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    Cosa succede al corpo di una persona che fa lo sciopero della fame

    Lo sciopero della fame è una forma di protesta non violenta spesso adottata da chi non ha altri strumenti e possibilità per protestare, come nel caso delle persone detenute. È una pratica che comporta gravi conseguenze per la salute, come dimostra il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, che ha iniziato il proprio sciopero della fame il 19 ottobre 2022 nel carcere di Sassari. In oltre tre mesi Cospito, che protesta contro le modalità della propria detenzione con il regime del 41-bis (il cosiddetto “carcere duro”) e per il rischio che la sua condanna a 20 anni di reclusione sia trasformata in ergastolo ostativo, ha perso più di 40 chilogrammi e negli ultimi giorni ha avuto un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni.Angelica Milia, la medica di fiducia di Cospito, nella sua ultima visita ha trovato il proprio assistito indebolito e incapace di rimanere in piedi, con la necessità di ricorrere a una sedia a rotelle. «L’ho trovato con una debolezza muscolare estrema dovuta alla sindrome da assenza di nutrizione, che lo porta a mantenere male la posizione eretta», spiega Milia. Nella sera di mercoledì 25 gennaio, Cospito ha perso conoscenza mentre stava facendo una doccia per provare a scaldarsi, è caduto a terra e ha battuto il viso contro il piatto della doccia rompendosi il naso. Milia ha detto che l’episodio potrebbe portare a ulteriori complicazioni, in una persona con uno stato di salute compromesso.Come per tutte le cose che interessano le condizioni fisiche, gli effetti dello sciopero della fame sono altamente soggettivi e riguardano le caratteristiche dei singoli e il contesto in cui mantengono questa forma di protesta. Per quanto possa essere organizzato e dotato di un’infermeria, il carcere non è tra i luoghi più sicuri per condurre uno sciopero della fame: a causa del lungo periodo di astinenza dal cibo, le condizioni di salute della persona interessata possono cambiare in brevissimo tempo, e potrebbero non essere presenti risorse e personale idonei a gestire un’emergenza sanitaria. Anche per questo motivo Flavio Rossi Albertini, l’avvocato di Cospito, ha chiesto che il proprio assistito sia spostato in un carcere che abbia una struttura ospedaliera adeguata, in modo da intervenire nel caso di peggioramenti repentini.Concretamente lo sciopero della fame consiste in un rifiuto totale dell’assunzione di cibo, che duri più giorni. Solo in alcuni e rari casi – e non è quello di Cospito – avviene contemporaneamente anche il rifiuto dell’acqua, astinenza che rende le prospettive di sopravvivenza assai più brevi. Talvolta le persone che fanno lo sciopero della fame assumono almeno per certi periodi degli integratori di vitamine e sali minerali, da sciogliere nell’acqua.Cospito ha da poco superato il centesimo giorno di sciopero della fame, un periodo molto lungo e ampiamente superiore ai due mesi indicati solitamente come il tempo massimo oltre il quale gli effetti per la salute sono maggiori e spesso irreversibili. Per le ragioni di soggettività cui accennavamo prima, non c’è un tempo di resistenza uguale per tutti e ci sono molte variabili da considerare. In linea di massima le persone in salute sviluppano più tardi complicazioni, così come le persone sovrappeso che hanno maggiori risorse cui l’organismo può attingere per mantenere le proprie attività, con minori danni per gli organi.Milia dice che la lunga resistenza di Cospito è in parte spiegata dalle condizioni di salute generalmente buone del suo assistito prima di ottobre, accompagnate dal sovrappeso: «all’inizio del digiuno, Cospito aveva un indice di massa corporea prossimo all’obesità, essendo alto 194 centimetri e avendo un peso di 114 chilogrammi. Ora però pesa meno di 75 chilogrammi e inizia a essere sottopeso. In letteratura scientifica ci sono indicazioni sui rischi che si corrono quando si perde circa il 50 per cento del peso corporeo, con danni che possono essere permanenti».Entro certi limiti, il nostro organismo è attrezzato per affrontare periodi di digiuno, mentre lo è molto meno per resistere a lungo senza acqua, necessaria per le funzioni del metabolismo e per i sali minerali. Facendo affidamento sulla caccia e la raccolta di vegetali che crescevano spontaneamente, per i primi esseri umani l’alimentazione era quasi sempre discontinua con periodi in cui l’accesso al cibo era molto limitato. Questa circostanza favorì probabilmente quegli individui che del tutto casualmente erano geneticamente meglio attrezzati per sopravvivere a prolungate fasi di digiuno, o comunque a periodi con apporti calorici estremamente ridotti.Tra i primi a studiare sistematicamente gli effetti del digiuno sul metabolismo ci fu il medico statunitense Geoerge F. Cahill, che negli anni Sessanta condusse esperimenti con alcuni volontari, che sospesero la propria alimentazione fino a 40 giorni. Cahill e il proprio gruppo di ricerca ebbero modo di verificare che cosa accade al nostro organismo durante un digiuno prolungato, e soprattutto di studiare da dove riesca a trarre le energie per sopravvivere.Per mantenere le proprie attività, il nostro organismo ha bisogno di molta energia: il cervello da solo ne consuma circa un