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    Qual è la posizione migliore per dormire?

    All’inizio del secondo capitolo dei Promessi sposi, Alessandro Manzoni scrive che «il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi», una delle battaglie più importanti della Guerra dei trent’anni tra Francia e Spagna nel Seicento. L’autore ricorda che il principe riuscì a dormire nonostante lo attendesse una battaglia decisiva perché «in primo luogo, era molto affaticato» e perché aveva già «stabilito ciò che dovesse fare, la mattina», mentre non fornisce informazioni sulla posizione che Condè mantenne a letto. A dirla tutta, anche se Manzoni ce lo avesse raccontato, ce ne saremmo fatti ben poco: a oggi non c’è infatti un consenso unanime sulla posizione migliore per dormire.Studiare il modo in cui le persone dormono non è semplice: non si possono ricostruire fedelmente in laboratorio le condizioni in cui normalmente una persona riposa come a casa propria, i sensori da indossare per tenere traccia dei movimenti a letto possono turbare il sonno e le persone in generale non sono molto affidabili nel raccontare le loro abitudini notturne. I vari gruppi di ricerca che se ne sono occupati hanno dovuto quindi confrontarsi con questi problemi e ciò spiega, almeno in parte, perché non si trovino molte ricerche solide nella letteratura scientifica.
    La posizione più usataLa pratica più semplice, ma non sempre affidabile, consiste nel chiedere a un gruppo selezionato di persone quali posizioni assumono di preferenza a letto quando si mettono a dormire. È un approccio che può offrire molti spunti, ma ha un grande difetto: mentre quasi tutti si ricordano l’ultima posizione prima di addormentarsi, nessuno ha davvero consapevolezza di quali posizioni assuma nel corso della notte, quando subentra l’alterazione della coscienza. Alcuni dicono di avere un vago ricordo, per esempio se si sono svegliati per qualche istante nottetempo, magari perché avevano un crampo o dovevano andare a fare pipì, ma anche in questo caso i ricordi sono confusi e talvolta contraddittori.
    Un approccio che offre qualche risultato più affidabile consiste nel riprendere gruppi di volontari mentre dormono, utilizzando telecamere a infrarossi che permettono di effettuare riprese anche al buio. Il sistema funziona bene se le persone dormono scoperte, mentre è meno affidabile se per ricreare il più fedelmente possibile le condizioni del normale riposo si utilizzano anche le coperte (il cui peso sembra influire sul modo in cui dormiamo e ci muoviamo a letto). Per questo da qualche tempo vengono sperimentati sistemi con telecamere con sensori che permettono di ricostruire tridimensionalmente le riprese, in modo da rilevare meglio i movimenti durante il sonno.
    Le immagini mostrano le posizioni assunte durante il riposo, anche nel caso di utilizzo di coperte (Sensors)
    Alle telecamere vengono talvolta aggiunti sensori di movimento da indossare, che possono fornire indicazioni più precise sulla posizione assunta nel corso della notte. Utilizzando questo sistema, uno studio ha ricostruito che in media una persona adulta trascorre circa metà del sonno sui fianchi, il 40 per cento dormendo sulla schiena (posizione supina) e il resto del tempo a pancia in giù (posizione prona).
    La stessa ricerca ha rilevato che più le persone invecchiano più tendono a preferire la posizione su un fianco. Per i bambini con più di tre anni di età le cose funzionano invece diversamente e il sonno sul fianco, supino e prono si distribuisce più o meno equamente. I neonati dormono quasi esclusivamente sulla schiena, sia perché hanno meno mobilità sia perché di solito hanno meno possibilità di muoversi, per come vengono messi nella culla anche per ridurre il rischio di soffocamento.
    Qualità del sonno e posizioneIl fatto che una posizione sia mantenuta senza costrizioni per la maggior parte del tempo potrebbe indicare che si tratti della migliore possibile, per ottenere un sonno di qualità e riposante, ma anche in questo caso trovare conferme non è semplice. Come racconta BBC Future, alcuni gruppi di ricerca hanno provato a valutare il rapporto tra posizione e qualità del sonno su alcuni volontari. Gli studi in tema non sono però molti e hanno coinvolto una quantità piuttosto limitata di persone.
    Uno studio osservazionale (cioè basato sulla semplice osservazione di ciò che accade senza interventi da parte di chi effettua la sperimentazione) è consistito nel far dormire alcune persone prendendo nota delle loro posizioni e chiedendo poi come si sentissero dopo avere dormito. Alla fine del test, le persone che avevano trascorso la maggior parte del tempo sul fianco destro avevano riferito di avere riposato un po’ meglio rispetto alle persone che avevano dormito sul fianco sinistro o in posizione supina.
    Una possibile spiegazione è che la maggior parte delle persone respira meglio quando dorme su un fianco, perché le vie aeree rimangono più distese e si riducono i rischi di piccole strozzature che potrebbero rallentare il flusso dell’aria. Per esempio: dormendo sul fianco ci sono meno probabilità che la lingua, l’ugola e gli altri tessuti molli del palato ostruiscano il passaggio dell’aria.
    (William Vanderson/Fox Photos/Getty Images)
    Sono proprio i tessuti molli la principale causa del russare e delle apnee notturne, le fasi dove per qualche istante si smette di respirare e che col tempo possono essere rischiose per il sistema cardiocircolatorio. Non è del resto un caso se alle persone che russano viene consigliato di dormire il più possibile su un fianco, proprio per ridurre il fenomeno, il rischio delle apnee e per dare un po’ di tregua alle persone che dormono con loro.
    Destra o sinistra?Non è comunque chiaro se un fianco sia meglio dell’altro e le testimonianze nelle ricerche variano molto. Per le persone che soffrono di reflusso gastroesofageo, cioè del passaggio ricorrente degli acidi gastrici dallo stomaco verso l’esofago con bruciori e infiammazioni (che a lungo andare possono avere conseguenze importanti sulla salute e che di solito peggiora quando ci si stende a letto), sembra essere più indicato dormire sul fianco sinistro. È stato osservato che in alcune persone che dormono in questa posizione il reflusso diminuisce, probabilmente per via dell’orientamento che assume lo stomaco e in particolare lo sfintere esofageo, che insieme al cardias regola il passaggio delle sostanze tra esofago e stomaco.
    Alle persone con reflusso viene spesso consigliato di dormire utilizzando un paio di cuscini o comunque inclinando verso l’alto il materasso dalla parte della testa, in modo da ridurre la risalita dei succhi gastrici. È un accorgimento di solito efficace, anche se può risultare scomodo per alcuni e può incidere sulla qualità del sonno. Il fatto che nel medioevo si dormisse praticamente seduti non è di grande consolazione.
    Dormire sul fianco potrebbe comunque non essere molto indicato per chi ha problemi alle articolazioni delle gambe e in particolare alle anche. Per ridurre il rischio di ulteriori infiammazioni viene consigliato di inserire un cuscino tra le gambe, più o meno all’altezza delle ginocchia, in modo da ridurre il carico in particolare in prossimità della testa del femore, che si innesta nel bacino.
    Segni e rugheSul dormire o meno sul fianco potrebbero influire anche valutazioni non legate direttamente alla qualità del sonno, salvo non si abbia il terrore di avere qualche ruga. Una decina di anni fa un gruppo di chirurghi estetici scrisse un’analisi della letteratura scientifica disponibile sulle distorsioni che la pelle subisce mentre si dorme, in particolare quella del viso che rimane per molte ore compresso tra cuscini, coperte e materasso.
    L’analisi segnalava la possibilità di distinguere tra rughe di espressione e dovute a sollecitazioni meccaniche esterne, come tenere la faccia appoggiata a lungo su un cuscino, ma indicava comunque una certa difficoltà nel ricondurre alcuni tipi di rughe alla posizione assunta a letto. Mentre le rughe di espressione sono legate a una riduzione della tenuta dell’impalcatura della pelle (costituita per lo più da collagene) e della muscolatura del viso, le rughe da sonno hanno cause diverse e potrebbero quindi rispondere meno ai trattamenti più utilizzati per nasconderle, come l’impiego di neurotossine (come il botulino).
    Schema dei segni sulla pelle che potrebbero derivare dalla compressione del viso a letto (Aesthet Surg J)
    Il gruppo di chirurghi estetici aveva concluso la ricerca suggerendo la posizione supina per ridurre il rischio di avere molte rughe da sonno, pur riconoscendo la difficoltà di mantenere la medesima posizione durante tutta la fase del sonno: «La nostra posizione iniziale deriva da una scelta, ma inconsciamente cambiamo poi posizione nel corso della notte. La posizione supina potrebbe essere ideale per l’estetica del viso, ma potrebbe peggiorare condizioni come le apnee notturne, il reflusso gastroesofageo e il forte russamento».
    Schiena e torcicolloAl di là dell’estetica, la posizione sul fianco può rivelarsi problematica per le persone che soffrono di torcicollo. Analizzando il sonno di un gruppo di volontari, uno studio ha notato che chi segnalava di svegliarsi con problemi al collo trascorreva almeno una parte della notte in una posizione contorta: iniziava dormendo normalmente sul fianco, ma dopo un po’ ruotava il bacino comportando una torsione della colonna vertebrale. In quella posizione tendini e muscoli del collo possono subire stiramenti e maggiori sollecitazioni, dai quali derivano poi i problemi alla cervicale al risveglio. Più notti trascorse in una posizione contorta possono causare una maggiore infiammazione del collo, al punto da richiedere l’uso di antidolorifici o di fisioterapia per risolvere il problema.
    Anche in questo caso lo studio deve essere comunque preso con le molle. Non è infatti chiaro se i volontari assumessero quella posizione casualmente procurandosi poi il male al collo, o se invece finissero per assumerla per non sentire il dolore di un torcicollo già presente (“posizione antalgica”). In questo secondo caso, il problema non sarebbe stato causato dalla posizione sul fianco, ma da altri fattori preesistenti.
    Sempre BBC Future segnala uno studio che fu realizzato alcuni anni fa in Portogallo, con un gruppo di volontari che soffrivano di mal di schiena o di torcicollo. Ai primi fu detto di dormire su un fianco, mentre agli altri di dormire supini. Dopo un mese, il gruppo di ricerca effettuò un sondaggio tra i partecipanti e il 90 per cento di loro disse di avere notato un miglioramento, con la riduzione del dolore. Lo studio era però stato svolto su appena una ventina di persone, quindi un campione ridotto per trarre conclusioni in generale. Non era inoltre stato possibile verificare più di tanto il rispetto delle indicazioni sulla posizione da assumere, senza contare che comunque questa varia durante il riposo.
    Altre ricerche su posizione e qualità del sonno si sono concentrare sui cuscini e le loro caratteristiche, partendo dal presupposto che un sostegno per la testa e il collo sia importante per ridurre gli stress a carico della colonna vertebrale. La mancanza di un sostegno può interferire negativamente sull’allineamento delle vertebre, causando dolori muscolari al collo, alle spalle e fino all’area lombare.
    Cuscini e materassiIl materiale con cui è fatto il cuscino sembra non incidere più di tanto sulla salute della schiena e in particolare della cervicale. Altre ricerche hanno invece segnalato come la forma del cuscino sia importante, ma comunque con un certo grado di soggettività come spesso avviene con le cose tra salute e comfort. Un cuscino con un’infossatura al centro sembra favorire un sonno di maggiore qualità, ma anche in questo caso sarebbero necessari altri studi per tenere in considerazione tutte le variabili.
    Per quanto riguarda i materassi, quelli semirigidi offrono maggiore sostegno alla schiena e riducono il rischio di assumere posizioni troppo contorte. Girare e ruotare almeno un paio di volte all’anno il materasso aiuta a mantenerlo più confortevole e a farlo durare di più, visto che la pressione esercitata dal corpo varia molto dalla testa alle gambe.
    AbitudiniIn conclusione, non c’è in assoluto una posizione migliore delle altre per dormire, ma in alcuni casi può essere utile e salutare provare a cambiare abitudine, anche se può risultare molto difficile per chi è da sempre abituato ad addormentarsi in una certa posizione. Inoltre, si stima che ogni persona si sposti tra le 10 e le 40 volte nel corso di una notte, con una certa tendenza a tornare istintivamente nella propria posizione di abitudine dopo un po’ di tempo.
    Per provare a cambiare abitudine, gli esperti consigliano di utilizzare qualche ostacolo fisico che induca a mantenere la posizione consigliata, che nella maggior parte dei casi è quella su un fianco (specialmente per chi ha problemi di reflusso o di apnee notturne, come abbiamo visto). La tecnica più suggerita consiste nel cucire una pallina da tennis nel proprio pigiama, all’altezza della schiena o del torso, a seconda se si tende a dormire molto supini o proni. In questo modo quando si prova a cambiare posizione da addormentati si eviterà di rimanere sulla schiena o a pancia in giù, tornando a dormire su un fianco. Dopo qualche notte si perde l’abitudine a dormire nella posizione da evitare, ma è stato osservato che dopo un po’ di tempo il problema tende a ripresentarsi, rendendo necessarie nuove sessioni con la pallina da tennis.
    Negli ultimi anni sono stati sviluppati particolari dispositivi da indossare che rilevano la posizione e, nel caso sia quella scorretta, inviano una lieve scossa o una vibrazione che induce a sistemarsi meglio a letto. Il sistema sembra funzionare, ma nei primi tempi potrebbe ridurre la qualità del sonno a causa dei microrisvegli dovuti alle scosse o alle vibrazioni.
    Una via di mezzo senza palline da tennis e scosse prevede di utilizzare semplicemente un cuscino, oppure un cuneo di gommapiuma, da tenere alle spalle quando si dorme sul fianco, in modo da rendere meno probabile il ritorno in una posizione prona o supina. LEGGI TUTTO

