodotti nel mondo tra il 1992 e il 2018. In quell’anno decise di cambiare politica, fermando le importazioni di quei rifiuti che finirono quindi verso altri paesi sempre asiatici, compresi Indonesia e India. La diaspora di questi rifiuti ha fatto sì che diventasse ancora più difficile tracciare gli spostamenti dei rifiuti di plastica e che il crimine organizzato intensificasse i propri sforzi per approfittarne. Nel 2019 si rese quindi necessario aggiungere i rifiuti di plastica alla lista dei rifiuti pericolosi della Convenzione di Basilea sulle esportazioni di rifiuti, uno dei trattati internazionali più importanti su queste pratiche, che non è però stato mai sottoscritto dagli Stati Uniti, uno dei più grandi produttori di rifiuti di plastica del pianeta.Molti paesi del Sudest asiatico e dell’Africa ricevono grandi quantità di rifiuti di plastica, sia attraverso percorsi legali per smaltire i rifiuti di altri paesi sia attraverso attività gestite dal crimine organizzato, senza avere effettivamente gli spazi e le risorse per smaltirli in sicurezza e a basso impatto per l’ambiente. I paesi coinvolti sono gli stessi che subiscono già normalmente la presenza di grandi quantità di rifiuti, che arrivano per esempio sulle loro coste dopo che la plastica ha viaggiato per migliaia di chilometri galleggiando nell’oceano.Rifiuti di plastica sulla riva del lago Uru Uru in Bolivia (Gaston Brito Miserocchi/Getty Images)Per ridurre il problema si stanno sperimentando sistemi GPS da applicare ai container che trasportano i rifiuti di plastica, in modo da assicurarsi che siano trasportati senza violare le leggi e i trattati internazionali. Altre soluzioni riguardano l’impiego di sistemi satellitari per tracciare i movimenti delle navi e, per quanto riguarda i rifiuti dispersi negli oceani, gli spostamenti della plastica finita nell’ambiente. Le rilevazioni satellitari svolte dal consorzio Copernicus dell’Unione Europea, per esempio, possono aiutare a identificare le isole galleggianti di plastica che si formano sulla superficie degli oceani e che, debitamente tracciate, potrebbero aiutare a comprendere la loro provenienza.La necessità di definire più chiaramente questi aspetti in vista della preparazione del trattato internazionale dovrebbe favorire, nei prossimi anni, lo sviluppo di nuove tecnologie e risorse per tenere meglio traccia della plastica. Gli esperti ricordano però che il problema potrà essere risolto solo rivedendo l’intero ciclo di utilizzo della plastica, riducendo il più possibile la sua produzione e migliorando i sistemi di recupero dei rifiuti e di riciclo degli stessi. Per riuscirci è necessario un forte coinvolgimento delle aziende che utilizzano molta plastica e che finora non hanno brillato nel ridurre il loro impatto ambientale.All’inizio del 2018, centinaia di grandi aziende avevano sottoscritto il Global Commitment, un’iniziativa legata al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente con lo scopo di ridurre l’inquinamento da plastica. Tra i sottoscrittori c’erano società molto conosciute e che controllano tantissimi marchi come Nestlé, Mars, L’Oréal, SC Johnson, Coca-Cola e PepsiCo, che si erano impegnate a ridurre l’impiego di plastica vergine (quindi non derivante dal riciclo) e a concentrarsi nello sviluppo di confezioni e involucri riciclabili o compostabili.Secondo il rapporto di quest’anno sull’andamento del Global Commitment, molte aziende non hanno mantenuto gli impegni o non stanno procedendo verso i progressi sperati. Coca-Cola si era impegnata a ridurre del 20 per cento l’impiego di plastica non riciclata nel 2021 rispetto al 2019, ma ne ha usata il 3 per cento in più; Mars aveva promesso una riduzione del 25 per cento nell’impiego in generale di plastica, ma ne ha utilizzato l’11 per cento in più sempre negli stessi periodi di riferimento. Nel 2018 il 49 per cento degli involucri impiegati da Nestlé erano riciclabili, riutilizzabili o compostabili, mentre nel 2021 la percentuale è scesa al 45 per cento.Nel complesso il rapporto ha rilevato un aumento dell’1,7 per cento nell’impiego di plastica riciclabile, compostabile o riutilizzabile rispetto alla rilevazione precedente. Il progresso è comunque inferiore alle previsioni e la plastica mantiene dei limiti sulla quantità di volte che può essere riciclata, anche a seconda dei polimeri che la compongono. LEGGI TUTTO

  • in

    La COP27 non è finita benissimo

