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    In Spagna c’è un gran caldo anomalo e precoce

    In Spagna è stata raggiunta la temperatura più alta mai registrata nel mese di aprile, con una massima di 38,4 °C rilevata nel tardo pomeriggio di giovedì all’aeroporto di Cordoba, nel sud del paese. In molte altre città dell’Andalusia, la regione dove si trova Cordoba, sono stati superati abbondantemente i 30 °C, con una massima di 35 °C a Siviglia. Nel complesso, nel mese di aprile le temperature massime rilevate in Spagna sono state per alcuni giorni superiori di 10-15 °C rispetto alla media stagionale. Secondo gli esperti, quello di quest’anno sarà l’aprile più caldo mai registrato nel paese e aggraverà le già difficili condizioni legate alla siccità e alla mancanza di riserve idriche per affrontare la tarda primavera e l’estate.Le temperature massime registrate negli ultimi giorni sono state causate dal passaggio di un fronte di aria calda sulla penisola iberica proveniente dall’Africa, combinato a una fase di lenta evoluzione delle condizioni atmosferiche dovuta all’alta pressione. È un fenomeno che si verifica con una certa frequenza, ma di solito verso la primavera inoltrata e l’estate, difficilmente con ondate di calore così estese e precoci.Per ridurre i rischi per la popolazione, varie amministrazioni locali spagnole hanno già messo in pratica le procedure che di solito sono adottate per le ondate di calore estive. In molte zone si è deciso di modificare gli orari nelle scuole, in modo da concentrare le lezioni nei periodi più freschi della giornata o interromperle in anticipo, mentre a Madrid è stato rafforzato il servizio dei mezzi pubblici per ridurre i tempi di attesa. Le piscine pubbliche sono state aperte con un mese di anticipo e sono stati avviati piani di assistenza per gli anziani e le fasce più deboli della popolazione.Il caldo degli ultimi giorni avrà ulteriori conseguenze sulla siccità sempre più grave in molte aree della Spagna. Nelle prime tre settimane di aprile è caduto circa un quarto della pioggia che normalmente si ha in questo periodo dell’anno. I dati degli ultimi giorni del mese non sono ancora disponibili, ma è probabile che questo mese si confermi come il più secco mai registrato nel paese.The river discharge anomaly, based on reanalysis data from March to April 25, 2023, shows a concerning picture of the #drought still affecting Southern Europe, particularly northern Italy. #rstats #dataviz pic.twitter.com/q6jwC9xlhp— Dr. Dominic Royé (@dr_xeo) April 27, 2023Secondo le previsioni, nel fine settimana le temperature massime dovrebbero scendere, ma già dall’inizio di maggio potrebbe tornare a fare caldo a cominciare dalla Spagna meridionale. Lo scorso anno a maggio erano state registrate massime superiori ai 40 °C, con un ulteriore peggioramento tra giugno e luglio con due ondate di calore che avevano interessato anche diverse altre aree dell’Europa. Il caldo e la siccità avevano contribuito a un aumento degli incendi boschivi, tra i più grandi registrati nel paese negli ultimi anni.È difficile ricondurre un singolo evento meteorologico al cambiamento climatico, soprattutto nel breve periodo, ma numerose ricerche segnalano ormai da tempo come questi eventi stiano diventando sempre più estremi proprio a causa del riscaldamento globale. Lo scorso anno è stato il secondo più caldo mai registrato in Europa con la stagione più calda mai rilevata. Nel suo complesso nel continente si sta assistendo a un aumento della temperatura media più intenso rispetto alla media globale, con grandi implicazioni sia nell’immediato per le emergenze sanitarie legate alle ondate di calore sia nel medio-lungo periodo per la mancanza di precipitazioni, specialmente nel sud dell’Europa.Il governo della Spagna ha di recente chiesto aiuto all’Unione Europea per sostenere gli agricoltori in difficoltà a causa del lungo periodo di siccità, che rende impraticabile la semina. Il paese è un importante esportatore di frutta, ortaggi e materie prime per il settore alimentare: raccolti più contenuti potrebbero avere conseguenze per il resto dell’Europa e influire sui prezzi, già aumentati a causa dell’inflazione.In Europa la fine dell’inverno e i primi mesi della primavera sono stati più caldi rispetto alla media, con scarse piogge in molti casi insufficienti per ripristinare le riserve idriche già messe a dura prova dalla siccità dello scorso anno. Le ondate di caldo hanno inoltre interessato precocemente altre zone del pianeta, con temperature sopra i 45 °C nel nord-ovest della Thailandia e 40 °C rilevati a Dacca, la capitale del Bangladesh. LEGGI TUTTO

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    I voli in aereo stanno diventando più turbolenti

