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    Gli ibis a cui era stato insegnato a migrare in Toscana saranno guidati in Andalusia

    Tra i vari progetti per ripopolare l’Europa di specie animali che si erano estinte nel continente ce n’è uno particolarmente affascinante per il metodo con cui da quasi vent’anni viene portato avanti. È quello che riguarda gli ibis eremiti, uccelli molto diffusi fino al Seicento: alla fine dell’estate un gruppo di scienziati vola dall’Austria, dalla Svizzera o dal sud della Germania in direzione della Toscana a bordo di una coppia di velivoli leggeri allo scopo di farsi seguire da uno stormo di giovani ibis e insegnare loro a migrare verso un clima più mite, come facevano i loro antenati.Il progetto sta funzionando piuttosto bene, e oggi c’è una popolazione di circa 200 ibis che in primavera si riproduce a nord delle Alpi e sverna attorno alla laguna di Orbetello, in provincia di Grosseto. Quest’anno tuttavia, per la prima volta dal 2004, non ci sarà una migrazione a guida umana verso l’Italia, bensì verso la Spagna, e la causa è il riscaldamento globale.Nei secoli passati gli ibis eremiti passavano la maggior parte della primavera e dell’estate nell’Europa continentale e i mesi freddi in Africa, più precisamente nelle regioni che oggi fanno parte della Mauritania e del Senegal o dell’Etiopia e dell’Eritrea. Ma vennero cacciati a dismisura, fino all’estinzione, e i pochi superstiti, rimasti in Marocco e in Turchia, smisero di migrare. Negli ultimi decenni gruppi di ibis cresciuti negli zoo sono stati liberati in alcune parti d’Europa, ma perché la popolazione cresca al punto da essere autonoma e prosperare senza l’intervento umano è necessario che torni a migrare, perché d’inverno non ci sarebbe abbastanza cibo per sostenere un gran numero di ibis.Questa è la ragione per cui il gruppo di ricerca Waldrappteam, guidato dal biologo austriaco Johannes Fritz, ha cercato un modo per insegnare agli ibis la migrazione, scegliendo la Toscana come meta per questioni di fattibilità. Dal 2004, quasi ogni anno, il Waldrappteam – Waldrapp è la parola tedesca per “ibis” – ha guidato una ventina di giovani ibis nati in cattività fino a Orbetello. Nel 2011 per la prima volta una ibis tornò in autonomia a nord delle Alpi, facendo il percorso in senso contrario, e quando poi intraprese il viaggio di ritorno in Toscana fu seguita da un gruppo di ibis a cui la migrazione non era stata insegnata dagli umani, ma che avevano comunque l’istinto a volare verso zone più calde.Da allora la migrazione avviene spontaneamente e si è pian piano creata la piccola popolazione migratoria di oggi, composta da uccelli nati in cattività e da altri del tutto selvatici che hanno imparato la via per l’Italia dai loro simili. Tutto sembrava procedere nella giusta direzione per arrivare a una popolazione di 260 ibis, giudicata sufficientemente grande per sopravvivere in autonomia, senza il sostegno umano, se non fosse stato per le temperature eccezionalmente alte registrate in Europa lo scorso ottobre, che fanno parte di una tendenza legata al cambiamento climatico.Nei primi anni della migrazione in autonomia gli ibis iniziavano il viaggio attraverso le Alpi intorno ai primi giorni di ottobre. Da allora però la data di partenza si è via via spostata in avanti, probabilmente per via delle temperature più miti che ci sono state di anno in anno. L’ottobre del 2022 è stato il più caldo dal 1800 nel Nord Italia, anche in Austria, in Svizzera e nel sud della Germania sono stati registrati dei record, e gli ibis hanno cominciato a mettersi in viaggio solo verso la fine del mese. La partenza ritardata però è problematica: dei 60 ibis che passano l’estate nelle tre colonie più settentrionali della popolazione, solo 5 sono riusciti ad arrivare in Toscana da soli.Gli altri 55 hanno provato più volte ad attraversare le Alpi senza successo. «Gli ibis eremiti sfruttano le correnti ascensionali per volare più in alto durante la migrazione», spiega Johannes Fritz, «in particolare quando devono attraversare i passi di montagna. Abbiamo osservato che più avanti nel corso dell’anno hanno difficoltà ad attraversare le Alpi e riteniamo che sia perché all’avvicinarsi dell’inverno vengono a mancare le correnti ascensionali di cui hanno bisogno. Ce lo suggerisce anche la nostra esperienza di piloti».I 55 ibis che l’anno scorso erano rimasti bloccati a nord delle Alpi sono poi stati aiutati dal Waldrappteam, che li ha catturati e trasportati a sud delle montagne. Una volta liberati, hanno subito ripreso il viaggio e hanno raggiunto da soli la Toscana.Non è detto che anche quest’anno gli ibis eremiti si trovino ad affrontare lo stesso problema: anche se è in corso un generale aumento delle temperature, di anno in anno resta una certa variabilità e può darsi che il prossimo ottobre le condizioni meteorologiche facilitino la migrazione. Tuttavia sul lungo termine il cambiamento climatico potrebbe danneggiare