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    Mascherine e depuratori per l’aria proteggono dall’inquinamento?

    Caricamento playerLa pessima qualità dell’aria di questi giorni nella Pianura Padana non ha soluzioni semplici e immediate perché è legata alle condizioni meteorologiche, alla geografia e alla presenza di numerose città, industrie e allevamenti nella regione. Chi si preoccupa dei rischi per la salute legati a questa forma di inquinamento può comunque adottare alcune abitudini come prevenzione: ad esempio usare mascherine per bocca e naso quando sta all’esterno e usare dispositivi per depurare l’aria negli ambienti chiusi.
    L’inquinamento atmosferico è una delle principali cause di malattie cardiovascolari e di un generale accorciamento delle aspettative di vita secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). In particolare l’Agenzia europea per l’ambiente (AEA) ha stimato che nel 2021 almeno 253mila persone siano morte a causa dell’esposizione cronica alle micropolveri, anche note come particolato o PM, e almeno 52mila per l’esposizione cronica al biossido di azoto, un gas prodotto soprattutto dai motori diesel ma anche dagli impianti di riscaldamento e dalle industrie, che è il principale gas inquinante dannoso per la salute.
    Le misure di prevenzione per la salute personale che si possono applicare usando mascherine e depuratori riguardano il particolato. Entrambi questi strumenti infatti funzionano grazie a filtri per l’aria che trattengono le piccole particelle solide o liquide presenti nell’aria: le mascherine sono essenzialmente dei filtri per naso e bocca, mentre i depuratori contengono dei filtri al loro interno attraverso cui viene fatta passare l’aria presente in un ambiente chiuso. Non possono invece far nulla per i gas inquinanti perché le dimensioni delle particelle gassose sono dello stesso ordine di grandezza di quelle dei componenti dell’aria che invece dobbiamo respirare per vivere: una mascherina che li bloccasse sarebbe piuttosto dannosa per la salute.

    – Leggi anche: Ha senso confrontare l’inquinamento di Milano con quello di Delhi?

    Non sono ancora state fatte ricerche scientifiche che dicano qualcosa sugli effetti a lungo termine dell’uso metodico di mascherine per il viso per proteggersi dall’inquinamento dell’aria, dunque non è possibile dire in che misura garantiscano protezione dai rischi per la salute. Tuttavia vari studi hanno dimostrato che le mascherine sono efficaci nel trattenere il particolato, in particolare il PM10, quello composto da particelle di dimensioni maggiori, cioè con un diametro fino a un centesimo di millimetro (10 micrometri).
    Uno studio pubblicato nel 2021 ha riscontrato che praticamente qualsiasi tipo di mascherina per il viso (comprese quelle di cotone) rappresenta una qualche forma di filtro per il particolato. Realizzato da un gruppo di scienziati del Colorado, negli Stati Uniti, per valutare l’utilità delle mascherine più diffuse contro l’inquinamento da incendi boschivi, questo studio dice che però quelle più efficaci sono le N95, le cui caratteristiche corrispondono più o meno a quelle delle FFP2 in uso in Europa. Tali mascherine, secondo le analisi del gruppo di ricerca, proteggono dal particolato urbano tre volte di più rispetto alle mascherine chirurgiche, anche se l’efficacia diminuisce con le particelle di diametro inferiore al micrometro. Bisogna inoltre ricordare che si tratta di dispositivi usa e getta.
    Le mascherine chirurgiche potrebbero essere filtri efficaci se non fosse che non aderiscono bene al viso. Infatti per bloccare davvero il particolato le mascherine non devono lasciare spazi per il passaggio di aria non filtrata. La loro efficacia diminuisce se chi le indossa ha la barba o fa dei movimenti a causa dei quali le mascherine si spostano molto sulla pelle, come quelli che si possono fare mentre si va in bici.
    Un’altra precauzione che si può applicare in giorni di alto inquinamento dell’aria cittadina è evitare di fare attività sportiva all’aperto.
    Per quanto riguarda gli ambienti chiusi, l’inquinamento dell’aria può essere anche maggiore rispetto all’esterno. Negli interni infatti le fonti di sostanze inquinanti sono moltissime: a quelle dell’aria esterna si uniscono le particelle prodotte da esseri umani e animali (l’anidride carbonica che espiriamo, ma anche piccole gocce di saliva di quando tossiamo o starnutiamo, peli, forfora, eccetera), le sostanze rilasciate da processi di combustione come la cottura dei cibi, il riscaldamento, il fumo di sigaretta, incensi, candele e altro, e quelle rilasciate dai prodotti per la pulizia e altri.
    La misura più efficace per ripulire l’aria degli ambienti chiusi, anche se può sembrare controintuitivo in giornate di pessima qualità dell’aria, è aprire le finestre con una certa frequenza. «Almeno 2 o 3 volte al giorno per almeno 5 minuti», aveva spiegato alcuni anni fa al Post Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale: «L’apertura delle finestre porta a una dispersione e diluizione delle sostanze concentrate nell’aria delle case anche in giorni in cui l’aria esterna è particolarmente inquinata. Se vivete in città, meglio aprire le finestre che affacciano su vie poco trafficate o su cortili interni, in orari in cui ci sono meno macchine in giro come la sera, la mattina presto o l’ora di pranzo».
    In aggiunta si possono poi utilizzare dei dispositivi per filtrare l’aria spesso usati dalle persone allergiche ai pollini. Questi dispositivi sono efficaci per filtrare il particolato se contengono i cosiddetti filtri HEPA (dall’inglese High Efficiency Particulate Air filter), che spesso sono presenti negli impianti di condizionamento industriale ma non in quelli domestici, e sono in grado di trattenere anche il PM2,5 o “particolato fine”, quello formato da particelle con diametro inferiore a 2,5 micrometri.
    Come per le mascherine, non sono disponibili studi a lungo termine che diano informazioni sui benefici per la salute dell’uso di depuratori con filtri HEPA. Una rassegna delle ricerche fatte fino al 2020 su questi dispositivi ha però concluso che i depuratori riducano effettivamente la concentrazione di PM2,5 nell’aria degli ambienti chiusi e che siano una buona soluzione familiare per proteggersi da fonti di inquinamento esterne, se utilizzati correttamente e ben manutenuti. Si tratta di dispositivi che però costano alcune centinaia di euro. LEGGI TUTTO

