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    Un rene da un suino geneticamente modificato è stato trapiantato in un essere umano

    Un rene da un maiale geneticamente modificato è stato impiantato in un uomo di 62 anni in un ospedale di Boston, negli Stati Uniti, sperimentando una tecnica che un giorno potrebbe consentire a centinaia di migliaia di persone con gravi malattie renali di migliorare le loro condizioni di salute. Secondo i medici che lo stanno seguendo, il paziente sta relativamente bene, cammina da solo e potrebbe essere dimesso nei prossimi giorni.Le notizie sulle sue condizioni sono state diffuse oggi, ma l’operazione era avvenuta il 16 marzo scorso, con un intervento durato quattro ore presso il Massachusetts General Hospital. Poco dopo il trapianto, il rene ha iniziato a produrre urina come atteso, filtrando le impurità del sangue come farebbe un normale rene umano, hanno detto i medici. La procedura è ancora sperimentale e sarà necessario del tempo per valutare gli effetti sul paziente. Nel 2021 un intervento simile era stato svolto in un ospedale di New York, ma in quel caso il rene proveniente da un maiale geneticamente modificato era stato impiantato in un uomo cerebralmente morto.
    Da tempo vari gruppi di ricerca sono al lavoro per perfezionare la tecnica degli xenotrapianti, cioè i trapianti di organi da altre specie da impiantare negli esseri umani. Questo approccio è ritenuto promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori di organi umani per effettuare i trapianti.
    La società di biotecnologie eGenesis ha fornito il rene frutto di alcune modifiche genetiche applicate a un maiale tramite la tecnica CRISPR-Cas9, che consente di modificare il materiale genetico tagliandone dei pezzi per eliminarli o per incollarli altrove (qui è spiegato più estesamente). Il sistema ha permesso di rimuovere tre geni che avrebbero potuto indurre l’organismo del paziente a rigettare il rene, e a introdurre sette geni umani nel maiale in modo da migliorare la compatibilità dei suoi reni con l’organismo umano.
    Il lavoro del gruppo di ricerca di eGenesis ha inoltre riguardato la ricerca e l’inattivazione di alcuni virus tipici dei maiali, per evitare che questi potessero causare infezioni virali nel ricevente. Quella della trasmissione dei virus è una delle più grandi preoccupazioni legate agli xenotrapianti, perché si potrebbero verificare passaggi di malattie dalle specie di partenza agli esseri umani: per questo parte delle tecniche di produzione degli organi si sta concentrando sull’isolamento degli animali e sulla “pulizia” dei loro tessuti prima di procedere con il trapianto.
    La persona che ha ricevuto il rene si chiama Richard Slayman e soffre da molti anni di diabete e ipertensione, due condizioni che avevano contribuito al peggioramento dei suoi reni fino alla perdita di funzionalità. A partire dal 2011 Slayman era rimasto per sette anni in dialisi, cioè sottoposto a un trattamento per ripulire il suo sangue tramite un macchinario, in modo da sopperire alla mancata attività renale. Nel 2018 aveva infine ricevuto un rene da un donatore umano, ma dopo cinque anni l’organo aveva smesso di funzionare e le condizioni di Slayman erano sensibilmente peggiorate.
    Nel 2023 Slayman era stato sottoposto nuovamente a dialisi, ma aveva continuato a peggiorare al punto da rendere necessari diversi ricoveri. Era stato messo nuovamente in lista di attesa per un trapianto, ma sarebbero stati necessari tra i cinque e i sei anni prima di poter ricevere un nuovo rene e probabilmente non sarebbe sopravvissuto fino ad allora. I medici gli proposero di tentare lo xenotrapianto, anche se si trattava di un trattamento sperimentale non ancora autorizzato dalle autorità di controllo (ma praticabile nell’ambito delle cosiddette “cure compassionevoli”) e Slayman accettò.
    Una fase dell’intervento chirurgico (Massachusetts General Hospital)
    Nonostante le precarie condizioni di salute e l’età, Slayman ha mostrato secondo i medici buone capacità di recupero già nei primi giorni dopo l’intervento. Ha smesso di fare la dialisi e il rene sembra funzionare normalmente, sia per quanto riguarda la produzione di urina sia le normali attività di pulizia del sangue. Slayman sta anche assumendo alcuni farmaci per ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, in modo da ridurre il rischio che il suo sistema immunitario riconosca come estraneo il rene e cerchi quindi di attaccarne i tessuti compromettendone le funzionalità.
    In generale gli xenotrapianti non sono una novità, ma per lungo tempo hanno riguardato interventi di minore entità. Le valvole cardiache suine vengono per esempio impiegate abitualmente nei pazienti con particolari problemi cardiaci, così come le persone diabetiche ricevono trattamenti sviluppati nei maiali. In alcuni casi la pelle dei suini viene utilizzata come soluzione temporanea per chi ha gravi ustioni. A partire dagli anni Sessanta erano stati sperimentati trapianti di reni da scimpanzé a esseri umani, ma senza grande successo. All’inizio degli anni Ottanta era stato sperimentato un trapianto di cuore da un babbuino a una bambina, che però morì circa tre settimane dopo l’intervento.
    All’inizio del 2022 si era parlato molto del primo trapianto di cuore da un suino geneticamente modificato, effettuato sempre negli Stati Uniti. All’epoca il paziente aveva scelto di sottoporsi all’intervento perché era rimasto senza alternativa: era stato sottoposto ad altri trattamenti senza successo ed era troppo malato per ricevere un cuore da un donatore umano. Per accedere alle liste di attesa per ricevere un organo si devono infatti soddisfare vari criteri, legati soprattutto alla prospettiva di vita. Un paio di mesi dopo il trapianto di cuore, l’uomo era morto a causa di varie complicazioni.
    Secondo i dati della Società italiana di nefrologia, in Italia le persone con una malattia renale cronica (MRC) sono circa quattro milioni, con 100mila che hanno necessità di terapie salvavita di vario tipo, 50mila in dialisi e migliaia che sono nelle liste di attesa. Le malattie renali sono tra le più diffuse al mondo, di conseguenza c’è un’alta richiesta di trapianti in molti paesi e si ritiene che con gli xenotrapianti si potrebbe rispondere meglio, e più velocemente, alle esigenze mediche di molte persone. Ci sono comunque implicazioni etiche e morali discusse da tempo, soprattutto sull’impiego di animali per questi scopi. LEGGI TUTTO

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    Il “metodo Wim Hof” funzionicchia?