quinto. La principale fonte di questa energia è il glucosio, tra i composti organici più diffusi in natura e importantissimo per la vita degli organismi. Viene ottenuto tramite l’alimentazione e consumato molto velocemente, tanto da non averne mai scorte significative cui attingere quando si smette di mangiare. Nei periodi di digiuno, o anche più semplicemente mentre dormiamo, l’organismo ottiene in parte le proprie energie dalla proteine che costituiscono la massa muscolare, con un processo che gli consente di disporre di altro glucosio nel breve termine. È un processo limitato, che evita che si consumino troppo i muscoli, essenziali per rimanere attivi e andare alla ricerca di nuovo cibo.Il minore apporto di energia, o la sua totale mancanza, viene compensato dalla trasformazione delle riserve di grasso, che è per propria natura altamente energetico. Mentre le proteine sotto forma di muscolo sono molto importanti per il mantenimento di varie funzioni, il grasso può essere sacrificato per produrre energia senza particolari conseguenze. Il grasso viene trasformato (chetogenesi) in “corpi chetonici”, composti che vengono sintetizzati dalle cellule del fegato e che permettono di ridurre il consumo di proteine per la produzione di glucosio, fornendo comunque una fonte di energia.In generale, i livelli di corpi chetonici nel sangue aumentano ad alcune ore di distanza dall’avvio del digiuno. La loro concentrazione diventa ancora più grande nel caso in cui il digiuno diventi prolungato e duri per svariati giorni. Anche il sistema nervoso centrale, che comprende il cervello, utilizza i corpi chetonici come forma di energia e per diverso tempo riesce a compensare e a funzionare senza particolari difficoltà.La chetogenesi è uno dei processi fondamentali per garantire la nostra sopravvivenza nei periodi prolungati di digiuno, o più semplicemente quando seguiamo particolari tipi di diete per perdere peso. Basandosi sulla trasformazione dei grassi, ne deriva che una persona molto sovrappeso od obesa possa digiunare più a lungo rispetto a una persona normopeso, come nel caso di Cospito.La perdita di grasso avviene più rapidamente rispetto a quella della massa muscolare, che comunque in minima parte continua a verificarsi e a rendere più difficile il lavoro di alcuni organi. Ma le risorse di grasso non sono comunque infinite. Quando terminano, il ricorso alla massa muscolare per la produzione di energia aumenta, spiega Milia: «Terminate le scorte di tessuto adiposo, si avvia quella che in sostanza è un’“autodigestione” che interessa in maniera crescente non solo i muscoli, ma vari organi come l’intestino e il fegato».Riuscire a sopravvivere a lungo senza nutrirsi non implica che nel frattempo non avvengano altri processi dannosi per la salute. Dopo un paio di settimane dall’inizio del digiuno si possono accusare fasi in cui si avvertono debolezza e un certo stordimento, accompagnato dalla difficoltà a rimanere in piedi e a compiere attività fisiche non necessariamente impegnative, come camminare.A un mese dall’inizio del digiuno, o nel momento in cui si perde circa un quinto della propria massa corporea, i problemi neurologici aumentano a causa della mancanza di alcune vitamine che deriviamo dall’alimentazione. Si manifestano le prime difficoltà motorie perché il sistema nervoso non riesce a gestire correttamente i segnali, si possono avere problemi di vista e di udito. Il fegato è sottoposto a un forte stress, legato al processo di trasformazione dei grassi, e i reni faticano a ripulire il sangue.Dopo due mesi o una perdita ancora consistente di peso, possono subentrare numerose altre complicazioni, come mostra anche il caso di Alfredo Cospito che ha ormai raggiunto il terzo mese di sciopero della fame. Il normale metabolismo viene compromesso e risultano meno efficienti i processi di termoregolazione, cioè la capacità di regolare la temperatura corporea. Semplificando, la fonte principale del calore prodotto dal corpo umano è il lavoro svolto dalle cellule, la cui attività rallenta in una fase di lunga e prolungata astinenza dal cibo.Il risultato è una sensazione costante di freddo, accompagnata da brividi e tremori. Milia ha detto che Cospito riferisce di non riuscire a placare la sensazione di freddo nemmeno utilizzando più strati di abiti. Non è chiaro se ci siano possibilità di aumentare la temperatura nella cella per ridurre il problema. Per questo motivo il 25 gennaio Cospito aveva provato a farsi una doccia provando a scaldarsi. Dopo avere perso i sensi ed essere caduto fratturandosi il naso, era stato temporaneamente portato in pronto soccorso per ricevere le prime cure di emergenza e bloccare la perdita di sangue.Molte settimane di digiuno causano inoltre problemi nella produzione delle proteine del sangue, che hanno un ruolo molto importante per numerose funzioni legate al sistema immunitario, ma anche alla stessa capacità del sangue di coagularsi. La minore produzione non è dovuta solamente alla mancanza delle sostanze necessarie per produrle, ma anche all’attività di recupero di glucosio partendo dalle proteine. Milia dice che Cospito ha da diversi giorni problemi di questo tipo, con una forte riduzione delle cellule del sistema immunitario, che non ha le risorse necessarie per il proprio funzionamento.Dall’alimentazione