    A causa del cambiamento climatico le turbolenze in volo potranno essere più frequenti e intense, secondo alcune analisi basate su come si stanno modificando i fenomeni atmosferici. La maggiore frequenza di eventi estremi, come repentini cambi di temperatura e di intensità dei venti, influirà sulle rotte degli aerei di linea e potrà portare qualche disagio in più per i passeggeri, specialmente lungo alcuni percorsi molto trafficati come quelli tra l’Europa e gli Stati Uniti.Negli ultimi 40 anni, per esempio, la variazione improvvisa dei venti sopra l’oceano Atlantico settentrionale è aumentata del 15 per cento. Le correnti più instabili possono rendere meno confortevole la traversata anche a causa della difficoltà di prevedere alcuni tipi di turbolenze. Le perturbazioni sulla rotta possono essere previste grazie ai bollettini meteo, ai radar e agli altri sistemi a bordo degli aeroplani che ne indicano la presenza. Con le turbolenze è più difficile, in particolare per quelle che si verificano a “ciel sereno” (clear-air turbulence, o CAT) che non possono essere sempre identificate per tempo e nelle quali un aereo si può trovare improvvisamente mentre viaggia a 800 chilometri orari. La loro frequenza sembra essere in aumento ed è una delle cause degli scossoni che talvolta si hanno in volo.A inizio marzo un aeroplano di Lufthansa partito dal Texas (Stati Uniti) e diretto verso la Germania ha dovuto invertire la rotta e tornare verso l’aeroporto di partenza, dopo avere incontrato turbolenze molto intense in cui erano rimaste ferite sette persone. A fine 2022 un aereo partito da Phoenix (Arizona) e diretto a Honolulu (Isole Hawaii) era a una quota di circa 11mila metri quando ha attraversato una turbolenza, nonostante pochi istanti prima le condizioni meteo fossero tranquille con cielo sereno. Circa 25 persone erano rimaste ferite e per alcune si era reso necessario un controllo in ospedale dopo l’atterraggio.“The plane was chaos”: Matthew McConaughey and his wife Camila Alves McConaughey were onboard a Lufthansa flight that diverted to a Washington-area airport on its way from Texas to Germany, after hitting turbulence that hospitalized some passengers. pic.twitter.com/2QMcqItXnE— CBS Mornings (@CBSMornings) March 3, 2023Secondo i dati raccolti dal National Trasportation Safety Board statunitense, che si occupa della sicurezza in volo per l’aviazione civile, tra il 2009 e il 2022 più di 160 persone hanno subìto un grave infortunio a causa delle turbolenze. Tra le persone più a rischio ci sono solitamente gli assistenti di volo, che trascorrono buona parte del tempo a bordo in piedi, spesso trasportando oggetti e spingendo i carrelli con le bevande e i pasti per i passeggeri. I dati sono comunque parziali perché le compagnie aeree devono fornire informazioni solamente sui casi più gravi, di conseguenza è immaginabile che ci siano molti altri infortuni più lievi che non vengono tracciati.La variazione improvvisa del vento, sia in termini di direzione sia di intensità, è un fenomeno noto da tempo nella meteorologia aeronautica e viene tenuta sotto controllo soprattutto in prossimità degli aeroporti, visto che potrebbe causare problemi di sicurezza nelle procedure di atterraggio. È invece più complicato da tenere sotto controllo in volo, considerato che in condizioni di cielo sereno è più difficile da rilevare. Un aereo può trovarsi per esempio tra venti che soffiano a diversa velocità a seconda della quota, con dinamiche che influiscono sulla sua portanza e sulla possibilità di mantenere l’assetto.Isabel Smith, meteorologa dell’Università di Reading (Regno Unito) e studiosa delle turbolenze nel Nord Atlantico, ha spiegato che i gas serra rendono più difficile lo scambio di calore negli strati più alti dell’atmosfera. Il calore rimane più a lungo nella troposfera, lo strato più vicino al suolo, e viene ceduto più lentamente alla stratosfera, che costituisce lo strato successivo. La differenza di temperatura tra i due strati fa sì che si intensifichino alcune correnti atmosferiche, che a loro volta causano una maggiore instabilità e fanno aumentare i casi di turbolenze a ciel sereno.(Wikimedia)Fare previsioni sull’evoluzione del fenomeno non è semplice, ma secondo i modelli più condivisi le turbolenze di questo tipo potrebbero raddoppiare entro il 2050, con una maggiore incidenza di quelle gravi. Il fenomeno interesserà soprattutto il Nord Atlantico, dove passano alcune delle correnti atmosferiche più intense e importanti del nostro emisfero.Le cose potrebbero peggiorare nei prossimi decenni se non ridurremo drasticamente le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, la principale causa dell’effetto serra, e se non svilupperemo soluzioni sostenibili per rimuovere una grande quantità di gas serra già immessi. Gli aeroplani sono piuttosto inquinanti e sono responsabili del 2-3 per cento delle emissioni di anidride carbonica (le stime variano molto a seconda dei parametri presi in considerazione). I nuovi aerei di linea consumano meno rispetto a un tempo, ma per ora il settore non ha alternative credibili per abbandonare in tempi rapidi l’impiego dei combustibili fossili.Oltre al cambiamento nelle correnti, l’aumento della temperatura media globale ha conseguenze su molti altri eventi atmosferici, che stanno diventando via via più estremi. In alcune aree del pianeta sono aumentate la frequenza e l’intensità delle precipitazioni, mentre in altre sono di più i periodi di siccità e le ondate di calore. Uragani e tifoni molto potenti sono aumentati e con loro la necessità di rivedere le rotte, rinviare le partenze o cancellare i voli. La maggiore instabilità riguarda anche le aree periferiche delle grandi perturbazioni, dove si rilevano più turbolenze rispetto a un tempo.Nel complesso secondo gli esperti le condizioni di viaggio per gli aerei di linea stanno diventando più incerte. I disagi come ritardi, cancellazioni, voli più lunghi e meno confortevoli potranno aumentare su specifiche rotte, ma in compenso tutto questo non andrà a scapito della sicurezza. Gli aeroplani impiegati oggi sono costruiti per resistere a grandi sollecitazioni, molto maggiori rispetto a quelle che si vivono di solito a bordo e che comprensibilmente inquietano alcuni passeggeri.Ci sono però alcuni ambiti in cui si può fare meglio, come spiegano alcuni esperti. In molti casi i piloti non ricevono una particolare formazione sul meteo oltre a quella di base prevista nelle prime fasi di addestramento. È raro che un pilota sia formato per utilizzare al meglio un radar di bordo per l’analisi delle condizioni meteo intorno all’aereo e spesso ci si affida alla buona volontà dei piloti e alla loro curiosità. Le tecnologie dei radar meteo si sono evolute rapidamente negli ultimi anni, ma senza che ci fossero iniziative per aggiornare gli equipaggi. I bollettini sulle tempeste potenzialmente lungo la rotta inviati da terra continuano a essere la principale fonte nella cabina di pilotaggio.Su Fortune, il pilota e istruttore Doug Moss ha detto che: «I sistemi radar per il meteo attualmente prodotti sono molto diversi da quelli che erano disponibili dieci o venti anni fa, e non c’è praticamente formazione su come utilizzarli. I piloti sono gente motivata e si cercano da soli le informazioni per studiarsele, ma le compagnie aeree non offrono certamente quel tipo di formazione». La necessità di una maggiore attenzione sulla preparazione dei piloti in questo ambito è discussa da tempo, ma è comunque importante ricordare che ogni pilota è formato per conoscere e sapere utilizzare ciò che è in cabina di pilotaggio.Per ridurre il rischio di incidenti a bordo, le compagnie aeree consigliano di mantenere sempre la cintura di sicurezza allacciata quando ci si trova al proprio posto, anche al di fuori delle fasi di decollo e di atterraggio, dove il loro impiego è obbligatorio. Una turbolenza inattesa porta l’aereo a perdere in pochi secondi decine (talvolta centinaia) di metri di quota, a inclinarsi o a spostarsi orizzontalmente di svariati metri. Le sollecitazioni sono tali da poter sbalzare i passeggeri dai loro sedili, far cadere gli oggetti sui tavolini o sui carrelli degli assistenti di volo, in alcuni casi comportando anche l’improvvisa apertura delle cappelliere. In queste circostanze la cintura allacciata può fare la differenza ed evitare un infortunio. LEGGI TUTTO

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    La siccità nel Nord Italia sembra legata al cambiamento climatico