il progetto di reintroduzione degli ibis eremiti e per questo il Waldrappteam ha deciso di insegnare una rotta migratoria alternativa agli ibis, che non richiede di superare le Alpi, ma solo i più bassi Pirenei: in Andalusia, nel sud della Spagna, esiste una colonia sedentaria di ibis e la migrazione a guida umana del 2023, che si terrà ad agosto, sarà diretta lì.In rosa la rotta per la migrazione a guida umana del 2023, in lilla quelle delle migrazioni degli ibis che svernano in Toscana (Waldrappteam Conservation & Research)Per il gruppo di ricerca sarà una sfida impegnativa perché il percorso di viaggio sarà nuovo per la componente umana della missione e lungo il triplo di quello verso la Toscana. «Ci sarà poi la complicazione di dover chiedere permessi di vario genere in due nuovi paesi, la Francia e la Spagna, e gli aspetti logistici relativi all’alimentazione degli ibis potrebbero essere difficili», aggiunge Fritz: «Ci preoccupano particolarmente le temperature e la siccità che potremmo incontrare lungo questa rotta migratoria. Ma ci stiamo preparando».Sebbene quest’anno nei cieli italiani non si vedranno i paraplani del Waldrappteam seguiti da un piccolo stormo di ibis, non significa però che il progetto di reintroduzione non riguarderà più l’Italia. Fritz e i suoi collaboratori continueranno a lavorare con i partner italiani, tra cui il Parco Natura Viva di Bussolengo, in provincia di Verona, per contrastare le morti di ibis dovute a errori dei cacciatori o a caccia illegale e per sostenere la popolazione che sverna a Orbetello.Secondo Fritz, anche con le difficoltà causate dal cambiamento climatico l’Italia potrà continuare a essere frequentata dagli ibis. Innanzitutto perché alcuni degli ibis reintrodotti in Austria passano l’estate in Carinzia e da lì non devono attraversare montagne tanto alte da risultare invalicabili a fine ottobre. Poi perché è in programma la creazione di una nuova colonia in Friuli e infine perché gli scienziati sono ottimisti sul fatto che anche tra gli uccelli che si accoppiano più a nord alcuni riusciranno a raggiungere la Toscana anche in futuro.«La nuova rotta migratoria e la creazione di una nuova area di svernamento è un’estensione del progetto che aumenterà la flessibilità ecologica della popolazione di ibis e speriamo che li aiuterà ad affrontare le conseguenze del cambiamento climatico», conclude Fritz: «Speriamo che il nostro progetto faccia da modello nella mitigazione degli effetti del cambiamento climatico per le popolazioni animali».– Leggi anche: Come si insegna a migrare agli uccelli LEGGI TUTTO

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    In Spagna c’è un gran caldo anomalo e precoce

    In Spagna è stata raggiunta la temperatura più alta mai registrata nel mese di aprile, con una massima di 38,4 °C rilevata nel tardo pomeriggio di giovedì all’aeroporto di Cordoba, nel sud del paese. In molte altre città dell’Andalusia, la regione dove si trova Cordoba, sono stati superati abbondantemente i 30 °C, con una massima di 35 °C a Siviglia. Nel complesso, nel mese di aprile le temperature massime rilevate in Spagna sono state per alcuni giorni superiori di 10-15 °C rispetto alla media stagionale. Secondo gli esperti, quello di quest’anno sarà l’aprile più caldo mai registrato nel paese e aggraverà le già difficili condizioni legate alla siccità e alla mancanza di riserve idriche per affrontare la tarda primavera e l’estate.Le temperature massime registrate negli ultimi giorni sono state causate dal passaggio di un fronte di aria calda sulla penisola iberica proveniente dall’Africa, combinato a una fase di lenta evoluzione delle condizioni atmosferiche dovuta all’alta pressione. È un fenomeno che si verifica con una certa frequenza, ma di solito verso la primavera inoltrata e l’estate, difficilmente con ondate di calore così estese e precoci.Per ridurre i rischi per la popolazione, varie amministrazioni locali spagnole hanno già messo in pratica le procedure che di solito sono adottate per le ondate di calore estive. In molte zone si è deciso di modificare gli orari nelle scuole, in modo da concentrare le lezioni nei periodi più freschi della giornata o interromperle in anticipo, mentre a Madrid è stato rafforzato il servizio dei mezzi pubblici per ridurre i tempi di attesa. Le piscine pubbliche sono state aperte con un mese di anticipo e sono stati avviati piani di assistenza per gli anziani e le fasce più deboli della popolazione.Il caldo degli ultimi giorni avrà ulteriori conseguenze sulla siccità sempre più grave in molte aree della Spagna. Nelle prime tre settimane di aprile è caduto circa un quarto della pioggia che normalmente si ha in questo periodo dell’anno. I dati degli ultimi giorni del mese non sono ancora disponibili, ma è probabile che questo mese si confermi come il più secco mai registrato nel paese.The river discharge anomaly, based on reanalysis data from March to April 25, 2023, shows a concerning picture of the #drought still affecting Southern Europe, particularly northern Italy. #rstats #dataviz pic.twitter.com/q6jwC9xlhp— Dr. Dominic Royé (@dr_xeo) April 27, 2023Secondo le previsioni, nel fine settimana le temperature massime dovrebbero scendere, ma già dall’inizio di maggio potrebbe tornare a fare caldo a cominciare dalla Spagna meridionale. Lo scorso anno a maggio erano state registrate massime superiori ai 40 °C, con un ulteriore peggioramento tra giugno e luglio con due ondate di calore che avevano interessato anche diverse altre aree dell’Europa. Il caldo e la siccità avevano contribuito a un aumento degli incendi boschivi, tra i più grandi registrati nel paese negli ultimi anni.