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    La scoperta di quattro nuove colonie di pinguini imperatori è una piccola buona notizia

    Attraverso alcune osservazioni satellitari sono state identificate quattro nuove colonie di pinguini imperatori in Antartide. È considerata una buona notizia, visto che recentemente alcune analisi avevano segnalato la scomparsa di numerosi individui di questi animali a causa della fusione dei ghiacci dovuta alle temperature anomale, sia nell’inverno sia nell’estate antartiche.La scoperta è stata resa possibile grazie all’osservazione dallo Spazio delle feci (guano) prodotte dai pinguini, che ricoprendo la superficie ghiacciata ne fanno variare il colore rendendo rilevabile in maniera indiretta la presenza delle colonie nelle immagini satellitari. La tecnica viene utilizzata da diversi anni e si è rivelata fondamentale per tenere sotto controllo le popolazioni di questi animali.
    L’identificazione delle nuove colonie è stata raccontata dal ricercatore Peter Fretwell sulla rivista scientifica Antarctic Science. Lo studio segnala che grazie alla nuova scoperta si può stimare la presenza di almeno 66 colonie di pinguini imperatori in Antartide, con le quattro da poco scoperte che riempiono alcuni spazi vuoti intorno alla costa antartica dove finora non era nota la presenza di questi animali.
    I pinguini imperatori vivono per lo più lungo le zone costiere sul ghiaccio fisso, cioè la parte di ghiaccio marino (banchisa) attaccata alla costa, che come suggerisce il nome rimane stabile nella medesima posizione senza muoversi a causa delle correnti marine o dei venti. Si riproducono sul ghiaccio fisso e depongono le uova tra maggio e giugno; i piccoli nascono un paio di mesi dopo, ma non sono autonomi fino a dicembre-gennaio. Il pinguino imperatore è la specie di pinguino più grande ma meno presente in Antartide, con una popolazione stimata di circa 600mila individui.
    Le quattro nuove colonie (rosso) identificate dallo studio, nel contesto delle colonie già note (grigio) lungo la costa antartica (British Antarctic Survey)
    Negli ultimi anni erano stati segnalati molti problemi legati ad alcune colonie di pinguini imperatori, che si erano fortemente ridotte o erano proprio scomparse. Uno studio pubblicato nel 2022 aveva per esempio segnalato che, a causa della riduzione del ghiaccio marino, in almeno quattro colonie erano morti migliaia di pinguini imperatori appena nati, con gravi conseguenze sulla loro popolazione. Nel nuovo studio, Fretwell ipotizza cha una delle quattro colonie ora identificate possa essere il frutto del trasferimento di animali da una delle colonie che si credevano perse.
    La ricerca segnala che tre delle quattro nuove colonie hanno meno di un migliaio di individui, quindi la scoperta non incide più di tanto sulle stime complessive sulla presenza dei pinguini imperatori. La novità è però importante perché dà la possibilità di avere un censimento più accurato delle colonie che costellano la costa antartica, anche in vista di futuri studi per calcolare meglio la presenza di questi animali e soprattutto la variazione nelle dimensioni delle colonie nel corso del tempo.
    Le frecce indicano le aree ricoperte dal guano dove sono state identificate le quattro nuove colonie (British Antarctic Survey)
    A causa del cambiamento climatico il ghiaccio marino in Antartide è meno presente rispetto a un tempo. Negli ultimi due anni, per esempio, si è registrata la copertura più scarsa di ghiaccio da quando si è iniziato a tenerla sotto controllo dalla fine degli anni Ottanta. Si stima che almeno un terzo delle colonie di pinguini imperatori abbia avuto qualche conseguenza, soprattutto in termini di riduzione della popolazione, da quando la perdita di ghiaccio è diventata più significativa. LEGGI TUTTO

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    Lo scienziato che non è voluto tornare in aereo dalla sua missione in Papua Nuova Guinea

