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    In Europa centrale alluvioni come quelle di settembre sono diventate più probabili

    Caricamento playerLe piogge intense che tra il 12 e il 15 settembre hanno causato esondazioni dei fiumi e grossi danni tra la Polonia e la Repubblica Ceca, in Austria e in Romania sono state eccezionali perché hanno interessato una regione molto vasta dell’Europa centrale. Un’analisi preliminare delle statistiche meteorologiche continentali indica che la probabilità che si verifichino fenomeni del genere è raddoppiata a causa del cambiamento climatico in atto.
    Lo studio è stato fatto dal World Weather Attribution (WWA), un gruppo di ricerca che riunisce scienziati esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo e che collaborano – a titolo gratuito – affinché ogni volta che si verifica un evento meteorologico estremo particolarmente disastroso la comunità scientifica possa dare una risposta veloce alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?”. Nel caso delle recenti alluvioni in Europa centrale, che hanno causato la morte di 26 persone, ci sono larghi margini di incertezza ma il gruppo di ricerca ha concluso che un ruolo del cambiamento climatico ci sia.
    Il WWA, creato nel 2015 da Friederike Otto e Geert Jan van Oldenborgh, pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, gli studi del WWA sono pubblicati prima di essere sottoposti al processo di revisione da parte di altri scienziati competenti (peer review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dal WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.

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    Le alluvioni di metà settembre in Europa centrale sono state causate dalla tempesta Boris che poi ha provocato esondazioni anche in alcune zone della Romagna e dell’Emilia orientale. Le misurazioni della quantità di acqua piovuta in un giorno nel corso del fenomeno hanno fatto registrare dei record in varie località. Per verificare se fosse possibile ricondurre il fenomeno al cambiamento climatico causato dalle attività umane gli scienziati del WWA hanno confrontato le misure delle precipitazioni dei giorni in cui complessivamente è piovuto di più, quelli tra il 12 e il 15 settembre, con le statistiche sulle precipitazioni massime annuali su archi di quattro giorni.
    Hanno anche utilizzato le simulazioni climatiche, cioè programmi simili a quelli usati per le previsioni del tempo che mostrano quali eventi meteorologici potrebbero verificarsi in diversi scenari climatici futuri.
    Le conclusioni dello studio dicono che il cambiamento climatico non ha reso più probabili tempeste con caratteristiche generali analoghe a quelle di Boris (che sono piuttosto rare e di cui questa è stata la più intensa mai registrata), ma che in generale quattro giorni consecutivi piovosi come quelli che ci sono stati sono diventati più probabili in Europa centrale rispetto all’epoca preindustriale. Hanno anche stimato che la quantità di pioggia di tali eventi sia aumentata del 10 per cento, da allora. Secondo i modelli climatici basati su un ulteriore aumento delle temperature medie globali, di 2 °C rispetto all’epoca preindustriale invece che degli attuali 1,3 °C, in futuro sia la probabilità che l’intensità di questi eventi aumenterà ancora.
    Lo studio ricorda che comunque i danni delle alluvioni recenti sono dovuti anche allo scarso adattamento delle infrastrutture fluviali a eventi meteorologici estremi rispetto alle statistiche storiche. Tuttavia è stato anche osservato che rispetto a grandi alluvioni passate la situazione di emergenza probabilmente è stata gestita meglio: nel 2002 morirono 232 persone quando vaste aree dell’Austria, della Germania, della Repubblica Ceca, della Romania, della Slovacchia e dell’Ungheria furono interessate da un’alluvione, e nel 1997 ci furono almeno 100 morti per un’alluvione più ridotta in Germania, Polonia e Repubblica Ceca. Ancora nel luglio del 2021, la grande alluvione in Germania e Belgio causò la morte di più di 200 persone.
    In generale, la climatologia ha mostrato che il riscaldamento globale ha reso e renderà più frequenti le alluvioni, ma questo non vale per tutte le parti del mondo. In altre zone si prevede invece un aumento della frequenza di altri fenomeni meteorologici estremi, come le siccità. In certe parti del mondo inoltre è prevista una più alta frequenza di alluvioni in una specifica stagione dell’anno e meno precipitazioni nelle altre: l’Italia ad esempio ha un territorio morfologicamente complesso e diverso nelle sue parti, per cui le conseguenze del riscaldamento globale potrebbero essere diverse da regione a regione.

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    Perché è piovuto così tanto, sull’Europa e non solo

    Caricamento playerL’alluvione in Emilia-Romagna è solo uno degli effetti più recenti della tempesta Boris, che nell’ultima settimana ha causato grandi danni in vaste aree dell’Europa centrale, dalla Romania all’Austria, dove si stima siano morte circa 20 persone. Non è insolito che tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno ci siano giornate piovose, ma l’intensità delle piogge e la presenza di altre forti perturbazioni nelle settimane scorse in altre aree dell’emisfero boreale (il nostro) sono un’ulteriore indicazione di come stia cambiando il clima, soprattutto a causa del riscaldamento globale. Oltre all’intensità, le tempeste sono sempre più frequenti e ci dovremo confrontare con i loro costosi effetti, in tutti i termini.
    Attribuire con certezza un singolo evento atmosferico al riscaldamento globale non è semplice, soprattutto per l’alto numero di variabili coinvolte. I gruppi di ricerca mettono a confronto ciò che è accaduto in un determinato periodo di tempo con cosa ci si sarebbe dovuti attendere (basandosi sulle simulazioni e sui modelli riferiti ai dati delle serie storiche) e a seconda delle differenze e di altri fattori indicano quanto sia probabile che un certo evento sia dipeso dal cambiamento climatico. Questi studi di attribuzione richiedono tempo per essere effettuati e non sono quindi ancora disponibili per Boris, ma le caratteristiche della tempesta rispetto a quanto osservato in passato e la presenza di altre grandi perturbazioni tra Stati Uniti, Africa e Asia stanno già fornendo qualche indizio.
    La tempesta Boris si è per esempio formata alla fine dell’estate più calda mai registrata sulla Terra, secondo i dati raccolti dal Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa dell’osservazione satellitare e dello studio del nostro pianeta. L’estate del 2024 è stata di 0,69 °C più calda rispetto alla media del periodo 1991-2020 e ha superato di 0,03 °C il record precedente, che era stato stabilito appena l’estate precedente (il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato).
    Le temperature estive particolarmente alte hanno contribuito a produrre una maggiore evaporazione in alcune grandi masse d’acqua come il mar Mediterraneo e il mar Nero, con la produzione di fronti di aria umida provenienti da sud che si sono mescolati con l’aria a una temperatura inferiore proveniente dal Nord Europa. L’incontro tra queste masse di aria con temperatura e umidità differenti hanno favorito la produzione dei sistemi nuvolosi che hanno poi portato le grandi piogge dell’ultima settimana nell’Europa centrale e negli ultimi giorni in parte del versante adriatico dell’Italia.
    Un allagamento provocato dall’esondazione del fiume Lamone a Bagnacavallo (Fabrizio Zani/ LaPresse)
    La piogge sono state persistenti e la perturbazione si è dissipata lentamente a causa della presenza di due aree di alta pressione – solitamente associata al bel tempo – che l’hanno circondata sia a est sia a ovest, rendendo più lenti i movimenti lungo i suoi margini. Non è un fenomeno di per sé insolito, ma in questo caso particolare ha interessato un’area geografica molto ampia per diversi giorni, portando forti piogge su fiumi e laghi e saturando il terreno, con la conseguente formazione di grandi alluvioni.
    Le analisi condotte finora hanno evidenziato condizioni nell’atmosfera che hanno interessato la corrente a getto che fluisce da est a ovest. Le correnti a getto possono essere considerate come dei grandi fiumi d’aria che attraversano l’atmosfera e, proprio come i corsi d’acqua, possono produrre anse e rientranze che determinano i cambiamenti nella direzione del vento e dei movimenti delle nuvole. Grandi zone di alta e bassa pressione hanno deviato sensibilmente la corrente a getto, riducendo la mobilità di alcune masse d’aria sopra l’Europa e altre aree del nostro emisfero.

