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    Odori “molesti” dal vicino: ecco cosa fare se vivi in condominio

    Odori sgradevoli, emissioni di fumo o vapori provenienti dalle abitazioni dei vicini… si tratta di situazioni che possono peggiorare la qualità della convivenza quando si vive in un condominio ma che possono essere considerate, così come avviene per i rumori, delle “molestie” da cui è possibile tutelarsi.Tra i motivi più frequenti di liti condominiali, difatti, quelle relative ai cattivi odori (fritto, fumi, sughi, spezie) sono tra le più comuni. Ma allora cosa si può fare in caso di cattivi odori provenienti dalla casa del vicino? È possibile limitarli o farli cessare? Entriamo un po’ più nel dettaglio.Cosa dice la norma?Non esiste una norma specifica sui cattivi odori in condominio, ma si può fare riferimento a quanto previsto dall’art. 844 del Codice civile che afferma: “Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso”.Il principio è che queste immissioni è che gli odori “molesti” siano causati dall’uomo e non da circostanze ambientali e non devono essere necessariamente contigui (quindi non solo da chi ci abita di fianco) ma abbastanza vicini da arrecare “fastidio”. Ed è questo l’aspetto più controverso, cioè poter dimostrare che queste immissioni superino la “normale tollerabilità” e cioè che interferiscono sul godimento del proprio bene; solo il giudice può accertare che il limite sia superato, quindi non è possibile che queste situazioni possano essere risolte in assemblea di condominio (sperando sempre che si possa trovare un accordo di buon vicinato che eviti di dover arrivare sino ad un giudice per risolvere la controversia).Occorre ricordarsi comunque che l’amministratore è legittimato ad agire in giudizio nel caso in cui le immissioni affliggano anche le parti comuni dell’edificio, essendo beni condominiali.Cosa può succedere?Secondo quanto stabilito dalla sentenza n. 14467 del 2017 della Corte di Cassazione, le “molestie olfattive” sono un reato di “getto pericoloso di cose”, disciplinato dall’art. 674 c.p. che afferma: “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206”.Ovviamente, le “molestie olfattive” sono tali soltanto solo nel caso in cui non rappresentino un episodio isolato ma siano episodi frequenti. Il reato di getto pericoloso di cose è procedibile d’ufficio, cioè può essere denunciato da qualsiasi persona lo scopra e non soltanto da quelle offese direttamente. LEGGI TUTTO

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    Mediobanca a caccia di voti con i soldi di tutti gli azionisti