È difficile ricondurre un singolo evento meteorologico al cambiamento climatico, soprattutto nel breve periodo, ma numerose ricerche segnalano ormai da tempo come questi eventi stiano diventando sempre più estremi proprio a causa del riscaldamento globale. Lo scorso anno è stato il secondo più caldo mai registrato in Europa con la stagione più calda mai rilevata. Nel suo complesso nel continente si sta assistendo a un aumento della temperatura media più intenso rispetto alla media globale, con grandi implicazioni sia nell’immediato per le emergenze sanitarie legate alle ondate di calore sia nel medio-lungo periodo per la mancanza di precipitazioni, specialmente nel sud dell’Europa.Il governo della Spagna ha di recente chiesto aiuto all’Unione Europea per sostenere gli agricoltori in difficoltà a causa del lungo periodo di siccità, che rende impraticabile la semina. Il paese è un importante esportatore di frutta, ortaggi e materie prime per il settore alimentare: raccolti più contenuti potrebbero avere conseguenze per il resto dell’Europa e influire sui prezzi, già aumentati a causa dell’inflazione.In Europa la fine dell’inverno e i primi mesi della primavera sono stati più caldi rispetto alla media, con scarse piogge in molti casi insufficienti per ripristinare le riserve idriche già messe a dura prova dalla siccità dello scorso anno. Le ondate di caldo hanno inoltre interessato precocemente altre zone del pianeta, con temperature sopra i 45 °C nel nord-ovest della Thailandia e 40 °C rilevati a Dacca, la capitale del Bangladesh. LEGGI TUTTO

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    L’aria della Pianura Padana è sempre la più inquinata dell’Europa occidentale

    Caricamento playerGli ultimi dati sulla qualità dell’aria diffusi dall’Agenzia europea dell’ambiente (EEA) confermano una cosa già risaputa ma sempre problematica: la Pianura Padana è la regione più inquinata dell’Europa occidentale. Secondo l’EEA, che è l’organismo dell’Unione Europea che monitora le condizioni ambientali, nonostante un generale miglioramento della qualità dell’aria rispetto al passato i livelli di sostanze inquinanti presenti nell’aria che respiriamo continuano a rappresentare un grande rischio per la salute.Nel 2021 il 97 per cento della popolazione urbana europea è stato esposto a concentrazioni di particolato fine (il cosiddetto PM2,5, l’inquinante più dannoso per la salute) maggiori dei limiti ideali fissati dalle più aggiornate linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Le linee guida europee sono meno stringenti, ma in alcune parti d’Europa sono comunque state disattese, in particolare per il particolato di dimensioni maggiori (PM10) e l’ozono, i cui limiti sono stati superati in Pianura Padana.Le ragioni delle specifiche condizioni di inquinamento del Nord Italia sono ben note. Innanzitutto la Pianura Padana è una regione piena di città e molto popolata nonché densamente industrializzata, con la conseguente emissione di grandi quantità di sostanze inquinanti nell’atmosfera. Ci sono altre zone d’Europa che hanno caratteristiche simili, ma a queste si aggiunge la conformazione geografica del bacino del Po e le condizioni meteorologiche ad essa legate: chiusa tra le Alpi e gli Appennini, la Pianura Padana è una regione in cui soffia poco vento e c’è un’alta stabilità atmosferica, ragione per cui le sostanze inquinanti presenti nell’aria ristagnano, non vengono disperse.Le sostanze inquinanti prese in considerazione in queste analisi dell’EEA sono quelle per cui l’esposizione a lungo termine è associata allo sviluppo di patologie di vario genere, principalmente cardiovascolari e respiratorie, e a una riduzione dell’aspettativa di vita. Le principali sono il particolato, cioè l’insieme delle sostanze solide e liquide sospese nell’aria in particelle di diametro fino a mezzo millimetro, che possono depositarsi nei bronchi e penetrare nel sistema circolatorio, l’ozono, tra le sostanze più rischiose per chi soffre d’asma, e il biossido di azoto, ritenuto cancerogeno. Il PM2,5 è l’inquinante che ha l’impatto maggiore sulla salute e in particolare è associato a infezioni respiratorie, cancro ai polmoni e infarti.In generale, l’inquinamento dell’aria è particolarmente dannoso per i bambini e gli