    A Sharm el-Sheikh, in Egitto, le delegazioni da ogni parte del mondo stanno lasciando la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP27), terminata domenica 20 novembre con quasi due giorni di ritardo rispetto al previsto, a causa del protrarsi delle trattative per approvare il documento finale dell’incontro. Dopo lunghe discussioni, è stato approvato un accordo per istituire un fondo di compensazione per i paesi in via di sviluppo più esposti agli effetti del cambiamento climatico, preservando l’obiettivo di non superare gli 1,5 °C di aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale. I rappresentanti dei paesi più poveri hanno parlato di un’importante vittoria, quelli dei paesi più sviluppati hanno usato toni meno enfatici mal celando una certa delusione per gli impegni contenuti nel documento finale.CompensazioniLa COP27 era iniziata un paio di settimane fa con un invito del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, rivolto sia ai paesi sviluppati sia a quelli in via di sviluppo per evitare ulteriori divisioni e collaborare a un piano comune per contrastare il riscaldamento globale e mitigare i suoi effetti, ormai inevitabili e in parte già in corso. Nonostante le dichiarazioni di buoni intenti, fino da subito erano emersi forti contrasti sulla dibattuta istituzione di un fondo finanziato dai paesi ricchi per aiutare i paesi poveri, che spesso devono confrontarsi con eventi meteorologi estremi legati al cambiamento climatico, pur non essendo i principali responsabili delle emissioni di gas serra che rendono sempre più caldo il pianeta.Stati Uniti e Unione Europea erano inizialmente contrari al nuovo fondo, ritenendo che ci fosse già un numero sufficiente di strumenti di finanziamento tramite organizzazioni e istituzioni internazionali e nazionali. L’Unione Europea aveva cambiato il proprio approccio negli ultimi giorni della COP27, segnalando di essere disponibile a istituire il fondo a patto che contribuisse anche la Cina, ancora inquadrata come un paese in via di sviluppo, nonostante sia uno dei più grandi produttori di gas serra al mondo.Il cambiamento di approccio dell’Unione Europea aveva contribuito a sbloccare la situazione, portando infine all’istituzione del fondo di compensazione, ritenuto da molti commentatori il punto più rilevante del nuovo accordo sottoscritto dai paesi partecipanti alla COP27. Il denaro accumulato nel fondo potrà essere utilizzato per finanziare attività di gestione delle emergenze e messa in sicurezza dei territori nei paesi più poveri interessati da alluvioni, oppure da periodi di prolungata siccità.L’accordo è però vago su numerosi dettagli, a cominciare da quali dovranno essere i criteri che porteranno all’erogazione dei fondi. Non è inoltre chiaro come saranno raccolti i fondi e se ce ne saranno a sufficienza, considerato che in questi anni praticamente nessun paese sviluppato aveva mantenuto i propri impegni nel finanziamento di altre iniziative comuni, mirate più in generale a sostenere attività per ridurre gli effetti del cambiamento climatico.Secondo esperti e osservatori, l’accordo sul nuovo fondo è soprattutto importante per ristabilire un certo livello di fiducia tra i paesi in via di sviluppo e quelli più ricchi, dopo quasi tre anni di pandemia nei quali si erano accentuate le differenze e le disparità di trattamento, per esempio sulla gestione e la distribuzione dei vaccini contro il coronavirus. L’accordo dovrebbe consentire di risolvere attriti e malumori, riportando al centro del confronto le politiche per ridurre le emissioni di gas serra ed evitare che la temperatura media globale continui ad aumentare.Su questi temi, cruciali per il futuro di tutti, i progressi alla COP27 di Sharm el-Sheikh non sono però stati molti.(AP Photo/Peter Dejong)Combustibili fossiliIl documento finale della COP27 non contiene grandi progressi nella riduzione dell’impiego dei combustibili fossili, rispetto per esempio al testo approvato alla COP26 dello scorso anno a Glasgow, in Scozia. Molti dei paesi economicamente più sviluppati volevano chiari riferimenti alla riduzione dei consumi di petrolio e gas naturale, oltre a quelli sul carbone già inseriti lo scorso anno (quando fallì il tentativo di inserire nell’accordo una riduzione a zero dei consumi di carbone).Il testo finale contiene invece solamente un riferimento alla necessità di ridurre le emissioni, ma senza specificare in modo molto dettaglio rispetto al consumo di quali combustibili fossili. La formulazione vaga potrebbe essere sfruttata da alcuni paesi per aumentare il consumo di gas naturale, per esempio, che inquina meno del carbone, ma che contribuisce comunque