    Emerge dalla «Relazione sulla politica di remunerazione» interna messa a disposizione dei soci Mediobanca in vista dell’assemblea del 28 ottobre, che per l’esercizio 2022-23 l’ad Alberto Nagel ha percepito un totale di 5,81 milioni di euro. L’agenzia Sole24Ore Radiocor calcola che il compenso sia cresciuto del 30% rispetto all’anno prima in virtù di variazioni delle diverse componenti oltre che per la dinamica degli incentivi. Dinamica analoga per il direttore generale Francesco Saverio Vinci, che ha maturato un compenso totale pari a 4,97 milioni (+36%), con un fisso invariato a 1,6 milioni. Va segnalato che la crescita degli incentivi è legata al superamento dei target per quanto riguarda i risultati economici realizzati dall’istituto. In netto calo, invece, lo stipendio del presidente Renato Pagliaro, in seguito al suo pensionamento e quindi all’assenza di compensi da dipendente: il totale è di 930mila euro, un taglio del 64% dai 2,6 milioni dell’esercizio scorso (1,6 milioni quale stipendio fisso e 700mila euro per le ferie non godute).Cifre importanti, che il cda di Mediobanca ha evidentemente giudicato congrue ritenendo i tre manager meritevoli di tanto trattamento. Cifre però non ordinarie, anzi tra le più alte nella classifica dei compensi del settore, in particolare per il direttore generale Vinci. Soprattutto perché a deciderne la congruità hanno concorso anch’essi, considerando il peso che rivestono all’interno del cda dell’istituto. Per questo suscita più di una perplessità la decisione dell’istituto – annunciata con la presentazione della lista del cda – di promuovere, come già era accaduto lo scorso anno in occasione dell’assemblea delle Generali, la sollecitazione di deleghe attraverso un proxy (Morrow Sodali) per accrescere le possibilità di successo della sua proposta.I proxy sono società specializzate nell’analisi dei bilanci societari che da tempo hanno acquisito un’influenza notevole all’interno della comunità degli azionisti. Attraverso lo strumento della «Sollecitazione delle deleghe», hanno la possibilità di portare all’attenzione dell’assemblea eventuali dissensi (o condivisioni) sulle proposte del cda. In teoria hanno lo scopo di bilanciare le non infrequenti situazioni di asimmetria informativa finalizzando i voti così raccolti; tuttavia, in non pochi casi orientano i voti nella direzione voluta dai soggetti che li hanno ingaggiati, di fatto assicurando maggiore adesione alle ragioni del committente. E poichè sono pagati da quest’ultimo con risorse della società, tutti gli azionisti – nessuno escluso – contribuiscono alla parcella in proporzione alla loro quota azionaria. Nel caso di Mediobanca, Delfin e Francesco Gaetano Caltagirone, i due azionisti contrari alla lista del cda, sono chiamati a contribuire per un terzo della parcella senza essere stati interpellati e soprattutto per sostenere una lista di candidati contro la quale si battono. La legge lo consente, ma non è proprio il massimo dell’eleganza. LEGGI TUTTO

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    Cina pronta ad aprire agli investitori esteri

    La fame di tecnologie e di finanza spinge la Cina a considerare l’abbattimento di almeno uno dei suoi tanti tabù. Secondo quanto riportato da Bloomberg, infatti, le autorità di regolamentazione di Pechino stanno valutando di eliminare (o comunque allentare) i limiti al possesso di azioni da parte degli operatori stranieri nelle società nazionali quotate in Borsa. Ad oggi i vincoli sono stringenti: la proprietà straniera totale in società quotate localmente non può superare il 30% e ogni singolo azionista da oltre confine non può avere più del 10 per cento.La mossa andrebbe nella direzione di quanto chiesto storicamente a Pechino dall’Occidente, ossia di aprire maggiormente la sua economia ai capitali esteri. Ed è chiaramente un modo per tamponare il fuggi-fuggi dal mercato azionario, alimentato da iniziative sempre più intrusive dello stato-partito guidato da Xi Jinping (in foto) e dal momento di grande incertezza scatenato dalla crisi del settore immobiliare che vale circa un terzo del Pil nazionale.Le interlocuzioni per questa riforma, specifica l’agenzia che ha consultato fonti vicine al dossier, è agli stadi iniziali e non si conosce di quanto verranno ritoccate le soglie e nemmeno se il tutto sarà limitato o meno a singoli settori. Tuttavia, è bastata la notizia per alimentare il rally dei listini di Borsa di Hong Kong (+2,28%), Shanghai (+1,55%) e Shenzhen (+1,91%). Forse i mercati vedono in questa concessione la volontà del regime di ricreare un rapporto di fiducia ormai perduto con gli investitori. Un buon segnale anche la scelta di Cina e Usa di istituire gruppi di lavoro «economico» e «finanziario» guidati da funzionari a livello di viceministri dei due dipartimenti del Tesoro nel tentativo di rafforzare «la comunicazioni e gli scambi su questioni legate ai settori economico e finanziario».Nel frattempo, la Banca centrale cinese (Pboc) ha pubblicato un elenco di 10 istituti di credito «di importanza sistemica», comprese le più grandi gestite dallo stato e ha chiarito che intensificherà la supervisione su tali istituzioni finanziarie. Sono inoltre attese, per questo fine settimana, ulteriori misure a sostegno dell’economia, tra cui dovrebbero figurare aiuti al settore immobiliare e dei consumi. LEGGI TUTTO