otteniamo inoltre importanti minerali come il sodio, tra i più abbondanti nel nostro organismo: in una persona adulta sono presenti nel sangue, nel tessuto osseo, in quello cartilagineo e nei tessuti connettivi circa 90 grammi di questa sostanza. Una parte consistente è diffusa soprattutto nei liquidi extracellulari e ha un ruolo molto importante per regolare il passaggio dei nutrienti all’interno e all’esterno delle cellule.Insieme ad altre sostanze, il sodio contribuisce inoltre alla trasmissione degli impulsi nervosi. Una forte carenza, derivante da un lungo digiuno, compromette queste funzionalità e può portare a rischi di vario tipo, compresi quelli di sviluppare edemi cerebrali, cioè un accumulo di liquidi in parte del cervello che ostacola il flusso sanguigno e di conseguenza l’ossigenazione dei neuroni, con danni potenzialmente molto gravi. Nelle visite effettuate negli ultimi giorni, Milia ha riscontrato una sensibile riduzione dei livelli di sodio di Cospito.Ci sono vari altri minerali che deriviamo dall’alimentazione e che sono essenziali per il buon funzionamento dell’organismo, come il potassio presente in frutta, verdura e legumi. Contribuisce al funzionamento dei muscoli, compreso il cuore, e ha un importante ruolo nel regolare la pressione sanguigna, contrastando gli effetti del sodio. Bassi livelli di potassio fanno aumentare il rischio di soffrire di malattie cardiovascolari, oltre che comportare debolezza muscolare e una generale sensazione di malessere.La somma di tutte queste circostanze ha effetti sulle capacità cognitive, con amnesie a breve termine e più in generale conseguenze sulle condizioni psicologiche di chi sta facendo lo sciopero della fame. Compatibilmente con la situazione, Milia segnala che per ora Cospito mantiene comunque buona parte delle proprie capacità mentali: «Fondamentalmente parla in maniera spedita, non si riscontrano deficit, anche se riferisce di avere ogni tanto qualche amnesia a breve termine». Ha però smesso di assumere alcuni integratori di minerali che gli erano stati consigliati, con l’aggiunta di ulteriori rischi per la sua salute ormai precaria.Oggi la Corte di Cassazione ha anticipato al 7 marzo l’udienza sul ricorso di Cospito, richiesta per non essere più sottoposto al regime del 41-bis, rispetto alla data prevista in precedenza del 20 aprile. Milia aveva ipotizzato che per quel giorno Cospito non sarebbe più stato in vita. La nuova data dell’udienza è stata comunque ritenuta troppo avanti nel tempo, considerate le attuali condizioni di Cospito. Fare previsioni sull’evoluzione dello stato di salute di una persona che si è sottoposta a un digiuno di mesi è pressoché impossibile, perché può essere sufficiente un’infezione imprevista, un evento traumatico o l’ulteriore sbilanciamento di alcuni valori per determinare un peggioramento improvviso.Il processo di recupero di energie dagli organi stessi di Cospito è ciò che viene osservato con più attenzione da Milia: «È pericoloso perché può via via intaccare i muscoli respiratori, che sono responsabili del riempimento e dello svuotamento dei polmoni. Il loro indebolimento può portare a una insufficienza respiratoria grave e alla morte». LEGGI TUTTO

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    Un altro fallimento per i vaccini contro l’HIV

    Caricamento playerL’unica sperimentazione avanzata (“fase 3”) ancora in corso di un vaccino contro l’HIV è stata terminata in seguito ai risultati deludenti ottenuti nei test clinici, segnando un nuovo fallimento nello sviluppo dei vaccini contro il virus collegato all’AIDS. Janssen, la divisione della società Johnson & Johnson che si occupa di vaccini, ha annunciato questa settimana l’interruzione della sperimentazione che stava coinvolgendo 3.900 volontari tra Nord America, Sud America ed Europa e una 50ina di centri per la somministrazione e il controllo del trattamento.Il risultato negativo si aggiunge a quello di altre decine di vaccini sperimentali contro l’HIV sviluppati negli ultimi decenni e che sono stati poi scartati. Vari osservatori ritengono che il nuovo esito porti indietro la ricerca di tre-cinque anni, considerato che nuovi vaccini sono ancora in fase di sviluppo e passerà del tempo prima dell’avvio dei test clinici per verificarne sicurezza ed efficacia.Il test clinico ora interrotto si chiamava Mosaico ed era stato avviato nel 2019, utilizzando un particolare vaccino che conteneva una varietà (un “mosaico”, appunto) di componenti contro alcuni sottotipi di HIV, tra i più diffusi e riscontrati nella maggior parte dei contagi. Dai test era però emerso che la somministrazione non portava a una risposta immunitaria adeguata, soprattutto per quanto riguarda la produzione di anticorpi neutralizzanti, importanti nel rendere innocuo un determinato patogeno, come un virus.L’analisi dei dati preliminari aveva indotto il gruppo di controllo indipendente sul test clinico a dichiarare sicuro il vaccino, ma non in grado di prevenire più infezioni da HIV di quanto facesse una sostanza che non fa nulla (placebo). Di conseguenza era stata consigliata l’interruzione del test clinico per motivi etici e pratici. Qualcosa di analogo era successo nel 2021 con un altro studio sul vaccino, effettuato in alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana.Almeno