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    La siccità nel Nord Italia sembra legata al cambiamento climatico

    Caricamento playerÈ ormai risaputo che il cambiamento climatico causa un aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi meteorologici estremi, come alluvioni e siccità, ma per la comunità scientifica non è immediato ricondurre un singolo fenomeno di questo tipo all’aumento della concentrazione atmosferica di gas serra. Per accertare eventuali rapporti di causa ed effetto servono studi appositi. Nel caso della siccità che da più di un anno sta colpendo il Nord Italia oltre che la Francia, la Svizzera e altre regioni europee, causando molti problemi sia al settore agricolo che a quello della produzione di energia, ne è stato pubblicato uno da poco: dice che il cambiamento climatico l’ha aggravata.Semplificando i risultati dello studio, è emerso che siccità analoghe a quella di questi mesi erano meno estese geograficamente e meno lunghe: il riscaldamento globale sembra aver ampliato le zone di alta pressione e causato una maggiore evaporazione dell’acqua dal suolo e dalle piante.Lo studio è stato pubblicato il 28 febbraio dalla rivista Environmental Research Letters ed è stato realizzato da due ricercatori del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) italiano, Davide Faranda e Burak Bulut, e uno dell’Università di Bologna, Salvatore Pascale, che fa parte del gruppo di ricerca di fisica atmosferica del dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi”. Lo studio rientra nella cosiddetta “attribution science”, letteralmente “scienza dell’attribuzione”: è la branca della climatologia sviluppatasi a partire dal 2004 che indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, sviluppando metodi per trovare eventuali collegamenti.«Abbiamo deciso di analizzare questa siccità per due ragioni», spiega Faranda: «Prima di tutto per la sua grande estensione geografica, dato che in passato eravamo abituati a siccità che interessavano solo l’Italia, o parte d’Italia, oppure la Francia e l’Inghilterra, oppure la penisola iberica. Poi perché per l’IPCC [il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU] c’è una mancanza di studi sulle cause delle siccità nell’Europa occidentale».La siccità in corso è una siccità idrologica, a cui cioè è associata una riduzione delle acque presenti nei corsi d’acqua, nei laghi e nelle falde sotterranee, e al tempo stesso una siccità agricola, che ha cioè ripercussioni sulle coltivazioni. Non è dovuta solo a una carenza di precipitazioni molto estesa nel tempo, ma anche a temperature più alte della norma che, in associazione al prolungato bel tempo, hanno portato a un aumento della quantità d’acqua che evapora dal terreno e traspira dalle piante (evapotraspirazione). Dunque per analizzarla non basta tener conto unicamente di un’analisi delle precipitazioni, ma anche della temperatura e della risposta del suolo alla mancanza di pioggia.«Ci sono eventi meteorologici che sono più facilmente attribuibili al cambiamento climatico», dice Pascale: «Ad esempio le ondate di calore: a causa del riscaldamento globale, è intuitivo e logico aspettarsi che aumentino le probabilità che si verifichino questi fenomeni. La componente delle precipitazioni è più complessa da studiare e nelle siccità, che dipendono da diverse variabili, il nesso non è diretto, bisogna dipanare la matassa con attenzione».Faranda, Pascale e Bulut hanno tenuto conto dei tre fattori coinvolti usando un indice che li contempla tutti e diventa negativo in condizioni di siccità. Poi hanno studiato la circolazione atmosferica, cioè l’alternarsi delle condizioni di alta pressione (associata al bel tempo) e bassa pressione (brutto tempo), dal dicembre del 2021 all’agosto del 2022 nelle aree in cui l’indice della siccità era negativo, e hanno trovato un’associazione tra le zone di alta pressione e le zone più colpite dalla siccità.Successivamente hanno utilizzato una serie di dati meteorologici che partono dal 1836 per cercare distribuzioni di alta pressione analoghe a quelle del periodo 2021-2022 preso in considerazione. Nel farlo hanno distinto i casi precedenti al 1915, cioè relativi a un periodo storico in cui non si vedevano ancora effetti sul clima dell’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, e quelli successivi al 1942. «Abbiamo visto che le siccità simili c’erano anche prima, ma interessavano solo parte della Francia e dell’Inghilterra ed erano meno intense, sia in termini di carenza di precipitazioni che di evapotraspirazione», racconta Faranda.Tuttavia non basta verificare che un fenomeno sia stato diverso rispetto ad altri analoghi passati per dire che sia legato al cambiamento climatico.«Ciò che serve per poter attribuire la causa al cambiamento climatico è un meccanismo fisico che leghi i due fenomeni», continua Faranda: «In questo caso è quello che per semplificare abbiamo chiamato “effetto mongolfiera”: con le emissioni di gas serra facciamo aumentare la temperatura dell’atmosfera e, dato che nei gas la temperatura è legata alla pressione in maniera proporzionale, se aumentiamo la temperatura aumentiamo anche la pressione, proprio come succede nel pallone di una mongolfiera».In questa similitudine alla mongolfiera corrisponde la zona di alta pressione nell’atmosfera, l’anticiclone: «Arriva nella tropopausa [lo strato di atmosfera che separa la troposfera, in cui avvengono i fenomeni meteorologici, dalla stratosfera, più in alto], e si espande. Per questo questa siccità ha inglobato più aree geografiche e in particolare l’Italia del nord rispetto al passato».