adolescenti. Le stime dell’EEA dicono che ogni anno causa più di 1.200 morti premature tra le persone con meno di 18 anni nei 32 paesi di cui analizza le caratteristiche.Secondo una classifica delle città più inquinate del 2021, che tiene conto delle concentrazioni di PM2,5, in Italia i comuni più inquinati tra quelli con più di 50mila abitanti sono:1. Cremona2. Padova3. Vicenza4. Venezia5. Brescia6. Piacenza7. Bergamo8. Alessandria9. Asti10. VeronaMilano è dodicesima nella classifica italiana e Torino quattordicesima. Se si considera la classifica europea complessiva, solo due città polacche e una croata – tra quelle con più di 50mila abitanti – hanno valori di concentrazione di PM2,5 maggiori di Cremona.Il particolato causato dalle attività umane è dovuto principalmente alla combustione di legna e carbone, a molte attività industriali e ai mezzi di trasporto stradali alimentati con i combustibili fossili. Il biossido d’azoto è prodotto principalmente dai mezzi stradali e a sua volta causa la presenza di ozono, che si forma da reazioni chimiche favorite dalla presenza di vari composti volatili, tra cui il metano.– Leggi anche: L’inquinamento dell’aria spiegato bene LEGGI TUTTO

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    Una cosa difficilissima che stiamo imparando a fare

    La Hringvegur è la strada più importante dell’Islanda: copre buona parte del perimetro dell’isola e non a caso il suo nome significa letteralmente “strada anello”, o “tangenziale” per i meno romantici. A est della capitale Reykjavík, la desolazione delle terre scure vulcaniche attraversate dalla Hringvegur è interrotta dagli sbuffi bianchi di vapore acqueo di una delle tante centrali geotermiche dell’isola. Parte dell’energia elettrica prodotta viene impiegata a poca distanza per alimentare Orca, il più grande impianto al mondo per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, per dimostrare la fattibilità di una delle tecnologie che dovremo usare contro il cambiamento climatico.Ridurre il più possibile le emissioni di gas serra derivanti dalle attività umane è essenziale per evitare che la temperatura media globale continui ad aumentare, ma non è sufficiente. Come ha segnalato l’ultimo rapporto di sintesi sul clima delle Nazioni Unite diffuso lunedì 20 marzo, dovremo rimuovere dall’atmosfera le enormi quantità di anidride carbonica (CO2) che abbiamo immesso dall’inizio dell’epoca industriale per mantenerci sotto una soglia in cui gli effetti del cambiamento climatico saranno più gestibili. La quasi totalità degli studi scientifici lo segnala da tempo, ma sia rimuovere l’anidride carbonica in eccesso nell’atmosfera sia ridurne la produzione è complicato, soprattutto per come sono organizzate le nostre società e i modi in cui produciamo energia.Secondo il documento dell’ONU – che riassume le migliaia di pagine del Sesto rapporto di valutazione 2021-2022 – la rimozione della CO2 non è solamente un’opzione, ma una necessità. Oltre a eliminare l’eccesso di anidride carbonica già immessa, servirà per controbilanciare le emissioni che non potremo fare a meno di produrre in settori come l’agricoltura, il trasporto aereo, alcuni processi industriali e altri ambiti in cui la decarbonizzazione è attualmente troppo onerosa.Stimare la quantità di anidride carbonica da rimuovere per evitare che si superino i 2 °C di aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale non è comunque semplice. Il limite deriva dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015, che aveva fissato una soglia più ottimistica a 1,5 °C, entro la quale non riusciremo a rimanere con gli attuali andamenti.Un ampio studio realizzato dall’Università di Oxford sui processi di rimozione della CO2 su scala globale ha stimato che dovremmo togliere dall’atmosfera circa 2 miliardi di tonnellate di questo gas all’anno per contenere l’aumento della temperatura entro limiti accettabili nei prossimi decenni. La quantità equivale a circa il 5 per cento dei quasi 37 miliardi di tonnellate di anidride carbonica emessi in un anno derivanti solo dall’impiego dei combustibili fossili e del cemento.È una quantità enorme da rimuovere, se consideriamo che l’impianto di Orca in Islanda riesce a toglierne circa 3.700 tonnellate in un anno: meno dello 0,0002% dei due miliardi indicati dallo studio di Oxford. L’impianto ha soprattutto lo scopo di dimostrare la fattibilità di un sistema di cui si parla da molto tempo. In generale, del resto, le tecnologie per eliminare parte della CO2 dall’atmosfera esistono, ma non è sempre chiaro quanto siano praticabili su larga scala e quali rischi potrebbero comportare per l’ambiente.L’impianto Orca di Climeworks in Islanda (Climeworks)Orca è stato realizzato da Climeworks, un’azienda fondata nel 2009 a Zurigo che da tempo sperimenta soluzioni per la cattura atmosferica dell’anidride carbonica. Dopo averne sviluppate alcune in Svizzera, i suoi responsabili hanno pensato all’Islanda sia per la presenza degli