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    Perché si parla di un’allerta dengue

    Caricamento playerMartedì il ministero della Salute ha innalzato il livello di allerta legato alla diffusione della dengue dall’estero, soprattutto in seguito al significativo aumento di casi di questa malattia in Brasile e in altri paesi del Sudamerica. L’innalzamento dell’allerta è stato segnalato da alcuni giornali talvolta con toni allarmati, ma al momento non ci sono particolari rischi per la diffusione in Italia della malattia, che viene trasmessa da alcune specie di zanzare.
    SudamericaSecondo i dati diffusi all’inizio della settimana dal ministero della Salute brasiliano, nel paese sono stati rilevati oltre 512mila casi di dengue (tra confermati e probabili) da inizio anno, e almeno 75 morti causati dalla malattia. Le autorità sanitarie stanno inoltre effettuando verifiche su altri 340 decessi che potrebbero essere ricondotti a infezioni di dengue. Il maggior numero di casi rispetto alla popolazione è stato registrato nella capitale Brasilia, con quasi 2.300 infezioni da dengue ogni 100mila abitanti. La situazione è stata definita preoccupante da esperti e osservatori, ma il problema non riguarda unicamente il Brasile.
    In Sudamerica è estate e c’è di conseguenza una maggiore circolazione di zanzare (nei paesi tropicali dove il clima è mite per buona parte dell’anno il problema è sentito anche in altri periodi). Nelle ultime settimane i casi di dengue sono sensibilmente aumentati anche in Argentina, Uruguay e Paraguay. Il ministero della Salute argentino ha segnalato quasi 40mila casi da metà dello scorso anno a inizio febbraio, e 29 morti dovute alla malattia nel medesimo periodo. L’incidenza è stata di 86 casi ogni 100mila persone ed è stata confermata la presenza della malattia in buona parte delle regioni del paese.
    La dengue è tra le malattie più diffuse nei climi tropicali e subtropicali. Fare una stima accurata di quanti casi ci siano ogni anno a livello globale è molto difficile, perché nella maggior parte dei casi la malattia non causa sintomi e chi contrae l’infezione non si accorge di averla. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) stima che ci siano tra i 100 e i 400 milioni di infezioni da dengue all’anno, ma ultimamente ha segnalato un aumento dei casi e il rischio concreto che la malattia diventi un problema globale anche a causa dell’aumento della temperatura legato al cambiamento climatico. Più aree geografiche diventano calde e umide e di conseguenza in più zone aumentano le popolazioni di zanzare, responsabili della trasmissione della malattia.
    Dengue e zanzareCi sono almeno quattro virus simili tra loro (più un quinto che si sta valutando di aggiungere alla lista) che causano la dengue. La trasmissione del virus avviene attraverso le punture delle zanzare, mentre non sono noti casi di contagio diretto tra esseri umani. Una persona infetta viene quindi punta da una zanzara che pungerà poi un’altra persona, trasmettendo in questo modo il virus.
    Nei casi in cui la dengue causa sintomi, si hanno di solito febbre, mal di testa, dolori muscolari e intorno agli occhi; alcune persone sviluppano anche nausea e vomito, o ancora uno sfogo cutaneo con irritazioni in varie parti del corpo. La diagnosi non è sempre semplice, soprattutto nei paesi dove la malattia non è normalmente presente e viene quindi ritenuta meno probabile rispetto ad altre, ma ci sono test che possono essere effettuati per cercare tracce del virus nel sangue oppure gli anticorpi specifici che il sistema immunitario sviluppa per contrastarlo.
    Non essendoci una cura vera e propria, la dengue viene trattata con una “terapia di sostegno”: si lascia che siano le difese dell’organismo a superare l’infezione, aiutandolo con un’adeguata somministrazione di liquidi e se necessario di farmaci per ridurre l’entità dei sintomi. In casi molto rari si può sviluppare una febbre emorragica, che può portare a pericolose emorragie interne con uno shock circolatorio ed eventualmente la morte. È stato riscontrato un maggior rischio di avere complicazioni per chi si era già ammalato di dengue in passato, ma con un tipo di virus diverso da quello della nuova infezione.
    Le specie di zanzara note per fare da vettore della dengue sono Aedes aegypti e Aedes albopictus. La prima viene spesso chiamata “zanzara della febbre gialla” ed è la causa anche della trasmissione della malattia Zika, della chikungunya e della febbre gialla; la seconda è conosciuta soprattutto come “zanzara tigre” per via delle sue striature bianche e nere: è indigena delle aree tropicali e subtropicali, ma si è ormai adattata a vivere in zone relativamente più fredde ed è diffusa in diversi paesi europei.
    Dengue in ItaliaDi dengue in Italia si era parlato molto all’inizio di settembre del 2023 in seguito ad alcuni casi autoctoni rilevati in provincia di Lodi e in seguito in altre zone della Lombardia. I casi erano stati osservati con attenzione perché non derivavano da persone ritornate da un viaggio all’estero, dove può accadere che si contragga un’infezione, ma da persone che erano state infettate mentre si trovavano nella zona. A scopo di prevenzione, erano state effettuate attività di bonifica per ridurre le popolazioni di zanzare e il rischio di nuovi casi.
    VaccinoOltre al controllo della popolazione di zanzare e all’impiego di rimedi per ridurre il rischio di essere punti, da qualche tempo sono disponibili alcuni vaccini contro la malattia. Lo sviluppo di un vaccino ha richiesto diverso tempo, perché era difficile ottenere un prodotto che fosse efficace contro la maggior parte dei virus che possono causare la malattia. Il più recente e che si è dimostrato efficace contro i quattro tipi di virus è stato sviluppato e prodotto dall’azienda farmaceutica giapponese Takeda. In seguito ai risultati positivi ottenuti nei test clinici, nel 2022 è stato autorizzato per il suo impiego nell’Unione Europea e ha ricevuto l’approvazione anche in Brasile e Argentina, ora impegnati a vaccinare la popolazione visto l’aumento notevole dei casi degli ultimi mesi.
    In Italia il vaccino prodotto da Takeda sarà messo a disposizione della popolazione dalla prossima settimana, tramite l’Istituto Spallanzani di Roma, centro di riferimento per le malattie infettive nel nostro paese. Sarà somministrato nell’ambulatorio di malattie tropicali, ma solo su richiesta e attraverso un sistema di prenotazione.
    AllertaAl momento il vaccino è indicato per chi abbia intenzione di recarsi in luoghi dove c’è una forte presenza di dengue, mentre non ci sono motivi per la popolazione generale per vaccinarsi visto che i casi autoctoni nel nostro paese sono stati finora rari. L’innalzamento dell’allerta deciso dal ministero della Salute riguarda le procedure che vengono attuate soprattutto nei porti e negli aeroporti per ridurre la presenza delle zanzare, in modo che non ci siano insetti infetti provenienti dai paesi attualmente più a rischio.
    Molte procedure sono già normalmente previste per evitare contaminazioni di vario tipo, ma la circolare invita a «vigilare attentamente sulla disinsettazione degli aeromobili» e di «valutare l’opportunità di emettere ordinanze per l’effettuazione di interventi straordinari di sorveglianza delle popolazioni di vettori ed altri infestanti e di disinfestazione». L’invito è rivolto agli Uffici di sanità marittima aerea e di frontiera, che sono competenti per la vigilanza su ciò che arriva attraverso i cosiddetti “Punti di ingresso italiani”.
    Il fatto che sia stata alzata l’allerta riguarda quindi una riduzione del rischio su eventuali contagi provenienti dall’estero, in una fase in cui la dengue è molto diffusa soprattutto in alcuni paesi del Sudamerica. È una procedura prevista in casi come questi, ma non implica che ci siano pericoli immediati per la popolazione nel nostro paese. LEGGI TUTTO

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    Avremo farmaci sviluppati dalle intelligenze artificiali?