    Caricamento playerDa molti anni Wim Hof si immerge nel ghiaccio ogni volta che può. Dice che lo aiuta a stare meglio, a concentrarsi, a meditare e a compiere imprese sportive decisamente fuori dal comune. Hof ha elaborato un “metodo” che porta il suo nome, molto conosciuto grazie ad articoli, documentari e alla sua presenza sui social network, ma da anni ci si chiede se le cose che fa servano davvero a migliorare la salute e se abbiano una base scientifica. Un’analisi pubblicata di recente sugli studi condotti finora su Hof e il suo metodo dice che forse qualche beneficio c’è, ma che servono ricerche molto più approfondite e su un maggior numero di persone per trarre qualche conclusione.
    Wim Hof è nato nei Paesi Bassi nel 1959 e dice di essersi appassionato all’acqua fredda, molto fredda, quando aveva diciassette anni e praticava già yoga, karate e meditazione. Passeggiava nelle vicinanze di un canale e decise di immergercisi, trasformando poi quel primo esperimento in un’abitudine quotidiana accompagnata dal perfezionamento di tecniche di respirazione. Lavorò per un certo tempo come guida per escursionisti sui Pirenei e intanto sviluppò quello che sarebbe diventato noto come “metodo Wim Hof” e che lo avrebbe reso famoso come “The Iceman”, cioè l’uomo di ghiaccio.
    Oggi quel metodo è diventato la base per gli affari di Innerfire, una società in cui lavorano alcuni figli di Hof e che promuove le pratiche legate alle immersioni nel ghiaccio e in generale all’attività sportiva compiuta al freddo. I principi cardine del metodo sono: un particolare tipo di respirazione che prevede fasi di iperventilazione, il ricorso a docce e bagni freddi o meglio ancora gelidi, oltre a cicli di meditazione per controllare emozioni, impulsi e pensieri.
    Innerfire offre piccoli corsi gratuiti fino a esperienze più articolate che costano alcune migliaia di euro, talvolta con la possibilità di farle direttamente insieme a Hof. La società vende inoltre molti prodotti legati al metodo: libri, magliette e costumi tecnici, ma non mancano infradito e altri oggetti che non hanno molto a che fare con il metodo in sé. Grazie alle attenzioni da parte dei media che ha raccolto negli anni, Hof non ha molto bisogno di farsi pubblicità: spesso il suo canale Instagram con oltre 3,5 milioni di iscritti è più che sufficiente.
    Da sempre Hof sostiene che il suo metodo abbia chiaramente qualcosa di scientifico e il sito di Innerfire riflette questa convinzione, con intere sezioni dedicate ai benefici del sistema, talvolta con dichiarazioni che paiono per lo meno esagerate per i più scettici. Il metodo viene indicato come una possibile soluzione per migliorare le prestazioni sportive o le condizioni di chi soffre di malattie come dolore cronico, sclerosi multipla, artrite, asma e varie malattie autoimmuni. Proprio per contrastare le critiche, Hof ha in più occasioni detto di essere disponibile a farsi studiare e a mettere alla prova il proprio metodo, cosa che effettivamente negli anni è stata fatta, seppure con iniziative sporadiche e poco sistematiche.
    Incuriositi dalla storia di Hof e dalle tante cose difficili da verificare che si sentono sul suo metodo, due ricercatori dell’Università di Warwick (Regno Unito) hanno svolto un’analisi degli studi condotti finora sul metodo Wim Hof. La prima cosa che hanno notato è che la qualità delle ricerche disponibili è «molto bassa, di conseguenza tutti i risultati devono essere interpretati con cautela», come scrivono nel loro studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica PLOS One.
    La revisione ha riguardato otto studi clinici controllati randomizzati, cioè svolti con diversi accorgimenti per ridurre il rischio di distorsioni e preconcetti. Studi di questo tipo sono considerati tra i più affidabili per verificare l’efficacia di un trattamento, ma devono essere comunque condotti su una quantità significativa di partecipanti per avere una certa rilevanza statistica. Il gruppo di ricerca ha segnalato che nella maggior parte di quegli studi le persone coinvolte erano relativamente poche (tra 13 e 40, per lo più di sesso maschile) e quindi poco rappresentative per dedurre informazioni che riguardino la popolazione in generale.
    Gli studi svolti in passato non avevano inoltre messo direttamente a confronto la pratica di immergersi nell’acqua ghiacciata con altre attività fisiche, come il nuoto, la corsa oppure la pratica della meditazione in condizioni meno gelide quando si fa normalmente yoga. Non ci sono quindi elementi per sostenere quale caratteristica del metodo Wim Hof porti a un eventuale beneficio rispetto ad altri tipi di pratiche.
    Il lavoro di ricerca svolto all’Università di Warwick ha comunque indicato che il metodo potrebbe in alcune circostanze ridurre i livelli di infiammazione nelle persone sane o con determinate malattie, anche se non è completamente chiaro in che modo. Un’ipotesi, emersa dagli studi analizzati, è che la pratica di immergersi nell’acqua gelata porti a una maggiore produzione di adrenalina, una sostanza molto importante nella gestione di numerose attività fisiche e per la reattività stessa dell’organismo. L’adrenalina innesca reazioni che possono influire sull’attività del sistema immunitario, coinvolto nei meccanismi di infiammazione.
    Per quanto riguarda un’altra delle affermazioni principali di Hof, e cioè che il suo metodo migliori le capacità quando si fa attività fisica, i risultati sono stati meno convincenti. Il gruppo di ricerca cita una lettera inviata a una rivista scientifica in cui si dava conto di una spedizione condotta da Hof su una montagna raggiungendo in due giorni quote molto alte, senza praticare i classici 4-7 giorni di acclimatamento per abituare l’organismo alle diverse condizioni di pressione e rarefazione dell’aria. La lettera indicava questo risultato come una dimostrazione dell’efficacia del metodo, ma non era stata sottoposta a revisione e aveva comunque riguardato un gruppo molto ristretto di persone, senza che ci fosse un gruppo di controllo.
    Nelle conclusioni dell’analisi, i due ricercatori scrivono che il metodo «potrebbe produrre effetti immunomodulatori promettenti, ma sono necessarie ricerche di maggiore qualità per dare sostanza a queste affermazioni». L’analisi indica inoltre che i prossimi studi sul metodo di Wim Hof dovrebbero essere orientati a verificare eventuali benefici per le persone con specifiche malattie, confrontandoli con quelli per le persone in salute.
    Considerate le dichiarazioni a volte eccessive sul metodo Wim Hof, la nuova analisi ha suscitato varie reazioni tra chi studia queste cose e tra appassionati delle immersioni al gelo. Mike Tipton, dell’Università di Portsmouth (Regno Unito), ha detto a CNN che il nuovo lavoro di ricerca dimostra come «gli elementi scientifici sono troppo deboli o parziali per trarre conclusioni su cosa si possa ottenere seguendo il metodo Wim Hof». Di conseguenza dovrebbero esserci maggiori cautele nella comunicazione degli eventuali benefici, considerato anche che per alcune persone che ignorano di avere particolari problemi di salute l’immersione in acqua gelata potrebbe essere rischiosa.
    Negli anni ci sono state alcune iniziative legali nei confronti di Wim Hof, legate a incidenti che secondo le persone coinvolte sarebbero stati causati dall’aver seguito il suo metodo. Alla fine del 2022 i familiari di una diciassettenne morta per affogamento hanno fatto causa a Hof, sostenendo che la ragazza stesse seguendo le tecniche di respirazione suggerite nel suo metodo. Nello stesso anno era stato segnalato un altro caso di affogamento di una persona che aveva iniziato a utilizzare un’applicazione con i consigli di Hof per regolare la respirazione.
    In seguito alla pubblicazione della nuova analisi, Innerfire ha ammesso che sono necessarie ricerche più approfondite per verificare alcune delle dichiarazioni sui benefici portati dal metodo Wim Hof, ribadendo di essere disponibile per collaborare con la comunità scientifica per trovare nuove risposte. LEGGI TUTTO