    È possibile che tra i fattori che hanno determinato questa situazione ci siano ancora una volta le alte temperature dell’estate, che hanno portato gli oceani a scaldarsi più del solito. La temperatura media della superficie marina a livello globale è stata di quasi 1 °C superiore ai valori medi di riferimento del secolo scorso (in alcune zone dell’Atlantico si sono raggiunti 2,53 °C). Gli oceani accumulano energia scaldandosi ed è poi questa ad alimentare parte dei meccanismi atmosferici che portano a perturbazioni intense e spesso persistenti.
    (NOAA)
    Uno studio di attribuzione condotto sulle alluvioni di luglio 2021 in Europa, che avevano interessato soprattutto la Germania e il Belgio, aveva per esempio concluso che il riscaldamento globale causato dalle attività umane avesse reso più probabili quegli eventi atmosferici. Anche in quel caso la tempesta si era formata soprattutto in seguito all’aria calda e umida proveniente dal Mediterraneo, che da diversi anni nella stagione calda fa registrare temperature superficiali sopra la media.
    Le maggiori conoscenze sui fenomeni di questo tipo, maturate soprattutto negli ultimi anni, hanno permesso ai governi di avere informazioni più tempestive sull’evoluzione delle condizioni atmosferiche per fare prevenzione e mettere per lo meno in sicurezza la popolazione. La vastità delle alluvioni in Europa ha comportato una quantità relativamente ridotta di incidenti mortali, ma lo stesso non è avvenuto in Africa dove almeno mille persone sono morte nelle ultime settimane a causa delle forti piogge e delle alluvioni.
    Nell’Africa centrale e occidentale ci sono circa 3 milioni di sfollati a causa di una stagione delle piogge molto più intensa del solito, che secondo alcune previsioni porterà cinque volte la quantità di piogge che cadono in media a settembre nell’area. In questo caso il probabile nesso è con il progressivo aumento della temperatura media nel Sahel, l’ampia fascia di territorio che si estende da nord a sud tra il deserto del Sahara e la savana sudanese, e da ovest a est dall’oceano Atlantico al mar Rosso. Le alluvioni hanno interessato finora 14 paesi, causando grandi danni soprattutto alle piantagioni e peggiorando le condizioni già difficili di approvvigionamento di cibo per le popolazioni locali.
    Il Sahel, evidenziato in azzurro (Flockedereisbaer via Wikimedia)
    Lungo la costa orientale degli Stati Uniti forti piogge a inizio settimana hanno causato alluvioni e danni tra North Carolina e South Carolina. In alcune zone sono caduti 45 centimetri di pioggia in appena 12 ore, secondo le prime rilevazioni, che se confermate porterebbero a uno degli eventi atmosferici più estremi per quelle zone degli ultimi secoli. Le piogge sono state causate da una perturbazione che si era formata sull’Atlantico, ma senza energia sufficiente per diventare un uragano.
    Nelle ultime settimane anche in Asia ci sono state forti piogge, con un tifone che ha portato forti venti e temporali a Shanghai all’inizio della settimana, tali da rendere necessaria la sospensione dei voli aerei e l’interruzione di varie linee di servizio del trasporto pubblico in un’area metropolitana in cui vivono circa 25 milioni di persone. In precedenza c’erano state altre forti tempeste su parte della Cina, del Giappone e del Vietnam, con alluvioni, grandi danni e decine di morti.
    Naturalmente questi eventi atmosferici hanno avuto caratteristiche ed evoluzioni diverse e non sono strettamente legati l’uno all’altro, anche perché riguardano luoghi distanti tra loro e con differenti caratteristiche geografiche. In molte zone dell’emisfero boreale il passaggio dall’estate all’autunno è da sempre caratterizzato da tempeste, uragani e tifoni, ma le serie storiche e i dati raccolti indicano una maggiore frequenza di eventi estremi e con forti conseguenze per la popolazione.
    I modelli basati anche su quei dati indicano un aumento dei fenomeni di questo tipo, ma gli eventi atmosferici che si sono verificati negli ultimi anni hanno superato alcuni dei modelli più pessimistici rivelandosi quindi più estremi del previsto. La temperatura media globale è del resto di 1,29 °C superiore rispetto al periodo preindustriale, quando con le attività umane si immettevano molti meno gas serra rispetto a quanto avvenga oggi. Se questa tendenza dovesse mantenersi, e al momento non ci sono elementi per ritenere il contrario, entro la fine del 2032 si potrebbe raggiungere la soglia degli 1,5 °C decisi dall’Accordo di Parigi come limite massimo per evitare conseguenze ancora più catastrofiche legate al riscaldamento globale.
    (Copernicus)
    Già nel 2021 il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite aveva segnalato in un proprio rapporto che: «L’impatto umano, in particolare legato alla produzione di gas serra, è probabilmente il principale fattore dell’intensificazione osservata su scala globale delle precipitazioni intense al suolo». Oltre a mostrare i primi indizi concreti sull’influenza delle attività umane per la maggiore intensificazione delle precipitazioni su Europa, Asia e Nordamerica, il rapporto aveva segnalato che le «precipitazioni diventeranno in genere più frequenti e più intense all’aumentare del riscaldamento globale». LEGGI TUTTO