– Leggi anche: Al Sud non c’è la siccitàPascale precisa che queste considerazioni non valgono per tutti gli episodi di siccità che ci sono stati in Italia in anni recenti, come quello del 2017, ma solo per le caratteristiche di questa specifica siccità: per le altre bisognerebbe fare studi appositi. In quella che stiamo attraversando in particolare «è molto forte l’evapotraspirazione, cioè il grado con cui il terreno si secca: avviene molto più in fretta rispetto all’Ottocento per l’aumento delle temperature».Secondo il climatologo Maurizio Maugeri, professore dell’Università Statale di Milano e presidente del corso di laurea magistrale in “Environmental Change and Global Sustainability”, che non ha partecipato allo studio, è una ricerca «originale, sicuramente solida» che è stata pubblicata peraltro su «un’ottima rivista» per il settore: «I risultati più importanti di questo lavoro mettono in evidenza non tanto che queste condizioni si presentano in modo più frequente negli anni più recenti rispetto all’andamento storico ma che, quando si presentano, sanno essere “più estreme”, “più cattive”».Maugeri sottolinea l’importanza del dato sull’evapotraspirazione: «Anche qualora le precipitazioni non fossero cambiate in nessun modo da 200 anni fa a oggi, il fatto che faccia più caldo causa una maggiore evaporazione, quindi l’acqua che abbiamo a disposizione nelle nostre riserve è minore». L’aumento dell’evapotraspirazione è stato oggetto anche di altri studi, tra cui uno a cui ha lavorato lo stesso Maugeri e dedicato al bacino del fiume Adda, che scorre in Lombardia, dalle Alpi Retiche al Po: «Per i 170 anni di cui abbiamo dati, le piogge si sono ridotte grosso modo del 5 per cento, quindi pochissimo, mentre le portate dell’Adda si sono ridotte del 20 per cento».Anche per Federico Grazzini, meteorologo dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna (Arpae) e ricercatore all’Università di Monaco di Baviera, lo studio di Faranda, Pascale e Bulut «è importante» e l’approccio su cui è basato è «promettente, può essere usato anche per altri eventi»: «L’Italia è sul fronte del cambiamento climatico più di altri paesi e quindi dovrebbe essere “in prima linea” nel produrre questo tipo di elaborazioni. Però non siamo produttivi come altri paesi».Ramona Magno, ricercatrice dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e coordinatrice scientifica dell’Osservatorio Siccità, ricorda che in generale, da varie ricerche, sappiamo che nella zona del Mediterraneo il cambiamento climatico sta esacerbando gli eventi estremi: è già stato osservato un aumento sia nella frequenza che nell’intensità delle ondate di calore e delle siccità, e secondo le proiezioni aumenteranno ancora. Le cose sono meno chiare invece per quanto riguarda l’influenza del riscaldamento globale sulle circolazioni atmosferiche che riguardano l’Europa, ma come mostra anche lo studio sulla siccità del 2022 si vede che ci sono dei cambiamenti in atto.Per quanto riguarda la situazione attuale e quella dei prossimi mesi, «le recenti perturbazioni e i recenti abbassamenti di temperatura sono importanti perché “fanno tirare il fiato”, limitano un po’ le condizioni di deficit di precipitazione», spiega Magno, soprattutto nel Piemonte occidentale, la zona che più ha sofferto finora per la siccità. Tuttavia «le precipitazioni hanno interessato soprattutto il centro Italia» e «se non saranno continue e distribuite anche su periodi successivi, non saranno sicuramente sufficienti a colmare del tutto il deficit che si è formato al nord Italia, soprattutto nel nord-ovest».Le previsioni stagionali fatte da vari centri meteorologici europei dicono che nei prossimi tre mesi «con buona probabilità, tra il 40 e il 60 per cento, le temperature medie saranno superiori a quelle del periodo 1991-2020», mentre i modelli sono discordanti per quanto riguarda le precipitazioni: «Nel complesso le precipitazioni potrebbero essere in media, quindi potrebbe piovere come al solito in questo periodo, però siccome il deficit accumulato in alcune zone d’Italia è notevole, potrebbero non essere sufficienti».Insomma la siccità potrebbe proseguire. E un’estate di siccità che segue un’estate di siccità è più grave, soprattutto per le colture che richiedono molta acqua, come il riso e il mais.«Magari arriva una perturbazione, ma se è un momento passeggero il suolo non riesce a rimettersi in sesto», riassume Faranda: «È come quando una persona è depressa: ogni tanto vive un momento di felicità, però rimane sostanzialmente nello stesso stato e nel tempo si aggrava. La vegetazione è un po’ come un essere umano: non vive i nostri stessi tipi di stress, vive lo stress idrologico, ma c’è una similitudine. Alla lunga, dopo anni di siccità, la vegetazione non riesce più ad adattarsi e muore. E bisogna pensare di cambiare le colture».– Leggi anche: Cosa è questo “piano laghetti” contro la siccità LEGGI TUTTO