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    Oggi è iniziata la primavera

    Caricamento playerAlle 4:06 di mercoledì mattina c’è stato l’equinozio di primavera, cioè l’evento astronomico che segna l’inizio della stagione primaverile. Anche se convenzionalmente si dice che le stagioni comincino sempre il giorno 21 dei mesi di marzo, giugno, settembre e dicembre, le date esatte di equinozi e solstizi dipendono dalla rivoluzione della Terra: fino al 2102 l’equinozio di primavera non sarà il 21 marzo, ma il 20 oppure il 19.
    L’equinozio è il momento preciso in cui il Sole si trova allo zenit dell’equatore della Terra, cioè esattamente sopra la testa di un ipotetico osservatore che si trovi in un punto specifico sulla linea dell’equatore. Il giorno dell’equinozio di primavera ha comunque una caratteristica particolare: è uno dei due soli giorni all’anno, l’altro è quello dell’equinozio d’autunno, in cui il dì – cioè la parte del giorno in cui c’è luce – ha la stessa durata della notte (anche se poi non è esattamente così, a causa di alcune interazioni della luce con l’atmosfera terrestre).

    – Leggi anche: La Terra è rotonda

    Il significato del termine “equinozio” è chiaro per chi sa qualcosa di latino o è bravo a tirare a indovinare: la parola italiana deriva dal latino aequinoctium, composto da aequus, cioè “uguale” e nox, “notte”. Dopo l’equinozio di primavera la parte della giornata in cui c’è luce continua ad allungarsi ogni giorno nell’emisfero boreale fino al solstizio d’estate: a quel punto le ore di luce cominciano a diminuire, tornando pari a quelle di buio nell’equinozio d’autunno, e ricominciando ad aumentare solo con il solstizio d’inverno. Estate e inverno iniziano nei giorni di solstizio, in cui le ore di luce sono rispettivamente al loro massimo o al loro minimo. Per quanto riguarda l’emisfero australe, cioè la parte della superficie della Terra a sud dell’Equatore, è tutto l’opposto.
    Oltre alle stagioni astronomiche, ci sono anche le stagioni meteorologiche: iniziano in anticipo di una ventina di giorni rispetto a solstizi ed equinozi, e durano sempre 3 mesi (marmotta Phil permettendo). Indicano i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati.
    Spiegazioni più estese sulle stagioni, il calendario, e le relazioni con il movimento della Terra si possono trovare nel numero della rivista del Post Cose spiegate bene dedicato alla geografia, che si chiama La Terra è rotonda. LEGGI TUTTO