in un primo momento, Mosaico sembrava essere diretto verso risultati più promettenti visti i dati raccolti nelle precedenti fasi della sperimentazione (“fase 1” e “fase 2”), che avevano coinvolto un minor numero di persone e il cui obiettivo principale era verificare la sicurezza del sistema. In precedenza, almeno altri cinque vaccini sperimentali contro l’HIV non avevano dato i risultati sperati in nove test clinici che avevano raggiunto la “fase 3”, a conferma di quanto sia difficile sviluppare un vaccino atteso da molto tempo.Quando l’HIV fu identificato per la prima volta come la causa dell’AIDS, nei primi anni Ottanta, si pensò che un vaccino contro il virus potesse essere realizzato in tempi relativamente brevi, come del resto era avvenuto per diverse altre malattie nei decenni precedenti. Furono però sufficienti alcuni anni perché diventasse evidente quanto fosse difficile riuscirci. L’HIV tende a mutare velocemente, eludendo le difese immunitarie del nostro organismo e rendendo difficile l’impiego di un vaccino, specialmente se questo è calibrato su alcune specifiche caratteristiche del virus. Inoltre, l’HIV ha numerosi sottotipi e crea delle “riserve” nell’organismo, che possono rimanere inattive per anni senza che si manifesti l’AIDS.– Leggi anche: Cosa significa avere l’HIV oggiSi stima che ogni anno l’HIV infetti circa 1,5 milioni di persone e causi 650mila morti. Dall’inizio dell’epidemia di AIDS secondo le stime più condivise sono morti oltre 75 milioni di persone, soprattutto nei paesi economicamente meno avanzati, dove è più difficile ottenere cure adeguate per tenere sotto controllo la malattia e non c’è sempre grande consapevolezza sulla prevenzione. Alcuni tipi di farmaci come quelli antivirali impediscono al virus di continuare a moltiplicarsi nelle persone che lo hanno contratto. Alcuni trattamenti consistono nell’assunzione periodica di pillole o nel sottoporsi a iniezioni e trasfusioni. Non essendoci cura, il trattamento deve essere effettuato per tutta la vita e in alcuni soggetti può comportare effetti avversi, sia nel breve sia nel lungo periodo.Oltre a ridurre i rischi di infezione, un vaccino efficace contro l’HIV costituirebbe un importante beneficio per i paesi dove i trattamenti non sono accessibili perché troppo cari, o dove non possono essere effettuati seguendo in maniera adeguata i pazienti. L’interesse verso un vaccino rimane quindi alto, anche se il nuovo risultato negativo avrà ripercussioni sullo sviluppo di nuove soluzioni.– Leggi anche: Dobbiamo parlare diversamente di HIVVari esperti hanno iniziato a chiedersi se sia necessario un cambiamento di approccio, partendo proprio dal ripensare tecniche e modalità per indurre un’adeguata risposta immunitaria. Un nuovo ambito che potrebbe offrire qualche risultato promettente deriva dai vaccini a RNA messaggero, come quelli utilizzati contro il coronavirus in questi anni di pandemia. Alcune sperimentazioni sono già in corso, ma si dovrà ancora attendere per l’avvio dei test clinici, che a loro volta richiederanno diverso tempo prima di poter verificare l’efficacia del nuovo approccio. LEGGI TUTTO

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    Dovremmo vietare i fornelli a gas?

    Caricamento playerDa qualche settimana negli Stati Uniti si sta discutendo molto di fornelli a gas, della loro sicurezza e dei potenziali rischi che comportano per la salute. Il confronto è nato in seguito ad alcune dichiarazioni di Richard Trumka, un membro della Commissione che si occupa della sicurezza dei prodotti di largo consumo, che ha ipotizzato l’adozione di nuove regole per i sistemi di cottura a gas, che sono presenti nel 35 per cento circa delle abitazioni statunitensi.Le opinioni di Trumka, espresse a livello personale, sono circolate molto sui social network, finendo nel dibattito politico e generando qualche confusione. Negli Stati Uniti non è prevista una imminente messa al bando dei piani a cottura a gas, ma la vicenda ha contribuito a rendere attuale e discusso un argomento su cui da tempo si confrontano ricercatori e medici.Eredi delle stufe a legna e a carbone, i fornelli a gas iniziarono ad affermarsi in Inghilterra negli ultimi decenni dell’Ottocento, complice la progressiva diffusione dei gasdotti che raggiungevano le abitazioni e gli edifici commerciali. Furono poi necessari diversi decenni prima che diventassero comuni in Europa e negli Stati Uniti, dove per ragioni di distanza e difficoltà nel costruire gasdotti molto estesi sarebbero poi prevalsi altri sistemi, come i fornelli elettrici o le vecchie stufe. Oggi le cucine a gas continuano a essere molto diffuse in Europa, in particolare nei paesi dell’est. Si stima che più del 30 per cento dell’energia utilizzata nell’Unione Europea per cuocere gli alimenti derivi dal gas naturale. Il largo utilizzo ha fatto sì che nel tempo ne siano state analizzate le caratteristiche per capire se i fornelli a gas siano nocivi per chi li utilizza normalmente.Oltre all’anidride carbonica, i prodotti derivanti dalla combustione del gas comprendono il diossido di azoto (NO2) e polveri sottili, sostanze che si possono trovare anche nei gas di scarico del traffico veicolare. Nelle proprie linee guida più recenti, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha indicato 10 microgrammi