    Gianluca Grimalda è un ricercatore in scienze sociali applicate all’ambiente che per sette mesi ha studiato il rapporto tra globalizzazione, cambiamenti climatici e coesione sociale sull’isola di Bougainville, al largo della costa orientale della Papua Nuova Guinea. A settembre, al momento di rientrare in Europa, si è rifiutato di farlo in aereo. Per questo l’Istituto di Kiel per l’Economia Mondiale, per cui lavorava come ricercatore senior, lo ha licenziato.Da tredici anni Grimalda ha scelto di viaggiare con mezzi a ridotte emissioni di anidride carbonica per via dei contributi dei trasporti aerei al cambiamento climatico causato dalle attività umane. Al termine del periodo di ricerca pensava di tornare in Europa senza volare, così come aveva fatto per arrivare nel Pacifico a inizio anno. L’istituto tedesco, però, prima ha chiesto il suo rientro immediato e poi l’11 ottobre, dopo il suo rifiuto, ha inviato una lettera di licenziamento ufficiale.Grimalda sta comunque tornando via mare e via terra. Ha già attraversato Papua Nuova Guinea, Indonesia (passando in nave attorno all’isola di Giava e spostandosi in bus nel nord dell’isola di Sumatra), Singapore, Thailandia e Laos. Ora è diretto in Cina, e da lì passerà per Pakistan (attraverso la catena montuosa del Karakorum, nella speranza che la neve sulle strade non lo obblighi a una sosta), Iran, Turchia, Grecia, fino ad arrivare in Italia per Natale. Avrebbe voluto attraversare il Myanmar, ma a causa della difficoltà di accesso ai confini, per via del conflitto tra giunta militare e forze alleate ad Aung San Suu Kyi, ha dovuto cambiare piani e passare dalla Cina.Gianluca Grimalda a Luang Prabang, Laos.In merito alla decisione di non viaggiare in aereo, Grimalda dice di aver sentito, come scienziato, «che era la cosa giusta da fare, per me e per la collettività». «Secondo i miei calcoli, in costante aggiornamento, viaggiando in superficie arriverò a risparmiare rispetto all’aereo circa 4,5 tonnellate di CO2, emettendone in totale 500 kg» dice al telefono mentre viaggia su un autobus per raggiungere Vientiane, la capitale del Laos. Per Grimalda questo modo di viaggiare valorizza anche il suo progetto di ricerca, permettendogli di comprendere come la cultura del luogo influenzi la percezione e l’atteggiamento delle popolazioni nei confronti del contrasto alla crisi climatica.Geograficamente territorio delle Isole Salomone, politicamente parte della Papua Nuova Guinea dal 1975, l’isola di Bougainville dove Grimalda ha vissuto in questi mesi è tra le regioni del Pacifico più vulnerabili alle conseguenze del riscaldamento globale. I suoi abitanti negli ultimi anni sono stati costretti a spostare interi villaggi nell’entroterra per far fronte all’innalzamento del livello del mare, e a piantare foreste di mangrovie nel tentativo di arginare l’erosione costiera.– Leggi anche: Il problema più grande del trasporto aereoA partire dal 1988 Bougainville è stata al centro di una ribellione della popolazione locale contro la società che gestiva una delle più grandi miniere di rame e oro del mondo, la miniera di Pangua. Una ribellione nata a causa dei danni ecologici e sociali provocati dalla miniera e che si trasformò in pochi mesi in una guerra indipendentista, protrattasi fino al 1997, considerata da molti il più grande conflitto in Oceania dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 2019 la regione votò a favore dell’indipendenza, ma ancora oggi si attende la proclamazione ufficiale da parte del governo della Papua Nuova Guinea, che rimanda il processo per evitare di perdere parte del suo territorio e creare un precedente.Sull’isola le persone bianche sono spesso definite giaman (“colui che mente” in tok pidgin, la lingua locale): Grimalda, non volendo confermare questo stereotipo, ha promesso alla comunità di Bougainville di mantenere il suo impegno per minimizzare il più possibile l’impatto ambientale dei suoi viaggi. Dopo il licenziamento, un portavoce dell’Istituto di Kiel ha detto che in generale la loro politica è di incoraggiare il proprio personale a viaggiare in maniera sostenibile. Quando possibile, si impegnano a fare a meno degli spostamenti in aereo. Se invece ritengono che i voli degli accademici siano inevitabili, promettono il pagamento di una tassa di compensazione all’organizzazione Atmosfair. È stato proposto anche a Grimalda, la cui posizione è stata però inamovibile.Dal 2021 Grimalda è anche attivista della rete italiana e tedesca di Scientist Rebellion, un movimento nato nel 2020 in Inghilterra e oggi attivo in più di 30 paesi: dalla Colombia alla Repubblica Democratica del Congo, dalla Danimarca all’India. È composto da scienziati e accademici, studenti e professori provenienti sia dai dipartimenti di fisica, matematica e chimica, sia dai dipartimenti di scienze sociali, psicologia, filosofia e antropologia. «Alla base del movimento c’è l’idea che se non fanno attivismo le persone che studiano il cambiamento climatico, come possiamo aspettarci che lo facciano gli altri?» spiega Lorenzo Masini, biotecnologo e attivista di Scientist Rebellion dal 2022.