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    La fioritura dei ciliegi in Giappone è anticipata dal cambiamento climatico

    A Kawazu, una città giapponese a sud-ovest di Tokyo, stanno fiorendo certi tipi di ciliegi. Il vero e proprio hanami, l’usanza di ammirare la fioritura di questi alberi che ogni anno attraggono anche molti turisti stranieri in Giappone, si svolgerà tra qualche settimana ma in molte parti del paese comincerà prima del 20 marzo, cioè prima dell’inizio della primavera astronomica. Le date di fioritura cambiano di anno in anno, e variano nelle diverse parti del paese a seconda del clima locale, ma negli ultimi decenni in media sono state precoci rispetto al passato, e come per tante altre specie vegetali c’entra l’aumento delle temperature globali causato dalle attività umane.Abbiamo il primo Sakura dell’anno!Proprio nel tempio davanti casa今年初#ultragiappone #sakura #桜 pic.twitter.com/3adPbElnQz— フラ -pesceriso- (@pesceriso) February 28, 2023Secondo le previsioni dell’Associazione meteorologica giapponese (JWA) a Kyoto, l’antica capitale del Giappone e una delle principali mete turistiche del paese, la fioritura dei ciliegi quest’anno inizierà il 22 marzo. La piena fioritura, il momento migliore per ammirare gli alberi, è invece attesa per il 30 marzo. Non sarà estremamente anticipata rispetto alla media come quella del 2021, quanto avvenne il 26 marzo e fu la più precoce nei circa 1.200 anni da cui si registrano dati sui ciliegi di Kyoto (che erano tenuti in grande considerazione dalle corti imperiali giapponesi già più di un millennio fa), ma comunque ci andrà vicino.Le previsioni su quando avverrà la piena fioritura dei ciliegi nelle diverse parti del Giappone nel 2023 aggiornata al 2 marzo (JWA)Proprio a seguito del record del 2021, l’Università di Osaka aveva collaborato con il Met Office, l’agenzia meteorologica nazionale del Regno Unito e una delle più autorevoli istituzioni del mondo nel suo ambito, per stabilire se il cambiamento climatico avesse un’influenza sui tempi della fioritura dei ciliegi. In uno studio pubblicato l’anno scorso sulla rivista Environmental Research Letters, avevano dimostrato come dagli anni Trenta del Novecento in poi le conseguenze delle attività umane hanno determinato un’anticipazione delle fioriture di 11 giorni a Kyoto e avevano stimato che entro il 2100 potrà aumentare di altri 6.A influire non è solo l’aumento generale delle temperature causato dalle emissioni di gas serra, che riguarda tutto il mondo: c’entrano anche le maggiori temperature che si registrano a Kyoto come nelle altre città del mondo rispetto alle aree di campagna, e che sono dovute principalmente all’alta percentuale di superfici scure che assorbono molta più radiazione solare rispetto al terreno non edificato o asfaltato. Secondo lo studio dell’Università di Osaka e del Met Office, senza la particolare situazione urbana l’effetto del riscaldamento globale sulla fioritura dei ciliegi di Kyoto si sarebbe cominciato a vedere solo alla fine del Novecento invece che già settant’anni prima.Questi risultati sono stati ottenuti grazie ai numerosi dati sulle fioriture dei ciliegi e a quelli sulle temperature di Kyoto, registrati a partire dalla fine dell’Ottocento. Per appurare le differenze tra gli alberi di città e quelli di campagna sono stati usati dati relativi a Kameoka, una località rurale vicina a Kyoto. In passato i due luoghi avevano temperature simili, che però cominciarono a differenziarsi dagli anni Quaranta.La variazione rispetto alla media storica delle date di piena fioritura dei ciliegi nel corso del tempo: in azzurro sono indicati i dati relativi a Kameoka, in rosa quelli che riguardano Kyoto (Met Office)I ciliegi del Giappone (lì chiamati sakura) non sono gli stessi di cui si mangiano le ciliegie, ma appartengono a una specie da cui non si ricavano frutti commestibili (Prunus serrulata). Sono tuttavia noti in tutto il mondo per la bellezza dei loro fiori, che sono uno dei simboli del Giappone all’estero. Negli anni le autorità giapponesi ne hanno più volte regalati ad altri paesi: è il caso dei ciliegi del parco dell’EUR, a Roma, e di quelli del National Mall di Washington, negli Stati Uniti, l’area in cui si trovano la sede del Congresso americano e vari monumenti. LEGGI TUTTO