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    Come e quanto la denatalità incide sull’economia

    La questione delle nascite è un argomento di grande importanza nel dibattito politico. Combattere il tasso di denatalità è diventato l’obiettivo dell’esecutivo di Giorgia Meloni. In merito alla questione ci sono degli aspetti fondamentali da considerare, nello specifico il rapporto tra il calo dei neonati e l’andamento economico del Paese. Ecco perché i due fattori appena citati sono strettamente correlati.La crescita demograficaDa tempo diversi paesi sviluppati si occupano del decremento del tasso di natalità e registrano una netta maggioranza della popolazione anziana. Addirittura alcune di queste realtà sono già in una fase di declino demografico. Dal punto di vista delle teorie economiche è evidente che non basta semplicemente invertire il segno di qualche variabile nei modelli sviluppati in precedenza per invertire il trend.L’impatto sulle impreseIn merito all’impatto della denatalità sulle imprese e sulle attività produttive è possibile affermare che la riduzione della popolazione causa una diminuzione della domanda interna e la perdita degli effetti sulle economie di scala, della profittabilità. Questa situazione diminuisce l’ammontare degli investimenti delle aziende che si dedicano quindi prevalentemente al mercato estero. Le imprese potrebbero di conseguenza scegliere di investire in altri paesi dove questo tasso è inferiore.L’offerta di lavoroPer riguarda l’offerta di lavoro, meno persone e più anziane comportano costi del lavoro maggiori e un minor tasso di innovazione delle imprese. Questo aspetto causa un’importante difficoltà nel trovare personale adeguato a determinati lavori come operatori nel mondo del turismo e stagionali.Ricchezza delle famiglieNel 2021 la ricchezza netta delle famiglie italiane era di 9.743 miliardi di euro, il 54% era rappresentato da investimenti immobiliari. Le case hanno però valore soltanto fino a quando ci sono persone interessate ad abitarle o comunque a utilizzarle. Infatti la domanda in questo senso potrebbe scendere e così il valore degli immobili e conseguentemente il risparmio delle famiglie.DenatalitàIl governo ha da sempre messo al primo posto la questione del contrasto alla denatalità. A questo proposito il viceministro Leo e il sottosegretario Mantovano hanno affermato: “La natalità è fondamentale”. Mentre il ministro Roccella ha specificato: “L’Italia all’anno zero sulle politiche per natalità. Possiamo essere l’avanguardia di una inversione ad U”. A questo proposito sono state messe in programma delle manovre economiche specifiche come sgravi alle aziende che assumono mamme e meno tasse per chi fa figli. LEGGI TUTTO

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    Open Fiber, la banda accelera ma mancano 5mila addetti

