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    Addio allo Spid, ecco cosa cambia

    Se c’era ancora qualche dubbio circa la sopravvivenza dello Spid, è stato spazzato via dal contenuto dell’audizione di Alessio Butti alla Commissione parlamentare per la semplificazione della scorsa settimana.L’intenzione del governo Meloni è chiara fin dal 2022, ha spiegato il sottosegretario, e prevede l’istituzione di un’identità digitale unica e rilasciata dallo Stato, cosa che escluderebbe i provider privati: “E quindi, abbiamo puntato molto sulla carta di identità elettronica, con risultati che mi sembrano di per sé molto evidenti, anche con le app collegate alla Cie”.Il primo obiettivo è quindi quello di spegnere progressivamente lo Spid:”Lo faremo in assoluto accordo con i privati, che abbiamo ringraziato, perché hanno supplito alle carenze dei governi che ci hanno preceduto per ben otto anni”, ha precisato Butti. Recentemente era emersa con forza la possibilità di far sopravvivere il sistema pubblico d’identità digitale rendendolo a pagamento, anche perché gli identity provider accreditati stavano andando in perdita: sottoscrivere un abbonamento sembrava quindi l’unica via possibile per continuare a erogare il servizio potendo monetizzare e quindi rientrando nelle spese.Una decisione, questa, strettamente connessa agli ormai celebri 40 milioni di euro promessi ai gestori d’identità digitale ma mai ancora erogati. “Questo governo ha ringraziato il lavoro che hanno svolto i privati, gli identity provider, perché oggettivamente, per otto anni, hanno bussato tutte le porte dei governi precedenti, ma hanno sempre trovato chiuso”, ha spiegato il sottosegretario. I 40 milioni sono stati stanziati con un decreto dal governo Meloni nel 2023, e stanno per essere finalmente erogati: “Hanno certamente avuto qualche lentezza, non dipendente ovviamente dal mio dipartimento, ma da questioni burocratiche legate anche al pregresso, che era piuttosto complicato e complesso nell’erogazione dello SPID”, ha puntualizzato Butti.Nonostante questa possibilità, il servizio non sopravviverà comunque, per quanto sarà ancora necessario appoggiarsi ad esso per completare l’iter di sostituzione.”Il nostro obiettivo è quello di arrivare a compimento di un percorso che, credo, possa richiedere ancora due o tre anni, proprio con l’aiuto dei privati, arrivando alla costituzione di un wallet che sarà pubblico e di un wallet che sarà privato”, ha proseguito il sottosegretario. E la soluzione Cie pare quella giusta essenzialmente per due motivi. LEGGI TUTTO

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    Palinsesti Mediaset, “Striscia la notizia” inizia a novembre

    Non sarà una “rivoluzione”, ma una “graduale e profonda evoluzione”, come ha spiegato ieri sera Pier Silvio Berlusconi durante la tradizionale presentazione della prossima stagione televisiva, ma quella che accadrà in autunno sarà comunque una svolta epocale per Mediaset. “Striscia la notizia” non si presenterà ai telespettatori a settembre come tutti gli anni da decenni, […] LEGGI TUTTO

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    Pensioni, torna il nodo dell’età: si discute lo stop all’aumento previsto nel 2027

    Il conto alla rovescia è partito: nel 2027 l’età per la pensione di vecchiaia dovrebbe salire a 67 anni e 3 mesi, ma il governo è pronto a mettere in pausa il meccanismo automatico che lega l’uscita dal lavoro all’aspettativa di vita. Una scelta che promette di diventare il cuore caldo della prossima legge di bilancio. Ecco tutto ciò che c’è da sapere.L’aumento Stando alle più recenti stime dell’Istat, nel biennio 2027-2028 l’età per la pensione di vecchiaia dovrebbe passare da 67 anni a 67 anni e 3 mesi, in linea con il previsto aumento della speranza di vita. A cambiare sarebbero anche i requisiti per l’anticipo pensionistico: per gli uomini si salirebbe da 42 anni e 10 mesi a 43 anni e 1 mese di contributi, mentre per le donne da 41 anni e 10 mesi a 42 anni e 1 mese. Questo meccanismo di adeguamento automatico, pensato per compensare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione e mantenere in equilibrio il rapporto tra lavoratori e pensionati, è ormai da tempo nel mirino della politica.Governo verso il congelamentoSecondo indiscrezioni vicine al Ministero dell’Economia, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni – anche sotto la spinta della Lega – starebbe valutando seriamente la possibilità di sospendere l’aumento previsto per il 2027. L’obiettivo è duplice: evitare ulteriori irrigidimenti in un’economia ancora fragile e dare una risposta concreta al crescente malcontento sociale, in particolare tra chi teme di non raggiungere mai i requisiti per andare in pensione, a causa di carriere instabili e precarie. Se la misura sarà confermata, troverà spazio nella legge di bilancio d’autunno. Tuttavia, resta da capire se lo stop sarà totale o se si opterà per un congelamento parziale. LEGGI TUTTO