    Sviluppare un nuovo farmaco è un po’ come fare una scommessa: si investono tempo e moltissimo denaro nella ricerca e nella sperimentazione di qualcosa che non si sa se davvero funzionerà e che potrebbe rivelarsi un costosissimo fallimento. Una nuova molecola molto promettente in laboratorio può mostrarsi inefficace nella sperimentazione animale o nei test clinici sugli esseri umani e prevederlo prima è spesso impossibile. Per ridurre uno dei rischi di impresa più grandi che esistano, negli ultimi tempi le aziende farmaceutiche hanno iniziato a esplorare le nuove possibilità offerte dai sistemi di intelligenza artificiale (AI), i cui progressi sono diventati evidenti anche ai meno esperti nell’ultimo anno soprattutto grazie al successo di ChatGPT di OpenAI.Alcune aziende hanno iniziato a utilizzare le AI per provare a prevedere efficacia e sicurezza di nuovi principi attivi, altre per rendere più semplice e rapido il complicato processo di selezione dei volontari che partecipano ai test clinici. Lo hanno fatto sia sviluppando al proprio interno nuove divisioni dedicate ai sistemi di intelligenza artificiale, sia appoggiandosi alle società e startup nate di recente proprio per applicare le AI al settore dei farmaci.
    A inizio gennaio le due aziende farmaceutiche Eli Lilly e Novartis hanno stretto un accordo con Isomorphic Labs, una società controllata da Alphabet (la holding di Google) e nata da una divisione di DeepMind, una delle più innovative aziende nel settore delle AI. Trattandosi di accordi per un valore complessivo di 3 miliardi di dollari se ne è parlato molto e non solo tra gli addetti ai lavori, ma le condizioni prevedono investimenti piuttosto misurati nel tempo. Eli Lilly anticiperà 45 milioni di dollari, ma i restanti 1,7 miliardi di dollari dell’accordo saranno pagati solo al raggiungimento di alcuni risultati ambiziosi, come l’avvio dei test clinici o l’approvazione dei nuovi principi attivi. Qualcosa di analogo riguarda anche Novartis che anticiperà 37,5 milioni di dollari e investirà altri 1,2 miliardi di dollari nel tempo, sulla base di un sistema basato su incentivi e risultati.
    DeepMind è tra le società che più hanno sperimentato l’impiego delle AI in ambito scientifico e in particolare nell’analisi e nella previsione delle caratteristiche delle proteine. La forma di una proteina determina infatti anche la sua funzione, di conseguenza lo studio e la previsione della sua struttura sono fondamentali nello sviluppo di molti farmaci. Isomorphic Labs parte da quelle conoscenze e ha l’obiettivo di accelerare in modo significativo la fase di scoperta di nuove molecole per i farmaci che attualmente dura diversi anni e richiede molte risorse, portandola dalla media di cinque anni a due.
    Sfruttando diversi modelli di apprendimento automatico, Isomorphic Labs ha sviluppato una piattaforma per prevedere le caratteristiche delle molecole e il modo in cui potranno interagire con l’organismo. Avere la possibilità di fare queste valutazioni in maniera più accurata consente di orientare la ricerca, riducendo il rischio di un fallimento nelle fasi successive quando dalla sperimentazione in laboratorio si passa ai test clinici con le persone. Il sistema naturalmente non garantisce sempre la produzione di molecole efficaci e sicure, ma secondo i responsabili dell’azienda può limitare sensibilmente gli insuccessi e soprattutto potrebbe accelerare le fasi di sviluppo.
    In un certo senso i sistemi di Isomorphic Labs hanno qualcosa in comune con i modelli generativi come ChatGPT, che tra le altre cose riescono a comporre testi come in una normale conversazione utilizzando la statistica per prevedere qualche parola da inserire dopo quella che hanno appena prodotto. Le AI per lo sviluppo dei farmaci fanno qualcosa di simile, ma per progettare le strutture molecolari rispettando alcune regole e limitazioni che vengono scelte dagli operatori. In poco tempo, il sistema è in grado di produrre numerose varianti della stessa molecola, affinando man mano il risultato in base agli effetti previsti sull’organismo.
    Sanofi, un’altra grande azienda farmaceutica, ha avviato una collaborazione con la società Exscientia che nella sua documentazione si presenta con frasi alquanto audaci come: “In futuro tutti i farmaci saranno progettati con le AI. Il futuro è ora con Exscientia”. Anche questa azienda ha l’obiettivo di scoprire nuovi principi attivi e di prevederne le caratteristiche e le interazioni con l’organismo, ancora prima di avviarne lo sviluppo e la sperimentazione.
    L’azienda farmaceutica italiana Menarini ha invece avviato una collaborazione con Insilico Medicine, società fondata tra Hong Kong e New York che sostiene di avere già sviluppato 17 potenziali nuovi farmaci sui quali effettuare i test clinici. L’accordo ha un valore stimato intorno ai 500 milioni di dollari e coinvolge Stemline Therapeutics, una delle controllate di Menarini, che avrà l’esclusiva per lo sviluppo, la sperimentazione e l’eventuale vendita di un nuovo principio attivo per il trattamento di alcune forme di tumore. Le possibilità di successo, però, sono ancora tutte da dimostrare.
    Per questo motivo ha suscitato una certa attenzione nel settore l’avvio dei test clinici su un nuovo farmaco sperimentale di Genentech per trattare la colite ulcerosa, una malattia cronica che comporta una forte infiammazione del colon, tale da far aumentare nel tempo il rischio di tumore rispetto a chi non ha questa condizione. Il principio attivo era stato sviluppato per trattare altri problemi di salute, ma da alcune simulazioni con sistemi di intelligenza artificiale è emerso che avrebbe potuto dare qualche risultato contro la colite ulcerosa.
    Talvolta può accadere che un farmaco sperimentale si riveli inefficace nel trattare la condizione per cui era stato sviluppato, mentre mostra di essere promettente contro un’altra malattia. Scoprirlo però non è semplice e richiede spesso anni di lavoro o qualche coincidenza favorevole. I gruppi di ricerca di Genentech sono riusciti a ottenere questo risultato in nove mesi utilizzando anche le AI per confrontare milioni di ipotesi, fino a trovare conferme sulla probabile utilità del loro farmaco nel trattare le cellule del colon coinvolte nella malattia.
    Già nel 2022 erano emersi indizi sul possibile uso del farmaco contro la colite ulcerosa, ma ora saranno necessari i test clinici per confermare la sua efficacia su pazienti veri. Le sperimentazioni di questo tipo fuori dai laboratori sono richieste dalle autorità di controllo per assicurarsi non solo che un farmaco sia efficace, ma anche sicuro per chi lo utilizza.
    I tempi dei test clinici sono molto lunghi e spesso hanno una fase iniziale molto costosa, sia in termini di tempo sia di denaro, per la selezione dei volontari che dovranno far parte della sperimentazione. Per alcuni test clinici è infatti necessario avere persone con diagnosi chiare della malattia che si vuole trattare, distribuiti in particolari fasce della popolazione per genere, età, condizione economica e provenienza geografica. In molti studi più il campione selezionato è di qualità, più ci si possono attendere dati affidabili.
    Partendo da questi presupposti, alcune aziende farmaceutiche hanno iniziato a sfruttare sistemi di intelligenza artificiale per organizzare la selezione dei volontari nei test clinici. Le AI possono accedere a enormi elenchi, come quelli degli ospedali o quelli tenuti dalle istituzioni sanitarie, effettuando rapidamente una preselezione in base ai criteri richiesti dall’azienda farmaceutica. In questo modo si riducono i tempi successivi della selezione e, almeno in linea teorica, si possono ottenere gruppi di volontari più adatti alla sperimentazione da svolgere.
    La multinazionale farmaceutica Amgen ha sviluppato uno strumento di intelligenza artificiale che si chiama ATOMIC, specializzato nella ricerca e nella classificazione dei dati clinici provenienti da medici, ospedali e altre istituzioni sanitarie. Amgen dice che con il nuovo sistema è in grado di selezionare in meno di nove mesi i volontari per uno studio clinico, rispetto all’anno e mezzo di lavoro richiesto in precedenza. La società ha già usato lo strumento per l’avvio di alcuni test clinici legati alle malattie cardiovascolari e al trattamento dei tumori con buoni risultati, di conseguenza utilizzerà ATOMIC per buona parte delle nuove selezioni in programma per quest’anno.
    La selezione dei volontari è naturalmente un ambito molto diverso rispetto a quello dello sviluppo di nuovi principi attivi, ma è comunque importante perché una sua migliore gestione potrebbe consentire alle aziende farmaceutiche di risparmiare tempo e denaro. È inoltre un settore in cui secondo gli esperti ci sono maggiori margini di successo in breve tempo e minori rischi, considerata la diversa complessità dell’iniziativa.
    Soluzioni di questo tipo sono inoltre viste come una naturale evoluzione degli strumenti basati sulle AI che avevano iniziato a farsi spazio nelle aziende farmaceutiche. Per esempio l’azienda svizzera Roche ha sviluppato un sistema che ha chiamato RocheGPT con dati e informazioni legati all’azienda, alle sue attività e agli ambiti di ricerca. RocheGPT è visto come una sorta di ChatGPT, ma altamente specializzato sulle caratteristiche di Roche e in grado di fornire risposte di vario tipo e in vari ambiti, non necessariamente legati alla sola ricerca, ma anche alla gestione delle attività aziendali.
    Altre aziende farmaceutiche hanno iniziato a sperimentare le AI per accelerare altri processi che di solito richiedono molto tempo legati alla compilazione della documentazione da presentare agli organismi regolatori, come la Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) in Europa. In alcuni casi si tratta di documenti accessori e meno importanti, in altri dell’organizzazione dei dati dei test clinici sui quali è comunque necessario un controllo umano finale. Al momento FDA ed EMA non hanno regole esplicite sull’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale, ma iniziano a essere sollevati dubbi e preoccupazioni per la loro mancanza, come del resto sta avvenendo in diversi altri settori in cui hanno iniziato a diffondersi le AI di ultima generazione.
    A essere molto interessate al settore farmaceutico non ci sono solamente le società che sviluppano sistemi di intelligenza artificiale, ma anche le aziende che producono microprocessori. Nvidia, uno dei principali produttori al mondo di chip e molto attivo nel settore dei sistemi per le AI, ha contratti con almeno una ventina di aziende farmaceutiche per fornire i propri processori o i centri dati che vengono impiegati per la grande quantità di calcoli richiesti da alcuni modelli di intelligenza artificiale. La domanda è alta e secondo alcuni analisti in breve tempo alcune delle aziende farmaceutiche più grandi competeranno per i dati e la capacità di elaborarli.
    L’interesse intorno ai sistemi di intelligenza artificiale nell’ultimo anno è stato senza precedenti e di sicuro ha portato ad aspettative che in alcuni ambiti sono molto più alte rispetto alle effettive capacità di alcune AI. Gli investimenti, comunque, non mancano in numerosi settori e si prevede che si manterranno alti anche nel corso di quest’anno. In ambito farmaceutico si stima che nell’ultimo decennio ci siano stati investimenti per circa 18 miliardi di dollari in società di biotecnologie che hanno al centro i sistemi di intelligenza artificiale. Se agli inizi riguardavano per lo più società di dimensioni relativamente piccole o medie, ora interessano alcuni dei marchi più famosi e potenti al mondo. LEGGI TUTTO

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    Quanto caffè è troppo caffè?