    Extracosti per oltre 850 milioni e una forte carenza di mano d’opera sono i due temi prioritari sul tavolo dell’ad di Open Fiber, Mario Rossetti. In questo autunno caldissimo per le tlc italiane – con il riassetto in casa Tim – il gruppo milanese della fibra ottica, oggi in mano a Cdp (60%) e Macquarie (40%) e da aprile presieduto da Paolo Ciocca, vuole arrivare preparato al prossimo step: la creazione di una rete unica nazionale. Così, con la messa a terra del nuovo piano industriale si è aperto un tavolo con il governo per il riconoscimento degli extra-costi generati dalle aree bianche: ovvero quelle zone a bassa densità abitativa, in cui il governo si sta impegnando a portare la fibra fino a casa (Ftth). Si tratta però di aree rurali o di piccoli Comuni dove nessuno investe e per la cui infrastrutturazione la società ha dovuto sostenere costi aggiuntivi. In parte per il crescente costo delle materie prime e, poi, per il disallineamento tra i bandi di gara e le aree da infrastrutturare: è stato necessario costruire circa 14mila chilometri in più di quanto fosse previsto al momento della gara. Le prossime settimane saranno quindi cruciali per definire un accordo che vada a riequilibrare il Piano economico finanziario secondo un gap stimato in oltre 850 milioni. Non solo. È iniziata una interlocuzione anche per ridefinire il perimetro della concessione che è del 2016 e ha dei limiti: non include il collegamento con la rete nazionale, che Open Fiber si è assunta in proprio, e nemmeno l’ultimo miglio, cioè i 40 metri fino alle abitazioni che sono realizzati anch’essi con fondi privati di OF. In questo quadro va considerato che lo Stato nel 2037, al termine della concessione, rischierebbe di trovarsi una rete monca, con la testa e la coda di proprietà di un soggetto privato. L’altro grande tema riguarda la messa a terra dei progetti. Secondo un documento interno, la circostanza cade nel pieno di una congiuntura particolare: tutti gli operatori infrastrutturali attivi nel Piano, anche al di fuori delle tlc, stanno cercando di reperire manodopera, e in Italia manca il personale di cantiere. Gli operatori di settori diversi finiscono quindi per farsi concorrenza. In ogni caso, dei 10mila addetti mancanti, a Open Fiber ne servono 4-5mila.La società, che a fine luglio ha approvato una semestrale con ricavi per 267 milioni (+28%) e un utile lordo di 103 milioni contro i 77 realizzati l’anno scorso compiendo una capriola decisamente positiva, ha cercato di dare una risposta concreta lanciando, insieme al gruppo Aspi, il consorzio Open Fiber Network Solutions, per formare e assumere manodopera da impiegare nei cantieri.Ma la strada è ancora lunga e sarebbe necessario un intervento di sistema da parte del governo. Sullo sfondo intanto prosegue la trattativa da parte della società con le 32 banche che nel 2021 avevano lanciato un maxi project financing di 7,2 miliardi. Il plafond va aumentato – anche perché nel piano sono entrate anche le aree grigie (quelle nelle quali è presente un solo operatore di rete) – ma la trattativa è legata a doppio filo anche alla risposta che il governo darà sugli extra costi. D’altra parte, l’aggiornamento del piano, che conferma il completamento delle aree bianche entro il 2024 e delle aree grigie nel 2026, necessita di nuove risorse al netto del bilancio positivo chiuso il 31 luglio scorso. LEGGI TUTTO

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    “Per cedere la rete non serve l’assemblea”

    La cessione della rete (NetCo) non necessiterebbe di una votazione in assemblea né ordinaria né straordinaria. Sarebbe questo, secondo l’agenzia Adnkronos, il parere legale degli avvocati Giuseppe Portale e Pier Gaetano Marchetti giunti al cda di Tim. Il board (che a giugno ha votato all’unanimità per il negoziato in esclusiva con Kkr) potrebbe assumere la decisione sulla separazione della rete e sulla sua dismissione in totale autonomia. In ogni caso, l’azienda guidata dall’ad Pietro Labriola ha sempre fatto sapere che qualsiasi decisione sarebbe stata adottata dopo l’arrivo dell’offerta vincolante il cui termine scade il 30 settembre, ma che dovrebbe essere rinviato di un paio di settimane. L’utilità pratica dei pareri legali potrebbe, tuttavia, essere un’altra. Il non gradimento di Vivendi per l’offerta avanzata da Kkr per NetCo (circa 21 miliardi più altri 2 miliardi di earn out) sarà esternato formalmente al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, la prossima settimana. A favore del governo giocherà la possibilità che tale opposizione (secondo il gruppo che fa capo alla famiglia Bolloré la valutazione giusta sarebbe 31 miliardi) possa non tradursi in uno stallo con la costituzione di una minoranza di blocco in assemblea. Vivendi, infatti, detiene il 23,7%, quota il cui peso aumenta considerato che lo scorso aprile si è presentato in assemblea solo il 53,7% del capitale. Insomma, per il Tesoro – destinato a detenere fino al 20% di NetCo in virtù del memorandum con Kkr – dovrebbe essere meno complicato trovare un’intesa. Vivendi, tuttavia, richiede legittimamente un prezzo più alto per NetCo poiché al momento non si sa ancora quanto personale e quanto debito resterà in ServCo (cioè Tim senza la rete) e quanto questa dovrà pagare per l’uso del network. Il cda di Tim è convocato per mercoledì 27 e dovrebbe deliberare la proroga per la presentazione dell’offerta vincolante. Ieri Tim in Borsa ha perso l’1,7 per cento. LEGGI TUTTO