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    Le fabbriche di auto morte

    L’industria dell’auto è in confusione. O meglio, i suoi leader lo sono. Jim Farley, il capo di Ford, a giugno di due anni fa presentava il pick-up F-150 Lightning destinandolo a “lavoratori veri: costruiamo pick-up per persone vere che fanno un lavoro vero”. Appena due mesi dopo, avendolo usato, ammise che la ricarica era un […] LEGGI TUTTO

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    Scatta la rivincita dei Pigs. Ora è il Bund a fare paura

    I titoli di Stato tedeschi sono crollati all’inizio di quest’anno dopo che il governo neoeletto di Friedrich Merz ha annunciato il piano di Bilancio per accelerare gli investimenti a lungo termine in difesa e infrastrutture, mettendo così fine a decenni di austerità fiscale. In base al progetto, i pagamenti degli interessi sul debito sarebbero più che raddoppiati, passando da 30,2 miliardi di euro nel 2025 a 61,9 miliardi nel 2029. Entro il 2029, il pagamento degli interessi rappresenterà oltre il 10% di un bilancio pari a 573,8 miliardi di euro. I Bund sono scesi insieme agli altri mercati obbligazionari globali con il rendimento a dieci anni in rialzo di sei punti base al 2,70%, il livello più alto da metà maggio. Il rendimento a 30 anni è aumentato al 3,18%, sui massimi da marzo.La spinta alla spesa del Paese fa aumentare l’offerta di debito. Ecco perché alcune delle più grandi banche d’affari stanno lanciando nuovi avvertimenti sui titoli di Stato tedeschi. Secondo gli esperti di Goldman Sachs citati dall’agenzia Bloomberg, il riprezzamento dei rendimenti tedeschi ha ancora molta strada da fare ed è stato finora mitigato dalla domanda sostenuta di titoli sicuri con rating tripla A durante la volatilità del mercato. Gli analisti del colosso Usa, prevedono che i rendimenti a dieci anni raggiungeranno il 2,80% alla fine del 2025 e il 3,25% nel 2026. «In assenza di timori tariffari e potenziali flussi verso beni rifugio, i rendimenti dei Bund sconterebbero un impatto sostanzialmente maggiore dell’espansione fiscale», ha scritto Goldman in una nota diffusa ai clienti. Dove si aggiunge che gli investitori inizieranno anche a scontare una crescita più sana a lungo termine con l’effetto a catena della spesa, mettendo pressione al rialzo su tassi e rendimenti.Anche gli esperti di Hsbc hanno rivisto al rialzo le loro previsioni sul rendimento tedesco, citando l’espansione fiscale e la prospettiva di minori acquisti di obbligazioni da parte della Bce il prossimo anno, quello che viene definito come «quantitative tightening». Tuttavia, i loro obiettivi rimangono al di sotto dei livelli attuali. Gli analisti prevedono un rendimento a dieci anni di 25 punti base al 2,45% per la fine del 2025 con la proiezione a 30 anni di 45 punti base al 3 per cento. LEGGI TUTTO

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    Offerta Mps, schiaffo ai vertici di Mediobanca dai sindacati del gruppo