a immettere nell’atmosfera enormi quantità di anidride carbonica.Il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, delegato alla COP27, ha detto di essere deluso dal documento finale: «Gli amici sono veramente amici solo se ti dicono cose che non vorresti sentire. Siamo nel decennio in cui o si fa qualcosa o siamo spacciati, ma ciò che abbiamo davanti a noi non è passo avanti sufficiente per le persone e il pianeta».Kochi, Kerala, India (AP Photo/R S Iyer, File)Temperatura media globaleLe delegazioni alla COP27 si sono nuovamente impegnate a mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto degli 1,5 °C rispetto al periodo preindustriale. Con le attuali politiche adottate dai vari paesi, si stima che l’aumento della temperatura media globale sarà di 2,1-2,9 °C per questo secolo, sempre rispetto ai livelli preindustriali. Per rimanere al disotto degli 1,5 °C sarebbe necessario dimezzare le emissioni di gas serra entro questo decennio, un obiettivo improbabile se non impossibile da realizzare.Il documento prevede un impegno senza che siano forniti dettagli su come mantenerlo, come già avvenuto in passato con le altre conferenze sul clima. Ormai da anni gli scienziati segnalano come un aumento fino a 2 °C potrebbe avere effetti gravi per molti ecosistemi, con una grande riduzione dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari al punto da rendere inabitabili ampie zone costiere e contemporaneamente l’inaridimento di molte aree coltivate, inducendo milioni di persone a migrare, perché le coste sono tra le zone più abitate del pianeta.Le ultime ricerche indicano che c’è un 50 per cento di probabilità di superare la soglia degli 1,5 °C nei prossimi cinque anni, seppure temporaneamente. Con gli attuali andamenti, il superamento potrebbe essere annuale a partire dall’inizio dei prossimi anni Trenta. L’attuale testo, che di fatto non introduce impegni concreti e più drastici sulla riduzione del consumo dei combustibili fossili, non è ritenuto sufficiente per evitare gli scenari più pessimistici.(AP Photo/Peter Dejong)Cosa succede oraSpesso le conferenze sul clima si concludono con un senso di pochi risultati ottenuti, ben al di sotto delle aspettative. L’impressione è che i partecipanti facciano spesso promesse che non vengono poi rispettate, o che i tempi di reazione non siano adeguati per affrontare l’emergenza climatica. Mettere d’accordo tutti i paesi del mondo su politiche per il medio-lungo termine non è semplice, anche se negli ultimi anni il senso di urgenza è aumentato, con azioni necessarie nel breve termine per evitare conseguenze disastrose per la sopravvivenza di milioni di persone.I prossimi mesi saranno importanti per verificare quanto sia credibile e attuabile l’accordo sul fondo per le compensazioni, mentre non ci si attendono molti progressi sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Complice la guerra in Ucraina e la situazione economica internazionale, molti paesi hanno aumentato il consumo di combustibili fossili molto inquinanti, come il carbone, o stretto accordi decennali con nuovi fornitori di gas naturale che dovranno essere mantenuti. I maggiori costi delle materie prime e l’inflazione che sta interessando Europa e Stati Uniti potrebbero complicare i progressi nella produzione e nell’installazione di sistemi sostenibili per la produzione di energia elettrica.La COP28 dell’anno prossimo a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, sarà una prima occasione per verificare l’implementazione del fondo di compensazione, ma anche per fare il punto sull’andamento delle emissioni di anidride carbonica. LEGGI TUTTO

  • in

    Alla COP27 si fatica a trovare un accordo

    Caricamento playerA Sharm el-Sheikh, in Egitto, si sta per concludere la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP27) e – come avviene sempre a ridosso della chiusura di eventi di questo tipo – le varie delegazioni sono in ritardo nella preparazione del documento condiviso tra i paesi partecipanti su come proseguire le attività per limitare il riscaldamento globale e mitigarne i danni. Per il secondo anno consecutivo, dopo la COP26 di Glasgow, in Scozia, c’è l’impressione tra gli osservatori che il documento finale non conterrà grandi sorprese e progressi, con il rischio di avere perso ulteriormente tempo prezioso per affrontare l’emergenza climatica, i cui effetti sono sempre più evidenti.Venerdì 18 novembre è formalmente l’ultimo giorno della COP27, ma come accaduto in passato i lavori proseguiranno almeno fino a sabato, prima