– Leggi anche: Abbiamo fatto progressi con la COP28?Gli attivisti del movimento sono impegnati soprattutto in attività di divulgazione e sensibilizzazione, nel tentativo di contribuire a ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Chiedono un’azione immediata e più efficace da parte dei governi, delle industrie e della finanza sul tema della crisi climatica, individuando e proponendo soluzioni a breve e medio termine. Solo in alcuni casi sono attivi in pratiche di resistenza civile nonviolenta.Storicamente, diversi scienziati hanno visto nell’impegno politico da parte di alcuni colleghi un atteggiamento che potrebbe comprometterne la credibilità e il lavoro, ritenendo che l’imparzialità sia un criterio fondamentale della ricerca scientifica. Non tutta la comunità è però d’accordo con questa posizione. Come ipotizza un articolo pubblicato ad agosto dall’Istituto di Scienze Ambientali di Londra, non partecipare al dibattito pubblico e impegnarsi in azioni concrete potrebbe ridurre il ruolo delle evidenze scientifiche nelle decisioni politiche e collettive. Rose Abramoff, scienziata del cambiamento climatico, Peter Kalmus, scienziato del clima del NASA Jet Propulsion Laboratory, e altri colleghi attivisti di Scientist Rebellion credono sia loro responsabilità morale contribuire a sensibilizzare la società sui pericoli del cambiamento climatico. Non solo riguardo alle violente tempeste, alla siccità, agli incendi e alle ondate di caldo già in atto, ma anche a probabili carestie, migrazioni di massa e guerre che si prevedono per il futuro.Grimalda a Bougainville.Diana R. Fisher, collaboratrice dell’IPCC dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, ed esperta di attivismo ambientale e movimenti sociali dell’università del Maryland, ha detto al Washington Post che le controparti con cui i manifestanti si trovano a confrontarsi – come l’industria petrolifera e la disinformazione sul clima – sono così imponenti che per portare a un cambiamento radicale serve «un grande shock al sistema». Ma mentre molti ritengono che l’impegno pubblico degli accademici migliori anche la comprensione del tema da parte della popolazione, altri come Peter Edwards, professore di chimica all’Università di Oxford, considerano più importante concentrarsi su soluzioni tecnologiche e meno su quelle politiche.Altri ancora, come l’ingegnere ambientale americano David Sedlak, ritengono che il coinvolgimento degli scienziati nell’attivismo possa danneggiare le relazioni commerciali e governative già delicate, su cui gli accademici fanno affidamento per finanziare il loro lavoro. L’attivismo accademico in effetti spesso comporta un alto livello di rischio personale o professionale, fino ad arrivare – come nel caso di Grimalda – anche a perdere il lavoro; ma secondo un’indagine della rivista The Conversation, che ha coinvolto oltre 2.200 scienziati della Union of Concerned Scientists Science Network, il 75% degli intervistati ha affermato che il proprio attivismo scientifico ha avuto il sostegno dei propri datori di lavoro.– Leggi anche: Gli attivisti per il clima mettono in conto di essere odiatiPer il movimento Scientist Rebellion qualsiasi azione volta alla decarbonizzazione è giusta ed è necessario metterla in atto. «La temperatura terrestre si alza in modo inerziale», sottolinea Masini. «Vuol dire che sentiamo l’aumento della temperatura con qualche anno, anche con qualche decennio di ritardo rispetto a quando l’anidride carbonica viene emessa». Nel 2018 l’IPCC, che raccoglie scienziati, delegati, osservatori e revisori provenienti da 195 paesi, aveva redatto il quinto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici. In quell’occasione l’IPCC definiva come “senza precedenti” la sfida necessaria per contenere il riscaldamento globale. Nell’ultimo rapporto pubblicato a marzo 2023, l’obiettivo è stato presentato come ancora più urgente.Alla conferenza sul clima di Parigi del 2015 (COP21), che rappresenta il punto di riferimento fondamentale per le politiche globali di riduzione delle emissioni di gas serra, i paesi membri si accordarono per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C rispetto alla temperatura media globale preindustriale. Secondo l’IPCC questo sarebbe ancora possibile attraverso un taglio netto delle emissioni entro il 2030. Ma un nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), uscito a novembre di quest’anno, rivela che le emissioni globali di gas serra nel 2023 stanno raggiungendo i massimi storici. Molti scienziati hanno dimostrato che, se dovessimo passare da un aumento di 1,5 °C a uno di 2 °C, dovremo affrontare probabili eventi cataclismatici di portata mai vista, il raddoppio del numero di estinzioni di specie animali e una riduzione drastica dei territori oggi coltivati a grano e mais (elementi fondamentali del settore alimentare).– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027«Circa 12mila anni fa, durante l’epoca geologica definita Olocene, il luogo dove adesso c’è Manhattan era sotto dieci chilometri di ghiaccio» spiega Grimalda. «Dove vivo io in Germania c’erano ghiacci per dieci chilometri di altezza. Un ambiente incredibilmente diverso da quello che abbiamo ora. La temperatura globale, allora, era di solo 4 °C inferiore a quella odierna».Le brande nella terza classe di un traghetto indonesiano. (Gianluca Grimalda)Grimalda al posto di prendere l’aereo ha scelto di percorrere 27mila chilometri, attraversare dodici paesi, salire su navi cargo, traghetti, treni, bus e impiegare all’incirca due mesi di tempo per tornare a casa. «Il mio è stato un atto simbolico», dice. «Per un ricercatore si può stimare che il 90% delle proprie emissioni sia causato dal prendere aerei». Grimalda non pensa che tutti dovrebbero fare scelte radicali come le sue, ma è convinto che la somma di azioni individuali potrebbe portare a un vero cambiamento collettivo. LEGGI TUTTO

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    La calotta glaciale dell’ovest dell’Antartide continuerà a sciogliersi anche con meno emissioni

    Caricamento playerLa calotta glaciale antartica occidentale, cioè la grande massa di ghiaccio che ricopre l’ovest dell’Antartide, continuerà a sciogliersi sempre di più nel corso di questo secolo. Succederà anche se diminuiremo l’uso dei combustibili fossili al punto da raggiungere il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, quello che prevede di mantenere l’aumento della temperatura media globale annuale sotto 1,5 °C in più rispetto all’epoca preindustriale. Lo dice un nuovo studio della British Antarctic Survey (BAS), l’organizzazione governativa britannica che si occupa di ricerca e divulgazione scientifica sull’Antartide, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change.Le conclusioni dello studio implicano che anche le politiche più significative per il contrasto del riscaldamento globale non permetteranno di limitare l’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento della calotta antartica occidentale: già ora è la parte di ghiaccio dell’Antartide che contribuisce di più a questo fenomeno, e secondo questa ricerca lo farà sempre di più nei prossimi decenni. «Se avessimo voluto preservare la calotta antartica occidentale, avremmo dovuto intervenire contro il cambiamento climatico decenni fa», ha detto Kaitlin Naughten, oceanografa della BAS e prima autrice dello studio.La calotta glaciale antartica è la più grande massa di ghiaccio presente sulla Terra ed è divisa in due parti da una catena montuosa, i Monti Transantartici. La parte orientale è quella di maggiori dimensioni, poggia su una base continentale, cioè su terre emerse, ed è molto stabile: non è previsto che la sua massa diminuirà in modo significativo nei prossimi anni. La parte occidentale invece è una calotta di ghiaccio con base marina: il ghiaccio si appoggia sul suolo, che però si trova sotto il livello del mare.L’innalzamento del livello dei mari è dovuto a due fenomeni legati al riscaldamento globale. Il primo è la dilatazione termica dell’acqua degli oceani: insieme alla temperatura dell’atmosfera sta aumentando anche quella degli oceani, e quando l’acqua si scalda, la sua densità diminuisce facendo aumentare il volume che occupa. Il secondo fenomeno è il fatto che d’estate i ghiacciai del mondo e i ghiacci che ricoprono zone dell’Antartide e della Groenlandia fondono più di quanto poi riescano a righiacciare. Il progressivo scioglimento dei ghiacci che si trovano sulla terra (quindi calotta antartica occidentale compresa) fa infatti aumentare l’acqua negli oceani. Per via dei due fenomeni combinati, tra il 1900 e il 2021 il livello medio del mare è aumentato di 21 centimetri.Facendo delle simulazioni di quattro diversi scenari climatici futuri gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che l’umanità non può fermare lo scioglimento della calotta antartica occidentale. Anche rispettando il limite di 1,5 °C, ritenuto ormai inverosimile dagli esperti di clima, la fusione dei ghiacci della calotta antartica occidentale diventerà tre volte più veloce rispetto al secolo scorso. A causa del riscaldamento del mare di Amundsen, il ramo dell’oceano Antartico su cui si affaccia l’Antartide occidentale, la banchisa legata alla calotta, cioè il ghiaccio marino attaccato a quello continentale, fonderà senza riformarsi, e così diminuirà la stabilità dei ghiacciai sulla terraferma. Sarà il loro contributo a far aumentare la quantità d’acqua negli oceani.