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    Sul contratto dei bancari l’ombra degli extraprofitti

    Gli extraprofitti irrompono nella trattativa per il rinnovo del contratto dei bancari. Ieri le parti hanno ripreso il confronto dopo la pausa estiva. E subito l’hanno rinviato. Ma la tassa che il governo ha introdotto con il decreto legge del 7 agosto scorso era il convitato di pietra: posto che il prelievo punta a tagliare gli utili delle banche, il tema potrebbe influenzare la trattativa per la parte economica. E che la questione sia nell’aria lo ha dimostrato l’esito dell’incontro, aggiornato per 11 e 12 ottobre. L’impressione è che tra tre settimane il quadro della nuova imposta, oggi ancora in attesa di ultimi emendamenti e passaggio in Parlamento, sarà stato definito, eliminando dal terreno ogni residua incertezza.Il confronto vede tre soggetti in campo: da un lato i vertici dei sindacati del settore (Fabi, First-Cisl, Fisac-Cgil, Uilca e Unisin), dall’altro l’Abi (tramite il Casl, il comitato ad hoc guidato dalla manager di Unicredit Ilaria Dalla Riva) ma anche Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana uscita dal Casl ma presente alla trattativa con il responsabile Affari istituzionali sindacali, Alfio Filosomi.L’Abi ha presentato un documento di sei pagine nel quale si riassume la situazione del settore senza però entrare nello specifico né della parte economica, né di quella normativa. Una mossa che ha indispettito i sindacati, che aspettavano invece un riscontro sulla piattaforma unitaria presentata in primavera. Per le sigle l’Abi punta solo a guadagnare il tempo di cui sopra. Come in effetti fa sospettare anche la data riportata sul file del documento: risale al 26 luglio e non contiene alcuna nuova proposta. Tant’è che le varie sigle hanno contestato il metodo: un documento c’è già – è la linea di Lando Sileoni, leader della Fabi – ed è la piattaforma dei sindacati: «È quella la base sulla quale discutere il nuovo contratto». E a Sileoni ha fatto eco Fulvio Furlan per la Uilca: «Abi ha presentato un documento che approfondiremo e che però non risponde alla piattaforma unitaria». Per Sileoni, a questo punto, «è venuto il momento che Abi esca allo scoperto». Un riferimento agli istituti contrari al punto di partenza economico della piattaforma: quei 435 euro di aumento medio mensile (in tre anni) che ha già ottenuto il via libera da Carlo Messina, il numero uno di Intesa, la banca dove lavora oltre un quarto dei 270mila dipendenti bancari rappresentati dall’Abi. Un via libera, espresso pubblicamente nel giugno scorso, ma che al Giornale risulta confermato anche dopo il varo del Decreto sugli extraprofitti.Contestare la posizione della prima banca italiana, e argomentare, non si presenta come un’operazione semplice. La questione sta tutta qui, a questo punto. Il punto è capire la posizione dell’Abi che, evidentemente, non è ancora maturata. In proposito il peso di Unicredit è importante anche perché il suo ceo, Andrea Orcel, non si era detto favorevole ai 435 euro. Ma proprio ieri, ha detto ancora Sileoni, «Orcel, ha detto che la nuova tassa sugli extraprofitti non pregiudicherà i dividendi da 6,5 miliardi che il gruppo pagherà agli azionisti: di fronte a queste parole, sarà difficile non dare 435 euro ai dipendenti». LEGGI TUTTO