    Caricamento playerÈ ormai risaputo che il cambiamento climatico causa un aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi meteorologici estremi, come alluvioni e siccità, ma per la comunità scientifica non è immediato ricondurre un singolo fenomeno di questo tipo all’aumento della concentrazione atmosferica di gas serra. Per accertare eventuali rapporti di causa ed effetto servono studi appositi. Nel caso della siccità che da più di un anno sta colpendo il Nord Italia oltre che la Francia, la Svizzera e altre regioni europee, causando molti problemi sia al settore agricolo che a quello della produzione di energia, ne è stato pubblicato uno da poco: dice che il cambiamento climatico l’ha aggravata.Semplificando i risultati dello studio, è emerso che siccità analoghe a quella di questi mesi erano meno estese geograficamente e meno lunghe: il riscaldamento globale sembra aver ampliato le zone di alta pressione e causato una maggiore evaporazione dell’acqua dal suolo e dalle piante.Lo studio è stato pubblicato il 28 febbraio dalla rivista Environmental Research Letters ed è stato realizzato da due ricercatori del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) italiano, Davide Faranda e Burak Bulut, e uno dell’Università di Bologna, Salvatore Pascale, che fa parte del gruppo di ricerca di fisica atmosferica del dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi”. Lo studio rientra nella cosiddetta “attribution science”, letteralmente “scienza dell’attribuzione”: è la branca della climatologia sviluppatasi a partire dal 2004 che indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, sviluppando metodi per trovare eventuali collegamenti.«Abbiamo deciso di analizzare questa siccità per due ragioni», spiega Faranda: «Prima di tutto per la sua grande estensione geografica, dato che in passato eravamo abituati a siccità che interessavano solo l’Italia, o parte d’Italia, oppure la Francia e l’Inghilterra, oppure la penisola iberica. Poi perché per l’IPCC [il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU] c’è una mancanza di studi sulle cause delle siccità nell’Europa occidentale».La siccità in corso è una siccità idrologica, a cui cioè è associata una riduzione delle acque presenti nei corsi d’acqua, nei laghi e nelle falde sotterranee, e al tempo stesso una siccità agricola, che ha cioè ripercussioni sulle coltivazioni. Non è dovuta solo a una carenza di precipitazioni molto estesa nel tempo, ma anche a temperature più alte della norma che, in associazione al prolungato bel tempo, hanno portato a un aumento della quantità d’acqua che evapora dal terreno e traspira dalle piante (evapotraspirazione). Dunque per analizzarla non basta tener conto unicamente di un’analisi delle precipitazioni, ma anche della temperatura e della risposta del suolo alla mancanza di pioggia.«Ci sono eventi meteorologici che sono più facilmente attribuibili al cambiamento climatico», dice Pascale: «Ad esempio le ondate di calore: a causa del riscaldamento globale, è intuitivo e logico aspettarsi che aumentino le probabilità che si verifichino questi fenomeni. La componente delle precipitazioni è più complessa da studiare e nelle siccità, che dipendono da diverse variabili, il nesso non è diretto, bisogna dipanare la matassa con attenzione».Faranda, Pascale e Bulut hanno tenuto conto dei tre fattori coinvolti usando un indice che li contempla tutti e diventa negativo in condizioni di siccità. Poi hanno studiato la circolazione atmosferica, cioè l’alternarsi delle condizioni di alta pressione (associata al bel tempo) e bassa pressione (brutto tempo), dal dicembre del 2021 all’agosto del 2022 nelle aree in cui l’indice della siccità era negativo, e hanno trovato un’associazione tra le zone di alta pressione e le zone più colpite dalla siccità.Successivamente hanno utilizzato una serie di dati meteorologici che partono dal 1836 per cercare distribuzioni di alta pressione analoghe a quelle del periodo 2021-2022 preso in considerazione. Nel farlo hanno distinto i casi precedenti al 1915, cioè relativi a un periodo storico in cui non si vedevano ancora effetti sul clima dell’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, e quelli successivi al 1942. «Abbiamo visto che le siccità simili c’erano anche prima, ma interessavano solo parte della Francia e dell’Inghilterra ed erano meno intense, sia in termini di carenza di precipitazioni che di evapotraspirazione», racconta Faranda.Tuttavia non basta verificare che un fenomeno sia stato diverso rispetto ad altri analoghi passati per dire che sia legato al cambiamento climatico.«Ciò che serve per poter attribuire la causa al cambiamento climatico è un meccanismo fisico che leghi i due fenomeni», continua Faranda: «In questo caso è quello che per semplificare abbiamo chiamato “effetto mongolfiera”: con le emissioni di gas serra facciamo aumentare la temperatura dell’atmosfera e, dato che nei gas la temperatura è legata alla pressione in maniera proporzionale, se aumentiamo la temperatura aumentiamo anche la pressione, proprio come succede nel pallone di una mongolfiera».In questa similitudine alla mongolfiera corrisponde la zona di alta pressione nell’atmosfera, l’anticiclone: «Arriva nella tropopausa [lo strato di atmosfera che separa la troposfera, in cui avvengono i fenomeni meteorologici, dalla stratosfera, più in alto], e si espande. Per questo questa siccità ha inglobato più aree geografiche e in particolare l’Italia del nord rispetto al passato».– Leggi anche: Al Sud non c’è la siccitàPascale precisa che queste considerazioni non valgono per tutti gli episodi di siccità che ci sono stati in Italia in anni recenti, come quello del 2017, ma solo per le caratteristiche di questa specifica siccità: per le altre bisognerebbe fare studi appositi. In quella che stiamo attraversando in particolare «è molto forte l’evapotraspirazione, cioè il grado con cui il terreno si secca: avviene molto più in fretta rispetto all’Ottocento per l’aumento delle temperature».Secondo il climatologo Maurizio Maugeri, professore dell’Università Statale di Milano e presidente del corso di laurea magistrale in “Environmental Change and Global Sustainability”, che non ha partecipato allo studio, è una ricerca «originale, sicuramente solida» che è stata pubblicata peraltro su «un’ottima rivista» per il settore: «I risultati più importanti di questo lavoro mettono in evidenza non tanto che queste condizioni si presentano in modo più frequente negli anni più recenti rispetto all’andamento storico ma che, quando si presentano, sanno essere “più estreme”, “più cattive”».Maugeri sottolinea l’importanza del dato sull’evapotraspirazione: «Anche qualora le precipitazioni non fossero cambiate in nessun modo da 200 anni fa a oggi, il fatto che faccia più caldo causa una maggiore evaporazione, quindi l’acqua che abbiamo a disposizione nelle nostre riserve è minore». L’aumento dell’evapotraspirazione è stato oggetto anche di altri studi, tra cui uno a cui ha lavorato lo stesso Maugeri e dedicato al bacino del fiume Adda, che scorre in Lombardia, dalle Alpi Retiche al Po: «Per i 170 anni di cui abbiamo dati, le piogge si sono ridotte grosso modo del 5 per cento, quindi pochissimo, mentre le portate dell’Adda si sono ridotte del 20 per cento».Anche per Federico Grazzini, meteorologo dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna (Arpae) e ricercatore all’Università di Monaco di Baviera, lo studio di Faranda, Pascale e Bulut «è importante» e l’approccio su cui è basato è «promettente, può essere usato anche per altri eventi»: «L’Italia è sul fronte del cambiamento climatico più di altri paesi e quindi dovrebbe essere “in prima linea” nel produrre questo tipo di elaborazioni. Però non siamo produttivi come altri paesi».Ramona Magno, ricercatrice dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e coordinatrice scientifica dell’Osservatorio Siccità, ricorda che in generale, da varie ricerche, sappiamo che nella zona del Mediterraneo il cambiamento climatico sta esacerbando gli eventi estremi: è già stato osservato un aumento sia nella frequenza che nell’intensità delle ondate di calore e delle siccità, e secondo le proiezioni aumenteranno ancora. Le cose sono meno chiare invece per quanto riguarda l’influenza del riscaldamento globale sulle circolazioni atmosferiche che riguardano l’Europa, ma come mostra anche lo studio sulla siccità del 2022 si vede che ci sono dei cambiamenti in atto.Per quanto riguarda la situazione attuale e quella dei prossimi mesi, «le recenti perturbazioni e i recenti abbassamenti di temperatura sono importanti perché “fanno tirare il fiato”, limitano un po’ le condizioni di deficit di precipitazione», spiega Magno, soprattutto nel Piemonte occidentale, la zona che più ha sofferto finora per la siccità. Tuttavia «le precipitazioni hanno interessato soprattutto il centro Italia» e «se non saranno continue e distribuite anche su periodi successivi, non saranno sicuramente sufficienti a colmare del tutto il deficit che si è formato al nord Italia, soprattutto nel nord-ovest».Le previsioni stagionali fatte da vari centri meteorologici europei dicono che nei prossimi tre mesi «con buona probabilità, tra il 40 e il 60 per cento, le temperature medie saranno superiori a quelle del periodo 1991-2020», mentre i modelli sono discordanti per quanto riguarda le precipitazioni: «Nel complesso le precipitazioni potrebbero essere in media, quindi potrebbe piovere come al solito in questo periodo, però siccome il deficit accumulato in alcune zone d’Italia è notevole, potrebbero non essere sufficienti».Insomma la siccità potrebbe proseguire. E un’estate di siccità che segue un’estate di siccità è più grave, soprattutto per le colture che richiedono molta acqua, come il riso e il mais.«Magari arriva una perturbazione, ma se è un momento passeggero il suolo non riesce a rimettersi in sesto», riassume Faranda: «È come quando una persona è depressa: ogni tanto vive un momento di felicità, però rimane sostanzialmente nello stesso stato e nel tempo si aggrava. La vegetazione è un po’ come un essere umano: non vive i nostri stessi tipi di stress, vive lo stress idrologico, ma c’è una similitudine. Alla lunga, dopo anni di siccità, la vegetazione non riesce più ad adattarsi e muore. E bisogna pensare di cambiare le colture».– Leggi anche: Cosa è questo “piano laghetti” contro la siccità LEGGI TUTTO