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    Perché gli asparagi fanno puzzare la pipì

    Intorno al 1780 lo scienziato e politico statunitense Benjamin Franklin scrisse una lettera indirizzata all’Accademia imperiale di Bruxelles chiedendosi se non ci fosse il modo di trovare un rimedio per gli asparagi che «mangiati danno alla nostra urina un odore sgradevole». La lettera era sarcastica ed era stata scritta in seguito all’annuncio di una competizione in matematica che Franklin riteneva inutile e ridicola. Per questo poneva una questione scientifica piccola e all’apparenza insignificante, ma che potrebbe offrire nuovi spunti per comprendere come digeriamo alcuni alimenti e persino il modo in cui percepiamo certi odori.A quasi due secoli e mezzo dalla sua lettera, Franklin oggi sarebbe probabilmente sorpreso nello scoprire che la causa precisa di quell’odore che trovava così sgradevole – a differenza per esempio di Franco Battiato, che disse in una sua canzone di apprezzarlo – è ancora oggi un mistero. Che siano gli asparagi la causa non sfugge praticamente a nessuno vada in bagno qualche tempo dopo averli mangiati, ma non è ancora completamente chiaro quali siano le sostanze e i processi digestivi coinvolti nel nostro organismo.
    Esistono numerose varietà dell’asparago comune (Asparagus officinalis), utilizzate per lo più a scopo alimentare. La produzione raggiunge il picco tra la seconda metà di marzo e il mese di giugno, quando la pianta cresce e fuori dalla terra iniziano a svilupparsi i “turioni”, cioè i getti che vengono raccolti per essere poi consumati. Le varietà di asparago hanno pressoché la medesima composizione chimica e per questo si fanno sentire allo stesso modo nelle urine, con un odore caratteristico e pungente che alcuni trovano insopportabile e verso il quale altri sono del tutto indifferenti.
    (Daniel Kopatsch/Getty Images)
    Tra le prime sostanze sospettate di concorrere alla pipì da asparago ci fu il metantiolo, un composto che i chimici conoscono bene perché ha un odore tremendo simile a quello del cavolo marcio. Nel 1956 un gruppo di ricerca aveva riscontrato la sua presenza nelle urine della maggior parte dei volontari cui aveva chiesto di mangiare asparagi, anche se misteriosamente la sostanza non era presente nei campioni di alcuni partecipanti. La sola presenza del metantiolo non era però sufficiente per spiegare il fenomeno, anche perché un conto sono i composti presenti in un liquido, un altro il modo in cui da questo si producono composti volatili che determinano poi un odore.
    Grazie allo sviluppo di sistemi per analizzare le sostanze volatili, verso la fine degli anni Ottanta fu possibile confermare la presenza di almeno sei composti probabilmente responsabili del caratteristico odore della pipì dopo una mangiata di asparagi. Al metantiolo si erano infatti aggiunti il dimetil solfuro e il disolfuro di metile, il 2,4-ditiapentano, il dimetilsolfossido e il dimetilsolfone. La maggior parte di questi comprendono lo zolfo, elemento che quando si lega con l’idrogeno porta al caratteristico odore di uova marce (lo zolfo in sé è inodore).
    Per quanto odorosi, questi composti sono piuttosto delicati e difficilmente resisterebbero alla cottura degli asparagi, quindi secondo vari gruppi di ricerca emergono come il prodotto di un processo che avviene durante la digestione a partire da qualcosa di lievemente diverso. Si ritiene che quel qualcosa sia l’acido asparagusico, una sostanza non volatile che si trova unicamente negli asparagi. Quando viene digerito dal nostro organismo, entra in contatto con i succhi gastrici e gli altri prodotti della digestione portando a quei composti volatili e odorosi dai nomi complicati.
    La produzione dell’odore avviene piuttosto rapidamente, tanto che spesso inizia a sentirsi nelle urine entro 15-30 minuti dall’ingestione dei primi asparagi. Ne basta inoltre una quantità molto ridotta perché si senta l’odore, proprio per le caratteristiche dei composti volatili che lo causano. Oltre a iniziare quasi subito, il fenomeno si protrae a lungo perché i composti che lo causano restano in circolazione nell’organismo per diverso tempo. È stato calcolato che abbiano un’emivita di circa quattro ore: significa che la loro concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo quattro ore è meta, dopo altre quattro ore è metà della metà e così via, fino a quando la concentrazione diventa trascurabile).
    (AP Photo/Matthew Mead)
    C’è però una questione aggiuntiva che complica le cose: alcune persone dicono di non sentire nessun odore particolare quando fanno pipì dopo avere mangiato asparagi. Le stime variano a seconda degli studi, ma sembra che questa circostanza riguardi tra il 20 e il 40 per cento della popolazione (altre ricerche indicano percentuali ancora più alte). Non è però chiaro se con la digestione queste persone non producano le sostanze volatili odorose oppure se non abbiano la capacità di percepirle con l’olfatto.
    Negli anni Ottanta la questione fu affrontata da un paio di ricerche scientifiche che portarono più o meno alla medesima conclusione. Secondo i test, tutti i partecipanti producevano urina dal caratteristico odore del dopo asparagi, ma non tutte le persone riuscivano poi a percepirlo. Le persone che sentivano l’odore erano in grado di notarlo anche nell’urina delle persone che dicevano di non sentirlo, apparentemente a conferma del fatto che si trattasse di un problema di percezione e non di produzione delle sostanze odorose.