di NO2 per metro cubo come limite per la qualità dell’aria. In una cucina si sviluppa una concentrazione di NO2 molto più alta quando si utilizzano i fornelli a gas, ma è comunque difficile determinare se questa condizione abbia conseguenze concrete per la salute.Nell’aprile del 2022 un gruppo di ricerca aveva pubblicato i risultati di uno studio effettuato su 5mila abitazioni per rilevare e analizzare le sostanze inquinanti presenti in casa. Nelle abitazioni dove erano presenti fornelli a gas, e in cui non c’erano cappe aspiranti, era stata osservata una maggiore incidenza di persone con problemi respiratori e quantità più alte nel sangue dei marcatori associati a infiammazioni (ciò non implica necessariamente che si sviluppino poi particolari malattie).Altri studi si erano concentrati sulle cucine professionali, come quelle dei ristoranti, dove alcune variabili possono essere tenute più facilmente sotto controllo, essendoci norme e regole di sicurezza. Anche queste ricerche avevano rilevato la presenza di problemi respiratori in maggiori quantità nelle cucine che utilizzavano il gas, rispetto a quelle che impiegavano piastre elettriche o a induzione.Ci sono invece elementi un poco più chiari su possibili legami tra l’inalazione di sostanze come il NO2 e l’asma infantile, i cui sintomi tendono a peggiorare. Tra le numerose ricerche che se ne sono occupate, una pubblicata alla fine del 2022 e svolta negli Stati Uniti ha ottenuto grande attenzione ed è una delle cause del recente dibattito statunitense sui fornelli a gas. Il gruppo di ricerca ha calcolato la quantità di persone sotto i 18 anni che vivono in abitazioni dove si utilizzano piani cottura di quel tipo, concludendo che il 12,7 per cento dei casi di asma infantile possano essere attribuiti alla presenza di fornelli a gas nelle abitazioni.Secondo lo studio, passando a piani cottura di altro tipo si potrebbero ridurre di un quinto i casi di asma infantile in numerosi luoghi degli Stati Uniti dove sono più diffusi i fornelli a gas come l’Illinois, la California e lo stato di New York. La ricerca ha ricevuto grandi attenzioni e qualche titolo sensazionalistico, ma come spiegano gli stessi autori ci sono molti elementi da approfondire per valutare eventuali impatti e, di conseguenza, studiare le strategie per ridurre il problema.Intervistato da Bloomberg Trumka, il commissario statunitense, ha espresso opinioni alquanto nette sui fornelli: «Sono un pericolo nascosto. Non escludiamo nessuna possibilità. I prodotti che non possono diventare sicuri possono essere vietati». Lo scorso ottobre Trumka aveva provato a impegnare la Commissione a scrivere nuove regole per i fornelli a gas, senza però ottenere l’assenso da parte degli altri quattro commissari. La Commissione di cui fa parte Trumka è indipendente e la presidenza degli Stati Uniti ha chiarito che non ci sono piani per vietare i fornelli a gas.Nonostante le smentite, vari esponenti politici soprattutto tra i Repubblicani hanno mostrato una certa inquietudine per le dichiarazioni di Trumka, così come vari portatori d’interessi legati ai combustibili fossili. Il presidente dell’American Petroleum Institute, Mike Sommers, ha detto che non ci potrà essere un divieto e che eventuali restrizioni sarebbero male accolte dalla popolazione: «le persone amano i loro fornelli».Ultimamente alcuni stati e amministrazioni statunitensi hanno intanto introdotto limitazioni all’impiego dei fornelli a gas, richiedendo che gli edifici di nuova costruzione non siano collegati ai gasdotti. La legge sull’inflazione proposta da Biden e approvata dal Congresso la scorsa estate, che contiene moltissime voci per la transizione ecologica, prevede finanziamenti e incentivi per chi passa a piani cottura elettrici e che non utilizzano il gas, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra.In Europa, dove i riscaldamenti e i fornelli a gas sono molto più diffusi, il dibattito è passato finora sotto traccia, senza avere grande riscontri né da parte della politica né della popolazione. Solo alcuni paesi hanno avviato iniziative legate a ridurre la propria dipendenza dal gas naturale, sia per motivi ambientali, sia economici e di salute pubblica. Come in parte degli Stati Uniti, anche in Danimarca e nei Paesi Bassi ci sono limitazioni per i collegamenti alla rete del gas delle case di nuova costruzione, mentre altri paesi hanno in programma piani simili.In seguito all’invasione russa dell’Ucraina e alla conseguente crisi energetica, lo scorso anno la Commissione Europea ha intensificato i propri piani per ridurre la dipendenza dal gas naturale, in particolare da quello russo. Le motivazioni sono sia economiche sia ambientali, considerato l’impatto ambientale derivante dalla combustione del gas, mentre non ne sono state presentate di natura sanitaria.I regolamenti dell’Unione Europea prevedono già numerose norme per i produttori di fornelli a gas, compresi requisiti minimi sulla loro sicurezza. Per esempio, «gli apparecchi vanno progettati e fabbricati in modo che, se usati normalmente, il processo di combustione sia stabile e i prodotti della combustione non contengano concentrazioni inaccettabili di sostanze nocive alla salute». I rischi non sono comunque legati alla sola combustione. Fornelli mal funzionanti o con guarnizioni usurate possono portare a microperdite di gas, difficili da rilevare, ma che possono comunque essere inalate e per lunghi periodi di tempo.La Commissione è al lavoro per introdurre nuove regole sulle emissioni nocive, ma al momento non si è parlato esplicitamente di fornelli a gas. Come negli Stati Uniti, un passaggio ai piani cottura elettrici e a induzione potrebbe incontrare resistenze, specialmente nei paesi dove l’impiego domestico del gas naturale è molto diffuso sia per il riscaldamento sia per la cottura degli alimenti. L’abbandono dei fornelli a gas comporterebbe inoltre un maggiore consumo di energia elettrica e non tutti i paesi europei sarebbero da subito attrezzati per rispondere adeguatamente alla maggiore richiesta. LEGGI TUTTO