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    Come facciamo a calcolare la temperatura media della Terra

    Negli ultimi anni sono stati costantemente superati record di temperatura massima di vario genere: oltre alle temperature più alte mai misurate in specifiche località di varie parti del mondo, escono spesso nuovi dati che ci dicono ad esempio che un certo mese di aprile o un certo mese di giugno, o l’anno scorso, sono stati i più caldi mai registrati tenendo conto delle temperature medie mondiali. A queste notizie ci siamo forse abituati, ma forse non tutti sanno in che modo vengono calcolate le temperature medie dell’intero pianeta, una cosa tutt’altro che semplice.Giulio Betti, meteorologo e climatologo del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e del Consorzio LaMMA, spesso intervistato dal Post e su Tienimi Bordone, spiega come si fa nel suo libro uscito da poco, Ha sempre fatto caldo! E altre comode bugie sul cambiamento climatico, che con uno stile divulgativo rispiega vari aspetti non banali del cambiamento climatico e smonta le obiezioni di chi nega che stia accadendo – o che sia causato dall’umanità. Pubblichiamo un estratto del libro.
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    L’essere umano si è evoluto insieme alla sua più grande ossessione: misurare e quantificare qualsiasi cosa, dalle particelle subatomiche, i quark e i leptoni (10-18 metri), all’intero universo osservabile, il cui diametro è calcolato in 94 miliardi di anni luce. Si tratta di misurazioni precise e molto attendibili, alle quali si arriva attraverso l’uso di supertelescopi, come il James Webb, e di acceleratori di particelle. Cosa volete che sia, quindi, per un animale intelligente come l’uomo, nel fantascientifico 2024, ottenere una stima attendibile e verificabile della temperatura terrestre?
    Effettivamente è ormai un processo consolidato e routinario, quasi “banale” rispetto ad altri tipi di misurazioni dalle quali dipendono centinaia di processi e attività che la maggior parte di noi ignora. Ma come funziona?
    Partiamo dalla base: la rilevazione del dato termico, demandata alle mitiche stazioni meteorologiche, meglio note come centraline meteo. Queste sono disseminate su tutto il globo, sebbene la loro densità vari molto da zona a zona. In Europa e in Nord America, ad esempio, il numero di stazioni meteorologiche attive è più elevato che in altre aree, sebbene ormai la copertura risulti ottimale su quasi tutte le terre emerse.
    Quando parliamo di “stazioni meteorologiche”, infatti, ci riferiamo alle centraline che registrano temperatura e altri parametri meteorologici nelle zone continentali, mentre quelle relative ai mari utilizzano strumenti differenti e più variegati.
    I dati meteorologici su terra provengono da diversi network di stazioni, il più importante dei quali, in termini numerici, è il GHCN (Global Historical Climatology Network) della NOAA che conta circa 100.000 serie termometriche provenienti da altrettante stazioni; ognuna di esse copre diversi periodi temporali, cioè non tutte iniziano e finiscono lo stesso anno. La lunghezza delle varie serie storiche, infatti, può variare da 1 a 175 anni. Di queste 100.000 stazioni meteorologiche, oltre 20.000 contribuiscono alle osservazioni quotidiane in tempo reale; il dato raddoppia (40.000) nel caso del network della Berkeley Earth. Alla NOAA e alla Berkeley Earth si aggiungono altre reti di osservazione globale, quali il GISTEMP della NASA, il JMA giapponese, e l’HadCRUT dell’Hadley Center-University of East Anglia (UK).
    Oltre ai cinque principali network citati si aggiungono le innumerevoli reti regionali e nazionali i cui dati contribuiscono ad alimentare il flusso quotidiano diretto verso i centri globali.
    Le rilevazioni a terra, però, sono soltanto una parte delle osservazioni necessarie per ricostruire la temperatura del nostro pianeta, a queste infatti va aggiunta la componente marina, che rappresenta due terzi dell’intera superficie del mondo.
    I valori termici (e non solo) di tutti gli oceani e i mari vengono rilevati ogni giorno grazie a una capillare e fitta rete di osservazione composta da navi commerciali, navi oceanografiche, navi militari, navi faro (light ships), stazioni a costa, boe stazionarie e boe mobili.
    Parliamo, come facilmente intuibile, di decine di migliaia di rilevazioni in tempo reale che vanno ad alimentare diversi database, il più importante dei quali è l’ICOADS (International Comprehensive Ocean-Atmosphere Data Set). Quest’ultimo è il frutto della collaborazione tra numerosi centri di ricerca e monitoraggio internazionali (NOC, NOAA, CIRES, CEN, DWD e UCAR). Tutti rintracciabili e consultabili sul web. I dati raccolti vengono utilizzati per ricostruire lo stato termico superficiale dei mari che, unito a quello delle terre emerse, fornisce un valore globale univoco e indica un eventuale scarto rispetto a uno specifico periodo climatico di riferimento.
    Come nel caso delle stazioni a terra, anche per le rilevazioni marine esistono numerosi servizi nazionali e regionali. Tra gli strumenti più moderni ed efficaci per il monitoraggio dello stato termico del mare vanno citati i galleggianti del progetto ARGO. Si tratta di una collaborazione internazionale alla quale partecipano 30 nazioni con quasi 4000 galleggianti di ultima generazione. Questi ultimi sono progettati per effettuare screening verticali delle acque oceaniche e marine fino a 2000 metri di profondità; la loro distribuzione è globale ed essi forniscono 12.000 profili ogni mese (400 al giorno) trasmettendoli ai satelliti e ai centri di elaborazione. I parametri rilevati dai sensori includono, oltre alla temperatura alle diverse profondità, anche salinità, indicatori biologici, chimici e fisici.
    I dati raccolti da ARGO contribuiscono ad alimentare i database oceanici che vanno a completare, insieme alle osservazioni a terra, lo stato termico del pianeta.Ma cosa avviene all’interno di questi mastodontici database che, tra le altre cose, sono indispensabili per lo sviluppo dei modelli meteorologici? Nonostante la copertura di stazioni meteorologiche e marine sia ormai capillare, restano alcune aree meno monitorate, come ad esempio l’Antartide o alcune porzioni del continente africano; in questi casi si ricorre alla tecnica dell’interpolazione spaziale, che, in estrema sintesi, utilizza punti aventi valori noti (in questo caso di temperatura) per stimare quelli di altri punti. La superficie interpolata è chiamata “superficie statistica” e il metodo risulta un valido strumento anche per precipitazioni e accumulo nevoso, sebbene quest’ultimo sia ormai appannaggio dei satelliti.
    Oltre all’interpolazione si utilizza anche la tecnica della omogeneizzazione, che serve per eliminare l’influenza di alterazioni di rilevamento che possono subire le stazioni meteorologiche nel corso del tempo, tra le quali lo spostamento della centralina o la sua sostituzione con strumentazione più moderna. Ovviamente, dietro queste due tecniche, frutto della necessità di ottenere valori il più possibile corretti e attendibili, esiste un universo statistico molto complesso, che per gentilezza vi risparmio.
    Tornando a monte del processo, vale a dire allo strumento che rileva il dato, si incappa nel più classico dei dubbi: ma la misurazione è attendibile? Se il valore di partenza è viziato da problemi strumentali o di posizionamento, ecco che tutto il processo va a farsi benedire.
    Per quanto sia semplice insinuare dubbi sull’osservazione, è bene sapere che tutte le centraline meteorologiche ufficiali devono soddisfare i requisiti imposti dall’Organizzazione Mondiale della Meteorologia e che il dato fornito deve sottostare al “controllo qualità”.
    Se il signor Tupato da Castelpippolo in Castagnaccio [nota: Tupato in lingua maori significa “diffidente”] asserisce che le rilevazioni termiche in città sono condizionate dall’isola di calore e quindi inattendibili, deve sapere che questa cosa è nota al mondo scientifico da decenni e che, nonostante la sua influenza a livello globale sia pressoché insignificante, vi sono stati posti rimedi molto efficaci.
    Partiamo dall’impatto delle isole di calore urbano sulle serie storiche di temperatura. Numerosi studi scientifici (disponibili e consultabili online da chiunque, compreso il signor Tupato) descrivono le tecniche più note per la rimozione del segnale di riscaldamento cittadino dalle osservazioni. Tra queste, il confronto tra la serie termica di una località urbana e quella di una vicina località rurale; l’eventuale surplus termico della serie relativa alla città viene rimosso, semplicemente.Un altro metodo è quello di dividere le varie città in categorie legate alla densità di popolazione e correggere lo scostamento termico di quelle più popolate con le serie di quelle più piccole.
    In alcuni casi si è ricorso alla rilocalizzazione in aree rurali limitrofe delle stazioni meteorologiche troppo condizionate dall’isola di calore urbana, in questo caso il correttivo viene applicato dopo almeno un anno di confronto tra il vecchio e il nuovo sito.
    Poiché gli scienziologi del clima sono fondamentalmente dei maniaci della purezza dei dati e sono soliti mangiare pane e regressioni lineari, negli ultimi anni l’influenza delle isole di calore urbane viene rimossa anche attraverso l’utilizzo dei satelliti (con una tecnica chiamata remote sensing). Insomma, una faticaccia, alla quale si aggiunge anche il controllo, per lo più automatico, della presenza di errori sistematici o di comunicazione nei processi di osservazione e trasferimento dei dati rilevati.
    Tutto questo sforzo statistico e computazionale viene profuso per rimuovere il contributo delle isole di calore urbane dalle tendenze di temperatura globale che, all’atto pratico, è praticamente nullo. L’impatto complessivo delle rilevazioni provenienti da località urbane che alimentano i dataset globali è, infatti, insignificante, in quanto la maggior parte delle osservazioni su terra è esterna all’influenza delle isole di calore e si somma alla mole di dati provenienti da mari e oceani che coprono, lo ricordo, due terzi della superficie del pianeta.Quindi, anche senza la rimozione del segnale descritta in precedenza, l’influenza delle isole di calore urbane sulla temperatura globale sarebbe comunque modestissima. Se poi il signor Tupato vuol confrontare l’andamento delle curve termiche nel tempo noterà che non ci sono sostanziali differenze tra località rurali e località urbane: la tendenza all’aumento nel corso degli anni è ben visibile e netta in entrambe le categorie.
    Infine, l’aumento delle temperature dal 1880 a oggi è stato maggiore in zone scarsamente urbanizzate e popolate come Polo Nord, Alaska, Canada settentrionale, Russia e Mongolia, mentre è risultato minore in zone densamente abitate come la penisola indiana.
    Ecco che tutto questo ragionamento si conclude con un’inversione del paradigma: l’isola di calore urbana non ha alcun impatto sull’aumento della temperatura globale, ma l’aumento della temperatura globale amplifica l’isola di calore urbana. Durante le ondate di calore, infatti, le città possono diventare molto opprimenti, non tanto di giorno, quanto piuttosto nelle ore serali e notturne, quando la dispersione termica rispetto alle zone rurali risulta molto minore. La scarsa presenza di verde e le numerose superfici assorbenti rallentano notevolmente il raffreddamento notturno, allungando così la durata del periodo caratterizzato da disagio termico. Nelle zone di campagna o semirurali, al contrario, per quanto alta la temperatura massima possa essere, l’irraggiamento notturno è comunque tale da garantire almeno alcune ore di comfort.
    © 2024 Aboca S.p.A. Società Agricola, Sansepolcro (Ar)
    Giulio Betti presenterà Ha sempre fatto caldo! a Milano, insieme a Matteo Bordone, il 16 novembre alle 16, alla Centrale dell’Acqua, in occasione di Bookcity. LEGGI TUTTO

