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    In Irlanda le etichette degli alcolici dovranno indicare i rischi per la salute

    Il ministro della Salute dell’Irlanda, Stephen Donnelly, ha firmato oggi una discussa legge che renderà obbligatoria l’indicazione sulle etichette degli alcolici di varie informazioni sulla salute, dalle calorie per ogni porzione al rischio di sviluppare tumori e altre malattie. I produttori di alcolici avranno tre anni per mettersi in regola, modificando le etichette dei loro prodotti. La firma della legge era attesa da tempo, considerato che il governo irlandese aveva annunciato le nuove regole mesi fa, ricevendo critiche soprattuto dai grandi produttori di vino, birra e altre bevande alcoliche.La nuova legge è la prima di questo genere a richiedere indicazioni così dettagliate e avvisi sulla salute, come avviene già da tempo per le sigarette. Per questo motivo l’Irlanda aveva prima chiesto un parere alla Commissione Europea e all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), in modo da non rischiare sanzioni o di dover correggere alcune parti del nuovo provvedimento una volta entrato in vigore.In un comunicato, Donnelly ha detto che l’Irlanda «è il primo paese al mondo a introdurre indicazioni sulle etichette legate alla salute sui prodotti alcolici» e che confida ci possano essere «altri paesi che seguiranno il nostro esempio». Al momento nessun altro paese europeo ha comunque annunciato iniziative simili, anche perché alcuni paesi come Italia e Spagna avevano protestato per la scelta dell’Irlanda rivolgendosi alla Commissione Europea. Diversi esponenti del governo italiano avevano criticato duramente l’Irlanda e sostenuto che una legge di questo tipo avrebbe penalizzato le esportazioni di vino.Entro il 22 maggio 2026, tutti i produttori di alcolici dovranno indicare sulle etichette di ogni bottiglia e lattina l’apporto calorico dei loro prodotti, accompagnato da avvisi sul rischio di cancro derivante dal consumo di alcol e di altre malattie, come per esempio quelle legate al fegato. Le indicazioni dovranno essere riportate anche ai banconi dei bar e dei pub che somministrano birra alla spina e altre bevande alcoliche.Drinks Ireland, uno dei più grandi gruppi d’interesse in Irlanda legato alla produzione e alla vendita delle bibite alcoliche, ha criticato la legge dicendo che potrebbe indurre alcuni produttori di vino a non esportare più i loro prodotti in Irlanda, per evitare di dover utilizzare etichette diverse da quelle impiegate nel resto del mondo. Secondo l’organizzazione la scelta per i consumatori si potrebbe quindi ridurre, ma è ancora presto per capire come si regoleranno i produttori europei in un mercato comunque molto importante come quello irlandese.Altri gruppi di interesse nei mesi scorsi avevano detto di essere contrari alla nuova legge perché non ci sono elementi per sostenere che il consumo di vino e altri alcolici faccia aumentare il rischio di ammalarsi di cancro. In realtà la questione è stata studiata per decenni e – sulla base delle numerose ricerche scientifiche svolte – l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti e solidi per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Nel medesimo gruppo ci sono anche l’amianto, il fumo e gli insaccati, per esempio.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” su vino e rischio tumoriLe sostanze negli altri gruppi non sono necessariamente meno rischiose per la nostra salute, ma semplicemente si trovano in classi più basse di rischio perché non ci sono ancora studi convincenti come per quelli del Gruppo 1 (e potrebbero non esserci mai). Una sostanza è cancerogena oppure non lo è: la parola stessa “cancerogeno” indica qualcosa che fa aumentare il rischio di insorgenza di un certo tipo di tumore. Ogni cancerogeno agisce in modo diverso su un rischio che varia a seconda del tipo di tumore e che dipende da come si è fatti e dal proprio stile di vita.Nell’Unione Europea si parla da tempo della