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    La fioritura dei ciliegi in Giappone è anticipata dal cambiamento climatico

    A Kawazu, una città giapponese a sud-ovest di Tokyo, stanno fiorendo certi tipi di ciliegi. Il vero e proprio hanami, l’usanza di ammirare la fioritura di questi alberi che ogni anno attraggono anche molti turisti stranieri in Giappone, si svolgerà tra qualche settimana ma in molte parti del paese comincerà prima del 20 marzo, cioè prima dell’inizio della primavera astronomica. Le date di fioritura cambiano di anno in anno, e variano nelle diverse parti del paese a seconda del clima locale, ma negli ultimi decenni in media sono state precoci rispetto al passato, e come per tante altre specie vegetali c’entra l’aumento delle temperature globali causato dalle attività umane.Abbiamo il primo Sakura dell’anno!Proprio nel tempio davanti casa今年初#ultragiappone #sakura #桜 pic.twitter.com/3adPbElnQz— フラ -pesceriso- (@pesceriso) February 28, 2023Secondo le previsioni dell’Associazione meteorologica giapponese (JWA) a Kyoto, l’antica capitale del Giappone e una delle principali mete turistiche del paese, la fioritura dei ciliegi quest’anno inizierà il 22 marzo. La piena fioritura, il momento migliore per ammirare gli alberi, è invece attesa per il 30 marzo. Non sarà estremamente anticipata rispetto alla media come quella del 2021, quanto avvenne il 26 marzo e fu la più precoce nei circa 1.200 anni da cui si registrano dati sui ciliegi di Kyoto (che erano tenuti in grande considerazione dalle corti imperiali giapponesi già più di un millennio fa), ma comunque ci andrà vicino.Le previsioni su quando avverrà la piena fioritura dei ciliegi nelle diverse parti del Giappone nel 2023 aggiornata al 2 marzo (JWA)Proprio a seguito del record del 2021, l’Università di Osaka aveva collaborato con il Met Office, l’agenzia meteorologica nazionale del Regno Unito e una delle più autorevoli istituzioni del mondo nel suo ambito, per stabilire se il cambiamento climatico avesse un’influenza sui tempi della fioritura dei ciliegi. In uno studio pubblicato l’anno scorso sulla rivista Environmental Research Letters, avevano dimostrato come dagli anni Trenta del Novecento in poi le conseguenze delle attività umane hanno determinato un’anticipazione delle fioriture di 11 giorni a Kyoto e avevano stimato che entro il 2100 potrà aumentare di altri 6.A influire non è solo l’aumento generale delle temperature causato dalle emissioni di gas serra, che riguarda tutto il mondo: c’entrano anche le maggiori temperature che si registrano a Kyoto come nelle altre città del mondo rispetto alle aree di campagna, e che sono dovute principalmente all’alta percentuale di superfici scure che assorbono molta più radiazione solare rispetto al terreno non edificato o asfaltato. Secondo lo studio dell’Università di Osaka e del Met Office, senza la particolare situazione urbana l’effetto del riscaldamento globale sulla fioritura dei ciliegi di Kyoto si sarebbe cominciato a vedere solo alla fine del Novecento invece che già settant’anni prima.Questi risultati sono stati ottenuti grazie ai numerosi dati sulle fioriture dei ciliegi e a quelli sulle temperature di Kyoto, registrati a partire dalla fine dell’Ottocento. Per appurare le differenze tra gli alberi di città e quelli di campagna sono stati usati dati relativi a Kameoka, una località rurale vicina a Kyoto. In passato i due luoghi avevano temperature simili, che però cominciarono a differenziarsi dagli anni Quaranta.La variazione rispetto alla media storica delle date di piena fioritura dei ciliegi nel corso del tempo: in azzurro sono indicati i dati relativi a Kameoka, in rosa quelli che riguardano Kyoto (Met Office)I ciliegi del Giappone (lì chiamati sakura) non sono gli stessi di cui si mangiano le ciliegie, ma appartengono a una specie da cui non si ricavano frutti commestibili (Prunus serrulata). Sono tuttavia noti in tutto il mondo per la bellezza dei loro fiori, che sono uno dei simboli del Giappone all’estero. Negli anni le autorità giapponesi ne hanno più volte regalati ad altri paesi: è il caso dei ciliegi del parco dell’EUR, a Roma, e di quelli del National Mall di Washington, negli Stati Uniti, l’area in cui si trovano la sede del Congresso americano e vari monumenti. LEGGI TUTTO

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    Exxon sapeva del riscaldamento globale fin dagli anni Settanta