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    Il grande tsunami che non ha visto nessuno

    Caricamento playerA settembre del 2023 le stazioni di rilevamento dei terremoti in buona parte del mondo registrarono una strana attività sismica diversa da quelle solitamente rilevate, e che durò per circa nove giorni. Il fenomeno era così singolare e insolito da essere classificato come un “oggetto sismico non identificato” (USO), un po’ come si fa con gli avvistamenti aerei di oggetti difficili da definire, i famosi UFO. Dopo circa un anno, quel mistero è infine risolto e lo studio del fenomeno ha permesso di scoprire nuove cose sulla propagazione delle onde sismiche nel nostro pianeta, sugli tsunami, sugli effetti del cambiamento climatico e sulla perdita di enormi masse di roccia e ghiaccio.
    L’onda sismica era stata rilevata dai sismometri a partire dal 16 settembre 2023 e aveva una forma particolare, più semplice e uniforme di quelle che solitamente si registrano in seguito a un terremoto. Era una sorta di rumore di fondo ed era stata registrata in diverse parti del mondo: i sensori delle stazioni di rilevamento sono molto sensibili e la Terra dopo un terremoto “risuona”, dunque si possono rilevare terremoti anche a grande distanza da dove sono avvenuti. Nei giorni in cui l’onda continuava a essere rilevata e poi ancora nelle settimane seguenti, iniziarono a emergere alcuni indizi su quale potesse essere la causa dell’USO. Il principale indiziato era un fiordo dove si era verificata una grande frana che aveva portato a un’onda anomala e a devastazioni a diversi chilometri di distanza.
    Tutto aveva avuto infatti inizio in una delle aree più remote del pianeta lungo la costa orientale della Groenlandia, più precisamente dove inizia il fiordo Dickson. È un’insenatura lunga circa 40 chilometri con una forma particolare a zig zag, che termina con una curva a gomito qualche chilometro prima di immettersi nel fiordo Kempes, più a oriente. Niente di strano o singolare per una costa frastagliata e intricatissima, con centinaia di fiordi, come quella della Groenlandia orientale.