impianti geotermici che consentono di produrre energia elettrica in modo sostenibile, sia per la possibilità di sfruttare le caratteristiche geologiche dell’isola per conservare l’anidride carbonica estratta dall’atmosfera.Dalla strada anello, Orca è a malapena visibile e non colpisce molto, sembra un comune impianto di aerazione, come quelli che si vedono spesso sopra gli stabilimenti industriali o i palazzi che ospitano uffici. La sua costruzione è costata poco meno di 10 milioni di euro, ma Climeworks pensa in grande e sta già costruendo a poca distanza un nuovo impianto che si chiama Mammoth e che rimuoverà nove volte l’anidride carbonica che riesce a filtrare Orca.Almeno concettualmente, il sistema di cattura della CO2 non è complicato ed è alquanto lineare. Alcune grandi ventole aspirano l’aria e la fanno passare attraverso un filtro altamente poroso al quale si legano le molecole di anidride carbonica. In un certo senso il filtro si comporta come una spugna quando viene in contatto con l’acqua: la intrappola e la trattiene.(Climeworks)Quando il filtro è saturo, cioè ha raccolto tutta la CO2 che poteva, lo scompartimento in cui si trova viene isolato dall’ambiente esterno e portato a una temperatura di 100 °C, in modo da potere estrarre l’anidride carbonica: nella sua forma gassosa viene convogliata in alcune tubature fino al vicino impianto di trattamento gestito da Carbfix, una collaborazione tra centri di ricerca e aziende per la conservazione della CO2 nel sottosuolo. Il gas viene combinato con l’acqua, producendo di fatto acqua gasata, che viene poi iniettata in profondità nelle rocce vulcaniche (basalti) islandesi. L’acqua gasata reagisce con il calcio e il magnesio presente nello strato roccioso e l’anidride carbonica rimane intrappolata nei basalti, senza che si producano sostanze secondarie pericolose.Campioni di rocce dopo il trattamento (Carbfix)Il sistema funziona, ma non tutti i luoghi della Terra presentano le stesse condizioni, come un sottosuolo che possa intrappolare facilmente l’anidride carbonica o impianti che producano energia elettrica senza emissioni. Inoltre, il livello stesso di efficienza di Orca e in generale dei sistemi per la cattura diretta della CO2 sono vincolati dalla bassa concentrazione di questo gas nell’aria. In media c’è una molecola di anidride carbonica ogni 2.500 molecole di aria che abbiamo intorno (per lo più ossigeno e azoto). L’impianto in Islanda deve filtrare circa due milioni di metri cubi di aria per ottenere una tonnellata di anidride carbonica: il processo è molto lento se non si dispone di una batteria potente di ventole.Gli stessi filtri sono difficili da sviluppare e Climeworks lavora continuamente alla ricerca di nuove fibre e materiali per migliorarne la resa. Fare ricerca è costoso e la società funziona come una startup, raccogliendo finanziamenti dagli investitori che scommettono sul suo futuro e sulla sostenibilità del modello economico che sta provando a costruire. Nel 2022, Climeworks ha ricevuto nuovi investimenti per circa 600 milioni di euro, rimanendo una delle startup meglio posizionate in un settore nato da poco e in cui iniziano a esserci i primi concorrenti.La cattura diretta non è comunque l’unico modo per rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera, anche se rimane l’ambito in cui ci sono i maggiori investimenti visto il suo potenziale. Un altro sistema ritenuto promettente è quello del “biochar”, un materiale che si ottiene attraverso la pirolisi, cioè un processo di decomposizione termochimica realizzato fornendo calore in assenza di ossigeno.Gli esperimenti dimostrativi svolti finora, specialmente negli Stati Uniti, prevedono l’impiego del materiale vegetale che rimane al termine della raccolta nei campi agricoli, come per esempio le parti inutilizzate della pianta del mais. Solitamente questo viene incenerito o lasciato nei campi a decomporsi, un processo che fa sì che l’anidride carbonica raccolta naturalmente dalle piante durante la loro crescita venga nuovamente immessa nell’atmosfera. L’idea è di evitare che ciò accada, raccogliendo il materiale di scarto e sottoponendolo a pirolisi a una temperatura di alcune centinaia di °C. Superata la parte di avvio del processo in cui è necessaria una fonte di energia esterna, in seguito il sistema può sostenersi da solo sfruttando il calore che via via produce il materiale sottoposto a pirolisi.Produzione del biochar (TED Talk)A seconda delle metodologie applicate, si ottengono vari prodotti derivanti dalla pirolisi. Il principale è appunto il biochar, una sostanza granulare che assomiglia al comune carbone. I granuli sono prodotti anche grazie a reazioni che hanno coinvolto parte della CO2, presente nel materiale di scarto di partenza, che non finirà quindi nell’atmosfera. Il biochar ha la capacità di trattenere acqua, di conseguenza il suo impiego è considerato promettente proprio nei campi agricoli per migliorarne la resa. Gli studi sui