    Le conclusioni di quelle ricerche furono messe in dubbio alcuni anni dopo da nuovi studi che valutarono la possibilità che la questione non fosse solamente di percezione, ma anche di produzione. I test svolti in precedenza si erano infatti basati per lo più su test dove i volontari dovevano odorare la pipì prodotta dopo un pasto a base di asparagi e confrontarla con l’acqua o altre sostanze non odorose. In queste condizioni era probabile che alcune persone notassero un particolare odore dell’urina che però non c’entrava nulla con quello prodotto in seguito all’ingestione di asparagi.
    Nel 2011 un gruppo di ricerca del Monell Chemical Senses Center di Philadelphia (Stati Uniti) elaborò un test più articolato per provare a superare i difetti degli esperimenti condotti in precedenza. A un gruppo di volontari fu chiesto di bere una bottiglia d’acqua e di mangiare asparagi, preparati saltandoli in padella con un poco di olio e sale. Dopo un paio d’ore a ogni volontario fu chiesto di fare pipì in un recipiente, e tutti i contenitori furono poi messi in un congelatore. Il giorno seguente allo stesso gruppo di volontari fu chiesto di bere una bottiglia d’acqua e di mangiare una pagnotta condita con la stessa quantità di olio e sale utilizzata in precedenza per la preparazione degli asparagi. Anche in questo caso furono attese due ore e fu poi chiesto ai volontari di raccogliere la loro urina.
    Ottenuti i due campioni si passò alla parte meno gradevole dell’esperimento. A ogni volontario fu infatti chiesto di odorare la propria pipì e quella di altri partecipanti, per vedere chi e come riscontrasse un odore particolare riconducibile al consumo di asparagi. Alcuni partecipanti si sottrassero alla prova, dicendo di non sentirsela o di non riuscire a sopportare l’odore della loro stessa urina dopo avere consumato asparagi. Al netto delle rinunce, il gruppo di ricerca riuscì comunque a calcolare che il 6 per cento dei volontari non fosse in grado di percepire l’odore particolare della pipì del dopo asparagi e che l’8 per cento non producesse urina con il classico odore dovuto al consumo di quella verdura.
    Dallo studio emerse inoltre che almeno una persona non era in grado né di produrre né di percepire il pungente odore di pipì post asparagi. Il gruppo di ricerca ipotizzò quindi che alcune persone non abbiano un particolare enzima coinvolto nel processo di digestione e trasformazione dell’acido asparagusico, ma a oggi non sono stati trovati molti elementi per confermarlo con certezza e l’ipotesi è ancora dibattuta.
    La capacità di percepire o meno quel caratteristico odore dell’urina potrebbe essere legato a un gene, che però non sembra essere coinvolto nei processi digestivi che portano in primo luogo alla produzione del medesimo odore. Indizi sul gene furono forniti una quindicina di anni fa dalla società privata di analisi del DNA 23andMe, che condusse uno studio chiedendo a 10mila dei propri clienti se fossero o meno in grado di percepire il caratteristico effetto degli asparagi sulla pipì. In questo modo fu possibile identificare il probabile gene coinvolto nell’incapacità per alcune persone di percepire quell’odore.
    (Getty Images)
    Nel 2016 un gruppo di ricerca dell’Università di Harvard (Stati Uniti) condusse un sondaggio tra 7mila volontari chiedendo se fossero in grado di percepire il particolare odore della pipì dopo avere mangiato asparagi. Il 40 per cento circa disse di riuscirci senza problemi, mentre il restante 60 per cento diede risposte meno coerenti. Dalle analisi emerse che possono esserci quasi 900 mutazioni nel DNA che portano a versioni lievemente differenti di alcuni geni, coinvolti nel modo in cui vengono percepiti particolari odori. È però difficile stabilire con certezza quali mutazioni siano coinvolte più di altre nell’incapacità di percepire l’odore che assume l’urina dopo avere consumato asparagi.
    Non tutti i ricercatori sono comunque convinti che sia una componente genetica a determinare la capacità di produrre o meno quell’odore. Le cause potrebbero derivare da molte altre variabili, a cominciare dal modo in cui ciascuno digerisce gli alimenti e dai microbi presenti nella flora intestinale, che a seconda dei casi possono portare alla digestione e alla scomposizione di alcune sostanze e non di altre. Qualcosa di simile avviene del resto con altri alimenti, come l’aglio, che si rivelano essere poi molto odorosi una volta ingeriti per alcune persone e per altre no.
    Nel complesso gli studi condotti negli ultimi settant’anni hanno portato a conclusioni contrastanti segnalando l’esistenza di: persone che producono e percepiscono quel particolare odore nelle loro urine, persone che non producono quell’odore ma lo sentono nella pipì degli altri e persone che non riescono a percepirlo in assoluto. Considerato l’argomento e la sua minore importanza rispetto a molte questioni di salute, la letteratura scientifica intorno all’argomento non è molto ricca, ma l’argomento è stato comunque preso molto più sul serio di quanto avesse ipotizzato Benjamin Franklin a fine Settecento. LEGGI TUTTO