    «Cari manager di Mediobanca, non ci faremo strumentalizzare per i vostri scopi». È il senso di un comunicato firmato dalle segreterie di Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin in risposta a una sollecitazione dei vertici di Piazzetta Cuccia a fare fronte comune contro l’Ops lanciata da Mps.Il 4 luglio la merchant bank milanese ha invitato le rappresentanze sindacali di tutte le aziende del gruppo ad esprimersi su eventuali ripercussioni che un’aggregazione con il Montepaschi potrebbe avere sull’occupazione. Che però hanno risposto picche. I rappresentanti dei lavoratori, spiega la nota diffusa ieri, non intendono dare seguito alla richiesta nel merito, sottolineando che «a formulare dei pareri oggi, non essendo mai stati coinvolti, si rischia di cadere in dinamiche comunicative dettate da altre esigenze». I sindacati «hanno per unico obiettivo quello di tutelare, caparbiamente e con ogni mezzo, i concreti bisogni delle persone, quale che sia l’esito dell’Ops, perseguendo la piena salvaguardia dell’occupazione, delle professionalità, dei trattamenti economici e normativi di chi rappresentiamo. Difenderemo altresì i livelli dei servizi alla clientela e i presidi territoriali, che assicurano l’esercizio della funzione sociale del credito e del risparmio dell’impresa bancaria», prosegue la nota. Che conclude: «Vigileremo con la massima attenzione sull’evoluzione dell’operazione societaria, di cui ci impegniamo a tenervi costantemente e tempestivamente informati».Secondo l’articolo 103 del Tuf il Comunicato dell’Emittente relativo a un’offerta pubblica può avere allegato, «se ricevuto in tempo utile, il parere dei rappresentanti dei lavoratori quanto alle ripercussioni sull’occupazione». Le sigle sindacali, però, per nessuna ragione intendono farsi strumentalizzare dalla dirigenza guidata da Alberto Nagel (nella foto) nella battaglia per resistere alla scalata del Monte. Perché il loro mestiere, dicono in modo esplicito, non è difendere Piazzetta Cuccia ma i lavoratori. Tra l’altro, nello stesso prospetto dell’offerta di Mps (e su cui venerdì si riunirà il cda di Mediobanca per la valutazione finale) si legge che i vertici di Rocca Salimbeni non prevedono di «apportare unilateralmente modifiche sostanziali ai contratti di lavoro dei dipendenti di Mediobanca e delle società facenti parte del gruppo» ed escludono che l’offerta «abbia conseguenze negative dirette sul complessivo organico» di Piazzetta Cuccia «quanto a condizioni di lavoro o di impiego». Viene infatti definito «ragionevole ritenere che in caso di perfezionamento dell’offerta non vi saranno impatti sul capitale umano e sui siti operativi esistenti di Mps e Mediobanca». LEGGI TUTTO

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    Ilva, ecco i due piani per il salvataggio

    Due opzioni, due strade, separano l’ex Ilva di Taranto da un nuovo futuro. La prima è considerata più ardua, ma conferma il piano di decarbonizzazione originario del governo, la seconda, invece, coinvolge Taranto, Genova e un sito del Sud, con molte probabilità Gioia Tauro. Dopo quasi otto ore di confronto, si è concluso con un rinvio di una settimana (a martedì 15) il match tra il governo e le istituzioni coinvolte che dovrebbe definire il futuro del polo siderurgico pugliese. Al momento, nessuno strappo si è consumato e la riunione è stata definita dal Mimit come “molto proficua” consentendo “di approfondire tutti i fattori in campo”, ha detto il ministro Adolfo Urso secondo cui “si è delineata una soluzione che ora avrà bisogno degli approfondimenti tecnici e anche della definitiva approvazione da parte degli enti locali”, ha spiegato.Di fatto, però, l’ex Ilva è ancora di fronte a un bivio. Nel primo caso, si farà tutto a Taranto: forni elettrici e Dri, grazie al gas della nave rigassificatrice.In base a un documento riservato consultato dal Giornale, sono tre le fasi chiave previste per un impiego di circa 8-9 miliardi in 7-8 anni: la prima prevede la sostituzione di 2 milioni di tonnellate annue prodotte di acciaio da ciclo integrale con una produzione equivalente da un primo EAF (forno elettrico ad arco), alimentato con DRI ottenuto da un primo impianto di preriduzione che trasforma il minerale di ferro in ferro metallico (DRP) e dotato di un sistema di cattura e stoccaggio della Co2; una fase 2 che prevede la sostituzione di 2 milioni di tonnellate annue prodotte di acciaio da ciclo integrale con una produzione equivalente da un secondo forno elettrico ad arco, alimentato con DRI con le stesse caratteristiche della fase 1 e una terza fase che prevede la sostituzione di altri 2 milioni di acciaio da ciclo integrale con una produzione equivalente da un terzo forno elettrico sempre alimentato con DRI. La data ultima per la demolizione degli altoforni esistenti è il 2033.Nel caso in cui, però, gli enti locali non accettassero la nave rigassificatrice in porto o, come emerso ieri, nella zona della diga che ha un fondale di 24 metri consono allo scopo, si apre uno scenario che prevede 3 forni elettrici a Taranto, che andranno gradualmente a sostituire gli altoforni, 3 o 4 Dri in un sito del Sud che possa sfruttare i fondi di coesione e alimenterà Taranto con contratti di servizio (molto probabilmente Gioia Tauro) e un forno elettrico a Genova che possa alimentare in autonomia i siti liguri. Questa seconda opzione, o piano b, sarebbe quella considerata più probabile e prevederebbe un nuovo bando di gara con una nuova procedura relativa. Tutto questo perché, senza nave rigassificatrice, e secondo quanto ricostruisce una fonte al Giornale, “per alimentare tre forni elettrici e gli impianti a valle (alimentati dall’energia prodotta dal calore residuo degli altoforni esistenti) servono 2,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Una strada possibile aumentando la portata del Tap, ma sicuramente insufficiente per alimentare anche gli impianti Dri”.L’obiettivo, in entrambi i casi, contempla la continuità produttiva e l’ottenimento dell’Aia, l’autorizzazione ambientale integrata necessaria per entrambi i progetti.Quanto all’occupazione, martedì saranno convocati i sindacati, ma entrambi gli scenari non contemplano un mantenimento tout court degli attuali dipendenti. La promessa è quella di valutare, decidere e poi però firmare, motivo per cui si ventila uno slittamento della conferenza dei servizi – che dovrebbe decidere sull’autorizzazione integrata ambientale – prevista per il 10 luglio. LEGGI TUTTO