potenziali benefici sono ancora in corso, ma anche in questo caso un numero crescente di startup sta valutando come sfruttare questo principio per ridurre la CO2 in circolazione.Gli altri prodotti derivanti dall’impiego della pirolisi in questo settore sono una sostanza oleosa, il bio-oil, e una gassosa. Mentre questa può essere impiegata come combustibile, a patto poi di raccogliere la CO2 derivante evitando che finisca nell’atmosfera, il bio-oil può essere conservato nei pozzi di petrolio e di gas ormai esausti. Charm, società statunitense che sta sperimentando molto nel settore, ha annunciato di avere raccolto in meno di un anno circa 5.500 tonnellate di anidride carbonica.Su larga scala soluzioni di questo tipo potrebbero contribuire sensibilmente alla rimozione di CO2 dall’atmosfera, ma ci sono ancora dubbi sull’efficienza, considerato che il materiale di scarto deve essere raccolto e trasportato agli impianti di pirolisi, con ulteriore produzione di emissioni visto che la maggior parte dei mezzi agricoli funziona ancora bruciando combustibili fossili.Tra le altre strade percorribili citate nel rapporto delle Nazioni Unite c’è la bioenergia con cattura e conservazione dell’anidride carbonica (BECCS). L’idea di partenza non è molto diversa da quella del biochar e parte dall’assunto che gli alberi sono un sistema formidabile per sottrarre la CO2 dall’atmosfera e conservarla. Ma piantare semplicemente nuovi alberi non sarebbe sufficiente e potrebbe anzi rivelarsi pericoloso in alcune circostanze: non tutti i luoghi della Terra sono adatti a ospitare foreste e alcune zone sono più soggette di altre agli incendi, che porterebbero a reintrodurre nell’atmosfera l’anidride carbonica che anno dopo anno gli alberi avevano conservato nel legno.(SDIS 33 via AP, La Presse)La BECCS prevede che gli alberi vengano bruciati per produrre calore per le reti di teleriscaldamento oppure per la produzione di energia elettrica, ma che al tempo stesso la CO2 che si produce venga da subito catturata a conservata nel sottosuolo, con una sorta di cattura diretta immediata (oppure con la pirolisi). In questo modo il bilancio dell’anidride carbonica è negativo, perché quella rimossa dalle piante non potrà più finire nuovamente nell’atmosfera. Non tutti sono convinti che possa funzionare su larga scala: la resa energetica dalla combustione del legno non è alta e molta energia dovrebbe essere impiegata per i sistemi di cattura della CO2 prodotta a valle del processo.Tra chi studia i sistemi di rimozione dell’anidride carbonica c’è chi fa progetti ancora più in grande, immaginando soluzioni che almeno sulla carta sembrano meno complicate, ma che richiederebbero un grande dispendio di risorse per essere realizzate. La più discussa e con qualche potenzialità deriva dall’accelerare un processo che avviene naturalmente e che riguarda le rocce vulcaniche. Sono presenti un po’ dappertutto sulla Terra e pian piano rimuovono CO2 dall’atmosfera attraverso la loro degradazione. È un processo che si verifica in migliaia di anni, ma che può essere accelerato polverizzando le rocce vulcaniche e spandendole sui campi, che avrebbero intanto a disposizione preziosi minerali per migliorare la loro resa.Parte di queste sostanze finirebbe poi nei fiumi e potrebbe contribuire a mitigare un altro grave effetto dell’aumento di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera: l’acidificazione degli oceani. In condizioni normali, più o meno un quarto della CO2 nell’atmosfera finisce negli oceani dove a contatto con l’acqua diventa acido carbonico. Se la concentrazione di anidride carbonica aumenta, diventa maggiore anche la sua presenza nell’acqua marina con conseguenze per gli ecosistemi marini.Un’ipotesi è che l’aggiunta su grande scala di sostanze che rendono meno acidi (alcalini) gli oceani, come i silicati delle rocce vulcaniche, potrebbe ridurre il problema in caso di alto assorbimento di anidride carbonica da parte degli oceani. Altri metodi proposti riguardano la fertilizzazione oceanica, in modo che le minuscole specie vegetali presenti al suo interno (il fitoplancton) aumentino e gli oceani abbiano una più alta capacità di assorbire anidride carbonica.Lo sbiancamento dei coralli è uno degli effetti del riscaldamento globale (C. Jones/GBRMPA via AP)Sempre secondo le analisi dell’Università di Oxford, l’alcalinizzazione degli oceani è una tecnica dall’alto potenziale di mitigazione in termini di sottrazione dell’anidride carbonica, ma interventi su così larga scala su ecosistemi delicati come quelli oceanici potrebbero portare a risultati inattesi e pericolosi. Una ricerca pubblicata lo scorso ottobre ha messo inoltre in dubbio l’efficacia di soluzioni di questo tipo, oltre ai rischi per le molte specie animali e vegetali che popolano gli oceani.Al di là degli eventuali effetti indesiderati, vari sistemi di sottrazione di anidride carbonica dall’atmosfera richiedono l’impiego di molta energia per funzionare, e al momento