    Sulla costa, qualche chilometro prima della curva a gomito, c’era un rilievo di circa 1.200 metri affacciato su parte del ghiacciaio sottostante che raggiunge poi l’insenatura. A causa dell’aumento della temperatura, il ghiacciaio non era più in grado di sostenere il rilievo, che a settembre dello scorso anno era quindi collassato producendo un’enorme slavina con un volume stimato intorno ai 25 milioni di metri cubi di detriti (circa dieci volte la Grande Piramide di Giza in Egitto).
    Questa grande massa di ghiaccio e rocce si tuffò nel fiordo spingendosi fino a 2 chilometri di distanza e producendo uno tsunami che raggiunse un’altezza massima stimata di 200 metri. A causa della particolare forma a zig-zag del fiordo, l’onda non raggiunse l’esterno dell’insenatura e continuò a infrangersi al suo interno per giorni, producendo uno sciabordio (più precisamente una “sessa”) che fu poi rilevato dai sismometri incuriosendo infine alcuni esperti di terremoti in giro per il mondo.

    Come ha spiegato il gruppo di ricerca che ha messo insieme tutti gli indizi in uno studio pubblicato su Science, con la collaborazione di 68 sismologi in 15 paesi diversi, dopo pochi minuti dalla prima grande onda lo tsunami si ridusse a circa 7 metri e nei giorni seguenti sarebbe diventato di pochi centimetri, ma sufficienti per produrre onde sismiche rilevabili a causa della grande massa d’acqua coinvolta. Per pura coincidenza nelle settimane prima del collasso del rilievo un gruppo di ricerca aveva collocato alcuni sensori nel fiordo per misurarne la profondità, inconsapevole sia del rischio che stava correndo in quel tratto dell’insenatura sia di creare le condizioni per raccogliere dati che sarebbero stati utili per analizzare lo tsunami che si sarebbe verificato poco tempo dopo.
    Per lo studio su Science, il gruppo di ricerca internazionale ha infatti realizzato un proprio modello al computer per simulare l’onda anomala e ha poi confrontato i dati della simulazione con quelli reali, trovando molte corrispondenze per confermare le teorie iniziali sulle cause dell’evento sismico. L’andamento stimato dell’onda, compresa la sua riduzione nel corso del tempo, corrispondeva alle informazioni che potevano essere dedotte dalle rilevazioni sismiche.
    La ricerca ha permesso di approfondire le conoscenze sulla durata e sulle caratteristiche che può assumere uno tsunami in certe condizioni di propagazione, come quelle all’interno di un’insenatura. Lo studio di questi fenomeni riguarda spesso grandi eventi sismici, come quello che interessò il Giappone nel 2011, e che tendono a esaurirsi in alcune ore in mare aperto. L’analisi di fenomeni su scala più ridotta, ma comunque rilevante per la loro portata, può offrire nuovi elementi per comprendere meglio in generale sia gli tsunami sia le cause di alcuni eventi insoliti.

    La frana è stata inoltre la più grande a essere mai stata registrata nella Groenlandia orientale, hanno detto i responsabili della ricerca. Le onde hanno distrutto un’area un tempo abitata da una comunità Inuit, che si era stabilita nella zona circa due secoli fa. Il fatto che l’area fosse rimasta pressoché intatta fino allo scorso settembre indica che nel fiordo non si verificavano eventi di grande portata da almeno duecento anni.
    Su Ella, un’isola che si trova a circa 70 chilometri da dove si è verificata la frana, lo tsunami ha comunque causato la distruzione di parte di una stazione di ricerca. L’isola viene utilizzata da scienziati e dall’esercito della Danimarca, che ha sovranità sulla Groenlandia, ma era disabitata al momento dell’ondata.
    In un articolo di presentazione della loro ricerca pubblicato sul sito The Conversation, gli autori hanno ricordato che l’evento iniziale si è verificato in pochi minuti, ma che le sue cause sono più antiche: «Sono stati decenni di riscaldamento globale ad avere fatto assottigliare il ghiacciaio di diverse decine di metri, facendo sì che il rilievo soprastante non fosse più stabile. Al di là della particolarità di questa meraviglia scientifica, questo evento mette in evidenza una verità più profonda e inquietante: il cambiamento climatico sta riplasmando il nostro pianeta e il nostro modo di fare scienza in modi che solo ora iniziamo a comprendere».
    Il gruppo di ricerca ha anche segnalato come fino a qualche anno fa sarebbe apparsa assurda l’ipotesi che una sessa potesse durare per nove giorni, «così come un secolo fa il concetto che il riscaldamento globale potesse destabilizzare dei versanti nell’Artico, portando a enormi frane e tsunami. Eventi di questo tipo vengono ormai registrati annualmente proprio a causa dell’aumento della temperatura media globale, delle estati artiche con temperature spesso al di sopra della media e a una maggiore presenza del ghiaccio stagionale rispetto a un tempo. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico fa allungare le giornate