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    Bollette, cosa può succedere con la fine del mercato tutelato

    Per come stanno le cose adesso, il mese di gennaio del 2024 vedrà la fine del mercato tutelato per le bollette del gas e ad aprile per quelle della luce. Il governo, però, sta valutando il da farsi così come ha recentemente affermato il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, che ha parlato di “valutazioni da parte del governo sul meccanismo di traghettamento al di fuori del mercato tutelato (dell’energia, ndr) dei clienti domestici, ed in particolar modo dei vulnerabili, tenendo conto dell’instabilità dei prezzi dell’energia in questa fase storica”.Le varie ipotesi in campoNon si conosce ancora bene cosa potrebbe accadere con la fine del mercato tutelato: i prezzi aumenterano o rimarranno invariati? “Oggi sul mercato tutelato abbiamo 10 milioni di famiglie”, ha ricordato il ministro durante un convegno. Il tema è cosa accadrà alle famiglie italiane che non sceglieranno, per tempo, un operatore sul mercato libero, ma anche da questo punto di vista sono arrivate rassicurazioni da parte del governo. “Sulla base dei principi fissati dalla decretazione ministeriale, saranno svolte campagne di comunicazione istituzionale su larga scala, attraverso una pluralità di canali divulgativi e sui principali media a diffusione nazionale, in coordinamento con Arera e con il supporto di Acquirente Unico”, ha spiegato Fratin.In questo modo saranno veicolate le corrette informazioni sulla normativa vigente “in materia di apertura del mercato, sulle caratteristiche del servizio a tutele graduali, sulle relative tempistiche, sugli obblighi e sui diritti dei clienti finali, nonché sulle opportunità del mercato in termini di potenziali vantaggi derivanti da una pluralità di offerte, trasparenti e confrontabili”. Tutti gli utenti saranno informati per poter operare le scelte più consapevoli ed eseere tutelati: tutto ciò dovrà, però, avvenire con largo anticipo: secondo quanto appreso, tutti gli utenti riceveranno le opportune comunicazioni sulle loro bollette secondo quanto stabilito dall’ente regolatore per “rafforzare la trasparenza e la chiarezza informativa sulle condizioni di fornitura e sui prezzi, in modo da agevolare il confronto autonomo dei clienti fra l’offerta economica di tutela e le alternative disponibili sul mercato”, ha concluso Fratin.Cosa succede con la luceFino a quando non si saprà la strada da intraprendere, ecco cosa accadrà a chi non sceglierà un operatore al termine del mercato tutelato: nessuno dovrà temere un’interruzione di servizio perché si passera automaticamente al Servizio a tutele graduali (Stg) che è operativo grazie alle microimprese. L’operatore, al momento, è impossibile da conoscere fin quando non si saprà chi avrà vinto tramite le aste dei prossimi mesi. Il Stg avrà una durata non superiore ai tre anni: chi avrà continuato a non scegliere passerà allo stesso servizio dei tre anni precedenti. Anche sulle tariffe c’è un alone di incertezza: di sicuro il prezzo sarà unico per tutto il Paese grazie a una delibera emanata da Arera che “sarà soggetta ad aggiornamenti periodici”.Cosa succede con il gasPer quanto riguarda il gas, chi non sceglierà il proprio operatore al quale versare il prezzo delle bollette non rimarrà a secco: anche in questo caso, chi non aderirà al mercato libero dal prossimo anno rimarrà con il fornitore preesistente che applicherà prezzi variabili in base al Psv (Punto di Scambio Virtuale) in aggiunta a un prezzo fisso che sarà stato stabilito “liberamente dal venditore e monitorato da Arera”, come si legge su Repubblica. LEGGI TUTTO