    Un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Science e basato su documenti interni della compagnia petrolifera Exxon rivela che l’azienda aveva a disposizione sin dagli anni Settanta un modello piuttosto accurato sugli effetti a lungo termine dei combustibili fossili sul clima.Per conto di Exxon alcuni ricercatori avevano previsto il riscaldamento globale, in misure simili a quelle effettivamente riscontrate finora. Oltre ad avere ignorato per decenni quei documenti senza renderli pubblici, l’azienda aveva a lungo contestato gli studi sul cambiamento climatico definendoli fino al 2013 «troppo incerti» e battendosi per evitare ogni limitazione all’uso dei combustibili fossili.Il nuovo studio pubblicato su Science, una delle più importanti riviste scientifiche al mondo, è stato condotto da un gruppo di ricerca dell’Università di Harvard e dell’Istituto Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico e guidato da Geoffrey Supran. Quest’ultimo ha definito le conclusioni dello studio e alcuni grafici originali degli anni Settanta in esso contenuti la «pistola fumante», ossia la prova definitiva che Exxon fosse a conoscenza degli effetti a lungo termine dell’uso dei combustibili fossili, a cominciare proprio dal petrolio e dal carbone.Non solo nel corso degli anni Exxon «sapeva qualcosa» sulle cause del riscaldamento globale che ufficialmente negava, ma ha avuto a disposizione modelli e risultati scientifici prima dei ricercatori indipendenti.Uno dei grafici “interni” e la sovrapposizione con i dati reali (Supran et al.)Gli oltre cento documenti e ricerche, condotte da dipendenti della stessa Exxon o commissionate dall’azienda petrolifera a ricercatori esterni fra il 1977 e il 2003, prevedevano un aumento della temperatura media globale di circa 0,2 °C ogni dieci anni come effetto delle emissioni di gas serra riconducibili alla combustione di petrolio e carbone. Le analisi smentivano la teoria, che all’epoca aveva un certo sostegno, che il pianeta potesse andare incontro a una nuova glaciazione e invece prevedevano in modo piuttosto accurato un riscaldamento influenzato dalle attività umane e «indotto dall’anidride carbonica». Gli scienziati della compagnia avevano indicato anche i primi anni del Duemila come la data in cui gli effetti sarebbero stati universalmente riconosciuti e “scoperti” dal grande pubblico e indicavano una quota di utilizzo di combustibili fossili sotto cui sarebbe stato necessario rimanere per evitare un aumento della temperatura media globale superiore ai 2 °C.– Leggi anche: Da dove arrivano le emissioni inquinantiLo studio definisce i risultati a disposizione di Exxon in quegli anni più accurati e completi rispetto a quelli con cui gli scienziati della NASA, e in particolare James Hansen, avvertirono il mondo dei rischi anni più tardi, nel 1988. Non è la prima pubblicazione che evidenzia come le grandi società petrolifere e aziende energetiche fossero a conoscenza degli effetti sulle temperature globali della combustione di petrolio e carbone: l’esistenza di ricerche interne in questo senso fin dagli anni Cinquanta dello scorso secolo è già stata dimostrata, ma questo studio presenta risultati più completi e circostanziati.Exxon è una delle più grandi compagnie petrolifere al mondo ed è proprietaria, fra gli altri, del marchio Esso con cui è sul mercato in Italia. Giovedì ha smentito queste conclusioni, contattata da BBC News: «La questione è già stata presentata più volte e in ogni occasione la nostra risposta è la stessa: chi dice che “Exxon sapeva” sostiene conclusioni errate».Exxon, così come altre grandi aziende del settore, per decenni ha respinto le conclusioni scientifiche sul riscaldamento globale causato dalle attività umane, definendole ora “speculative”, ora “cattiva scienza” e osteggiando fino a pochi anni fa ogni regolamentazione delle emissioni. Lo studio dell’Università di Harvard rivela invece che internamente la compagnia usava gli stessi modelli ed era a conoscenza degli effetti a lungo termine. LEGGI TUTTO

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    I diari di bordo delle vecchie baleniere ci aiutano a ricostruire la storia del clima