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    Perché andarci cauti sul nuovo farmaco contro l’Alzheimer

    Il lecanemab, un nuovo farmaco sperimentale contro il morbo di Alzheimer, ha fatto registrare risultati incoraggianti nel trattare la malattia, secondo gli attesi risultati di un test clinico da poco presentati da Eisai e Biogen, le due aziende che lo hanno sviluppato. Il farmaco sembra abbia rallentato l’evoluzione dei problemi cognitivi dei pazienti nelle prime fasi della malattia, ma ha anche comportato effetti avversi come accumulo di fluidi nel cervello ed emorragia cerebrale. I risultati sono stati comunicati con toni molto positivi dalle due aziende, ma numerosi esperti invitano alla cautela e ricordano che saranno necessari ulteriori approfondimenti sull’efficacia e la sicurezza del lecanemab.Attualmente i farmaci disponibili cercano di trattare i sintomi dell’Alzheimer, ma non sono molto efficaci contro la malattia, soprattutto nelle sue forme più avanzate. Per questo da tempo vari gruppi di ricerca sono al lavoro per provare a intervenire sulle cause della malattia – che non sono però ancora completamente chiare – per farla progredire più lentamente.Le ricerche si sono concentrate sulla betamiloide, una proteina che causa un accumulo di placche nei neuroni (le cellule del cervello) rendendoli via via meno reattivi e funzionali. Questa proteina è sospettata di essere una, se non la principale, causa dell’Alzheimer, ma tenerla sotto controllo è molto difficile e ci sono ancora dubbi sul suo ruolo nella malattia. I farmaci come il lecanemab non hanno quindi l’obiettivo di curare l’Alzheimer né di ridurre gli effetti che si sono ormai manifestati, per esempio con un perdita notevole delle capacità cognitive di una persona malata.Un rapporto sullo studio clinico del nuovo principio attivo è stato pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine, con informazioni sui dati raccolti in 18 mesi di sperimentazione. Secondo gli autori, la somministrazione del farmaco ha comportato un «minore declino nelle misurazioni delle capacità cognitive e funzionali» rispetto ai partecipanti che avevano ricevuto un farmaco che non fa nulla (placebo).La sperimentazione ha riguardato 1.800 persone con sintomi lievi di Alzheimer, in modo da verificare l’efficacia del trattamento nelle prime fasi della malattia. Il gruppo di ricerca ha segnalato che i pazienti che avevano ricevuto il lecanemab avevano fatto rilevare un declino delle capacità cognitive del 27 per cento più lento rispetto ai pazienti con placebo; nella scala per valutare l’andamento delle capacità cognitive equivale a circa 0,45 punti su 18 complessivi.È la prima volta in cui una sperimentazione clinica con un farmaco contro la betamiloide indica un rallentamento del declino cognitivo: la riduzione è però poco marcata e di conseguenza medici ed esperti si chiedono se possa essere sufficiente per essere notata dai pazienti e dai loro cari. La differenza rispetto al placebo non è inoltre molto significativa, di conseguenza ci si chiede se trattamenti di questo tipo, che possono costare decine di migliaia di dollari, portino a benefici significativi dal punto di vista clinico.Nella valutazione dei benefici del farmaco deve essere inoltre compresa un’analisi del rischio di eventuali effetti avversi. Nel rapporto da poco pubblicato sono segnalati sei decessi tra le 898 persone che avevano ricevuto il lecanemab e sette morti tra i pazienti che invece avevano ricevuto un placebo. Nessun decesso è stato considerato riconducibile alla somministrazione del lecanemab o a episodi di emorragia o edema cerebrale, che può verificarsi con i farmaci che intervengono sulla betamiloide.Negli ultimi mesi tra gli addetti ai lavori si era però parlato molto del lecanemab in seguito alla notizia della morte di due pazienti per edema ed emorragia cerebrale. Entrambi i decessi erano avvenuti al di fuori del periodo di 18 mesi della sperimentazione clinica e per questo non sono inseriti nel rapporto da poco pubblicato. Non è inoltre noto se le persone coinvolte avessero assunto il farmaco vero e proprio o il placebo durante la sperimentazione, anche se allo scadere dei 18 mesi avevano entrambe scelto di ricevere il farmaco vero e proprio, partecipando a un’estensione dello studio clinico (una pratica che si fa spesso per raccogliere maggiori dati sulla efficacia e la sicurezza di un trattamento).Una delle due persone decedute era un uomo ultra ottantenne che assumeva da tempo anticoagulanti per fluidificare il sangue per tenere sotto