possibilità di introdurre etichette che mettano meglio in evidenza i rischi per la salute legati al consumo di determinate sostanze, un po’ come si fa già con il fumo. Per questo nei mesi scorsi alcuni paesi avevano chiesto all’Irlanda di attendere che fossero introdotte regole comuni, che potrebbero però escludere alcune indicazioni come i rischi legati ai tumori. Si è per esempio parlato della possibilità di inserire nelle etichette rimandi ai siti web dei produttori, con indicazioni più dettagliate, ma che secondo i detrattori sarebbero meno efficaci nel segnalare la presenza dei rischi. LEGGI TUTTO

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    Il mito dei diecimila passi al giorno

    È probabile che le smartphone sul quale state leggendo questo articolo stia diligentemente prendendo nota del numero di passi che state facendo oggi, in modo da scoprire se a fine giornata abbiate raggiunto i diecimila, l’obiettivo su cui sono tarati praticamente tutti i pedometri e gli altri dispositivi che tengono traccia della propria attività fisica. È un traguardo talmente noto e promosso da applicazioni, tracker per il fitness e pubblicità da essere diventato per molte persone il metodo principale per distinguere le giornate in cui si è fatto qualcosa per la propria salute da quelle in cui si è stati indolenti e sedentari. Eppure lo standard dei diecimila passi non ha solide basi scientifiche e nacque molti anni fa più per ragioni di marketing che altro.La storia del contapassi ha origini incerte e ancora oggi dibattute, ma la sua invenzione viene spesso fatta risalire all’orologiaio svizzero Abraham-Louis Perrelet, il quale nel 1777 aveva perfezionato un primo meccanismo per la carica automatica degli orologi portatili che sfruttava i movimenti di chi li indossava. Partendo da quel sistema, tre anni dopo Perrelet aveva inventato un pedometro basato su alcuni principi di funzionamento dei suoi orologi e che consentiva di contare il numero di passi e di calcolare la distanza percorsa.Perrelet aveva probabilmente elaborato la propria idea basandosi su invenzioni e prototipi realizzati in passato, se si considera che già un secolo prima era stata segnalata l’esistenza di strumenti per misurare i passi e che già Leonardo da Vinci nel sedicesimo secolo aveva ipotizzato la costruzione di un pedometro a scopo militare (Leonardo aveva progettato anche un odometro, per misurare le distanze).Sarebbero stati però necessari circa due secoli dall’invenzione di Perrelet e alcuni intraprendenti giapponesi per rendere popolari i pedometri, la camminata come attività per tenersi in forma e l’obiettivo dei diecimila passi. Iniziò tutto un anno prima delle Olimpiadi di Tokyo del 1964, quando l’attenzione verso lo sport era crescente tra i giapponesi e l’eminente medico Iwao Ohya aveva iniziato a mettere in dubbio le abitudini di vita dei suoi connazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale il settore terziario in Giappone si era rapidamente espanso e molte persone avevano iniziato a condurre una vita sedentaria, con molte ore passate alle scrivanie dei loro uffici.Stava per iniziare l’evento sportivo più conosciuto al mondo e Ohya riteneva che si dovesse fare qualcosa per spingere i giapponesi a muoversi di più per tenersi in salute. Si mise in contatto con Juri Kato dell’azienda produttrice di orologi Yamasa Tokei Keiki, proponendogli di costruire un pedometro impostato per contare diecimila passi al giorno. Non è chiaro perché avesse scelto proprio quell’obiettivo, ma dalle ricostruzioni sembra che fosse stata una scelta piuttosto arbitraria e legata alla necessità di proporre un numero tondo, facile da ricordare e ragionevolmente raggiungibile in una giornata.Una delle prime pubblicità del Manpo-kei (Yamasa Tokei Keiki)Juri Kato lavorò un paio di anni realizzando infine un pedometro meccanico, il Manpo-kei, nome traducibile dal giapponese come “contatore di diecimila passi”. Fu messo in vendita con una vasta campagna