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027Lo studio della BAS non comprende una stima di quale sarà il contributo all’aumento del livello del mare della calotta antartica occidentale (è stato calcolato che se fondesse tutta alzerebbe il livello medio di 5 metri, ma non è di una prospettiva così catastrofica che si sta parlando), ma comporta che le attuali stime sull’innalzamento del livello del mare potrebbero essere superate. Secondo le ultime valutazioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo scientifico internazionale dell’ONU per la valutazione dei cambiamenti climatici, si prevede un aumento medio compreso tra 28 centimetri e 1,01 metri entro il 2100: 1 metro in più potrebbe sembrare poco, ma in certe zone del mondo metterebbe centinaia di milioni di persone a rischio di allagamenti costieri.Queste stime hanno una certa incertezza perché non si sa bene in che modo le calotte glaciali in riduzione interagiranno con gli oceani nel corso del secolo: lo studio della BAS appena pubblicato è il primo ad aver simulato cosa potrebbe succedere alla calotta antartica occidentale. Anche per questo ne saranno necessari altri, sia per confermarne i risultati sia per fare previsioni più precise, che tengano conto di altri aspetti – ad esempio la possibilità che l’aumento delle temperature in Antartide causi nevicate e quindi un accrescimento della massa dei ghiacciai del continente.L’innalzamento del livello del mare è un problema soprattutto per alcune piccole isole nell’oceano, come quelle di Tuvalu, e per le zone abitate costiere, alcune più di altre: ad esempio quelle lungo la costa orientale degli Stati Uniti, ma anche in India, nel Sud-Est asiatico e in Cina, dove si trovano grandi città popolosissime, come Calcutta, Mumbai, Dacca, Bangkok e Shanghai. Naughten ha commentato lo studio dicendo che «il lato positivo» è che abbiamo ancora tempo per «adattarci all’innalzamento del livello del mare che verrà»: «Se c’è bisogno di abbandonare o ripensare totalmente una regione costiera avere 50 anni di tempo a disposizione fa la differenza».– Leggi anche: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide LEGGI TUTTO

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    Il settembre del 2023 è stato il più caldo mai registrato sulla Terra

    Il settembre del 2023 è stato il settembre più caldo mai registrato secondo i dati del Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra. La temperatura media globale dell’aria è stata di 16,38 °C, che significa 0,93 °C in più della media per lo stesso mese tra il 1991 e il 2020, il trentennio di riferimento, e 0,5 °C in più rispetto al precedente massimo storico, registrato nel settembre del 2020. Più in generale tra gennaio e settembre le temperature globali sono state di 0,52 °C superiori alla media e di 0,05 °C in più rispetto allo stesso periodo più caldo mai registrato in un anno (il 2016).Secondo Samantha Burgess, vicedirettore del Copernicus Climate Change Service, le «temperature senza precedenti» di questi mesi fanno ipotizzare che con buona probabilità alla fine di dicembre il 2023 risulterà l’anno più caldo mai registrato.La temperatura media globale di settembre tra il 1940 e il 2023 (Climate Change Service di Copernicus)Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati: le misure dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare, e le stime dei satelliti. Questi rilevano la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e oceanica e ne calcolano la temperatura. (AP Photo/Gregorio Borgia) LEGGI TUTTO

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    L’estensione invernale del ghiaccio marino in Antartide è stata molto minore del solito

    Secondo un’analisi preliminare del Centro dati nazionale sulla neve e i ghiacci degli Stati Uniti (NSIDC), a settembre il massimo di estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide è stato il più basso mai registrato. Il nuovo record, che dovrà essere confermato da altre analisi i cui risultati sono previsti per inizio ottobre, si aggiunge alle rilevazioni svolte nell’ultimo periodo che hanno segnalato un periodo di sensibile riduzione nella presenza di ghiaccio in Antartide, con conseguenze che si estendono oltre quelle per gli ecosistemi del continente.A settembre il ghiaccio marino antartico raggiunge il proprio massimo, più o meno in corrispondenza con la fine dell’inverno nell’emisfero australe. L’andamento è infatti ciclico e legato alle stagioni: il minimo della copertura si registra a febbraio con l’estate antartica, quando fonde una parte del ghiaccio, che inizia poi a riformarsi nei mesi seguenti fino al picco di settembre.La linea gialla mostra la media del massimo di copertura di ghiaccio marino nel periodo 1981-2010, in bianco la copertura rilevata