controllo alcuni problemi cardiaci. Prima della morte si era infortunato in seguito a varie cadute e aveva avuto un attacco ischemico transitorio (TIA, un ictus di intensità e durata modesta) poco prima di morire. L’altra paziente era una donna di 65 anni che aveva avuto un ictus trattato con anticoagulanti, prima di avere una forte emorragia cerebrale che ne aveva poi causato la morte. Secondo l’autopsia, il lecanemab aveva probabilmente indebolito alcuni vasi sanguigni che non avevano poi retto alla terapia anticoagulante.Eisai aveva diffuso un comunicato citando alcune analisi condotte sulla storia clinica dei due pazienti, concludendo che le morti non potessero essere attribuite all’assunzione di lecanemab, conclusioni che sono state accolte con perplessità da vari esperti. Nel test clinico, il 13 per cento dei pazienti trattati con lecanemab aveva avuto edemi cerebrali lievi o moderati a seconda dei casi, rispetto al 2 per cento tra chi aveva assunto il placebo. Nella maggior parte dei casi gli edemi non avevano comunque portato a particolari sintomi e si erano risolti dopo qualche mese. L’emorragia cerebrale aveva invece interessato il 17 per cento dei pazienti, rispetto al 9 per cento di chi aveva ricevuto il placebo.Gli eventi avversi più gravi avevano interessato il 14 per cento dei pazienti con lecanemab e l’11 per cento nel gruppo del placebo. Poco meno del 7 per cento dei partecipanti alla sperimentazione con il farmaco vero e proprio aveva abbandonato il test a causa degli effetti avversi, circa il doppio rispetto ai pazienti cui era stato somministrato il placebo. Dopo l’infusione intravenosa, che viene effettuata ogni due settimane, alcuni pazienti avevano segnalato sintomi simili a quelli influenzali, diminuiti nel corso del trattamento con le infusioni successive.A inizio 2023 la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di farmaci, dovrà decidere se concedere un percorso di approvazione accelerato per il lecanemab, in modo da renderlo disponibile velocemente ai pazienti. In questo caso Eisai e Biogen dovranno procedere con ulteriori test clinici per dimostrare i benefici del farmaco, in modo da ricevere le autorizzazioni necessarie.Il processo di approvazione potrebbe essere simile a quello dell’aducanumab (il cui nome commerciale è Aduhelm), approvato dalla FDA nel giugno del 2021 e che non ha portato ai risultati sperati. Già all’epoca l’approvazione era stata accompagnata da molti dubbi sulla sua efficacia e sulle stesse modalità con cui era stato approvato, nonostante la mancanza di elementi convincenti su efficacia e rischi. A un anno e mezzo dalla sua approvazione, l’aducanumab è poco impiegato e potrebbe finire nella lunga lista di farmaci sviluppati con enormi investimenti e che hanno poi portato a risultati deludenti.Le principali aziende farmaceutiche investono ogni anno l’equivalente di centinaia di milioni di euro per sviluppare e testare nuove molecole, alla ricerca dei candidati più promettenti per ottenere farmaci di nuova generazione efficaci contro l’Alzheimer. In 20 anni di ricerca, nonostante le numerose innovazioni e la disponibilità di nuove scoperte, non sono emersi farmaci che abbiano costituito un punto di svolta per tenere sotto controllo la malattia, che si manifesta solitamente dopo i 65 anni con sintomi precoci come l’incapacità di ricordare eventi recenti. I sintomi peggiorano con l’avanzare dell’età, con disorientamento, cambi d’umore repentini, depressione e una crescente difficoltà nel ricordare. LEGGI TUTTO

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    Ascesa e declino degli spermatozoi

    Caricamento playerSecondo una nuova analisi condotta in Israele e negli Stati Uniti, gli uomini hanno sempre meno spermatozoi a conferma di un fenomeno che era già stato rilevato in un grande e discusso studio pubblicato nel 2017. Tra il 1973 e il 2018 in media la quantità di spermatozoi nello sperma umano si è più che dimezzata riducendosi dell’1 per cento circa ogni anno fino al 2000, quando si è iniziata a registrare una riduzione annuale ancora più marcata, di oltre il 2,6 per cento.La nuova analisi, pubblicata questa settimana sulla rivista scientifica Human Reproduction Update, è basata sui dati provenienti da 53 paesi del Sudamerica, dell’Asia e dell’Africa, aree geografiche per le quali non c’erano molti dati per il precedente studio pubblicato nel 2017. Secondo il gruppo di ricerca, la riduzione di spermatozoi in quelle parti del mondo è comparabile a quella che era stata rilevata in Europa, Australia e nel Nord America. Lo studio non esamina le cause di questa riduzione, ma porta nuovi dati importanti per dare una dimensione al fenomeno, esplorato da oltre 50 anni.Il liquido seminale, o sperma, è composto da varie sostanze che favoriscono il mantenimento e i movimenti degli spermatozoi, le cellule gametiche maschili che hanno il compito di raggiungere l’ovulo (gamete femminile) e di fecondarlo, innescando il processo che porta alla gravidanza.A ogni eiaculazione, un uomo adulto produce tra gli 1,5 e i 5 millilitri di sperma con una concentrazione di spermatozoi per millilitro che varia molto, a seconda delle condizioni di ogni soggetto: l’Organizzazione mondiale della sanità indica come normali i valori superiori ai 15 milioni di spermatozoi per millilitro. Una