i principali metodi per produrla derivano dallo sfruttamento dei combustibili fossili che portano alla produzione di grandi quantità di anidride carbonica. Ci sono di conseguenza dubbi sulla possibilità di portare progetti come quello di Orca in Islanda su larga scala, se non potranno essere alimentati da fonti energetiche rinnovabili.I più ottimisti ritengono che queste difficoltà potranno essere superate man mano che le tecnologie di rimozione della CO2 diventeranno più disponibili e diffuse, con una riduzione dei loro costi. Segnalano come le obiezioni che si fanno oggi ad alcuni di quei metodi ricordino quelle che si facevano in passato quando veniva messo in dubbio il passaggio all’eolico e al solare, come fonti alternative per produrre energia elettrica in modo più sostenibile. I prezzi si sono sensibilmente ridotti negli ultimi anni e si sono aperte nuove opportunità di mercato, che potrebbero emergere anche per la rimozione dell’anidride carbonica.Come ripetono ormai da tempo gli studi e i rapporti sul clima, non c’è una soluzione per il riscaldamento globale: solo la combinazione di più approcci e sistemi potrà consentirci di ridurre gli effetti dell’aumento della temperatura media globale, ormai inevitabili e con i quali ci dovremo confrontare per generazioni. I sistemi per rimuovere la CO2 saranno davvero utili solo se nel frattempo ridurremo il più possibile le emissioni di questo e degli altri gas serra, cercando di arrivare il prima possibile a un bilancio negativo nel quale sarà più l’anidride carbonica a essere sottratta rispetto a quella che viene emessa. Mentre leggevate questo articolo, comunque, una minuscola parte è già finita nelle profondità dell’Islanda. LEGGI TUTTO

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    L’ultimo rapporto dell’ONU sul clima

    Caricamento playerLunedì è stato pubblicato il nuovo rapporto di sintesi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. Il documento non presenta novità rispetto alle analisi già diffuse, ma è molto importante perché riassume migliaia di pagine di ricerche in un formato più fruibile, fondamentale per i governi che devono concordare e adottare nuove politiche per mitigare gli effetti del riscaldamento globale.La nuova sintesi come per i precedenti rapporti è alquanto netta: senza iniziative rapide e molto costose, i danni causati al pianeta dalle attività umane saranno in gran parte irreversibili e avranno enormi conseguenze. Secondo gli autori del documento, agendo molto in fretta e con misure drastiche c’è ancora tempo per evitare gli esiti più catastrofici. «La finestra di opportunità per garantire un futuro vivibile e sostenibile per tutti si sta rapidamente chiudendo», ricorda comunque il rapporto. Il segretario generale dell’ONU, António Guterres, lo ha definito «una guida per disinnescare la bomba a orologeria del clima».Il rapporto di sintesi è il documento finale del Sesto rapporto di valutazione dell’IPCC pubblicato tra il 2021 e il 2022. Le prime tre sezioni avevano trattato estesamente le basi fisico-scientifiche dietro il riscaldamento globale, l’impatto e le difficoltà nell’affrontarlo e infine le soluzioni per mitigare le conseguenze del cambiamento climatico. Il rapporto di sintesi comprende altri documenti che erano già stati pubblicati negli ultimi quattro anni, dedicati soprattutto agli effetti del riscaldamento globale sui terreni, gli oceani e le masse di ghiaccio (criosfera).Il nuovo rapporto riassume e rende con termini più accessibili ai decisori politici gli anni di studi sulle cause e le conseguenze dell’aumento della temperatura media globale. Ricorda che con gli attuali andamenti non potrà essere raggiunto l’obiettivo più importante e ambizioso: evitare che entro la prima metà degli anni Trenta si verifichi un aumento medio di 1,5° C rispetto al periodo precedente all’epoca industriale. Da tempo, comunque, una quota crescente di esperti riteneva che il limite fosse ormai irrealistico e che fosse arrivato il momento di accettare il fallimento, senza rassegnarsi e pensando a cosa fare per evitare ulteriori peggioramenti. Si stima che fino a oggi le attività umane abbiano provocato un aumento medio di almeno 1,1° C.Nel nuovo rapporto sono indicati gli ambiti su cui agire con decisione per avere effetti immediati: uno di questi è la drastica riduzione dell’impiego di combustibili fossili – in particolare carbone, petrolio e metano – per limitare le emissioni di gas serra. In un comunicato Guterres ha chiesto che tutti i paesi sviluppati anticipino di 10 anni i propri obiettivi per raggiungere la neutralità carbonica, cioè che la ottengano nel 2040 invece che nel 2050, come era stato stabilito dall’accordo sul clima di Parigi del 2015.La stessa richiesta è stata fatta alle economie emergenti come la Cina e l’India, che hanno come obiettivo per la neutralità carbonica rispettivamente il 2060 e il 2070. Per neutralità carbonica si intende un bilancio pari a zero di anidride