    Lo studio del clima e degli eventi meteorologici del passato è considerato sempre più importante per definire l’entità dei cambiamenti climatici in corso e per costruire modelli di lungo periodo che aiutino a fare migliori previsioni. La raccolta di dati costanti e affidabili sul clima e sui fenomeni atmosferici è però piuttosto recente: per alcune zone remote del pianeta, ma anche per mari e oceani, ne esistono pochi precedenti agli anni Cinquanta dello scorso secolo.Per colmare questi vuoti informativi si stanno rivelando importanti i diari di bordo delle navi che per secoli attraversarono gli oceani, in particolare quelli successivi al 1800, quando la pratica di registrare le quotidiane posizioni esatte delle navi e le condizioni meteorologiche divenne la norma. E sono particolarmente interessanti i diari delle baleniere, cioè le navi dedicate alla caccia alle balene, molto diffusa fino agli anni Settanta. Le baleniere infatti si spingevano lontano dalle rotte consuete e nella loro caccia ai cetacei esploravano porzioni di oceano poco coperte dalle imbarcazioni commerciali e militari.Nella metà dell’Ottocento la caccia alle balene toccò il suo picco negli Stati Uniti: centinaia di imbarcazioni dotate di lunghi arponi partivano dal New England, nel nord-est del paese, per andare a caccia nell’Atlantico del sud, nel Pacifico e nell’oceano Indiano. L’olio di balena era molto richiesto sul mercato americano come combustibile per le lampade, come ingrediente di base per saponi e come lubrificante per una vasta gamma di strumenti meccanici come armi, macchine per scrivere e ingranaggi di processi industriali. Il 1853 fu l’anno in cui si registrò il massimo dei profitti, 11 milioni di dollari, con oltre 8.000 balene uccise.I simboli utilizzati sui diari di bordo delle baleniere (Wikicommons)La Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI), un’organizzazione non profit statunitense che si occupa di ricerca sulle scienze marine e ha sede in Massachusetts, sta lavorando a un progetto di recupero, digitalizzazione e organizzazione di dati climatici dai diari di bordo delle baleniere.Le oltre 54mila indicazioni meteorologiche contenute in 110 diari di bordo attualmente in fase di analisi permetteranno di costruire modelli di lungo periodo che aiuteranno gli scienziati a comprendere come è cambiato il clima negli ultimi due secoli. Sarà possibile capire meglio gli eventi ricorrenti e quindi prevedere quelli futuri.Nello specifico il lavoro dei dodici ricercatori della WHOI si concentra sui venti, sulla loro forza e sulle loro direzioni. I diari di bordo provengono da archivi pubblici e privati della regione del New England, da cui le baleniere partivano verso gli angoli più remoti del pianeta. Contengono registri quotidiani di longitudine e latitudine, rotte delle navi, direzioni e intensità dei venti, condizioni del mare, presenza di nuvole e informazioni generali sul tempo.I diari di bordo erano compilati scrupolosamente e obbligatoriamente, perché erano considerati registri legali necessari per richieste alle assicurazioni e per eventuali contenziosi con le compagnie proprietarie delle navi o con l’equipaggio, come le scatole nere degli aerei. Oltre ai dati atmosferici, riportavano tutte le attività svolte sulla nave, eventuali altre imbarcazioni incrociate o problemi riscontrati.Una pagina del diario di bordo della baleniera Almira, in viaggio dal 1864 al 1868 (Wikicommons)Il progetto si concentra sullo studio dei venti, ma dai registri potrebbero essere estrapolate informazioni anche sull’intensità delle precipitazioni, sulle perturbazioni o su quanto il mare fosse mosso o tranquillo. Semplificando molto, la WHOI mira a capire dove (a che latitudine e longitudine) e quando (in che anno, in quale stagione) i balenieri incontrarono i venti più forti, per confrontare poi i dati con quelli attuali, in modo da registrare le variazioni e costruire un modello a lungo termine relativo ai venti.I venti e le loro interazioni influenzano le precipitazioni, i periodi di siccità, le inondazioni e i fenomeni estremi come tempeste e uragani: un modello più accurato dei venti può aumentare la precisione delle previsioni degli altri eventi. Uno studio di Nature del 2020 evidenziò per esempio come l’assenza di modelli sui venti in azione sopra gli oceani fosse una delle cause di errori e mancanze nelle previsioni sulle precipitazioni. Inoltre la ricostruzione degli eventi atmosferici negli ultimi secoli è fondamentale per capire l’influenza sul clima delle azioni umane, legata alle emissioni di gas serra.I ricercatori del WHOI hanno raccontato alla rivista online Grist che il progetto è solo in una fase iniziale: nei prossimi nove mesi potranno essere forniti dei primi dati complessivi, ma il bacino di diari di bordo da cui attingere è molto più ampio rispetto al centinaio di libri analizzati (ognuno si aggira intorno alle 200 pagine): quelli a disposizione sono attualmente 4.300.La quantità di dati a disposizione e da analizzare è quindi enorme e un recente accordo con l’Università di Lisbona ne aggiungerà altri: 3.800 diari di bordo di navi portoghesi che navigarono gli oceani dal 1760 al 1940. Per analizzarli sarà probabilmente necessario fare ricorso a un lavoro condiviso, usando anche molti volontari, come è accaduto in progetti simili.Un ufficio alla Woods Hole Oceanographic Institution in una foto del 2014 (AP Photo Stephan Savoia)L’istituto del Massachusetts non è infatti l’unico ad analizzare dati su clima ed eventi meteo del passato. Il progetto è ispirato a quello Old Weather della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale degli Stati Uniti che si occupa di meteorologia e clima. Dal 2010 migliaia di volontari hanno analizzato registri meteorologici presenti su archivi online per trascrivere i dati in un database secondo un modello definito dal progetto: nel complesso sono 14 milioni di osservazioni. I dati provenivano dai diari di bordo delle navi militari in navigazione durante la Seconda guerra mondiale e in una seconda fase da rompighiaccio e baleniere in transito nell’area artica sin dal 1849.– Leggi anche: 40 anni fa decidemmo di non cacciare più le balene LEGGI TUTTO

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    La COP27 non è finita benissimo