    Ogni giorno miliardi di persone in tutto il mondo iniziano la loro giornata bevendo una o più tazze di caffè. Per molte di loro è un’abitudine, per altre una necessità per sentirsi più attive e scrollarsi di dosso la sonnolenza rimasta dopo il risveglio. C’è poi chi ripete il rito in diversi altri momenti della giornata, per semplice piacere e golosità oppure per allontanare una certa sensazione di torpore e continuare a sentirsi attivo. Il caffè è del resto una delle bevande più popolari e di conseguenza la caffeina – il suo stimolante principale – è la sostanza psicoattiva più diffusa e consumata al mondo.Proprio per queste sue caratteristiche in molti si chiedono se ci sia un limite oltre il quale è meglio non andare con il consumo di caffè. Come spesso accade con le sostanze che danno una certa dipendenza, è una domanda che ci si fa quando ci si ferma a pensare al numero di tazzine già bevute in una giornata, ma trovare una risposta soddisfacente non è semplice.
    Il nome chimico della caffeina è un po’ meno abbordabile rispetto a quello che usiamo comunemente: 1,3,7-trimetilxantina. Questa sostanza è alla lontana imparentata con la morfina e fa parte degli alcaloidi, un grande gruppo di sostanze naturali che comprende per esempio la cocaina e la nicotina. La tossicità di queste due sostanze è relativamente alta se confrontata con quella della caffeina, che ha un effetto tossico e potenzialmente letale per una persona adulta solo nel caso di un consumo enorme di caffè.

    – Leggi anche: Che mangino croissant, o cornetti, o brioche

    La caffeina è presente naturalmente in molte parti di piante come i chicchi del caffè e del cacao, le bacche di guaranà e nelle foglie di tè. La sua presenza fu identificata separatamente nel caffè e nel tè nella prima metà dell’Ottocento, di conseguenza per un po’ di tempo si pensò che la caffeina fosse tipica del caffè mentre la teina del tè. In seguito si scoprì che si trattava della stessa molecola e che quella distinzione non aveva quindi senso. La scoperta contribuì inoltre a chiarire che la caffeina non ha un ruolo specifico nel gusto del caffè: questo deriva in buona parte dal metodo utilizzato per tostare i chicchi, che porta a sapori più o meno intensi. È spesso la miscela di caffè di varietà diverse tostati in modo diverso a rendere il gusto di un espresso diverso da un altro.
    La molecola della caffeina ha una struttura simile a quella dell’adenosina, una sostanza importante per il sistema nervoso e che tra le altre cose causa sonnolenza se si lega a un recettore di una cellula nervosa. Quando beviamo un caffè, il nostro organismo assorbe rapidamente e completamente la caffeina che finisce in circolazione e inganna le cellule nervose, che credono di avere a che fare con l’adenosina. Il risultato è un aumento dei livelli di adrenalina e di altre sostanze che fanno da stimolanti per il sistema nervoso, con effetti come un aumento del battito cardiaco e un maggiore afflusso di sangue ai muscoli.
    Di solito questo effetto stimolante si produce tra i 15 e i 30 minuti dopo avere bevuto il caffè, quindi quella sensazione di sentirsi “da subito” più attive che riferiscono molte persone è quasi sempre un effetto indotto dalle aspettative positive (effetto placebo) su ciò che la caffeina potrà fare per farle sentire più sveglie e presenti a loro stesse. Una volta che si è verificato, l’effetto stimolante dura per qualche ora, prima di iniziare a svanire gradualmente.
    Si stima che in una persona adulta l’emivita, cioè il tempo che l’organismo impiega per eliminare il 50 per cento di una sostanza, della caffeina sia in media di circa quattro ore. Ci sono però molte variabili da tenere in considerazione come l’età, il peso corporeo, l’assunzione in concomitanza di farmaci e le condizioni generali di salute che possono influire sull’emivita, che comunque raramente supera le otto ore.
    Calcolare il consumo di caffeina nella popolazione non è semplice, sia per la difficoltà di raccolta dei dati, sia perché le abitudini variano molto da paese a paese. Alcuni anni fa l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) aveva condotto una propria valutazione del rischio sulla caffeina e aveva pubblicato i dati sulle assunzioni quotidiane medie negli stati membri dell’Unione Europea. Dall’analisi era emerso che le persone adulte (18-65 anni) consumano mediamente tra i 37 e i 319 milligrammi di questa sostanza, con valori massimi lievemente più alti negli anziani e maggiori nelle persone molto anziane.
    (EFSA)
    La fonte principale di caffeina era il caffè, che rappresentava tra il 40 e il 94 per cento dell’assunzione totale; facevano eccezione Irlanda e Regno Unito (all’epoca dell’indagine ancora nell’UE) dove la fonte principale risultava essere il tè. Le differenze più marcate tra i vari paesi erano state rilevate nella fascia degli adolescenti (10-18 anni) a causa delle numerose fonti alternative di caffeina, come alcuni tipi di cioccolato e bevande a base di cacao, oppure bevande a base di cola o di tè. Tra gli adolescenti era inoltre diffuso il consumo delle cosiddette “bevande energetiche”, che spesso oltre a contenere grandi quantità di zucchero hanno una concentrazione importante di caffeina.
    Per quanto riguarda il caffè inteso come bevanda, le differenze rilevate dall’EFSA tra i vari stati membri erano per lo più legate al modo in cui viene preparato e alle miscele utilizzate. In alcuni paesi come il nostro è molto diffuso l’espresso, mentre in altri sono consumati soprattutto caffè “lunghi” realizzati con percolatori e altri sistemi. Nella preparazione di un espresso l’acqua passa rapidamente attraverso il caffè, di conseguenza la quantità di caffeina che finisce nella tazzina è inferiore rispetto ad altri sistemi, naturalmente a parità di quantità di caffè. Quello preparato con la moka, per esempio, ha di solito una maggiore concentrazione di caffeina.
    In una tazzina di espresso (60 ml in media, spesso in Italia la quantità è ancora più ridotta) ci sono circa 80 milligrammi di caffeina, contro i circa 90 milligrammi in una tazza di caffè americano percolato (200 ml). In una tazza di tè (220 ml) ci sono poco meno di 50 milligrammi di caffeina, mentre in una lattina di Coca-Cola (330 ml) i milligrammi sono circa 40. I dati sono inevitabilmente approssimativi, perché molto dipende dal modo in cui viene preparato il caffè o il tè e dalla tipologia di materia prima utilizzata.
    (EFSA)
    L’EFSA nella sua valutazione del rischio indica il consumo di singole dosi di caffeina fino a 200 milligrammi come non preoccupante «in termini di sicurezza per la popolazione adulta e sana in generale». Nelle analisi ha comunque rilevato come una dose più bassa, intorno ai 100 milligrammi, possa avere qualche effetto sulla durata e la qualità del sonno in alcune persone, specialmente se il consumo avviene poco prima di dormire. La reazione è però altamente soggettiva e varia molto da individuo a individuo, quindi stabilire una soglia in generale non è molto semplice.
    Se si valuta l’assunzione totale di caffeina nel corso di una giornata, l’EFSA dice che le persone adulte e sane non corrono particolari rischi fino a 400 milligrammi. Questa quantità equivale in media a circa 5 tazzine di caffè espresso e a poco più di quattro tazze di caffè americano. Per le donne in gravidanza la valutazione del rischio è diversa e si assesta su un consumo giornaliero fino a 200 milligrammi.
    Le quantità indicate dall’EFSA sono riferite a un consumo responsabile e per ridurre i rischi di avere complicazioni, temporanee o nel lungo periodo, legate agli effetti tossici della caffeina. Le dosi stimate alle quali questa sostanza diventa letale sono comunque molto più alte, anche se non c’è grande consenso nella letteratura scientifica. Indicativamente, si ritiene che il consumo di 10 grammi (cioè 10mila milligrammi) di caffeina in un’unica soluzione possa rivelarsi letale. A seconda delle modalità di preparazione, si dovrebbero quindi assumere tra le 100 e le 150 tazzine di caffè espresso in un giorno. LEGGI TUTTO

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    Vivere tra microbi e sporcizia da bambini rende più resistenti alle malattie?