    Caricamento playerLa fusione dei ghiacci e altri effetti collegati al cambiamento climatico stanno contribuendo a fare aumentare lievemente la durata dei giorni sulla Terra. Il fenomeno è noto da tempo, ma una ricerca pubblicata nel corso dell’estate ha segnalato che le giornate si stanno allungando più velocemente rispetto a quanto calcolato in passato, cosa che potrebbe avere conseguenze sulle tecnologie che si basano sull’ora esatta come per esempio i sistemi di navigazione satellitare.
    Il moto di rotazione della Terra non è regolare – a causa dell’influenza della Luna e di altri fattori – e ciò comporta che con il passare del tempo il nostro pianeta accumuli un certo ritardo, rispetto agli orologi atomici con i quali calcoliamo con maggiore precisione il trascorrere del tempo. Il rallentamento è in parte prevedibile e calcolabile, ma può cambiare nel caso in cui cambino alcune variabili.
    Per questo un gruppo internazionale di ricerca finanziato in parte dalla NASA ha utilizzato dati storici e osservazioni satellitari per valutare i cambiamenti nella distribuzione delle masse d’acqua nella Terra. Lo studio si è concentrato in particolare sui cambiamenti determinati dalla fusione dei ghiacci polari, che porta nuove masse d’acqua a distribuirsi intorno all’equatore facendo sì che il nostro pianeta, che non è una sfera perfetta, appaia lievemente schiacciato ai poli.
    Questa diversa distribuzione delle masse d’acqua, insieme ad altri fattori, fa sì che la Terra rallenti lievemente il proprio moto di rotazione e che le giornate si allunghino. Per intendersi, è un fenomeno simile a quello che avviene quando i pattinatori su ghiaccio si abbassano e allargano le braccia per ridurre la loro velocità di rotazione, o quando si gira su se stessi stando seduti su una sedia da ufficio e si allargano o chiudono le braccia modificando la velocità di rotazione.

    Lo studio ha valutato le variazioni prendendo in considerazione il periodo tra il 1900 e il 2018 e ha notato un’accelerazione nell’allungamento delle giornate a partire dal 2000. Negli ultimi 18 anni si è arrivati a una media di allungamento della durata del giorno di 1,33 millisecondi per secolo, il dato più alto mai registrato rispetto ai cento anni precedenti quando la variazione oscillava tra 0,3 e 1 millisecondi (la variazione non è costante e ci sono oscillazioni nel corso del tempo).
    Secondo il gruppo di ricerca il lieve allungamento delle giornate dovuto alla fusione dei ghiacci e alla ridistribuzione delle masse d’acqua, che si aggiunge agli altri fattori che determinano il fenomeno, potrebbe decelerare entro il 2100 nel caso dell’adozione di politiche efficaci per ridurre le emissioni di gas serra. Come per altri fenomeni legati al cambiamento climatico, infatti, anche se smettessimo oggi di immettere nell’atmosfera nuova anidride carbonica e altri gas serra sarebbero comunque necessari decenni prima di riscontrare benefici significativi, a causa di una certa inerzia del sistema.
    Lo studio ha inoltre calcolato che, nel caso di ulteriori aumenti delle emissioni, l’allungamento del giorno dovuto al cambiamento climatico potrebbe arrivare a 2,62 millisecondi per secolo, superando quindi gli effetti della Luna e degli altri fattori che contribuiscono al rallentamento del moto di rotazione. LEGGI TUTTO

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    Lo scorso giugno è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, il mese di giugno è stato il più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 16,66 °C, cioè 0,14 °C più alta del precedente record, del giugno del 2023. Inoltre lo scorso giugno è stato il tredicesimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale rispetto ai mesi corrispondenti degli anni passati. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti. LEGGI TUTTO

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    Le navi cargo dovrebbero andare più lentamente