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    L’India ha ricevuto dal Sudafrica 12 ghepardi per il suo progetto di reintroduzione della specie

    Sabato 12 ghepardi provenienti dal Sudafrica sono arrivati alla base dell’aeronautica indiana di Gwalior, nell’India settentrionale, e prossimamente saranno portati nel vicino Parco nazionale di Kuno-Palpur: fanno parte dell’ambizioso piano per la reintroduzione della specie nel paese e saranno aggiunti agli otto ghepardi che l’India aveva ricevuto dalla Namibia a settembre.In passato i ghepardi erano presenti in gran numero non solo in Africa, ma anche in alcune zone dell’Asia, dalla penisola arabica all’Afghanistan: oggi la popolazione asiatica di ghepardi è praticamente scomparsa a causa della riduzione del suo habitat per via delle attività umane, della scarsità di cibo legata a una più generale riduzione delle popolazioni di animali selvatici, e della caccia. Durante la dominazione britannica dell’India, i ghepardi venivano uccisi per evitare che sbranassero il bestiame e nel paese non ce ne sono più almeno dal 1952: da allora si era provato più volte a reintrodurli, finora senza successo. Nel 2020 la Corte Suprema indiana aveva stabilito che la specie potesse essere reintrodotta, a patto che il tentativo venisse condotto in un «territorio scelto accuratamente». Sono stati chiesti alla Namibia e poi al Sudafrica perché sono i paesi in cui vivono le più grandi popolazioni selvatiche di ghepardi; in Sudafrica in particolare si stima che ce ne siano troppi per le risorse a loro disposizione e per questo anche in passato ne sono stati donati alcuni ad altri paesi. A gennaio l’India ha detto che progetta di accogliere 12 ghepardi all’anno dai due paesi africani per i prossimi 8-10 anni.Quelli arrivati in India sabato saranno portati in elicottero al parco di Kuno-Palpur e inizialmente saranno liberati in una zona recintata per un periodo di quarantena.I ghepardi sono una specie considerata «vulnerabile» all’estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione. Dovrebbero essercene circa settemila in natura in tutto il mondo.– Leggi anche: Anche i ghepardi fanno le fusa Due ghepardi all’interno di un’area recintata in una riserva vicino a Bella Bella, in Sudafrica, il 4 settembre 2022: erano in quarantena in attesa di essere portati all’estero (AP Photo/Denis Farrell, LaPresse) LEGGI TUTTO

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    Intorno all’Antartide c’è meno ghiaccio del solito