di arrivare alla pubblicazione dei nuovi impegni. Il confronto si sta concentrando soprattutto su due argomenti: l’istituzione di un fondo compensativo per i paesi più poveri e che più subiscono gli effetti del cambiamento climatico; un impegno a ridurre sensibilmente l’impiego dei combustibili fossili oltre al carbone, in modo da immettere nell’atmosfera minori quantità di anidride carbonica e altri gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale.Combustibili fossiliLo scorso anno la COP26 di Glasgow era iniziata con un certo ottimismo circa la possibilità di stabilire un piano chiaro e condiviso sull’eliminazione del carbone come fonte per produrre energia. Il carbone è tra i combustibili fossili più economici, ma è anche tra i più inquinanti soprattutto in rapporto alla sua resa.I paesi economicamente più sviluppati erano pressoché concordi sull’eliminazione del carbone, anche perché negli ultimi anni il suo impiego si era sensibilmente ridotto. I paesi in via di sviluppo più grandi e potenti, come Cina e India, erano invece contrari, perché ancora oggi utilizzano numerose centrali a carbone per produrre l’energia elettrica, soprattutto per alimentare le loro attività industriali. Durante le trattative si arrivò a una situazione di stallo e l’unica soluzione fu cambiare una formulazione nel documento finale, non parlando più di “eliminazione” ma di “riduzione” dei consumi di carbone.A complicare le cose nell’ultimo anno c’è stato l’aumento significativo del prezzo del gas naturale, che ha reso in alcuni casi necessario un maggior ricorso al carbone per produrre energia elettrica. Nonostante la temporaneità di questa situazione, l’aumento ha comunque un impatto sulle politiche energetiche e il passaggio all’impiego massiccio di fonti sostenibili.(Spencer Platt/Getty Images)Alla COP27 si è discusso di estendere il concetto di riduzione non solo al carbone, ma anche agli altri combustibili fossili come il petrolio e il gas naturale. In questo caso sono l’India e diversi altri paesi a chiedere l’estensione, mentre altri paesi sviluppati che dipendono ancora molto da gas e petrolio vorrebbero trovare formulazioni diverse. È probabile che per questo il documento finale non contenga riferimenti sui combustibili fossili molto diversi da quelli degli accordi finali della COP26.CompensazioniOltre ai combustibili fossili, l’argomento che ha portato a maggiori divisioni e attriti tra le delegazioni alla COP27 è quello dell’istituzione di un sistema di compensazioni economiche per i paesi più poveri maggiormente esposti agli effetti del cambiamento climatico. La possibilità di istituire un fondo a questo scopo è discussa da vari decenni, ma finora non ha mai portato a qualcosa di concreto.I paesi più ricchi e sviluppati, cioè buona parte dell’Occidente, ritengono che un sistema di compensazioni potrebbe impegnarli per decenni se non per più di un secolo. L’idea è che siano infatti i paesi che più hanno inquinato finora a risarcire gli altri, che non potranno beneficiare delle medesime soluzioni inquinanti (e spesso più economiche di quelle sostenibili) per lo sviluppo delle loro attività produttive. Il fondo dovrebbe servire per finanziare le attività di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, come inondazioni, eventi atmosferici sempre più estremi o prolungati periodi di siccità, offrendo inoltre risorse per gestire la transizione energetica, cioè il passaggio a fonti di energia meno inquinanti.Gli Stati Uniti non sono a favore di un fondo vero e proprio: sostengono che siano più utili iniziative dirette di aiuto senza i vincoli che comporterebbe un’iniziativa collettiva, magari coordinata dalle Nazioni Unite. Il governo di Joe Biden ha in parte ammorbidito questa posizione, ma dalle trattative a Sharm el-Sheikh non sono emerse chiare dichiarazioni per un maggiore impegno.Conseguenze di un’alluvione a Sukkur, in Pakistan, nel 2010 (Daniel Berehulak/Getty Images)Dopo aver rimandato a lungo la questione, l’Unione Europea negli ultimi anni si è invece mostrata più aperta alla possibilità di istituire un fondo per gestire le compensazioni. La disponibilità è comunque vincolata alla partecipazione di altri grandi paesi all’iniziativa, a cominciare dalla Cina, uno dei più grandi produttori di anidride carbonica al mondo, proprio insieme a Stati Uniti e Unione Europea. Le richieste europee sono inoltre vincolate all’inserimento nel documento finale di chiari impegni sulla riduzione del consumo dei combustibili fossili e sul mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto degli 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale.1,5 °CAlla COP27 si è discusso molto anche del limite degli 1,5 °C, stabilito nell’accordo di Parigi sette anni fa come scenario auspicabile e preferibile a quello di un aumento di 2 °C. Alla COP26 si era deciso di mantenere l’obiettivo tra gli impegni, con una dichiarazione che indicava come questo fosse «vivo, ma con un battito molto debole». All’inizio della conferenza di quest’anno, il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, aveva utilizzato toni molto più allarmati e netti, dicendo che l’umanità è «su un’autostrada verso un inferno climatico con un piede sull’acceleratore».Molti esperti e osservatori ritengono che sia sempre più improbabile rispettare l’obiettivo di non superare gli 1,5 °C, considerato che il cambiamento climatico è ormai inevitabile e in corso. Al tempo stesso c’è la consapevolezza che qualsiasi iniziativa per ridurre il più possibile uno sforamento sia preziosa, visto che già solo un aumento di 2 °C avrebbe effetti molto gravi per molti ecosistemi, con una grande riduzione dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari al punto da rendere inabitabili ampie zone costiere e contemporaneamente l’inaridimento di molte aree coltivate, inducendo milioni di persone a migrare, perché le coste sono tra le zone più abitate del pianeta.La bozza del documento finale della COP27 su cui si stanno confrontando le delegazioni nelle ultime ore della conferenza non contiene riferimenti molto diversi rispetto all’accordo di Parigi in cui si parlava della necessità di rimanere «ben al di sotto» dei 2 °C e di impegnarsi il più possibile per tenersi sotto gli 1,5 °C. Una eccessiva enfasi nel documento sui 2 °C potrebbe portare alcuni paesi ad allentare le proprie politiche per ridurre la produzione di gas serra, con un ulteriore rallentamento verso l’obiettivo della “neutralità carbonica” o “emissioni zero”, per cui per ogni tonnellata di CO2 o di un altro gas serra che si diffonde nell’atmosfera se ne rimuove altrettanta.Groenlandia, 2021 (Mario Tama/Getty Images)Nella bozza del documento ci sono riferimenti che fanno intendere che i paesi industrializzati dovrebbero raggiungere le emissioni zero entro il 2030, invece del 2050 come stabilito da qualche anno. Appare però improbabile che simili riferimenti rimangano anche nella versione finale, considerato che già la scadenza del 2050 è vista dagli analisti come estremamente ottimistica. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) dell’ONU, le emissioni globali di gas serra dovrebbero essere ridotte del 45 per cento nel 2030, rispetto ai livelli del 2010.I paesi più scettici sulla possibilità di mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto gli 1,5 °C sono India e Cina, entrambi con un forte impatto sulle politiche ambientali, anche per l’influenza che hanno su altri paesi. Già prima dell’inizio della COP27 molti esperti avevano espresso preoccupazioni su una possibile revisione degli obiettivi legati all’aumento della temperatura.CinaCome da diversi anni alle conferenze sul clima, la Cina è stata tra i paesi osservati con più attenzione alla COP27. Negli anni della forte contrapposizione con Donald Trump, quando era presidente, i rapporti con gli Stati Uniti erano peggiorati sensibilmente e di conseguenza era diventato più difficile trovare politiche comuni contro il riscaldamento globale. Ora con Joe Biden i rapporti hanno iniziato a migliorare, come si è visto nel recente incontro tra il presidente statunitense e quello cinese Xi Jinping, ma mancano ancora piani condivisi che possano fare da modello anche per altri paesi.La stretta di mano tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente statunitense Joe Biden, prima del loro atteso incontro avvenuto oggi a Bali, in Indonesia, a margine del G20 (EPA/XINHUA /LI XUEREN)Da tempo gli Stati Uniti vorrebbero che la Cina non fosse più considerata un paese in via di sviluppo, e che può quindi contare su un trattamento di un certo tipo per quanto riguarda le emissioni, ma come un paese sostanzialmente sviluppato e con una forte economia. Secondo alcune previsioni, entro l’inizio dei prossimi anni Trenta la Cina potrebbe superare gli Stati Uniti per quanto riguarda le emissioni complessive di anidride carbonica storicamente prodotte dai due paesi. Una ridefinizione della Cina si riallaccia alla possibilità che il paese dia maggiori contributi al fondo per le compensazioni, come chiesto anche dall’Unione Europea. LEGGI TUTTO