il 10 settembre scorso (NSIDC)In media tra il 1981 e il 2010 la copertura massima di ghiaccio marino è stata di 18,7 milioni di chilometri quadrati. A settembre di quest’anno il massimo è stato invece di 16,9 milioni di chilometri quadrati, registrato il 10 di settembre: in sensibile anticipo rispetto al solito e senza riscontrare ulteriori aumenti nei giorni seguenti. Il nuovo record è di circa un milione di chilometri quadrati inferiore rispetto al precedente minimo nella stagione di picco rilevato nel 1986.Estensione del ghiaccio marino tra giugno e ottobre in Antartide (NSIDC)Secondo i gruppi di ricerca, le cause sono probabilmente riconducibili ad alcune condizioni del meteo nelle ultime settimane (specialmente nell’area del Mare di Ross, la grande baia nella parte meridionale dell’Antartide) e agli effetti del riscaldamento globale. Saranno necessarie altre analisi per confermare il ruolo del cambiamento climatico, ma la perdita di ghiaccio è comunque in linea con i modelli che studiano gli effetti dovuti all’aumento della temperatura media ai poli. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico potrebbe aver reso più probabile l’alluvione in Libia

    Caricamento playerSecondo un primo studio scientifico, la possibilità che nel nord-est della Libia piovesse come nella notte tra il 10 e 11 settembre è stata resa 50 volte più probabile dal cambiamento climatico causato dalle attività umane. In altre parole, le alluvioni causate dalla tempesta Daniel sono legate al modo in cui l’umanità ha modificato l’atmosfera terrestre: è la conclusione di 13 scienziati della World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra ricercatori esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, nata per rispondere in modo rapido alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” quando si verifica un evento meteorologico estremo.Decenni di studi di climatologia dicono che una delle conseguenze del riscaldamento globale è l’aumento della frequenza di alcuni fenomeni, come precipitazioni particolarmente intense e siccità in diverse parti del pianeta. Ma solo confrontando i dati su un particolare evento con le statistiche del passato è possibile dire quali eventi meteorologici estremi abbiano davvero un legame con il cambiamento climatico. I risultati di questo primo studio vanno in questa direzione e sebbene ci siano ampie incertezze contestualizzano un po’ ciò che è successo rispetto al clima.Per la tempesta che ha interessato la Libia, e che prima aveva causato intense piogge anche su Grecia, Bulgaria e Turchia, gli scienziati della WWA hanno usato delle simulazioni: hanno confrontato la probabilità che un tale evento di precipitazione avvenga col clima attuale con quella che avrebbe avuto col clima di 200 anni fa, prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane riscaldassero l’atmosfera. Rispetto a quell’epoca la temperatura media globale è aumentata di 1,2 °C.Gli scienziati hanno condotto analisi diverse per la Libia da una parte e per la Grecia, la Bulgaria e la Turchia dall’altra, dato che si tratta di zone geografiche con caratteristiche diverse, per quanto affacciate sul mar Mediterraneo.Per la Libia la quantità di pioggia caduta tra il 10 e l’11 settembre è piuttosto straordinaria, «estremamente insolita» anche per il clima attuale, secondo lo studio: statisticamente ha una probabilità di verificarsi una volta ogni 3-6 secoli. In epoca pre-industriale tuttavia era ancora meno probabile. Le alluvioni generate hanno provocato la morte di più di 11mila persone secondo le stime della Mezzaluna Rossa (come si chiama la Croce Rossa nei paesi arabi), anche per via del cedimento di due vecchie dighe maltenute e in conseguenza del contesto politico instabile della Libia.Secondo lo studio della WWA, anche le precipitazioni come quelle che ci sono state in Grecia, Turchia e Bulgaria, e che complessivamente hanno causato la morte di almeno 28 persone, sono state rese più probabili dal cambiamento climatico: di 10 volte. Col clima attuale, per questi territori dobbiamo aspettarci che precipitazioni simili siano relativamente comuni: lo studio dice che c’è il 10 per cento di probabilità che accadano ogni anno.Lo studio ha dei limiti perché i modelli climatici di cui disponiamo sono molto efficaci nel descrivere eventi atmosferici su larga scala, meno quando si studiano territori circoscritti come quelli interessati dalle recenti alluvioni. Gli scienziati della WWA sono tuttavia piuttosto sicuri che il cambiamento climatico abbia avuto un’influenza su questi eventi, perché le proiezioni climatologiche per questa parte del Mediterraneo prevedono un aumento delle precipitazioni con l’aumento delle temperature, già rilevato nei dati degli ultimi anni.La World Weather Attribution (WWA) fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica possa rispondere il più velocemente possibile alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che giornalisti e altre persone di tutto il mondo si chiedono se un certo evento meteorologico abbia un legame con il riscaldamento globale.