    Il 13 febbraio la superficie dell’oceano Antartico coperta da ghiacci ha raggiunto l’estensione minima dal 1979, ovvero da quando la misuriamo utilizzando i satelliti. È normale che in questo periodo intorno all’Antartide ci sia meno ghiaccio, dato che siamo alla fine dell’estate australe, ma quest’anno è meno del solito. Secondo le rilevazioni della NASA e le successive analisi del National Snow and Ice Data Center (NSIDC), un centro studi di ricerca americano, all’inizio di questa settimana solo 1,91 milioni di chilometri quadrati di mare attorno all’Antartide erano coperti dalla banchisa: per un confronto, la media degli ultimi quarant’anni dell’estensione minima è superiore ai 2,5 milioni di chilometri quadrati.Già nel 2022 era stato registrato un record negativo (1,92 milioni di chilometri quadrati) ed è probabile che il minimo per il 2023 sarà ancora inferiore, dato che generalmente l’estensione dei ghiacci nell’oceano Antartico arriva al suo minimo tra il 18 febbraio e il 3 marzo – l’anno scorso ci si era arrivati il 25 febbraio. Il precedente record negativo risaliva invece al 2017. Tuttavia, diversamente da quanto si potrebbe pensare, non si può ricondurre la riduzione dell’estensione dei ghiacci antartici estivi degli ultimi anni automaticamente al cambiamento climatico. I fenomeni che influenzano l’estensione dei ghiacci intorno all’Antartide sono molti e complessi. Finora non se ne è vista una pronunciata diminuzione come è successo invece nel mare Artico. Le due regioni polari del pianeta sono tuttavia molto diverse: in corrispondenza del Polo Nord e attorno a esso c’è quasi solo mare circondato da terre, il nord del Canada, della Groenlandia, della Scandinavia e della Russia, mentre l’Antartide è un continente circondato da un oceano. Per via delle sue caratteristiche geografiche il mare Artico è una delle regioni della Terra più influenzate dal riscaldamento globale e lì la diminuzione del ghiaccio marino – superiore al 12 per cento nell’ultimo decennio – è sicuramente legata ai cambiamenti climatici causati dalle attività umane.Mappa dell’Antartide che mostra l’estensione dei ghiacci marini attorno al continente il 13 febbraio 2023 secondo le rilevazioni con sensori a microonde dei satelliti della NASA: la presenza di ghiaccio è indicata con una scala di colori che va dal bianco al blu e che indica la percentuale di superficie marina ghiacciata. Si considera “coperta da ghiacci” la superficie marina se la percentuale è superiore al 15 per cento. La linea arancione indica l’estensione mediana dei ghiacci relativamente al periodo 1981-2010 (National Snow and Ice Data Center)Per quanto riguarda l’Antartide, negli ultimi decenni l’area minima coperta dai ghiacci intorno all’Antartide è aumentata e diminuita in modo molto variabile. Solo negli ultimissimi anni si è vista una tendenza discendente, ma non è detto che sia dovuta all’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera. Sappiamo peraltro che all’inizio del Novecento l’estensione dei ghiacci marini antartici era generalmente minore di quella che poi è stata nel corso del secolo successivo.È probabile che il record di quest’anno sia stato influenzato dalle temperature particolarmente alte che sono state registrate nella Penisola Antartica, la parte del continente che si allunga verso il Sud America: nel corso del 2022 in media sono state superiori di 1,5 °C rispetto al periodo 1991-2022. Potrebbe avere un ruolo anche l’Oscillazione antartica (AAO), quell’insieme di fenomeni atmosferici che avvengono intorno all’Antartide e che ne influenzano il clima, in modo simile a come fa il più famoso El Niño nell’oceano Pacifico. In questo periodo l’AAO è in una fase che rafforza i venti intensi che soffiano intorno al continente più meridionale e che spezzano e allontanano verso nord i banchi di ghiaccio: è dunque probabile che contribuisca a ridurre l’estensione dei ghiacci attorno all’Antartide.La scarsa estensione del ghiaccio marino attorno all’Antartide di quest’anno è ciò che ha permesso alla nave oceanografica italiana Laura Bassi di toccare il punto più a sud mai raggiunto da una nave alla fine di gennaio, secondo quanto dichiarato dal Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA): la latitudine di 78° 44′ 16,8” S nel mare di Ross, più precisamente nella Baia delle balene.La Laura Bassi partecipa alla missione scientifica del PNRA, che è finanziato dal ministero dell’Università e della Ricerca ed è coordinato dal CNR per le attività scientifiche e dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) per l’attuazione logistica delle spedizioni, e si trovava nella Baia delle balene per delle attività di pesca scientifica, mirate in particolare a studiare le larve di numerose specie di pesci. Presto, con l’avvicinarsi dell’inverno australe, la nave concluderà la sua missione: dovrebbe raggiungere la Nuova Zelanda il 6 marzo e da lì tornare in Italia entro la seconda metà di aprile.– Leggi anche: Il quinto oceano LEGGI TUTTO

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    Un pezzo del ghiacciaio del Breithorn Occidentale sembra poco stabile