    Caricamento playerBuona parte degli oggetti che usiamo ogni giorno, dai cellulari agli abiti passando per le banane, ha attraversato almeno un oceano dal momento in cui è stata prodotta a quello in cui è stata venduta. Ogni giorno migliaia di navi trasportano merci di ogni tipo producendo annualmente tra il 2 e il 3 per cento di tutta l’anidride carbonica che viene immessa nell’atmosfera attraverso le attività umane. È un settore con una forte dipendenza dai combustibili fossili, ma che potrebbe diminuire sensibilmente le proprie emissioni ricorrendo a una soluzione all’apparenza semplice, quasi banale: ridurre la velocità.
    L’idea non è di per sé rivoluzionaria – si conoscono da tempo gli intervalli entro cui mantenersi per ottimizzare i consumi – ma applicarla su larga scala non è semplice soprattutto in un settore dove la velocità viene spesso vista come una priorità e un valore aggiunto. Se si cambia il modo in cui sono organizzati i trasporti marittimi ci sono conseguenze per molti altri settori, che dipendono dalle consegne delle materie prime o dei prodotti finiti. Un ritardo può avere effetti sulla capacità di un’azienda di produrre automobili o di consegnarle in tempo nei luoghi del mondo dove la domanda per le sue auto è più alta, per esempio.
    La necessità di ridurre il rischio di ritardi ha portato a una pratica piuttosto comune nel settore nota come “Sail fast, then wait”, letteralmente: “Naviga veloce, poi aspetta”. Spesso le navi cargo effettuano il più velocemente possibile il proprio viaggio in modo da arrivare quasi sempre in anticipo a destinazione rispetto al momento in cui avranno il loro posto in porto per scaricare le merci. L’attesa in alcuni casi può durare giorni, nei quali le navi restano ferme al largo prima di ricevere l’assegnazione di un posto.
    Il “naviga veloce, poi aspetta” è diventato la norma per molti trasportatori marittimi in seguito all’adozione da parte di molte aziende della strategia “just in time”, che prevede di ridurre il più possibile i tempi di risposta delle aziende alle variazioni della domanda. È un approccio che ha tra gli obiettivi la riduzione al minimo dei tempi di magazzino, rendendo idealmente possibile il passaggio diretto dall’impianto di produzione al cliente finale. Ciò consente di ridurre i costi di conservazione delle merci e i rischi di avere periodi con molti prodotti invenduti, ma comporta una gestione molto più precisa delle catene di rifornimento perché un ritardo di un singolo fornitore o di una consegna può fare inceppare l’intero meccanismo.
    Chi si occupa del trasporto delle merci deve quindi garantire il più possibile la puntualità delle consegne: di conseguenza adotta varie strategie per ridurre i rischi di ritardi dovuti per esempio alle condizioni del mare poco favorevoli o imprevisti burocratici. In molti casi sono i clienti stessi a chiedere garanzie ai trasportatori sul ricorso al “naviga veloce, poi aspetta” per la gestione delle loro merci. Il risultato è in media un maggior consumo di carburante per raggiungere le destinazioni in fretta e una maggiore quantità di emissioni di gas serra, la principale causa del riscaldamento globale.
    Per provare a cambiare le cose e a ridurre consumi ed emissioni del settore, un gruppo di aziende e di istituzioni partecipa a Blue Visby Solution, una iniziativa nata pochi anni fa e che di recente ha avviato le prime sperimentazioni di un nuovo sistema per far rallentare le navi e ridurre i tempi di attesa nei porti. Il sistema tiene traccia delle navi in partenza e in arrivo e utilizza algoritmi e modelli di previsione per stimare l’affollamento nei porti, in modo da fornire alle singole navi indicazioni sulla velocità da mantenere per arrivare al momento giusto in porto. I modelli tengono in considerazione non solo il traffico marittimo, ma anche le condizioni meteo e del mare.
    (Cover Images via ZUMA Press)
    Il sistema è stato sperimentato con simulazioni al computer utilizzando i dati reali sulle rotte e il tempo impiegato per percorrerle di migliaia di navi cargo, in modo da verificare come le modifiche alla loro velocità potessero ridurre i tempi di attesa, i consumi e di conseguenza le emissioni di gas serra. Terminata questa fase di test, tra marzo e aprile di quest’anno Blue Visby ha sperimentato il sistema in uno scenario reale, grazie alla collaborazione con un produttore di cereali australiano che ha accettato di rallentare il trasporto da parte di due navi cargo delle proprie merci in mare.
    Il viaggio delle due navi cargo è stato poi messo a confronto con simulazioni al computer degli stessi viaggi effettuati alla normale velocità. Secondo Blue Visby, i viaggi rallentati hanno prodotto tra l’8 e il 28 per cento in meno di emissioni: l’ampio intervallo è dovuto alle simulazioni effettuate in scenari più o meno ottimistici, soprattutto per le condizioni meteo e del mare. Il rallentamento delle navi ha permesso di ridurre emissioni e consumi, con una minore spesa per il carburante. Parte del risparmio è servita per compensare i maggiori costi operativi legati al periodo più lungo di navigazione, ha spiegato Blue Visby.
    I responsabili dell’iniziativa hanno detto a BBC Future che l’obiettivo non è fare istituire limiti alla velocità di navigazione per le navi cargo, ma offrire un servizio che ottimizzi i loro spostamenti e il tempo che dividono tra la navigazione e la permanenza nei porti o nelle loro vicinanze. Il progetto non vuole modificare la durata di un viaggio, ma intervenire su come sono distribuite le tempistiche al suo interno. Se per esempio in un porto si forma una coda per l’attracco con lunghi tempi di attesa, Blue Visby può comunicare a una nave in viaggio verso quella destinazione di ridurre la velocità ed evitare lunghi tempi di attesa in prossimità del porto.
    La proposta ha suscitato qualche perplessità sia perché per funzionare bene richiederebbe la collaborazione per lo meno delle aziende e dei porti più grandi, sia perché potrebbero sempre esserci navi che decidono di mettere in pratica il “naviga veloce, poi aspetta”, magari per provare ad avvantaggiarsi rispetto a qualche concorrente. I sostenitori di Blue Visby riconoscono questo rischio, ma ricordano anche che i nuovi regolamenti e le leggi per ridurre le emissioni da parte del settore dei trasporti marittimi potrebbero favorire l’adozione del nuovo sistema, che porta comunque a una minore produzione di gas serra.
    (AP Photo/POLFOTO, Rasmus Flindt Pedersen)
    Il nuovo approccio non funzionerebbe comunque per tutti allo stesso modo. È considerato applicabile soprattutto per le navi portarinfuse, cioè utilizzate per trasportare carichi non divisi in singole unità (per esempio cereali o carbone), visto che hanno quasi sempre un solo cliente di riferimento e sono maggiormente coinvolte nella consegna di materie prime. Il sistema è invece ritenuto meno adatto per le navi portacontainer, che di solito coprono quasi sempre le stesse rotte e con i medesimi tempi per ridurre il rischio di girare a vuoto o di rimanere a lungo nei porti.
    Rallentare alcune tipologie di navi cargo potrebbe ridurre le emissioni, ma non può comunque essere considerata una soluzione definitiva al problema delle emissioni prodotte dal trasporto marittimo delle merci. Da tempo si discute della necessità di convertire le navi a carburanti meno inquinanti e di sperimentare sistemi ibridi, che rendano possibili almeno in parte l’impiego di motori elettrici e la produzione di energia elettrica direttamente a bordo utilizzando pannelli solari e pale eoliche.
    Il settore, insieme a quello aereo, è considerato uno dei più difficili da convertire a soluzioni meno inquinanti, anche a causa dell’attuale mancanza di alternative. Oltre alle condizioni meteo e del mare, i trasporti attraverso gli oceani sono inoltre esposti ai rischi legati alla pirateria e agli attacchi terroristici, che portano gli armatori a rivedere le rotte in alcuni casi allungandole e rendendo di conseguenza necessaria una maggiore velocità di navigazione per rispettare i tempi delle consegne. LEGGI TUTTO

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    8 persone su 10 vorrebbero che i loro governi facessero di più contro la crisi climatica

    Caricamento playerIl Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) ha pubblicato i risultati del Peoples’ Climate Vote 2024, il più grande sondaggio mai condotto dall’ONU sul tema del cambiamento climatico: sono state intervistate più di 75mila persone provenienti da 77 paesi che parlano 87 lingue diverse.
    Secondo i risultati aggregati globali la stragrande maggioranza di loro è insoddisfatta del modo in cui i governi stanno gestendo la crisi climatica: l’80 per cento delle persone intervistate, che dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione globale, vorrebbe che i loro governi facessero di più per affrontare la crisi climatica, e l’86 per cento ritiene che sarebbe necessario mettere da parte le rivalità nazionali per lavorare a una soluzione comune. In Italia questi valori sono ancora più alti: il 93 per cento delle 900 persone italiane intervistate è d’accordo con entrambe le dichiarazioni.
    Altri risultati interessanti riguardano la cosiddetta “ansia climatica” e la transizione da combustibili fossili a energia rinnovabile. Il 56 per cento degli intervistati ha detto di pensare al cambiamento climatico quotidianamente o settimanalmente, un risultato a cui l’Italia si allinea, e il 53 per cento di essere più preoccupato rispetto all’anno scorso per questo tema: in Italia a rispondere positivamente a questa domanda è stato il 65 per cento degli intervistati. Questi risultati arrivano però fino al 71 per cento nei nove Piccoli Stati insulari in via di sviluppo (SIDS) in cui sono state condotte le interviste: sono quegli stati che rischiano di finire presto sotto il livello del mare e le cui popolazioni si stanno già parzialmente trasferendo in altri paesi. In generale, più persone che vivono in paesi meno sviluppati hanno detto che il cambiamento climatico sta già influenzando alcune importanti scelte di vita, come il luogo dove abitare o lavorare.

    – Leggi anche: Per quanto tempo esisterà ancora Tuvalu?