    I primi anni di vita per i bambini sono una costante scoperta, non solo di suoni, forme, sapori e colori, ma anche di microbi che entrano di continuo in contatto con il loro organismo. I bambini infatti toccano qualsiasi cosa, camminano tenendo le mani a terra, che poi si portano alla bocca quando provano ad assaggiare gli oggetti più disparati. Alcuni genitori cercano di ridurre il più possibile questi incontri ravvicinati con superfici e oggetti sporchi, altri se ne preoccupano meno e seguono un modo di dire che si sente spesso: “Niente di male, sono tutti anticorpi in più”.È una convinzione che deriva da un’ipotesi dibattuta da tempo in ambito medico, secondo cui l’esposizione a particolari microrganismi nei primi anni di vita è essenziale per sviluppare meglio il sistema immunitario ed evitare alcuni disturbi in età adulta come allergie e asma, che derivano da un sua reazione anomala. Capire se sia davvero così non è però semplice.
    Tra i primi a esporre quella che sarebbe poi diventata nota come “ipotesi dell’igiene” ci fu l’epidemiologo britannico David P. Strachan, che nel 1989 scrisse un articolo sul British Medical Journal nel quale esplorava il rapporto tra le condizioni igieniche in cui crescevano i bambini e la loro salute in età adulta. Lo studio di Strachan si inseriva in un dibattito più ampio sulla cosiddetta “rivoluzione dell’igiene” iniziata circa due secoli fa specialmente in Europa e nel Nord America.
    L’introduzione degli impianti fognari, la periodica pulizia degli ambienti urbani, maggiori attenzioni nella preparazione dei cibi evitando contaminazioni e una crescente promozione dell’igiene personale avevano portato a un netto miglioramento delle condizioni di vita, anche grazie alla scoperta delle cause di malattie ancora molto comuni e letali nell’Ottocento come il colera e il tifo. Le nuove conoscenze permisero soprattutto nella prima metà del Novecento di ridurre sensibilmente i casi di numerose malattie infettive, ma secondo l’ipotesi dell’igiene privarono il nostro organismo di incontri con alcuni microorganismi importanti per il sistema immunitario.
    Rifacendosi ad analisi precedenti, Strachan aveva segnalato come nella prima metà del secolo scorso fosse emersa una quantità crescente di allergie e malattie infiammatore croniche, che erano meno presenti nel periodo prima della rivoluzione dell’igiene. Nel suo articolo, prese in considerazione soprattutto la rinite allergica (quella che viene chiamata a volte “raffreddore da fieno”) e alcune forme di eczema di natura allergica. Strachan osservò che queste malattie erano meno frequenti nelle famiglie con molti figli rispetto a quelle con figli unici, ipotizzando che fosse la prolungata convivenza tra bambini a rendere più probabili contaminazioni e contagi, con esiti positivi per le difese immunitarie.
    Come abbiamo ampiamente sperimentato negli ultimi anni di pandemia, le capacità del sistema immunitario cambiano di continuo a seconda dei patogeni (come virus e batteri) che entrano nel nostro organismo, causando disturbi e malattie. In presenza di un patogeno nuovo, la prima risposta immunitaria è generica e talvolta eccessiva, mentre col tempo il sistema immunitario si specializza e sviluppa capacità di difese più specifiche, che può impiegare con maggiore efficacia nel caso avvenga una nuova infezione con lo stesso patogeno, o con un qualcosa che gli somiglia molto come una variante. I vaccini, come quelli che si fanno contro le malattie infantili o l’influenza, servono a innescare questo meccanismo di specializzazione, evitando di farlo ammalandosi con tutti i rischi che potrebbero derivarne.
    In altri casi il sistema immunitario non funziona invece come previsto e attacca tessuti dell’organismo, causando varie tipologie di malattie definite “autoimmuni” o “immunomediate” a seconda delle circostanze. Molte allergie derivano da una reazione anomala a una sostanza normalmente innocua, che viene invece ritenuta pericolosa.
    Nei primi anni di vita, il sistema immunitario è relativamente più reattivo e versatile, di conseguenza riesce ad adattarsi più velocemente e a sviluppare le difese contro i patogeni. Per questo Strachan riteneva che alcune malattie allergiche potessero svilupparsi più facilmente tra i bambini che facevano esercitare meno il loro sistema immunitario, semplicemente perché vivevano poco con altri bambini e in condizioni che favorissero il contatto con patogeni, come i virus del raffreddore e altri microrganismi.
    Dopo la pubblicazione del proprio studio alla fine degli anni Ottanta, l’ipotesi di Strachan ottenne un certo successo, ma come spesso avviene in questi casi fu in parte travisata applicandola a molte altre malattie e spinta da alcuni verso eccessi rischiosi. Le persone contrarie alle vaccinazioni, per esempio, sfruttarono a modo loro l’ipotesi dell’igiene per giustificare la pratica di mettere insieme bambini sani e malati, in modo da rendere più probabile il contagio di malattie infantili come morbillo, parotite (gli “orecchioni”), rosolia e varicella. È una cosa che alcuni fanno ancora oggi, ma è rischiosa considerato che quelle malattie possono portare a gravi complicazioni, talvolta letali, che non si verificano invece attraverso la vaccinazione.
    Una ventina di anni fa l’ipotesi dell’igiene fu aggiornata, o per meglio dire integrata, con quella che fu poi definita “ipotesi dei vecchi amici”: dice che nei primi anni di vita i benefici per il sistema immunitario non derivano tanto dall’esposizione ai virus delle malattie più conosciute e diffuse, nella maggior parte dei casi risalenti a circa diecimila anni fa, quanto dal contatto con microrganismi che esistevano già ai tempi dei cacciatori-raccoglitori. Cacciare e raccogliere ciò che si trovava fu per lunghissimo tempo l’unica forma di sussistenza per le specie umane, compresi gli Homo sapiens comparsi circa 200mila anni fa. In quella lunga fase il sistema immunitario era in piena evoluzione e sviluppò una forte interdipendenza con alcuni microrganismi, senza i quali non può funzionare adeguatamente.
    Tra i principali sostenitori di questa ipotesi c’è l’immunologo britannico Graham Rook, che ha dedicato molti studi e ricerche per ricostruire il modo in cui si è evoluto e si sviluppa il sistema immunitario in ogni persona. Nei suoi lavori, Rook ha segnalato che probabilmente i microrganismi che hanno un ruolo importante per sviluppare le difese immunitarie sono quelli che vivono sulla pelle, nell’apparato respiratorio e nell’intestino, oltre a quelli che si trovano naturalmente negli ambienti popolati dagli esseri umani e ad alcuni virus. Alcuni di questi causano infezioni croniche verso le quali c’è stato un adattamento da parte del sistema immunitario nel corso dell’evoluzione, rendendo possibile lo sviluppo di alcune nuove importanti capacità di difesa.
    L’ipotesi dei vecchi amici ha ricevuto una decina di anni fa un’ulteriore integrazione con la cosiddetta “ipotesi della diversità microbica”, secondo cui è la varietà di batteri, funghi e virus che popolano il nostro intestino e altre parti dell’organismo (il cosiddetto “microbiota”) a essere un fattore chiave nello stimolare il sistema immunitario. I numerosi incontri con i microbi nei primi anni di vita aiuterebbero le nostre difese immunitarie a diventare più abili nell’identificare le minacce, sviluppando una memoria immunitaria e la capacità di affrontarle in modo più specifico ed efficiente nel caso di nuove infezioni.
    È comunque difficile ricostruire come si sia evoluto il nostro sistema immunitario nel corso di centinaia di migliaia di anni, considerato anche che ancora oggi non conosciamo perfettamente tutti i meccanismi che lo fanno funzionare. Ci sono indizi sul fatto che possa comunque esserci un legame tra l’esposizione ai microbi e l’avere o meno allergie e altri problemi di salute. Ci sono però moltissime variabili da tenere in considerazione ed è complicato trovare indizi e fare misurazioni.
    Pur consapevoli di queste limitazioni, nel tempo alcuni gruppi di ricerca si sono dedicati all’analisi di indicatori come le condizioni economiche e gli stili di vita. È per esempio emerso che allergie e malattie autoimmuni tendono a essere meno presenti nei paesi in via di sviluppo, dove le condizioni igieniche sono spesso diverse da quelle dei paesi più ricchi nei quali di solito le famiglie sono anche meno numerose. Alcuni studi hanno segnalato che le persone che migrano dai paesi meno ricchi a quelli più sviluppati tendono a sviluppare malattie legate a uno scorretto funzionamento del sistema immunitario, che aumentano all’aumentare del tempo trascorso lontano dal paese di origine. Si ipotizza che questo aumento sia dovuto al cambiamento della dieta e a una modifica del microbiota, ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire, anche perché i dati sono spesso carenti e potrebbero semplicemente esserci meno diagnosi di allergie.
    Per diverso tempo si è inoltre ipotizzato che un uso eccessivo degli antibiotici favorisse una riduzione nella versatilità del sistema immunitario ad affrontare le minacce. Gli antibiotici hanno spesso un effetto ad ampio spettro, di conseguenza distruggono parte dei batteri che vivono nel nostro intestino e che hanno un ruolo fondamentale nei processi di digestione e di assimilazione dei nutrienti. Alcuni studi notarono che tra chi aveva utilizzato antibiotici in giovane età c’era una maggiore quantità di casi di asma, ma l’effetto osservato potrebbe essere stato falsato dal fatto che gli antibiotici sono talvolta usati con maggiore frequenza tra i bambini asmatici, che avevano quindi già questo problema di salute.
    Trovare conferme o smentite all’ipotesi dell’igiene non è semplice, nemmeno se si prova a ridurre la quantità di variabili, per esempio studiando il fenomeno su modelli diversi dagli esseri umani, ma che potrebbero offrire qualche nuovo elemento. Un gruppo di ricerca svedese ci ha provato con i topi, come ha raccontato lo scorso anno sulla rivista scientifica Science Immunology.
    Per lo studio erano stati selezionati due gruppi di topi. Il primo era costituito unicamente da topi di laboratorio, che vivevano quindi in un ambiente pulito ed erano nutriti con cibo controllato e privo di contaminazioni. Il secondo gruppo era invece costituito da topi nati da impianti embrionali di topi di laboratorio in madri prelevate da contesti selvatici. Il gruppo di ricerca voleva ridurre il più possibile le variabili e non lo avrebbe potuto fare se avesse raccolto direttamente i topi dall’ambiente esterno, visto che avrebbero avuto tutti precedenti diversi. Si era quindi pensato di mitigare il problema ricorrendo a madri surrogate, in modo da riprodurre comunque la trasmissione di microrganismi importanti che avviene dalla madre ai figli con il parto.
    I topi del secondo gruppo erano stati allevati in un contesto meno asettico rispetto ai topi del primo gruppo, con gabbie contenenti paglia, compost e altri materiali dove abbondano i microrganismi. I topi allevati in questo modo avevano inoltre varie occasioni di incontro tra loro, per aumentare ulteriormente la probabilità di scambi di microbi e germi.
    Raggiunta l’età adulta, i topi del secondo gruppo avevano un microbiota molto più simile a quello che si osserva tipicamente nei loro simili in contesto selvatico, rispetto ai topi del primo gruppo tenuti in ambienti più asettici del laboratorio. Eppure, nonostante questa marcata diversità, il gruppo di ricerca non aveva riscontrato una minore ricorrenza delle allergie tra i due gruppi. I topi del secondo gruppo avevano inoltre mostrato di sviluppare una risposta immunitaria molto più forte alle sostanze per le quali erano allergici, con una maggiore produzione di infiammazione delle loro vie aeree e una più alta produzione di muco.
    L’esperimento è stato accolto con interesse, ma va comunque inserito nel contesto più ampio degli studi sull’ipotesi dell’igiene e del dibattito che si porta dietro. I topi sono un valido modello per condurre test di questo tipo, ma non sono esseri umani e hanno ovviamente caratteristiche diverse che riguardano anche i meccanismi del loro sistema immunitario.
    Venticinque anni dopo avere pubblicato la propria ipotesi sull’igiene, Strachan scrisse un commento sul British Medical Journal per ricordare che alcune delle idee che aveva espresso nel suo studio erano state travisate e che l’uso stesso della formulazione “ipotesi dell’igiene” era improprio. Segnalò che nonostante fossero passati molti anni non erano ancora emersi elementi a sufficienza per approfondire le conoscenze su allergie e condizioni ambientali nei primi anni di vita, in modo da trovare eventuali legami tra i due fenomeni.
    A distanza di molti anni, luoghi comuni e informazioni scorrette su cosa sia davvero l’ipotesi dell’igiene hanno in alcuni casi portato a sottovalutare l’importanza dell’igiene in molti contesti. Alcuni esperti hanno sollevato il problema di un minore controllo delle condizioni igieniche negli ambienti domestici dove crescono i bambini, per esempio, mettendo a rischio pratiche che negli ultimi due secoli hanno contribuito in modo significativo a ridurre alcuni tipi di infezioni.
    A oggi non ci sono infatti elementi per ritenere che le buone pratiche per mantenere puliti gli ambienti possano avere un certo effetto nel ridurre allergie e altri problemi di salute cronici legati al sistema immunitario. Ci sono invece elementi per ritenere che minori attenzioni all’igiene, iniziando con un lavaggio non adeguato delle mani e uno scarso ricambio d’aria negli ambienti chiusi, facciano aumentare il rischio di trasmissione di malattie infettive, anche molto pericolose. LEGGI TUTTO