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati senza essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Tra gli enti che collaborano alla WWA ci sono l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Gli scienziati che collaborano agli studi dell’iniziativa lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO

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    Lo sci e il cambiamento climatico

    Negli ultimi dieci anni un gruppo di scienziati francesi e austriaci ha cercato di capire quale sarà il futuro dello sci in Europa considerate le conseguenze del cambiamento climatico. Il gruppo ha stimato che senza la neve artificiale più della metà delle stazioni sciistiche europee si troverà in condizioni di scarsità di neve un anno su due a meno che non si applichino in tempi rapidi politiche di transizione energetica molto più decise di quelle di oggi. La previsione, spiegata in un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, riguarda lo scenario in cui la temperatura media globale supererà di almeno 2 °C quella dell’epoca preindustriale, cioè prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane causassero l’attuale riscaldamento del pianeta.L’accordo internazionale sul clima di Parigi del 2015 aveva fissato come obiettivo più ottimista 1,5 °C in più rispetto ai livelli preindustriali, e come obiettivo secondario 2 °C. La comunità scientifica ritiene ormai irrealistico il primo obiettivo, perché le politiche di transizione energetica introdotte finora non sono state abbastanza decise. Con quelle attuali, senza ulteriori cambiamenti, si prevede un aumento di 3 °C entro la fine del secolo.Lo studio sulle piste da sci europee è stato fatto innanzitutto perché il turismo invernale legato a questo sport è un importante settore economico per l’Europa: circa la metà delle stazioni sciistiche del mondo si trova nel continente e il 43 per cento delle giornate di sci che vengono praticate ogni anno avviene sulle Alpi.La possibilità di sciare però è legata al clima, prima di tutto perché la neve si conserva sulle piste solo al di sotto di certe temperature. In caso di assenza prolungata di precipitazioni – come quella che c’è stata con la siccità tra il 2021 e il 2023, peraltro legata al cambiamento climatico – la neve può essere assente. Si può rimpiazzarla con quella prodotta artificialmente, che però richiede molta acqua e particolari condizioni di temperatura e umidità nell’ambiente.Il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi e altre montagne europee sono state coperte di neve è già diminuito nell’arco dell’ultimo secolo. Erano già state fatte delle ricerche per studiare l’impatto del cambiamento climatico sul turismo sciistico, ma nessuna finora aveva tenuto in considerazione il contributo della neve artificiale e analizzato tutte le montagne europee insieme. Il nuovo studio, che si basa su modelli statistici, ha invece preso in considerazione 2.234 stazioni sciistiche, rappresentative di tutte le montagne europee in cui si scia, e nelle stime ha tenuto conto dell’uso della neve artificiale.Nello studio le condizioni di scarsità di neve sono state definite come quelle medie che si sono verificate nei 6 anni peggiori per la presenza di neve nel periodo considerato, dal 1961 al 1990. Il turismo sciistico si considera ad «alto rischio» se le previsioni indicano che ogni due inverni su cinque ci sarà scarsità di neve.Lo studio parla invece di «rischio molto alto» se è prevista scarsità di neve ogni due anni. Quest’ultima condizione è quella anticipata per più della metà (il 53 per cento) delle stazioni sciistiche europee se si raggiungeranno i 2 °C sopra i livelli preindustriali, senza considerare il contributo della neve artificiale.Se il pianeta si riscalderà di più, e raggiungerà i 4 °C di temperatura media sopra i livelli preindustriali, sarà il 98 per cento delle stazioni sciistiche a essere a «rischio molto alto» in assenza di neve artificiale.Nei due scenari climatici futuri, se si tiene conto del contributo della neve artificiale, le prospettive per la pratica dello sci migliorano: considerando di produrre la metà della neve sulle piste in modo artificiale le stazioni a «rischio molto alto» si riducono al 27 per cento nel caso di un