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    Il senso comune non è poi così comune

    Il concetto di “senso comune” o “buon senso” è utilizzato con grande frequenza in molti contesti diversi, dalle conversazioni quotidiane ai dibattiti politici ai consigli sulla salute. È però un concetto abbastanza ambiguo e difficile da definire, perché in generale non esiste accordo tra le persone su quali conoscenze siano parte del senso comune e quali no. Non è noto nemmeno quanto sia concretamente condiviso il senso comune, che pur chiamandosi così non è appunto chiaro esattamente quanto lo sia.In un articolo pubblicato a gennaio sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) Mark Whiting e Duncan Watts, due ricercatori in scienze dell’informazione della University of Pennsylvania, hanno misurato il grado di condivisione del senso comune all’interno di un gruppo di 2.046 persone. Per cercare di comprendere come i partecipanti intendessero questo concetto, hanno chiesto loro di valutare oltre 4mila affermazioni secondo una scala di buon senso, e hanno scoperto che non esistevano valutazioni universalmente condivise all’interno del gruppo.
    Soltanto affermazioni molto generiche relative a conoscenze empiriche, come «i triangoli hanno tre lati» e «una batteria non può fornire energia per sempre», erano considerate di senso comune da un numero ampio di persone. Su altre come «evitare contatti ravvicinati con persone malate», «tutti gli esseri umani sono creati uguali» o «tutte le persone devono avere le stesse opportunità di accesso all’istruzione» c’erano invece grandi divergenze di opinione riguardo al fatto se fossero o meno un esempio di affermazione di buon senso. Uno degli aspetti che hanno attirato maggiormente l’attenzione dei ricercatori è che variabili demografiche come l’età, il genere o il reddito delle persone non erano rilevanti sulla valutazione di cosa fosse per loro il senso comune.
    I partecipanti dovevano esprimere sia quanto ciascuna affermazione fosse di senso comune secondo loro, sia quanto pensavano che lo fosse per le altre persone. In molti casi le valutazioni andavano di pari passo e le convinzioni personali erano molto influenti su cosa le persone pensavano che fosse il senso comune. Per esempio, se un partecipante non condivideva l’affermazione secondo cui «tutti gli esseri umani sono creati uguali», la sua inclinazione a giudicarla di buon senso in termini collettivi diminuiva (e, viceversa, aumentava quando era d’accordo con l’affermazione).

    – Leggi anche: L’annosa questione di chi si alza appena l’aereo atterra

    La condivisione delle opinioni all’interno del gruppo tende tuttavia a diminuire man mano che aumenta il numero di persone prese in considerazione. «I nostri risultati suggeriscono che tende a esserci una ragionevole quantità di convinzioni in comune tra due persone, ma come società manca un senso comune a tutti», ha detto Whiting. In generale, secondo lui, le persone tendono a essere d’accordo su cosa sia il buon senso se sono persone che interagiscono regolarmente, ma non si rendono conto che esistono poche cose su cui tutte le persone sono universalmente d’accordo.
    Una delle possibili obiezioni rispetto alle conclusioni dello studio pubblicato su PNAS è che il modo in cui le persone intendono il senso comune ha più a che fare con le loro azioni quotidiane che con le loro opinioni, come ha detto al quotidiano El País Javier Vilanova, professore di logica e filosofia del linguaggio all’università Complutense di Madrid. «Il luogo in cui il buon senso si vede davvero e si sviluppa è nella vita di tutti i giorni», ha detto Vilanova, e ha fatto l’esempio del denaro come di qualcosa che esiste perché esiste una convinzione condivisa sul valore che ha.
    Altre ricerche hanno descritto negli ultimi anni, in un modo simile a quello dello studio di Whiting e Watts, quanto sia problematico il concetto di senso comune. Ha alcuni aspetti in comune con il concetto di moderazione, che è quello che i ricercatori definiscono uno «standard ambiguo», scrisse nel 2020 la psicologa Michelle vanDellen, professoressa di scienze comportamentali alla University of Georgia e coautrice di uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista Appetite e intitolato Come le persone definiscono la moderazione?.

    – Leggi anche: C’è una marea di integratori

    Per uno degli esperimenti dello studio, vanDellen e altre due ricercatrici coinvolsero un gruppo di 89 persone. A ciascun partecipante, seduto a un tavolo davanti a un piatto di 24 biscotti al cioccolato appena sfornati, chiesero di indicare la quantità di biscotti che avrebbe «dovuto» mangiare, quella che considerava un consumo «moderato» e quella che considerava un consumo «autoindulgente». I risultati mostrarono che la quantità moderata di biscotti indicata dai partecipanti era mediamente molto meno della quantità autoindulgente, ma anche una volta e mezzo la quantità di biscotti ammessa dalle linee guida per un’alimentazione equilibrata: che è una differenza significativa sia statisticamente che praticamente, secondo vanDellen.
    «Se le persone prendessero una sola decisione alimentare al giorno come fecero nel nostro laboratorio di ricerca, se mangiassero cioè con “moderazione” anziché quanto dovrebbero per un solo pasto o spuntino una volta al giorno, consumerebbero circa 25mila calorie extra in un anno», scrisse vanDellen. Lei e le altre ricercatrici scoprirono inoltre che le definizioni cambiavano a seconda dei gusti personali: le persone a cui piacevano molto determinati alimenti tendevano a essere più generose nella definizione della moderazione, ma solo relativamente agli alimenti che apprezzavano.
    Secondo vanDellen il concetto di senso comune, così come quello di moderazione, «non è affatto comune»: perché nessuno è d’accordo su cosa sia, e le differenze dipendono da molte variabili contestuali e individuali. Il buon senso in una città sarà diverso da quello in un piccolo paese, per esempio. Ma in altri casi le differenze possono essere più problematiche, perché è probabile che le persone siano influenzate dalle loro intenzioni: più le persone vogliono fare una certa cosa, più penseranno che farla sia un’azione di buon senso.