    Il 72 per cento degli intervistati si è poi detto a favore di una rapida transizione dai combustibili fossili a fonti di energia meno inquinanti. Risultati molto alti si sono registrati in alcuni paesi che sono fra i principali produttori o consumatori di combustibili fossili: in Nigeria era d’accordo l’89 per cento delle persone intervistate (lo stesso risultato dell’Italia e della Turchia); in Brasile era l’81 per cento; in Cina l’80; in Iran il 79 per cento e in Germania, Regno Unito e Arabia Saudita, il 76. Risultati molto bassi in questa categoria sono stati invece registrati in Russia, dove solo il 16 per cento degli intervistati si è detto d’accordo con questa dichiarazione.
    È stato inoltre notato come le donne si siano dimostrate più favorevoli all’impegno pubblico per il contrasto del cambiamento climatico. In cinque grandi paesi (Australia, Canada, Francia, Germania e Stati Uniti) la differenza di genere era tra i 10 e i 17 punti percentuali.

    – Leggi anche: Il cambiamento climatico, le basi

    Infine una domanda del sondaggio riguarda la responsabilità dei paesi più ricchi e con economie più sviluppate (che sono principalmente i paesi europei e gli Stati Uniti) nei confronti di quelli più poveri, che non hanno avuto la possibilità di industrializzarsi quando c’erano molte meno regole sull’inquinamento, e che in molti casi sono i più esposti agli effetti negativi del cambiamento climatico. A livello globale il 79 per cento degli intervistati ha detto che i paesi ricchi dovrebbero aiutare di più i paesi in via di sviluppo.
    Da anni questo tema è tra quelli al centro delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP).
    Alla COP28 di Dubai del 2023 i paesi con economie sviluppate si sono impegnati per la prima volta a versare circa 380 milioni di euro in un fondo di compensazione per i danni e le perdite causate dal cambiamento climatico nei paesi più in difficoltà: si tratta di una cifra molto piccola, vista l’entità dei possibili danni. I paesi che hanno preso un impegno maggiore sono quelli dell’Unione Europea, mentre un contributo più piccolo è stato promesso dagli Stati Uniti, che non apprezzano che alcuni paesi, specialmente la Cina che è fra i principali produttori di combustibili fossili al mondo, vogliano ancora definirsi paesi in via di sviluppo.
    Proprio negli Stati Uniti il 64 degli intervistati si è detto favorevole all’aumento degli aiuti ai paesi poveri, mentre il 28 per cento ha sostenuto che i paesi ricchi debbano aiutare meno di quanto non lo stiano facendo adesso; nella media globale, solo il 6 per cento pensa che gli aiuti debbano diminuire. In altri paesi occidentali come la Francia, la Germania e il Regno Unito le persone che sostengono che i paesi ricchi dovrebbero fornire più aiuti sono le stesse degli Stati Uniti, ma quasi nessuno pensa che gli aiuti dovrebbero diminuire: un terzo degli intervistati sostiene piuttosto che dovrebbero rimanere uguali a quelli attuali. In questo quadro l’Italia si trova invece più d’accordo con i paesi in via di sviluppo, dato che oltre il 90 per cento degli intervistati è d’accordo con l’idea che i paesi ricchi forniscano più aiuti; solo il 5 per cento sostiene che questi debbano rimanere invariati e nessuno degli intervistati è d’accordo con una loro diminuzione.

    – Leggi anche: I paesi più ricchi aiuteranno gli altri ad affrontare i danni del cambiamento climatico?

    Secondo la direttrice della sezione dell’UNDP che si occupa dei cambiamenti climatici, Cassie Flynn, i dati sulla volontà di abbandonare l’uso di combustibili fossili sono notevoli, ma in generale questo largo consenso non dovrebbe stupirci: «Gli eventi estremi fanno già parte della nostra vita quotidiana», ha detto Flynn. «Dagli incendi boschivi in Canada alla siccità in Africa orientale, fino alle inondazioni negli Emirati Arabi Uniti e in Brasile, le persone vivono la crisi climatica», ha aggiunto. Proprio in queste settimane per esempio migliaia di persone stanno morendo a causa del caldo in diversi paesi del mondo, specialmente in India, che sta attraversando una delle peggiori ondate di calore della sua storia da oltre un mese, e in Arabia Saudita, dove si è appena concluso lo Hajj, il consueto pellegrinaggio annuale dei fedeli dell’Islam verso la Mecca.

    – Leggi anche: A New Delhi manca l’acqua e fa caldissimo

    Il sondaggio è stato svolto dall’UNDP in collaborazione con l’Università di Oxford, nel Regno Unito, e la società internazionale di sondaggi GeoPoll. I ricercatori dell’Università di Oxford hanno stilato una lista di 15 domande da porre durante le interviste e hanno poi elaborato le risposte, ponderando il campione per renderlo rappresentativo dei profili di età, genere e istruzione della popolazione dei paesi coinvolti. GeoPoll ha condotto le interviste tramite chiamate telefoniche randomizzate al cellulare, ampliando quindi più possibile le persone raggiungibili. La maggior parte dei paesi è rappresentata da un gruppo di intervistati che va dalle 800 alle 1.000 persone (in Italia sono state 900). Il numero di intervistati non è relativo alla grandezza dello stato, dato che per esempio la Cina, con una popolazione di 1,4 miliardi di persone, è rappresentata da 921 persone, circa cento in meno del Buthan, dove la popolazione si aggira intorno alle 790mila persone.
    Secondo gli autori le stime a livello nazionale hanno margini di errore non superiori ai 3 punti percentuali in più o in meno, che diventano molto più bassi quando si tratta di stime globali.
    Un problema piuttosto comune dei sondaggi di questo tipo è il fatto che a rispondere al telefono e ad accettare di partecipare alla ricerca siano spesso persone con un alto livello di istruzione e che sono già più informate della media sul tema. L’UNDP ha però tenuto a specificare in questo caso che oltre il 10 per cento del campione totale comprendeva persone che non sono mai andate a scuola. Di questi 9.321 intervistati, 1.241 erano donne over 60 che non avevano mai neanche frequentato le scuole elementari, uno dei gruppi più difficili da raggiungere.
    Una prima edizione del sondaggio, che aveva coinvolto 50 paesi, era stata realizzata nel 2021 ma le persone erano state raggiunte attraverso annunci pubblicitari in famose app di gioco per cellulari, che escludevano intere fasce della popolazione anche solo per il fatto che per usare queste app bisognava essere connessi a internet. I dati delle due ricerche non sono quindi comparabili. LEGGI TUTTO