    La scorsa estate il crollo di un pezzo del ghiacciaio della Marmolada che causò la morte di 11 persone fece aumentare le attenzioni dedicate allo stato dei ghiacciai alpini, la cui esistenza futura è minacciata o del tutto compromessa, a seconda dell’altitudine, dal riscaldamento globale. Tra le altre cose, i glaciologi avevano notato l’allargamento di un grande crepaccio nel ghiacciaio del Breithorn Occidentale, una delle vette del massiccio del monte Rosa, al confine tra Italia e Svizzera, che di recente è stato ben fotografato da Marco Soggetto, un appassionato di alpinismo e fotografia. Il Breithorn Occidentale è alto 4.165 metri ed è una delle vette che sovrastano il Grande Ghiacciaio di Verra, peraltro noto per una scena del romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne e del film omonimo che ne è stato tratto. Il crepaccio che si è allargato si trova però nella calotta di ghiaccio sommitale, cioè in cima alla montagna. Si può anche osservare da una webcam sul vicino Piccolo Cervino, ma si vede molto più chiaramente nelle fotografie di Soggetto, che mostrano il Breithorn Occidentale da nord e nello specifico dalla valle Mattertal, in Svizzera: il crepaccio è molto profondo, quasi fino al fondo della calotta, in un punto in cui la pendenza della roccia è elevata.Il glaciologo Giovanni Baccolo ha commentato le immagini con Lo Scarpone, la rivista online del Club alpino italiano (CAI): «Sono impressionanti. La spaccatura ha isolato una grande porzione del ghiacciaio dal corpo principale, trasformandolo in un enorme seracco», ovvero in un blocco di ghiaccio molto separato dal corpo principale del ghiacciaio.Baccolo ha spiegato che per il momento non si può dire se la comparsa del crepaccio sia una conseguenza delle normali evoluzioni di questo specifico ghiacciaio, oppure sia stata influenzata dall’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico. I ghiacciai infatti non sono masse di ghiaccio immobili, e possono cambiare forma per varie ragioni: ad esempio, se grazie all’accumulo di nuova neve aumentano di dimensioni, può succedere che una loro parte collocata su un letto di roccia molto pendente crolli per l’eccesso di peso.Questo potrebbe essere il caso del seracco che si sta formando sul Breithorn Occidentale, dove per via dell’elevata altitudine – molto maggiore rispetto a quella del ghiacciaio della Marmolada, che si trova a meno di 3.400 metri – nonostante l’aumento delle temperature medie la neve continua ad accumularsi. «La presenza di una ripida scarpata di ghiaccio indica che in quel punto il ghiacciaio è normalmente soggetto a crolli», ha detto Baccolo: «Per capire se l’apertura di quel crepaccio così vistoso sia un’anomalia sarebbe opportuno ricostruire il comportamento del ghiacciaio negli scorsi decenni e verificare con quale frequenza quel settore è stato soggetto a crolli e con quali volumi coinvolti».Si stima che il progressivo aumento della temperatura media globale porterà alla scomparsa della maggior parte dei ghiacciai alpini che si trovano al di sotto dei 3.600 metri di altitudine, i “ghiacciai temperati” nel gergo della glaciologia, entro la fine del secolo. Per i ghiacciai più in quota il discorso è un po’ diverso perché hanno caratteristiche differenti.Sopra i 4.000 metri storicamente si parlava di “ghiacciai freddi”, dato che la temperatura al loro interno era molto inferiore agli 0 °C, il punto di fusione del ghiaccio in acqua liquida. In questi ghiacciai, a differenza di quelli temperati, non è dunque quasi presente acqua liquida, e per questa ragione le basi, cioè gli strati di ghiaccio più profondi, sono attaccate alla roccia sottostante: l’intero ghiacciaio è dunque più stabile, mentre nel caso dei ghiacciai temperati c’è un maggiore movimento dovuto allo scorrimento del ghiaccio sull’acqua liquida alla base della massa glaciale. Il problema è che a causa del riscaldamento globale alcuni ghiacciai freddi, quelli che si trovano a quote più basse, si stanno trasformando in ghiacciai temperati.«La velocità con cui si è aperto il crepaccio/seracco sul Breithorn potrebbe dipendere da questa transizione invisibile», ha aggiunto Baccolo, «che richiederebbe accurati sondaggi termici per essere compresa a fondo».L’eventuale crollo di questo specifico seracco tuttavia non è particolarmente allarmante perché quella massa di ghiaccio si trova al di sopra di un’area in cui non ci sono infrastrutture o sentieri percorsi dagli escursionisti. Ci sono solo vie alpinistiche di alta difficoltà sul versante sovrastato dal seracco, ma dato che la sua presenza è nota da tempo è probabile che gli alpinisti che frequentano la zona ne siano bene informati. Non dovrebbero esserci problemi, secondo Baccolo, per quelli intenzionati a salire sul Breihorn Occidentale dalla via normale, che invece si sviluppa su un altro versante.– Leggi anche: Come stiamo studiando il più vasto ghiacciaio alpino italiano LEGGI TUTTO

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    Sulle Alpi non ci sono più i giorni di neve di una volta