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    Una cena nella stratosfera per 500mila dollari

    Caricamento playerSpaceVIP, un’azienda statunitense che offre viaggi nello spazio, ha annunciato di voler organizzare viaggi di lusso di sei ore nella stratosfera, uno degli strati più bassi dell’atmosfera, che comprenderanno un pasto cucinato dallo chef di un ristorante premiato con due stelle della guida Michelin. L’esperienza di fine dining, come viene definito nel mondo anglosassone il settore dei ristoranti di alto livello, a 30 chilometri di altitudine, costerà 500mila dollari (circa 450mila euro) a persona e nel primo viaggio sarà riservata a sei clienti.
    L’azienda ha detto all’agenzia Bloomberg che già nel primo giorno dopo l’annuncio ha ricevuto manifestazioni di interesse per la proposta superiori ai posti a disposizione. Lo chef coinvolto è il danese Rasmus Munk, del ristorante di Copenaghen Alchemist, che nell’ultima edizione della guida World’s 50 Best Restaurants era considerato il quinto migliore al mondo. SpaceVIP ha detto che la prima cena di questo tipo sarà organizzata a fine 2025.
    Un rendering della SpaceVIP (YouTube/SpaceVIP)
    L’esperienza culinaria si aggiunge all’offerta di un viaggio nella stratosfera in una capsula pressurizzata sollevata da un pallone spaziale, una tecnologia sviluppata dalla NASA che non prevede l’utilizzo di un razzo, ma è più simile a una mongolfiera. Lo Space Perspective Neptune balloon è alimentato a idrogeno e secondo quanto promesso dall’azienda partendo da Cape Canaveral, in Florida, salirà fino a un’altitudine di 30 chilometri, per poi viaggiare per una trentina di chilometri prima di iniziare la discesa verso l’oceano. Per partecipare al viaggio non servono allenamenti o specifici addestramenti, e il viaggio permetterà di osservare dall’alto la Terra al momento del sorgere del sole. La cabina sarà dotata di connessione wi-fi, principalmente per permettere ai clienti di trasmettere in diretta sui social momenti dell’esperienza.
    L’interno della capsula in un rendering della SpaceVIP (Youtube/SpaceVIP)
    Tecnicamente non sarà un viaggio nello Spazio: anche se non è possibile definire in modo esatto dove finisca la Terra e inizi lo Spazio, molti scienziati che ne dibattono da tempo tendono a considerare che si possa parlare di Spazio a partire dalla termosfera, il quarto dei cinque strati in cui si suddivide convenzionalmente l’atmosfera, che si trova assai più in alto della stratosfera (che invece è il secondo strato dell’atmosfera).
    La Terra è circondata dall’atmosfera, che protegge gli esseri umani da una serie di radiazioni solari che si rivelerebbero mortali per moltissime specie viventi. Questo scudo atmosferico è costituito da cinque strati. La troposfera è lo strato più basso, arriva tra i 9 e i 17 chilometri di altitudine dal suolo. È ideale per i voli di linea perché è abbastanza densa e stabile. Finita la troposfera inizia la stratosfera – quella dove sarà organizzata la cena di SpaceVIP – che arriva più o meno fino ai 50 chilometri di altitudine. Subito dopo c’è la mesosfera, lo strato dove secondo gli Stati Uniti inizia lo Spazio, che arriva fino a circa 80 chilometri di altitudine. L’esosfera, lo strato più grande, inizia a 690 chilometri al di sopra del suolo terrestre e prosegue fino a 10mila chilometri: è poco densa e non ha moltissime cose in comune con gli strati più bassi dell’atmosfera. Fra mesosfera e esosfera c’è la termosfera: è dove si trova la a Stazione Spaziale Internazionale (ISS), dove volavano gli Shuttle della NASA e dove si trovava la MIR, la stazione spaziale russa.

    – Leggi anche: Dove finisce la Terra e inizia lo Spazio?

    SpaceVIP organizza anche viaggi spaziali, quindi oltre la termosfera. La cena cucinata dallo chef Munk invece sarà nella stratosfera: i viaggi di prova cominceranno nel prossimo mese e il menù proposto dallo chef, che parteciperà al primo viaggio, non è ancora stato definito. L’azienda vorrebbe poi organizzare viaggi successivi a un prezzo più contenuto. Non è la prima comunque a proporre un’esperienza di questo genere: l’anno scorso l’azienda francese Zephalto, che si occupa di turismo spaziale, pubblicizzò la possibilità di un viaggio con un pasto nella stratosfera per 120mila euro a persona, ma a partire dal 2025. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Il crisocione è un parente molto lontano dei cani ed è originario del Sudamerica. Chiamati anche “lupi dalla criniera”, gli adulti raggiungono un’altezza di circa 85 centimetri: le gambe sono molto lunghe rispetto al resto del corpo, ma risultano utili  per muoversi più agilmente nell’erba alta. Tra gli animali fotografati in settimana c’è uno dei due cuccioli di crisocione nati a febbraio al Parco Natura Viva di Bussolengo, in provincia di Verona. Al momento il suo pelo è ancora tutto nero: in questo modo se fosse in natura potrebbe proteggersi dai predatori confondendosi tra le zampe degli adulti. Poi ci sono Messi, il cane del film Anatomia di una caduta, tra il pubblico degli Oscar, una farfalla sulla spalla di una persona, capretti che si spingono e anatre parigine. LEGGI TUTTO

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    Tra i mammiferi sono più grandi i maschi o le femmine?