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    Le sigarette elettroniche fanno fumare di più?

    Caricamento playerNegli ultimi giorni la notizia sul divieto in preparazione nel Regno Unito per le sigarette elettroniche usa e getta ha portato nuove attenzioni sui dispositivi per fumare, o provare a smettere di fumare, alternativi alle classiche sigarette. Come altri governi, anche quello inglese ritiene che in questo modo se ne possa limitare l’impiego tra gli adolescenti con benefici per la salute, ma in molti hanno sollevato dubbi sull’efficacia del provvedimento nel diminuire in generale il fumo nella popolazione. Da tempo si discute infatti non solo sugli effetti delle sigarette elettroniche sulla salute, ma anche sulla loro utilità per smettere di fumare e di consumare i normali prodotti a base di tabacco.

    – Ascolta anche: Svapare aiuta a smettere di fumare?

    Una sigaretta elettronica, che sia usa e getta o meno, scalda attraverso una resistenza elettrica una soluzione contenuta in una piccola ampolla, producendo il vapore che viene poi inalato da chi la utilizza. A seconda delle versioni e dei produttori la composizione del liquido cambia, ma di solito tra gli ingredienti più ricorrenti ci sono: glicole propilenico, cioè un additivo che viene spesso impiegato per diluire varie soluzioni; glicerolo, una sostanza oleosa come la glicerina (che altro non è che glicerolo a una certa concentrazione) e infine aromi che servono a dare al vapore un profumo e per farne percepire il sapore in bocca, quando viene inalato.
    Nell’ampolla può anche essere disciolta della nicotina, il composto che contribuisce alla dipendenza dal tabacco. Questa sostanza è presente in concentrazioni diverse a seconda delle preferenze e dei motivi per cui si è deciso di utilizzare una sigaretta elettronica. Per esempio, chi fuma le normali sigarette e vuole provare a smettere spesso inizia con soluzioni con una maggiore concentrazione di nicotina, passando nel tempo a concentrazioni più basse fino ad arrivare a consumare prodotti privi di nicotina.
    Chi non vuole smettere di fumare vede invece le sigarette elettroniche come un’alternativa più sana rispetto alle sigarette, che bruciando il tabacco portano all’inalazione di oltre 4mila sostanze come nicotina, catrame, benzene, cadmio, acetone, formaldeide, acido cianidrico e monossido di carbonio. Molte di queste sono cancerogene, fanno cioè aumentare il rischio di sviluppare alcuni tumori soprattutto (ma non solo) a carico del sistema respiratorio. Il fumo di sigaretta ha inoltre effetti dannosi per il cuore e in generale per la circolazione sanguigna.
    Le sigarette elettroniche propriamente dette, quelle che impiegano un liquido, non devono essere confuse con i cosiddetti “dispositivi a tabacco riscaldato non bruciato” (HTP, dall’inglese “heated tobacco product”). Questi prodotti si sono diffusi negli ultimi anni, sono realizzati quasi sempre dalle grandi aziende del tabacco, e offrono un’alternativa alla normale sigaretta. Invece di utilizzare un liquido da vaporizzare, impiegano direttamente il tabacco essiccato, che però non viene bruciato, ma solamente riscaldato riducendo di conseguenza la produzione di polveri e fumi nocivi rispetto a una classica sigaretta.
    Gli HTP esistono da tempo, ma sono diventati molto diffusi negli ultimi anni in seguito ai grandi investimenti delle aziende del tabacco, soprattutto per promuoverli come alternativa meno rischiosa rispetto alle normali sigarette. Gli effetti di questi dispositivi non sono però ancora completamente noti. Nel 2016 un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) segnalò di non avere trovato indizi che potessero giustificare le dichiarazioni sui minori rischi rispetto alle classiche sigarette. Alcune analisi successive condotte in alcuni paesi, come il Regno Unito, hanno portato a rilevare una possibile riduzione del rischio, ma gli HTP sono comunque considerati più dannosi rispetto alle sigarette elettroniche, quando utilizzate correttamente.
    (Christopher Furlong/Getty Images)
    Uno studio svolto nel 2017 sempre nel Regno Unito su un gruppo di ex fumatori di normali sigarette aveva, per esempio, rilevato una riduzione importante delle sostanze cancerogene presenti nel loro organismo nei sei mesi in cui erano passati alle sigarette elettroniche. Altri studi hanno però sollevato dubbi sulla sicurezza di alcune sostanze presenti nei liquidi. La glicerina e il glicole propilenico, per esempio, possono portare alla produzione di acetaldeide e formaldeide, sostanze certamente cancerogene; le quantità sono relativamente basse, ma il rischio non deve comunque essere sottovalutato.
    Altre incertezze sono legate all’impiego di alcuni aromi. Molti di questi sono normalmente utilizzati dall’industria alimentare e sono quindi sicuri per l’ingestione, ma nel momento in cui vengono scaldati per essere inalati cambiano alcune delle loro caratteristiche chimiche e fisiche. A oggi non ci sono studi a sufficienza su molti degli eventuali effetti derivanti dall’inalazione di queste sostanze e si stima che manchino dati chiari sui rischi di cancerogenicità per circa 7mila di loro.
    I rischi non derivano solamente dalle sostanze contenute nelle ampolle, ma anche dal modo in cui viene utilizzata la sigaretta elettronica. Alcuni suoi componenti devono essere puliti periodicamente, perché parte del vapore condensa e si formano ristagni in alcuni punti della sigaretta, senza contare quelli prodotti dalla saliva che entra in contatto con il dispositivo a ogni boccata. Le sigarette elettroniche sono inoltre sottoposte a una certa usura, soprattutto nella parte dove si produce il vapore, che col tempo può compromettere il normale funzionamento portando alla produzione di temperature troppo alte o al rilascio di sostanze ulteriormente dannose per la salute.
    Per tutti questi motivi è difficile valutare gli effetti delle sigarette elettroniche sull’organismo. Negli anni scorsi erano stati segnalati casi di infiammazioni al sistema respiratorio negli Stati Uniti, dove questo tipo di dispositivi si era diffuso molto velocemente, ma erano anche emerse difficoltà nel fare valutazioni su eventuali altri effetti.
    Tra le analisi più citate sull’argomento c’è la revisione che fu pubblicata alla fine del 2022 dall’associazione internazionale senza scopo di lucro Cochrane, che effettua studi molto approfonditi sui temi sanitari partendo dalla letteratura scientifica a disposizione. L’analisi aveva riguardato la comparazione di 78 studi che avevano coinvolto complessivamente oltre 22mila persone e aveva portato a rilevare solo effetti nel breve-medio periodo legati all’utilizzo delle sigarette elettroniche. Le principali conseguenze riguardano irritazioni alla gola e alla bocca, mal di testa, tosse e nausea, che sembrano però diminuire con il tempo. Altri effetti non sono stati segnalati semplicemente perché l’impiego delle sigarette elettroniche è un fenomeno relativamente recente, di conseguenza saranno necessari anni per avere elementi più concreti.
    Dal rapporto Cochrane era invece emerso che le sigarette elettroniche possono aiutare le persone a smettere di fumare meglio di quanto facciano le tradizionali terapie, che di solito si basano sull’impiego di prodotti sostitutivi per assumere nicotina, come cerotti e gomme da masticare. Secondo gli esperti dell’organizzazione gli indizi trovati nella letteratura scientifica sono molto solidi, anche se non è ancora chiaro se ci sia una particolare differenza tra sigarette elettroniche con e senza nicotina nell’aiutare a smettere di fumare.
    Parte dell’incertezza deriva dal fatto che la dipendenza dal fumo non è data solamente dalla nicotina, ma anche dall’abitudine e dalla gestualità che accompagna il momento in cui si fuma. Prendere una sigaretta, accenderla, inalarne il fumo, tenerla tra le dita e infine spegnerla sono gesti che psicologicamente hanno un ruolo importante nell’esperienza complessiva del fumo, e sono spesso un’abitudine molto difficile da perdere.
    (Leon Neal/Getty Images)
    Circa un anno prima dell’analisi Cochrane, il Comitato sulla salute, l’ambiente e i rischi emergenti (SCHEER) della Commissione europea aveva pubblicato un proprio rapporto sulle sigarette elettroniche. Sulla base della letteratura scientifica analizzata, lo SCHEER era arrivato a conclusioni meno nette, segnando che le prove sull’utilità delle sigarette elettroniche per smettere di fumare fossero deboli. Secondo il comitato, comunque, c’erano prove deboli-moderate sull’utilità di questi dispositivi per ridurre per lo meno il consumo di tabacco. In molti casi, infatti, i fumatori delle normali sigarette diventano anche utilizzatori delle sigarette elettroniche, ma senza rinunciare totalmente alle prime.
    Lo SCHEER aveva infine segnalato che per i ragazzi le sigarette elettroniche possono rappresentare un incentivo per passare a quelle classiche. Gli aromi hanno un ruolo importante nell’attrarre potenziali consumatori nelle fasce più giovani della popolazione, come del resto si era già visto in passato con gli aromi per le sigarette tradizionali, vietati da una direttiva europea nel 2020. I risultati di un sondaggio svolto negli Stati Uniti e pubblicato lo scorso anno sembrano però ridimensionare la conclusione dello SCHEER. Dal sondaggio è emerso un netto passaggio dal fumo di tabacco all’uso delle sigarette elettroniche, senza che si registrasse un aumento significativo di nuovi fumatori di sigarette tradizionali.
    Secondo i dati forniti dall’Istituto superiore di sanità (ISS), l’utilizzo delle sigarette elettroniche in Italia riguarda tra il 2 e il 4 per cento della popolazione, in un contesto in cui circa il 24 per cento delle persone nella fascia di età tra i 18 e i 69 anni si definisce fumatore. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stimato che circa il 22 per cento della popolazione mondiale faccia uso di tabacco. In termini statistici, circa la metà circa degli utilizzatori muore per le conseguenze dirette del fumo. LEGGI TUTTO