    A Sharm el-Sheikh, in Egitto, le delegazioni da ogni parte del mondo stanno lasciando la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP27), terminata domenica 20 novembre con quasi due giorni di ritardo rispetto al previsto, a causa del protrarsi delle trattative per approvare il documento finale dell’incontro. Dopo lunghe discussioni, è stato approvato un accordo per istituire un fondo di compensazione per i paesi in via di sviluppo più esposti agli effetti del cambiamento climatico, preservando l’obiettivo di non superare gli 1,5 °C di aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale. I rappresentanti dei paesi più poveri hanno parlato di un’importante vittoria, quelli dei paesi più sviluppati hanno usato toni meno enfatici mal celando una certa delusione per gli impegni contenuti nel documento finale.CompensazioniLa COP27 era iniziata un paio di settimane fa con un invito del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, rivolto sia ai paesi sviluppati sia a quelli in via di sviluppo per evitare ulteriori divisioni e collaborare a un piano comune per contrastare il riscaldamento globale e mitigare i suoi effetti, ormai inevitabili e in parte già in corso. Nonostante le dichiarazioni di buoni intenti, fino da subito erano emersi forti contrasti sulla dibattuta istituzione di un fondo finanziato dai paesi ricchi per aiutare i paesi poveri, che spesso devono confrontarsi con eventi meteorologi estremi legati al cambiamento climatico, pur non essendo i principali responsabili delle emissioni di gas serra che rendono sempre più caldo il pianeta.Stati Uniti e Unione Europea erano inizialmente contrari al nuovo fondo, ritenendo che ci fosse già un numero sufficiente di strumenti di finanziamento tramite organizzazioni e istituzioni internazionali e nazionali. L’Unione Europea aveva cambiato il proprio approccio negli ultimi giorni della COP27, segnalando di essere disponibile a istituire il fondo a patto che contribuisse anche la Cina, ancora inquadrata come un paese in via di sviluppo, nonostante sia uno dei più grandi produttori di gas serra al mondo.Il cambiamento di approccio dell’Unione Europea aveva contribuito a sbloccare la situazione, portando infine all’istituzione del fondo di compensazione, ritenuto da molti commentatori il punto più rilevante del nuovo accordo sottoscritto dai paesi partecipanti alla COP27. Il denaro accumulato nel fondo potrà essere utilizzato per finanziare attività di gestione delle emergenze e messa in sicurezza dei territori nei paesi più poveri interessati da alluvioni, oppure da periodi di prolungata siccità.L’accordo è però vago su numerosi dettagli, a cominciare da quali dovranno essere i criteri che porteranno all’erogazione dei fondi. Non è inoltre chiaro come saranno raccolti i fondi e se ce ne saranno a sufficienza, considerato che in questi anni praticamente nessun paese sviluppato aveva mantenuto i propri impegni nel finanziamento di altre iniziative comuni, mirate più in generale a sostenere attività per ridurre gli effetti del cambiamento climatico.Secondo esperti e osservatori, l’accordo sul nuovo fondo è soprattutto importante per ristabilire un certo livello di fiducia tra i paesi in via di sviluppo e quelli più ricchi, dopo quasi tre anni di pandemia nei quali si erano accentuate le differenze e le disparità di trattamento, per esempio sulla gestione e la distribuzione dei vaccini contro il coronavirus. L’accordo dovrebbe consentire di risolvere attriti e malumori, riportando al centro del confronto le politiche per ridurre le emissioni di gas serra ed evitare che la temperatura media globale continui ad aumentare.Su questi temi, cruciali per il futuro di tutti, i progressi alla COP27 di Sharm el-Sheikh non sono però stati molti.(AP Photo/Peter Dejong)Combustibili fossiliIl documento finale della COP27 non contiene grandi progressi nella riduzione dell’impiego dei combustibili fossili, rispetto per esempio al testo approvato alla COP26 dello scorso anno a Glasgow, in Scozia. Molti dei paesi economicamente più sviluppati volevano chiari riferimenti alla riduzione dei consumi di petrolio e gas naturale, oltre a quelli sul carbone già inseriti lo scorso anno (quando fallì il tentativo di inserire nell’accordo una riduzione a zero dei consumi di carbone).Il testo finale contiene invece solamente un riferimento alla necessità di ridurre le emissioni, ma senza specificare in modo molto dettaglio rispetto al consumo di quali combustibili fossili. La formulazione vaga potrebbe essere sfruttata da alcuni paesi per aumentare il consumo di gas naturale, per esempio, che inquina meno del carbone, ma che contribuisce comunque a immettere nell’atmosfera enormi quantità di anidride carbonica.Il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, delegato alla COP27, ha detto di essere deluso dal documento finale: «Gli amici sono veramente amici solo se ti dicono cose che non vorresti sentire. Siamo nel decennio in cui o si fa qualcosa o siamo spacciati, ma ciò che abbiamo davanti a noi non è passo avanti sufficiente per le persone e il pianeta».Kochi, Kerala, India (AP Photo/R S Iyer, File)Temperatura media globaleLe delegazioni alla COP27 si sono nuovamente impegnate a mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto degli 1,5 °C rispetto al periodo preindustriale. Con le attuali politiche adottate dai vari paesi, si stima che l’aumento della temperatura media globale sarà di 2,1-2,9 °C per questo secolo, sempre rispetto ai livelli preindustriali. Per rimanere al disotto degli 1,5 °C sarebbe necessario dimezzare le emissioni di gas serra entro questo decennio, un obiettivo improbabile se non impossibile da realizzare.Il documento prevede un impegno senza che siano forniti dettagli su come mantenerlo, come già avvenuto in passato con le altre conferenze sul clima. Ormai da anni gli scienziati segnalano come un aumento fino a 2 °C potrebbe avere effetti gravi per molti ecosistemi, con una grande riduzione dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari al punto da rendere inabitabili ampie zone costiere e contemporaneamente l’inaridimento di molte aree coltivate, inducendo milioni di persone a migrare, perché le coste sono tra le zone più abitate del pianeta.Le ultime ricerche indicano che c’è un 50 per cento di probabilità di superare la soglia degli 1,5 °C nei prossimi cinque anni, seppure temporaneamente. Con gli attuali andamenti, il superamento potrebbe essere annuale a partire dall’inizio dei prossimi anni Trenta. L’attuale testo, che di fatto non introduce impegni concreti e più drastici sulla riduzione del consumo dei combustibili fossili, non è ritenuto sufficiente per evitare gli scenari più pessimistici.(AP Photo/Peter Dejong)Cosa succede oraSpesso le conferenze sul clima si concludono con un senso di pochi risultati ottenuti, ben al di sotto delle aspettative. L’impressione è che i partecipanti facciano spesso promesse che non vengono poi rispettate, o che i tempi di reazione non siano adeguati per affrontare l’emergenza climatica. Mettere d’accordo tutti i paesi del mondo su politiche per il medio-lungo termine non è semplice, anche se negli ultimi anni il senso di urgenza è aumentato, con azioni necessarie nel breve termine per evitare conseguenze disastrose per la sopravvivenza di milioni di persone.I prossimi mesi saranno importanti per verificare quanto sia credibile e attuabile l’accordo sul fondo per le compensazioni, mentre non ci si attendono molti progressi sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Complice la guerra in Ucraina e la situazione economica internazionale, molti paesi hanno aumentato il consumo di combustibili fossili molto inquinanti, come il carbone, o stretto accordi decennali con nuovi fornitori di gas naturale che dovranno essere mantenuti. I maggiori costi delle materie prime e l’inflazione che sta interessando Europa e Stati Uniti potrebbero complicare i progressi nella produzione e nell’installazione di sistemi sostenibili per la produzione di energia elettrica.La COP28 dell’anno prossimo a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, sarà una prima occasione per verificare l’implementazione del fondo di compensazione, ma anche per fare il punto sull’andamento delle emissioni di anidride carbonica. LEGGI TUTTO

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    Alla COP27 si fatica a trovare un accordo