quantità ridotta di spermatozoi può influire sulle capacità di fecondazione, anche se non devono essere esclusi altri fattori come la capacità dei singoli spermatozoi di muoversi, e di farlo con una velocità sufficiente per raggiungere l’ovulo.I primi studi che segnalavano una riduzione degli spermatozoi furono pubblicati tra gli anni Settanta e Ottanta, ma all’epoca non era ancora molto chiara la portata del fenomeno. Nella comunità scientifica si discusse molto sui risultati di quelle ricerche, anche perché altri studi non avevano rilevato particolari declini o una generale riduzione della qualità dello sperma. Non esistevano inoltre standard condivisi per valutare la dimensione del problema, e proprio per questo l’Organizzazione mondiale della sanità avviò alcune iniziative, in modo da trovare riferimenti comuni per gli studi sull’infertilità maschile.Grazie al maggior coordinamento tra i ricercatori e ad alcuni importanti progressi nei sistemi di analisi, a partire dagli anni Novanta furono pubblicate ricerche più approfondite e affidabili, che segnalavano una riduzione nella concentrazione di spermatozoi. Uno dei lavori più importanti fu pubblicato in Danimarca nel 1992 e mise a confronto i principali studi sul tema prodotti fino ad allora, concludendo che nei 50 anni precedenti ci fosse stata una sensibile riduzione di spermatozoi e quantità di sperma prodotto. L’analisi portò a un’ampia serie di nuove ricerche, non solo sul funzionamento dell’apparato riproduttivo maschile, ma anche sulle implicazioni psicologiche e sociali di una fertilità in declino.Nel 2017 una meta analisi, cioè una analisi di numerosi studi sul tema pubblicati negli anni condotta presso l’Università ebraica di Gerusalemme, rilevò una riduzione del 52,4 per cento nella concentrazione di spermatozoi e del 59,3 per cento nella quantità di spermatozoi tra il 1973 e il 2011. Analisi pubblicate in seguito da altri centri di ricerca avrebbero portato a dati simili, in alcuni casi con percentuali più basse, a conferma del fenomeno. Anche lo studio da poco pubblicato sui paesi del Sudamerica, dell’Asia e dell’Africa ha confermato la riduzione degli spermatozoi.(Hagai Levine et al., Human Reproduction Update)In tempi recenti altri studi si sono dedicati all’analisi della motilità degli spermatozoi, che come abbiamo visto è un altro fattore importante per la fertilità. Uno studio pubblicato nel 2019 aveva rilevato che la quantità di uomini con una normale motilità degli spermatozoi si era ridotta del 10 per cento rispetto a 16 anni prima. Nel complesso, la maggioranza degli studi segnala quindi che gli uomini di oggi producono meno spermatozoi rispetto a un tempo, e che questi sono nel complesso meno in salute.L’argomento viene ripreso periodicamente da giornali e televisioni, spesso con titoli allarmistici, nonostante a oggi non siano chiare né le cause né le implicazioni di questa cosiddetta “crisi dell’infertilità maschile”. Negli anni sono state pubblicate molte ricerche per esplorare le possibili cause, alcune si sono concentrate su fattori di rischio per la salute come l’obesità e il diabete, altre sugli stili di vita e l’esposizione a particolari sostanze.È noto da tempo che alcune di queste possono causare sbilanciamenti ormonali, che comportano poi conseguenze per la fertilità. I loro effetti sono stati riscontrati in laboratorio sugli animali, mentre è più difficile valutarli sugli esseri umani non potendo condurre esperimenti in cui vengono esposti a quelle sostanze. I gruppi di ricerca possono comunque trovare qualche indizio analizzando le sostanze presenti negli ambienti in cui vivono le persone che sono poi sottoposte ai test per la fertilità. Non è una scienza esatta, ma permette di raccogliere elementi importanti.Le analisi si concentrano spesso sugli “interferenti endocrini”, molecole che possono avere effetti simili agli ormoni che regolano varie funzionalità del nostro organismo, comprese quelle legate alla riproduzione. Ce ne sono moltissimi negli oggetti e talvolta negli alimenti con cui siamo in contatto ogni giorno, per questo il loro utilizzo è regolamentato e viene tenuto sotto controllo per limitare i rischi. Non potendone stimare con certezza gli effetti, le autorità sanitarie e i governi adottano spesso principi di precauzione, limitando entro determinate soglie le quantità delle sostanze ritenute a rischio. Anche l’inquinamento atmosferico, dovuto soprattutto alle attività umane, può avere conseguenze sul nostro organismo e sulla fertilità.L’eccessivo consumo di alcol, il fumo, la scarsa attività fisica e in generale gli stili di vita poco sani possono influire sulla riduzione degli spermatozoi. L’obesità è un fattore di rischio spesso trascurato, nonostante nelle società più sviluppate sia una condizione che interessa porzioni importanti della popolazione.Gli studi sui problemi di fertilità maschile sono ancora molto dibattuti, soprattutto perché al momento non sono stati riscontrati importanti effetti sulla natalità riconducibili a questo problema. Nonostante il sensibile declino riscontrato dalle analisi più estese, in termini assoluti la concentrazione degli spermatozoi rimane comunque superiore ai 15 milioni per millilitro indicati dall’OMS, che però in precedenza indicava la soglia in 20 milioni. LEGGI TUTTO