pubblicitaria, che metteva bene in evidenza la possibilità di contare i passi e soprattutto di assicurarsi che fossero almeno diecimila. In Giappone nacquero associazioni per promuovere l’importanza della camminata come attività sportiva accessibile a buona parte della popolazione, senza particolari distinzioni legate alle condizioni fisiche e all’età. Tra le strade di Tokyo e delle altre città giapponesi diventava sempre più frequente osservare persone con il Manpo-kei per tenere traccia dei loro passi.Nei decenni successivi furono messe in vendita versioni alternative e imitazioni di quel pedometro non solo in Giappone, ma in vari altri paesi occidentali, dove iniziava ad affermarsi la moda dei 10mila passi. La miniaturizzazione dei componenti elettronici e la progressiva diffusione dei dispositivi digitali portò i contapassi a essere sempre più diffusi, sia come singoli gadget elettronici sia all’interno di lettori MP3, poi dei cellulari e infine degli smartphone e dei tracker.Mentre i primi pedometri meccanici utilizzavano un piccolo pendolo o una piccola sfera di metallo per rilevare il movimento e far scattare un contatore, gli attuali dispositivi elettronici impiegano sistemi microelettromeccanici (MEMS), che mettono insieme sensori di vario tipo per rilevare il movimento. Sono solitamente più affidabili, anche grazie agli algoritmi che utilizzano i dati rilevati dai MEMS per valutare se sia stato effettivamente compiuto un passo o un altro movimento del corpo. Grazie agli accelerometri e ad altri sensori, per esempio, gli smartphone possono ricostruire la loro posizione nello spazio (se sono messi in tasca rivolti verso l’alto o verso il basso per esempio), utilizzando queste informazioni per calcolare correttamente i passi, con un margine di errore relativamente basso.Tra dispositivi e applicazioni l’assortimento è ormai molto ampio, ma una costante è rimasta: sono quasi tutti impostati con l’obiettivo dei diecimila passi giornalieri, pari a circa 7 chilometri.Un pedometro offerto dalla catena di fast food McDonald’s nell’ambito di un’iniziativa di marketing nel 2004 (Getty Images)Diecimila è un numero tondo e chiaro, facile da comunicare e ricordare, ma come mostra la storia del pedometro moderno non è sostenuto da particolari basi scientifiche. Camminare fa sicuramente bene ed è un’attività fisica a basso impatto per l’organismo, ma ogni persona è fatta diversamente e le sue condizioni di salute variano nel tempo a causa dell’invecchiamento e di altri fattori, di conseguenza non può esserci un numero di passi “salutare” uguale per tutti.Alcuni gruppi di ricerca hanno comunque messo alla prova la teoria dei diecimila passi, per vedere se porti effettivamente a qualche beneficio. Uno studio pubblicato nel 2019, per esempio, ha preso in considerazione 16.741 volontarie con un’età compresa tra 62 e 101 anni che tra il 2011 e il 2015 avevano utilizzato un pedometro per calcolare il numero di passi compiuti ogni giorno. Dall’analisi dei dati è emerso che le donne più sedentarie non superavano i 2.700 passi al giorno e che per le volontarie con una media di 4.400 passi giornalieri era stimabile una riduzione della mortalità pari al 41 per cento. La riduzione continuava a progredire all’aumentare dei passi giornalieri per poi stabilizzarsi intorno alla media di 7.500 passi al giorno. Oltre questo numero i benefici non erano sostanzialmente apprezzabili, secondo la ricerca a indicazione del fatto che basta camminare meno rispetto al diffusissimo obiettivo dei diecimila passi per ottenere comunque benefici.Lo studio aveva però preso in considerazione solamente la mortalità, trascurando altri fattori importanti, ma più difficili da stimare come la qualità della vita, le capacità cognitive e il mantenimento di particolari condizioni fisiche.Un’altra ricerca pubblicata nel 2020 aveva invece coinvolto 5mila persone, arrivando a conclusioni simili sul fatto che diecimila passi non influiscano sulla longevità. Dallo studio era emerso che per le persone che facevano 8mila passi al giorno il rischio di morte prematura era circa la metà rispetto a chi non ne faceva più di 4mila. Anche in questo caso non erano stati rilevati benefici statisticamente rilevanti nel fare più passi oltre gli 8mila giornalieri. Risultati simili erano stati ottenuti da un altro studio pubblicato nel 2021.