    Caricamento playerA Sharm el-Sheikh, in Egitto, si sta per concludere la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP27) e – come avviene sempre a ridosso della chiusura di eventi di questo tipo – le varie delegazioni sono in ritardo nella preparazione del documento condiviso tra i paesi partecipanti su come proseguire le attività per limitare il riscaldamento globale e mitigarne i danni. Per il secondo anno consecutivo, dopo la COP26 di Glasgow, in Scozia, c’è l’impressione tra gli osservatori che il documento finale non conterrà grandi sorprese e progressi, con il rischio di avere perso ulteriormente tempo prezioso per affrontare l’emergenza climatica, i cui effetti sono sempre più evidenti.Venerdì 18 novembre è formalmente l’ultimo giorno della COP27, ma come accaduto in passato i lavori proseguiranno almeno fino a sabato, prima di arrivare alla pubblicazione dei nuovi impegni. Il confronto si sta concentrando soprattutto su due argomenti: l’istituzione di un fondo compensativo per i paesi più poveri e che più subiscono gli effetti del cambiamento climatico; un impegno a ridurre sensibilmente l’impiego dei combustibili fossili oltre al carbone, in modo da immettere nell’atmosfera minori quantità di anidride carbonica e altri gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale.Combustibili fossiliLo scorso anno la COP26 di Glasgow era iniziata con un certo ottimismo circa la possibilità di stabilire un piano chiaro e condiviso sull’eliminazione del carbone come fonte per produrre energia. Il carbone è tra i combustibili fossili più economici, ma è anche tra i più inquinanti soprattutto in rapporto alla sua resa.I paesi economicamente più sviluppati erano pressoché concordi sull’eliminazione del carbone, anche perché negli ultimi anni il suo impiego si era sensibilmente ridotto. I paesi in via di sviluppo più grandi e potenti, come Cina e India, erano invece contrari, perché ancora oggi utilizzano numerose centrali a carbone per produrre l’energia elettrica, soprattutto per alimentare le loro attività industriali. Durante le trattative si arrivò a una situazione di stallo e l’unica soluzione fu cambiare una formulazione nel documento finale, non parlando più di “eliminazione” ma di “riduzione” dei consumi di carbone.A complicare le cose nell’ultimo anno c’è stato l’aumento significativo del prezzo del gas naturale, che ha reso in alcuni casi necessario un maggior ricorso al carbone per produrre energia elettrica. Nonostante la temporaneità di questa situazione, l’aumento ha comunque un impatto sulle politiche energetiche e il passaggio all’impiego massiccio di fonti sostenibili.(Spencer Platt/Getty Images)Alla COP27 si è discusso di estendere il concetto di riduzione non solo al carbone, ma anche agli altri combustibili fossili come il petrolio e il gas naturale. In questo caso sono l’India e diversi altri paesi a chiedere l’estensione, mentre altri paesi sviluppati che dipendono ancora molto da gas e petrolio vorrebbero trovare formulazioni diverse. È probabile che per questo il documento finale non contenga riferimenti sui combustibili fossili molto diversi da quelli degli accordi finali della COP26.CompensazioniOltre ai combustibili fossili, l’argomento che ha portato a maggiori divisioni e attriti tra le delegazioni alla COP27 è quello dell’istituzione di un sistema di compensazioni economiche per i paesi più poveri maggiormente esposti agli effetti del cambiamento climatico. La possibilità di istituire un fondo a questo scopo è discussa da vari decenni, ma finora non ha mai portato a qualcosa di concreto.I paesi più ricchi e sviluppati, cioè buona parte dell’Occidente, ritengono che un sistema di compensazioni potrebbe impegnarli per decenni se non per più di un secolo. L’idea è che siano infatti i paesi che più hanno inquinato finora a risarcire gli altri, che non potranno beneficiare delle medesime soluzioni inquinanti (e spesso più economiche di quelle sostenibili) per lo sviluppo delle loro attività produttive. Il fondo dovrebbe servire per finanziare le attività di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, come inondazioni, eventi atmosferici sempre più estremi o prolungati periodi di siccità, offrendo inoltre risorse per gestire la transizione energetica, cioè il passaggio a fonti di energia meno inquinanti.Gli Stati Uniti non sono a favore di un fondo vero e proprio: sostengono che siano più utili iniziative dirette di aiuto senza i vincoli che comporterebbe un’iniziativa collettiva, magari coordinata dalle Nazioni Unite. Il governo di Joe Biden ha in parte ammorbidito questa posizione, ma dalle trattative a Sharm el-Sheikh non sono emerse chiare dichiarazioni per un maggiore impegno.Conseguenze di un’alluvione a Sukkur, in Pakistan, nel 2010 (Daniel Berehulak/Getty Images)Dopo aver rimandato a lungo la questione, l’Unione Europea negli ultimi anni si è invece mostrata più aperta alla possibilità di istituire un fondo per gestire le compensazioni. La disponibilità è comunque vincolata alla partecipazione di altri grandi paesi all’iniziativa, a cominciare dalla Cina, uno dei più grandi produttori di anidride carbonica al mondo, proprio insieme a Stati Uniti e Unione Europea. Le richieste europee sono inoltre vincolate all’inserimento nel documento finale di chiari impegni sulla riduzione del consumo dei combustibili fossili e sul mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto degli 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale.1,5 °CAlla COP27 si è discusso molto anche del limite degli 1,5 °C, stabilito nell’accordo di Parigi sette anni fa come scenario auspicabile e preferibile a quello di un aumento di 2 °C. Alla COP26 si era deciso di mantenere l’obiettivo tra gli impegni, con una dichiarazione che indicava come questo fosse «vivo, ma con un battito molto debole». All’inizio della conferenza di quest’anno, il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, aveva utilizzato toni molto più allarmati e netti, dicendo che l’umanità è «su un’autostrada verso un inferno climatico con un piede sull’acceleratore».Molti esperti e osservatori ritengono che sia sempre più improbabile rispettare l’obiettivo di non superare gli 1,5 °C, considerato che il cambiamento climatico è ormai inevitabile e in corso. Al tempo stesso c’è la consapevolezza che qualsiasi iniziativa per ridurre il più possibile uno sforamento sia preziosa, visto che già solo un aumento di 2 °C avrebbe effetti molto gravi per molti ecosistemi, con una grande riduzione dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari al punto da rendere inabitabili ampie zone costiere e contemporaneamente l’inaridimento di molte aree coltivate, inducendo milioni di persone a migrare, perché le coste sono tra le zone più abitate del pianeta.La bozza del documento finale della COP27 su cui si stanno confrontando le delegazioni nelle ultime ore della conferenza non contiene riferimenti molto diversi rispetto all’accordo di Parigi in cui si parlava della necessità di rimanere «ben al di sotto» dei 2 °C e di impegnarsi il più possibile per tenersi sotto gli 1,5 °C. Una eccessiva enfasi nel documento sui 2 °C potrebbe portare alcuni paesi ad allentare le proprie politiche per ridurre la produzione di gas serra, con un ulteriore rallentamento verso l’obiettivo della “neutralità carbonica” o “emissioni zero”, per cui per ogni tonnellata di CO2 o di un altro gas serra che si diffonde nell’atmosfera se ne rimuove altrettanta.Groenlandia, 2021 (Mario Tama/Getty Images)Nella bozza del documento ci sono riferimenti che fanno intendere che i paesi industrializzati dovrebbero raggiungere le emissioni zero entro il 2030, invece del 2050 come stabilito da qualche anno. Appare però improbabile che simili riferimenti rimangano anche nella versione finale, considerato che già la scadenza del 2050 è vista dagli analisti come estremamente ottimistica. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) dell’ONU, le emissioni globali di gas serra dovrebbero essere ridotte del 45 per cento nel 2030, rispetto ai livelli del 2010.I paesi più scettici sulla possibilità di mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto gli 1,5 °C sono India e Cina, entrambi con un forte impatto sulle politiche ambientali, anche per l’influenza che hanno su altri paesi. Già prima dell’inizio della COP27 molti esperti avevano espresso preoccupazioni su una possibile revisione degli obiettivi legati all’aumento della temperatura.CinaCome da diversi anni alle conferenze sul clima, la Cina è stata tra i paesi osservati con più attenzione alla COP27. Negli anni della forte contrapposizione con Donald Trump, quando era presidente, i rapporti con gli Stati Uniti erano peggiorati sensibilmente e di conseguenza era diventato più difficile trovare politiche comuni contro il riscaldamento globale. Ora con Joe Biden i rapporti hanno iniziato a migliorare, come si è visto nel recente incontro tra il presidente statunitense e quello cinese Xi Jinping, ma mancano ancora piani condivisi che possano fare da modello anche per altri paesi.La stretta di mano tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente statunitense Joe Biden, prima del loro atteso incontro avvenuto oggi a Bali, in Indonesia, a margine del G20 (EPA/XINHUA /LI XUEREN)Da tempo gli Stati Uniti vorrebbero che la Cina non fosse più considerata un paese in via di sviluppo, e che può quindi contare su un trattamento di un certo tipo per quanto riguarda le emissioni, ma come un paese sostanzialmente sviluppato e con una forte economia. Secondo alcune previsioni, entro l’inizio dei prossimi anni Trenta la Cina potrebbe superare gli Stati Uniti per quanto riguarda le emissioni complessive di anidride carbonica storicamente prodotte dai due paesi. Una ridefinizione della Cina si riallaccia alla possibilità che il paese dia maggiori contributi al fondo per le compensazioni, come chiesto anche dall’Unione Europea. LEGGI TUTTO