    Caricamento playerNel suo trattato L’origine dell’uomo e la selezione sessuale del 1871, il celebre naturalista britannico Charles Darwin scrisse che nel regno animale «in generale i maschi sono più forti e più grandi delle femmine», occupandosi poi in particolare dei mammiferi per spiegare alcune caratteristiche degli esseri umani. Darwin non era l’unico a pensarla in quel modo e a 150 anni di distanza quella convinzione continua a essere piuttosto condivisa non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche nel senso comune.
    Eppure, secondo una ricerca da poco pubblicata, quella convinzione è probabilmente errata e non ci sono elementi per sostenere che tra i mammiferi i maschi siano più grandi delle femmine. Nella maggior parte dei casi, almeno.
    Il nuovo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, è stato guidato da Kaia J. Tombak, una ricercatrice della Princeton University (Stati Uniti) che alcuni anni fa aveva partecipato a un seminario online sui livelli di aggressività in alcune specie i cui maschi e femmine hanno la medesima stazza. Discutendo con i colleghi del corso, Tombak si era accorta che mancavano dati per formulare ipotesi credibili e decise quindi di dedicarsi all’argomento, provando in primo luogo a capire se esistessero effettivamente differenze nella stazza tra varie specie di mammiferi.
    Man mano che cercava il materiale insieme a due colleghi, Tombak notò quanto fosse difficile avere dati coerenti e come la questione fosse stata tutto sommato trascurata in passato, fatta eccezione per qualche studio risalente a una cinquantina di anni fa. Il suo lavoro di ricerca era quindi consistito nel raccogliere dati dalla letteratura scientifica tenendo in considerazione le informazioni sulla massa che mediamente raggiungono gli individui adulti in determinate specie. La massa non è l’unico indicatore per determinare la grandezza di un mammifero, ma è il dato che ricorre più spesso (banalmente perché è più semplice pesare o fare la stima del peso di un animale rispetto a valutarne il volume).
    Non potendo valutare tutte le 6.400 specie di mammiferi esistenti di cui siamo a conoscenza (le stime variano in base alle classificazioni), il gruppo di ricerca ha seguito un approccio statistico, costruendo un campione basato sul 5-6 per cento delle specie per ciascuno dei 16 ordini di mammiferi che contengono almeno una decina di specie; all’elenco sono state poi aggiunte altre specie, selezionate per rendere ancora più equilibrato e rappresentativo il campione. La lista finale conteneva 429 specie con informazioni sulla massa corporea di individui adulti sia di sesso maschile sia di sesso femminile.
    L’analisi finale ha tracciato una situazione diversa da quella descritta un secolo e mezzo fa. Tra le 429 specie di mammiferi prese in considerazione, i maschi avevano una stazza più grande delle femmine solo nel 45 per cento dei casi. Nel 39 per cento dei casi gli individui appartenenti ai due sessi avevano sostanzialmente la stessa massa e nel 16 per cento dei casi erano le femmine ad avere una massa superiore a quella dei maschi. I dati, dice lo studio, sembrano indicare che la maggiore grandezza degli individui di sesso maschile non sia la norma, o per meglio dire che non ci sia una regola unica attraverso le specie di mammiferi sulla differenza di stazza tra i sessi.
    (Nature Communications)
    I maschi con massa superiore a quella delle femmine sono risultati più frequenti tra i carnivori, gli ungulati e alcune specie di primati. Questi animali sono di solito più studiati di altri quando si tratta di valutare le differenze dovute al sesso, di conseguenza questa potrebbe essere una delle cause del perdurare della convinzione sulla maggiore dimensione dei maschi in generale tra i mammiferi.
    Roditori e pipistrelli sono relativamente meno studiati, nonostante tutte le loro specie messe insieme costituiscano circa la metà di quelle di mammiferi. Dallo studio è emerso che nel 48 per cento delle specie di roditori prese in considerazione non c’erano differenze di stazza, mentre nel 44 per cento i maschi erano più grandi. Nel caso dei pipistrelli il gruppo di ricerca ha notato che nel 46 per cento delle specie analizzate le femmine erano più grandi.
    La differenza tra individui appartenenti alla medesima specie ma di sesso diverso (“dimorfismo sessuale”) è studiata da tempo, proprio perché attraverso lo studio delle differenze si possono comprendere alcune caratteristiche tipiche di una specie. Le ricerche si sono dedicate anche alle differenze di stazza e una delle teorie più condivise dice che in molte specie i maschi dei mammiferi sono più grandi perché devono competere tra loro per contendersi le femmine. La competizione implica spesso un confronto fisico, di conseguenza nel corso dell’evoluzione sarebbero stati avvantaggiati gli individui casualmente nati di stazza maggiore. Per alcune specie di grandi carnivori è probabilmente vero, anche sulla base delle osservazioni del comportamento animale, ma è difficile applicare la medesima ipotesi a molte altre specie di mammiferi.
    Tra i roditori e i pipistrelli le cose funzionano diversamente e la minore quantità di studi sul dimorfismo sessuale di questi animali forse spiega in parte perché sia ancora diffusa la convinzione che in generale tra i mammiferi i maschi siano più grandi. Nel caso dei pipistrelli, per esempio, avere una stazza maggiore è probabilmente un vantaggio per le femmine che devono volare anche durante la gravidanza, quando la loro massa è più grande (gli uccelli non hanno questo problema, visto che depongono le uova): hanno bisogno di più forza e capacità alare.
    Il nuovo studio cita il lavoro della biologa statunitense Katherine Ralls che negli anni Settanta pubblicò una ricerca dove metteva in dubbio la convinzione sulla maggiore stazza degli individui maschi tra i mammiferi, arrivando a conclusioni simili a quelle del gruppo di ricerca di Tombak. All’epoca Ralls aveva analizzato i dati su alcune specie di mammiferi segnalando come fossero comuni femmine di maggiori dimensioni rispetto ai maschi. Ralls aveva ipotizzato che gli individui di sesso femminile fossero più grandi in alcune specie perché questo aumentava la probabilità di produrre nuovi nati più resistenti, dunque con minori rischi di morire nelle prime fasi dello sviluppo. L’ipotesi è discussa da tempo e finora non sono emersi elementi per confermarla.
    La ricerca di Tombak è stata accolta con interesse da chi si occupa di evoluzione, ma alcuni esperti hanno fatto notare che per quanto statisticamente rilevante lo studio è basato su una quantità limitata di specie di mammiferi e saranno quindi necessari ulteriori studi. La questione sarà ancora discussa a lungo e contribuirà a comprendere meglio diversità e somiglianze tra le tante specie nella grande classe dei mammiferi, di cui facciamo parte. LEGGI TUTTO