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    C’è un forte aumento di casi di morbillo in Europa

    Negli ultimi mesi in Europa si è registrato un forte aumento dei casi di morbillo, che l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha definito preoccupante. Nel 2023 l’OMS ha ricevuto segnalazioni di 42mila casi da 41 dei 53 paesi che fanno parte di quella che chiama “Regione Europea”, un’ampia area che oltre ai paesi dell’Unione Europea comprende numerosi altri stati compresi Kazakistan, Russia e Turchia. I casi sono aumentati di circa 45 volte rispetto a tutto il 2022 quando ne erano stati segnalati 942.I dati, comunicati a dicembre e integrati questa settimana, sono stati ripresi negli ultimi giorni dall’OMS con alcune iniziative di comunicazione soprattutto sui social network per sensibilizzare sull’importanza della vaccinazione, l’unica soluzione per tenere sotto controllo i casi e ridurre gli effetti della malattia. La prevenzione contro il morbillo viene effettuata con la somministrazione nei primi anni di vita del vaccino MPR, che offre protezione anche contro la parotite (gli “orecchioni”) e la rosolia.
    Il morbillo è una malattia infettiva del sistema respiratorio, è causato da un virus ed è altamente contagioso. Si trasmette per via aerea e chi la contrae diventa contagioso circa tre giorni prima dei sintomi e fino a una settimana dopo la comparsa delle pustole rosse su buona parte del corpo (esantema).
    La malattia, oltre allo sfogo cutaneo, causa tosse, raffreddore e febbre alta, che di solito raggiunge picchi intorno ai 40 °C. Il morbillo può essere la causa di molte complicazioni, dalla polmonite all’encefalite (una pericolosa infezione che interessa il cervello e il resto del sistema nervoso centrale contenuto nella scatola cranica) passando per otiti di media entità.
    Negli anni, il vaccino MPR ha consentito di immunizzare centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, riducendo sensibilmente i casi di morti da morbillo. Si stima che ogni mille casi di morbillo muoiano fino a tre bambini a causa delle complicazioni respiratorie e neurologiche indotte dalla malattia. Per questo motivo da tempo l’OMS e le istituzioni sanitarie in molti paesi hanno consigliato o resa obbligatoria la vaccinazione.
    Secondo i dati dell’OMS, nel 2023 il morbillo non ha riguardato solamente i bambini, ma diverse altre fasce di età: due casi su cinque hanno interessato bambini tra 1 e 4 anni, mentre un caso su cinque ha riguardato persone adulte con più di 20 anni. Tra gennaio e ottobre 2023 in Europa sono state ricoverate 21mila persone e sono stati registrati almeno 5 morti a causa della malattia in due paesi.
    L’aumento dei casi di morbillo è stato in parte ricondotto a un rallentamento nelle vaccinazioni tra il 2020 e il 2022, quindi durante la fase più acuta della pandemia da coronavirus. L’OMS ha calcolato che oltre 1,8 milioni di bambini non abbiano ricevuto il vaccino in quel periodo segnato da grandi difficoltà nel fornire assistenza sanitaria, ma anche da una certa avversione a recarsi in ospedale se non per le emergenze, nel timore di poter essere contagiati.
    Nell’estate del 2022 il rischio di una forte riduzione delle vaccinazioni era stata segnalata dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC). All’epoca la direttrice, Andrea Ammon, aveva previsto che ci sarebbero stati ritardi nelle vaccinazioni per almeno due gruppi di bambini: quelli che avevano tra i 12 e i 14 mesi di età all’inizio della pandemia, e quelli che avevano raggiunto la medesima età nel 2021. Il problema sembrava avere una minore portata per i bambini con età tra i 5 e i 6 anni, cioè quando si riceve una seconda dose per immunizzare quel 2-5 per cento per i quali non è sufficiente la prima somministrazione.
    Casi di morbillo nella Regione Europea tra dicembre 2022 e novembre 2023 (OMS)
    Il paese che ha segnalato il maggior numero di casi di morbillo nel 2023 è il Kazakistan, che tra dicembre 2022 e novembre 2023 ha rilevato 13.677 contagi. Seguono poi la Russia con 10.710 casi e il Kirghizistan con 5.452. La situazione è difficile anche in Turchia, Azerbaigian e Romania. Nel Regno Unito sono stati segnalati 183 casi, molti meno, ma comunque significativi per un’economia sviluppata occidentale.
    Per quanto riguarda l’Italia, l’ultimo bollettino dell’Istituto superiore di sanità (ISS) pubblicato a settembre e riferito ai primi 8 mesi dell’anno indicava undici casi di morbillo: 9 confermati in laboratorio e due segnati come “possibili”. Il maggior numero di casi era stato rilevato in Lombardia con tre segnalazioni. Oltre la metà dei pazienti aveva un’età compresa tra i 15 e i 39 anni.
    Nuovi casi mensili di morbillo da gennaio 2021 a novembre 2023
    La diffusione del morbillo tra le persone adulte è di solito strettamente legata alla percentuale di popolazione vaccinata e/o immunizzata attraverso la malattia (con tutti i rischi che ne conseguono). La malattia può essere tenuta sotto controllo se il tasso di vaccinati è almeno del 95 per cento, ma in Europa negli ultimi anni si è registrata una sensibile diminuzione. È stato calcolato che dal 96 per cento del 2019 si sia scesi al 93 per cento del 2022. Il dato è in linea con la riduzione legata al periodo della pandemia, ma in alcuni paesi ha influito anche l’esitazione vaccinale.
    Il vaccino MPR negli anni è stato spesso osteggiato dai movimenti contro i vaccini, nati soprattutto in seguito alla disinformazione e a un vecchio e fraudolento studio scientifico del 1998, da tempo smentito da tutte le più importanti organizzazioni sanitarie del mondo compresa l’OMS e ritirato dalla stessa rivista The Lancet, che lo aveva pubblicato alla fine degli anni Novanta. LEGGI TUTTO