    Dal Quattrocento all’inizio del Novecento il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi sono state coperte di neve è stato più o meno costante. Poi nell’ultimo secolo è via via diminuito e la media degli ultimi vent’anni è inferiore di 36 giorni a quella dei precedenti 600 anni. Sono le conclusioni di uno studio realizzato da un gruppo di ricerca dell’Università di Padova e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (ISAC) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) di Bologna, appena pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Climate Change.I dati sui fenomeni meteorologici nelle Alpi arrivano al massimo alla metà dell’Ottocento e quelli sulla durata del manto nevoso, cioè sui giorni dell’anno con presenza di neve, risalgono solo agli ultimi decenni. I dati che avevamo a disposizione dicevano che tra il 1971 e il 2019 i giorni con presenza di neve tra novembre e maggio erano diminuiti del 5,6 per cento ogni dieci anni. Per andare più indietro nel tempo, i ricercatori dell’Università di Padova e dell’ISAC hanno utilizzato gli anelli di accrescimento nei fusti dei ginepri (Juniperus communis), arbusti molto comuni sulle Alpi, ad alta quota, e molto longevi.Il ginepro si presta a dare informazioni sul manto nevoso perché «ha un portamento strisciante sul terreno, ovvero cresce orizzontalmente molto vicino al suolo», ha spiegato l’ecologo forestale Marco Carrer dell’Università di Padova, primo autore dello studio. In pratica, i ginepri, essendo alti poche decine di centimetri, passano parte dei mesi invernali ricoperti dalla neve, quando c’è, e gli anelli di accrescimento nei loro fusti mostrano segni di questa permanenza sotto il manto nevoso. «La stagione di crescita del ginepro dipende fortemente da quanto precocemente riesce ad emergere dalla coltre bianca che lo ricopre», ha aggiunto sempre Carrer.Finché restano sepolti dalla neve, i ginepri non crescono e questo permette di stimare la durata del manto nevoso anno per anno.Il gruppo di Carrer ha analizzato gli anelli di accrescimento di una serie di ginepri vivi e morti cresciuti in Val Ventina, una valle laterale della Valtellina, in provincia di Sondrio, cresciuti ad altitudini comprese tra 2.100 e 2.400 metri sul livello del mare. Confrontando le informazioni ottenute in questo modo con i dati meteorologici disponibili, gli scienziati sono riusciti a stimare i cambiamenti nella durata del manto nevoso dal Quattrocento in avanti. «Ciò ci ha permesso di comprendere che quello che stiamo vivendo negli ultimi anni è qualcosa che non si era mai presentato precedentemente», ha concluso Carrer insieme a Michele Brunetti dell’ISAC. È il primo studio che dà informazioni riguardo ai giorni con la neve sulle Alpi andando tanto lontano nel tempo.Il numero di giorni con presenza di neve variano di anno in anno, in linea con la variabilità delle precipitazioni che c’è sempre stata. Ma l’andamento dei valori medi sul lungo periodo, che mostra una correlazione con l’andamento delle temperature medie, suggerisce che la riduzione dei giorni con la neve sia legata al riscaldamento globale dovuto alle attività umane.– Leggi anche: Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancoraTra le altre cose, l’osservazione degli anelli dei ginepri ha anche confermato che nell’inverno tra il 1916 e il 1917, quando era in corso la Prima guerra mondiale e lungo le Alpi c’era un fronte di guerra tra l’Impero Austroungarico e l’Italia, il manto nevoso si mantenne per un periodo particolarmente lungo: il più lungo di tutto il Ventesimo secolo, con 67 giorni con la neve in più rispetto alla media secolare, che è di 251 giorni all’anno. Migliaia di soldati morirono per le condizioni meteorologiche, oltre che per i combattimenti, per via dell’inverno particolarmente rigido. LEGGI TUTTO

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    Exxon sapeva del riscaldamento globale fin dagli anni Settanta