aumento di temperatura media di 2 °C, e al 71 per cento nel caso che l’aumento sia di 4°C. Per produrre la neve artificiale servono però acqua ed energia elettrica, e quindi non è detto che in futuro sarà possibile e raccomandabile procedere in questo modo per garantire la possibilità di sciare.Considerando solo gli Appennini, lo studio prevede condizioni di «rischio molto alto» in tutti gli scenari climatici futuri, compreso quello di soli 1,5 °C sopra ai livelli preindustriali, anche a fronte di un’intensissima produzione di neve artificiale. In sostanza dice che non si potrà più sciare sugli Appennini.Per quanto riguarda le stazioni sciistiche sulle Alpi italiane, che raggiungono altitudini molto maggiori, lo studio prevede invece rischi minori. Nello scenario dei 2 °C non si potrà fare a meno della neve artificiale, ma prevedendo di usarla per innevare solo un quarto delle piste il rischio è «moderato»: solo un terzo degli inverni sarebbe a rischio di scarsità di neve. Già con un aumento di 3 °C tuttavia anche lo sci sulle Alpi risulterebbe molto compromesso e richiederebbe un uso molto maggiore di neve artificiale, che a un certo punto non sarebbe in grado di compensare all’assenza di quella naturale.Queste stime ovviamente sono medie e non riguardano dunque per forza ogni singola stazione sciistica, ma nel complesso non sono positive per la pratica dello sci. Lo studio non prevede «la fine immediata del turismo sciistico in Europa», ha detto uno dei suoi autori, il climatologo Samuel Morin, ricercatore di Météo-France e del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano: «ma condizioni sempre più difficili per tutte le stazioni sciistiche, alcune delle quali arriveranno, nel giro di qualche decennio, a un’offerta di neve criticamente bassa per poter operare come oggi».– Leggi anche: Quando potremmo superare il limite di 1,5 °C? LEGGI TUTTO

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    Il luglio del 2023 sarà il mese più caldo mai registrato sulla Terra

    Mancano ancora quattro giorni alla fine di luglio, ma si può già dire che questo sarà il mese più caldo mai registrato dal 1979, anno in cui le tecnologie satellitari resero possibili misurazioni accurate della temperatura superficiale di tutto il pianeta (non sarà solo il luglio più caldo di sempre, ma proprio il mese). È stato stimato dal Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, e confermato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO).«Per grandi parti del Nord America, dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa questa è un’estate atroce, ma per il pianeta intero è un disastro», ha commentato il segretario generale dell’ONU António Guterres, «e per gli scienziati non ci sono dubbi: la colpa è degli esseri umani».Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati: le misure dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare, e le stime dei satelliti. Questi rilevano la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e oceanica e ne calcolano la temperatura.Le tre settimane più calde mai registrate sono state proprio le prime tre di luglio: durante la prima e la terza la temperatura globale ha superato la soglia di 1,5 °C in più rispetto alle temperature medie preindustriali, cioè rispetto all’epoca in cui le emissioni di gas serra dovute alle attività umane non avevano ancora cominciato a influenzare il clima terrestre (tra il 1850 e il 1900). La soglia di 1,5 °C è quella che fu stabilita con gli accordi di Parigi del 2015. Il fatto che sia stata superata per tre settimane non significa comunque che l’obiettivo di Parigi si possa definire fallito, per quanto sia ormai improbabile che sarà rispettato: la WMO ha chiarito che l’obiettivo si potrà considerare sfumato solo se la temperatura media globale annuale sarà superiore di 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale per almeno vent’anni.Ultimamente si stanno registrando nuovi record di temperatura non solo nell’aria vicina al suolo, ma anche negli oceani e nei mari. Il 24 luglio una boa nella Baia dei Lamantini, circa 65 chilometri a sud di Miami, in Florida, ha registrato 38,4 °C: potrebbe essere la più alta temperatura marina mai rilevata, se la misura sarà confermata. E sempre il 24 luglio la temperatura superficiale media del mar Mediterraneo ha raggiunto 28,4 °C: anche in questo caso si tratta di un record, perché finora la media più alta del bacino erano stati i 28,25 °C dell’agosto del 2003.Secondo i dati di Copernicus, per quanto riguarda la temperatura media globale il precedente luglio più caldo mai registrato, nonché mese più caldo mai registrato, era stato quello del 2019. LEGGI TUTTO