carbonica immessa in atmosfera.Secondo Guterres i paesi più ricchi hanno la responsabilità di agire più in fretta rispetto a quelli più poveri, che sono quelli che subiscono maggiormente gli effetti dei cambiamenti climatici proprio a causa delle attività dei paesi sviluppati nei decenni passati.Raggiungere la “neutralità carbonica” – o le “emissioni zero” spesso citate – non significa quindi smettere del tutto di produrre gas serra (e in particolare di anidride carbonica, o CO2), ma rimuoverne una quantità pari a quella che viene immessa nell’atmosfera. Da una parte quindi bisogna attuare misure per ridurre le emissioni (per esempio riducendo l’uso dei combustibili fossili), dall’altra bisogna aumentare i modi per rimuovere gas serra dall’atmosfera (per esempio piantando alberi o catturando direttamente CO2).– Leggi anche: Le “emissioni zero”, spiegate beneIl rapporto di sintesi fa anche un punto su alcuni danni concreti causati dai cambiamenti climatici: la diminuzione dei pesci nei mari, il calo della produttività delle aziende agricole (dovuto per esempio a periodi sempre più prolungati di siccità in alcune aree del mondo, mentre in altre piove troppo), la moltiplicazione di malattie infettive e una frequenza senza precedenti di eventi meteorologici estremi.Questi effetti sono risultati maggiori rispetto a ciò che gli scienziati si aspettavano nelle attuali condizioni del pianeta, cioè con un aumento medio della temperatura di 1,1° C rispetto al periodo pre-industriale: le infrastrutture costruite dagli esseri umani, i loro sistemi economici e i loro settori produttivi nell’attuale società, dice il rapporto, si sono mostrati molto più vulnerabili del previsto anche a piccoli cambiamenti climatici. 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    C’è un nuovo trattato internazionale per la protezione degli oceani

    Dopo oltre dieci anni di negoziazioni, sabato sera gli stati membri dell’ONU hanno trovato un accordo internazionale per la protezione degli oceani. Il nuovo accordo è considerato particolarmente importante perché negli ultimi decenni gli animali e le piante marine sono diventati sempre più vulnerabili non solo a causa degli effetti del cambiamento climatico, ma anche per via della pesca eccessiva, del traffico navale e dell’inquinamento.Il suo obiettivo è che il 30 per cento delle acque internazionali in mare aperto – quelle cioè in cui tutti i paesi hanno diritto a pescare, navigare e fare ricerche – diventino aree protette entro il 2030.L’accordo (qui c’è una bozza) punta a tutelare e favorire il risanamento delle specie marine a rischio attraverso una serie di politiche e iniziative. In particolare, prevede che nelle aree protette stabilite dal nuovo accordo vengano fissati limiti alla pesca, alle zone in cui possono transitare le navi e alle attività di esplorazione che vi si possono svolgere, come l’estrazione dei minerali dai fondali oceanici. Prevede anche l’istituzione di una conferenza (COP) che si riunirà periodicamente per discutere delle questioni pertinenti.Le negoziazioni per il nuovo trattato erano cominciate il 20 febbraio e sono durate due settimane, dopo che le ultime si erano concluse lo scorso agosto senza alcun risultato. L’accordo è stato raggiunto soprattutto grazie alla mediazione di Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito e Cina, che si sono impegnate per trovare compromessi con i paesi che nel tempo avevano sollevato dubbi sia per quanto riguardava i diritti di pesca che su come ottenere i fondi necessari per implementare le proposte.Uno dei principali punti di discussione riguardava lo sfruttamento del materiale genetico di piante e animali marini che vivono in mare aperto, che può essere utile per la produzione di farmaci e cibo, ma anche per alcuni processi industriali. Mentre i paesi più ricchi hanno le risorse per esplorare le acque oceaniche e i fondali marini anche per questi scopi, quelli con le economie più deboli no: alcuni chiedevano pertanto rassicurazioni sul fatto che tutti potessero beneficiare in maniera equa degli accordi.I paesi aderenti dovranno comunque riunirsi di nuovo per adottare formalmente il testo e decidere le modalità per implementarlo. Intanto, l’Unione europea si è impegnata a investire 40 milioni di euro affinché l’accordo venga ratificato e applicato dai paesi aderenti in tempi brevi.Il più recente accordo internazionale relativo alla protezione degli oceani e ad altri temi collegati era la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che risale al 1982, più di quarant’anni fa. Il nuovo trattato servirà anche per rispettare gli obiettivi dell’accordo raggiunto lo scorso dicembre alla COP15 sulla biodiversità, secondo cui entro il 2030 dovrà diventare protetto il 30 per cento di tutte le aree terrestri e marine (oggi sono il 17 per cento di quelle terrestri e il 10 per cento di quelle marine).– Leggi anche: Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancora LEGGI TUTTO