    Un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Science e basato su documenti interni della compagnia petrolifera Exxon rivela che l’azienda aveva a disposizione sin dagli anni Settanta un modello piuttosto accurato sugli effetti a lungo termine dei combustibili fossili sul clima.Per conto di Exxon alcuni ricercatori avevano previsto il riscaldamento globale, in misure simili a quelle effettivamente riscontrate finora. Oltre ad avere ignorato per decenni quei documenti senza renderli pubblici, l’azienda aveva a lungo contestato gli studi sul cambiamento climatico definendoli fino al 2013 «troppo incerti» e battendosi per evitare ogni limitazione all’uso dei combustibili fossili.Il nuovo studio pubblicato su Science, una delle più importanti riviste scientifiche al mondo, è stato condotto da un gruppo di ricerca dell’Università di Harvard e dell’Istituto Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico e guidato da Geoffrey Supran. Quest’ultimo ha definito le conclusioni dello studio e alcuni grafici originali degli anni Settanta in esso contenuti la «pistola fumante», ossia la prova definitiva che Exxon fosse a conoscenza degli effetti a lungo termine dell’uso dei combustibili fossili, a cominciare proprio dal petrolio e dal carbone.Non solo nel corso degli anni Exxon «sapeva qualcosa» sulle cause del riscaldamento globale che ufficialmente negava, ma ha avuto a disposizione modelli e risultati scientifici prima dei ricercatori indipendenti.Uno dei grafici “interni” e la sovrapposizione con i dati reali (Supran et al.)Gli oltre cento documenti e ricerche, condotte da dipendenti della stessa Exxon o commissionate dall’azienda petrolifera a ricercatori esterni fra il 1977 e il 2003, prevedevano un aumento della temperatura media globale di circa 0,2 °C ogni dieci anni come effetto delle emissioni di gas serra riconducibili alla combustione di petrolio e carbone. Le analisi smentivano la teoria, che all’epoca aveva un certo sostegno, che il pianeta potesse andare incontro a una nuova glaciazione e invece prevedevano in modo piuttosto accurato un riscaldamento influenzato dalle attività umane e «indotto dall’anidride carbonica». Gli scienziati della compagnia avevano indicato anche i primi anni del Duemila come la data in cui gli effetti sarebbero stati universalmente riconosciuti e “scoperti” dal grande pubblico e indicavano una quota di utilizzo di combustibili fossili sotto cui sarebbe stato necessario rimanere per evitare un aumento della temperatura media globale superiore ai 2 °C.– Leggi anche: Da dove arrivano le emissioni inquinantiLo studio definisce i risultati a disposizione di Exxon in quegli anni più accurati e completi rispetto a quelli con cui gli scienziati della NASA, e in particolare James Hansen, avvertirono il mondo dei rischi anni più tardi, nel 1988. Non è la prima pubblicazione che evidenzia come le grandi società petrolifere e aziende energetiche fossero a conoscenza degli effetti sulle temperature globali della combustione di petrolio e carbone: l’esistenza di ricerche interne in questo senso fin dagli anni Cinquanta dello scorso secolo è già stata dimostrata, ma questo studio presenta risultati più completi e circostanziati.Exxon è una delle più grandi compagnie petrolifere al mondo ed è proprietaria, fra gli altri, del marchio Esso con cui è sul mercato in Italia. Giovedì ha smentito queste conclusioni, contattata da BBC News: «La questione è già stata presentata più volte e in ogni occasione la nostra risposta è la stessa: chi dice che “Exxon sapeva” sostiene conclusioni errate».Exxon, così come altre grandi aziende del settore, per decenni ha respinto le conclusioni scientifiche sul riscaldamento globale causato dalle attività umane, definendole ora “speculative”, ora “cattiva scienza” e osteggiando fino a pochi anni fa ogni regolamentazione delle emissioni. Lo studio dell’Università di Harvard rivela invece che internamente la compagnia usava gli stessi modelli ed era a conoscenza degli effetti a lungo termine. LEGGI TUTTO

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    Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancora

    Nel 2022, per il settimo anno consecutivo, le temperature medie degli oceani sono aumentate e hanno raggiunto i valori massimi dagli anni Cinquanta, quando si cominciarono a registrare con sistematicità. Lo dice il nuovo studio di un gruppo di ricerca internazionale composto da 16 istituzioni scientifiche del mondo che da anni tiene sotto controllo i dati complessivi sugli oceani, pubblicato sulla rivista Advances in Atmospheric Sciences.Il gruppo di ricerca, di cui fanno parte anche due enti italiani, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) e l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), ha rilevato particolari aumenti delle temperature nei primi 2.000 metri di profondità di quattro grandi bacini in particolare: le parti settentrionali dell’oceano Pacifico e dell’oceano Atlantico, il mar Mediterraneo e gli oceani meridionali, quelli più vicini all’Antartide. In queste zone sono state registrate le temperature più alte dagli anni Cinquanta.In generale, è stato stimato che nel 2022 il contenuto di energia termica dell’oceano tra la superficie e i 2.000 metri di profondità è aumentato di circa 10 zetta joule: è un valore equivalente a più o meno cento volte la produzione mondiale di elettricità nel 2021, hanno spiegato l’ENEA e l’INGV.L’aumento delle temperature marine non è un evento straordinario e passeggero ed è legato al cambiamento climatico causato dalle attività umane. Il riscaldamento globale infatti non riguarda solo l’atmosfera, ma anche le acque degli oceani, che diventando più calde fanno aumentare il livello del mare. L’innalzamento del livello dei mari infatti non è dovuto alla sola fusione dei ghiacci continentali dell’Antartide e delle terre più settentrionali come la Groenlandia, ma anche alla dilatazione termica dell’acqua: se aumenta la temperatura, aumenta il suo volume.L’aumento delle temperature ha comunque anche altre conseguenze, come la maggiore intensità delle tempeste, soprattutto degli uragani: tanto più sono caldi gli strati superficiali dell’acqua, maggiore è l’energia che può generare precipitazioni particolarmente intense. Inoltre le zone marine più salate lo diventano ancora di più, causando problemi agli animali e ai vegetali che ci vivono, dato che ogni organismo marino ha precisi intervalli di salinità e temperatura all’interno dei quali può vivere e riprodursi.– Leggi anche: Anche il mar Mediterraneo si sta riscaldando LEGGI TUTTO