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    Bruxelles alza il pressing su Unicredit-Banco Bpm

    La Commissione Ue sta preparando una lettera di rilievi indirizzata al governo italiano in merito all’esercizio del Golden power sull’Ops di Unicredit su Banco Bpm. La notizia è stata anticipata da Bloomberg, che ha parlato di una vera e propria reprimenda da parte di Bruxelles, spingendo al rialzo i titoli coinvolti: il Banco ha chiuso la seduta a +3,6% e Unicredit a +1,9.Secondo quanto trapelato da fonti comunitarie, la lettera non è ancora stata inviata, ma potrebbe partire nelle prossime ore o nei prossimi giorni. Si tratterebbe di una richiesta formale di chiarimenti, non ancora di una procedura d’infrazione. Il governo italiano avrà tempo (un paio di settimane per la lettera, due mesi prorogabili in caso di procedura d’infrazione) per fornire una risposta dettagliata. Solo a valle di questa fase la Commissione prenderà una decisione sul da farsi, il che non implica automaticamente una bocciatura del governo. Nel frattempo, il periodo d’offerta, che scade il 23 luglio, sarà già passato.Al centro della contestazione c’è il decreto del 18 aprile scorso con cui l’esecutivo italiano ha autorizzato l’acquisizione, ma con prescrizioni molto stringenti: l’uscita dell’istituto guidato da Andrea Orcel dalla Russia entro nove mesi, il mantenimento del rapporto depositi/impieghi per tre anni e il divieto per Anima, partecipata da Banco Bpm, di dismettere titoli di Stato italiani. Il governo, attraverso il Mef, ha giustificato queste condizioni appellandosi alla tutela della sicurezza nazionale, settore strategico secondo la normativa sul Golden power. Tuttavia, il regolamento Ue sulle concentrazioni stabilisce che solo in casi eccezionali gli Stati membri possono porre vincoli a operazioni soggette alla giurisdizione esclusiva della Commissione.Ed è proprio questo l’argomento del contendere. Spetta alla Commissione Ue stabilire cosa rientri effettivamente tra gli interessi legittimi che giustificano un intervento nazionale. L’esecutivo europeo, e in particolare la Direzione Generale Concorrenza (la DgComp guidata da Teresa Ribera), ritiene che l’Italia abbia interferito in una materia di competenza comunitaria. Sul piano istituzionale, tuttavia, non può non sorprendere la tempistica della fuga di notizie. Le indiscrezioni di Bloomberg sono giunte alla vigilia della sentenza del Tar, chiamato a decidere sul ricorso di Unicredit contro il decreto. Un timing che potrebbe influenzare la serenità della decisione dei giudici amministrativi. Il governo, dal canto suo, non ha mai lasciato intendere di voler modificare il Dpcm. Il ministro Giorgetti è stato sempre netto: nessun passo indietro. E l’uscita dalla Russia resta un elemento non negoziabile. Ma lo scenario è aperto. Roma continuerà a interloquire con la Commissione, cercando di difendere le ragioni della propria sovranità regolatoria. LEGGI TUTTO