– Ascolta anche: La scienza dei diecimila passi raccontata da “Ci vuole una scienza”Le ricerche effettuate negli anni hanno poi segnalato come siano poche le persone che fanno diligentemente almeno diecimila passi ogni giorno, seguendo per esempio le indicazioni dei loro dispositivi per contare i passi. Uno studio svolto in Belgio e spesso citato era consistito nel fornire pedometri ad alcune centinaia di volontari, incentivandoli a effettuare almeno diecimila passi al giorno per un anno. Tra le circa 660 persone che arrivarono alla fine della sperimentazione, solo l’8 per cento raggiunse l’obiettivo. A quattro anni di distanza, praticamente nessuno dei partecipanti allo studio aveva mantenuto l’abitudine di camminare a lungo nella giornata, tornando alla propria media personale prima dell’esperimento.Secondo gli esperti e le principali istituzioni sanitarie, camminare è una delle attività fisiche più semplici ed efficaci per mantenersi in forma. In generale, il consiglio è di dedicare all’attività fisica circa due ore e mezza ogni settimana, come extra rispetto a quella che eventualmente già si fa per lavorare o nel quotidiano. Considerando una media di circa cinquemila passi effettuati nel corso di una giornata, l’aggiunta di due-tremila passi equivalenti a una breve camminata può essere un obiettivo realistico per la maggior parte delle persone e fa raggiungere la quantità di passi segnalata negli ultimi anni dalle ricerche che hanno messo in dubbio il mito dei diecimila passi. LEGGI TUTTO

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    Sappiamo ancora poco degli effetti dei tatuaggi sulla salute

    Caricamento playerIn Italia oltre 7 milioni di persone hanno almeno un tatuaggio e la pratica di decorarsi la pelle con scritte e disegni permanenti è sempre più seguita in molte aree del mondo. Nonostante i tatuaggi siano tra gli interventi più praticati di modificazione del corpo, a oggi non ci sono molti dati chiari sui loro effetti sulla salute, sul perché alcune volte sbiadiscano e soprattutto su cosa determini la loro presenza per il nostro sistema immunitario, che è fatto per distruggere ciò che di estraneo si intrufola nell’organismo.La forma più conosciuta e diffusa per tatuarsi è quella “ad ago”, dove l’inchiostro viene introdotto nella pelle con un ago che pratica tante minuscole punture. È una tecnica diffusa da millenni e che nel suo principio di base non è sostanzialmente cambiata se non per l’attenzione all’igiene. Una volta introdotte nella pelle a qualche millimetro di profondità, le molecole di inchiostro rimangono intrappolate tra le cellule dove rimarranno per sempre, costituendo ciò che rende visibile il tatuaggio. L’inchiostro è però una sostanza estranea e la sua presenza determina una reazione da parte del sistema immunitario, che vorrebbe liberarsene. Come e perché non ci riesca è oggetto di dibattito da tempo, ma negli ultimi anni alcune ricerche hanno portato nuovi dati e valutazioni, come ha raccontato di recente Katherine J. Wu sull’Atlantic.Un gruppo di ricerca internazionale ha per esempio studiato la presenza di particolari sostanze, come lo zinco e il cobalto, nei pigmenti utilizzati per gli inchiostri dei tatuaggi. Quando finiscono nella pelle, determinano una reazione da parte dei macrofagi, le cellule del sistema immunitario che hanno il compito di inglobare e poi distruggere i patogeni (come virus e batteri) e più in generale di fare pulizia. I macrofagi provano a fare altrettanto anche con le molecole di inchiostro, ma queste sono troppo grandi per loro e non riescono a digerirle.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” sui tatuaggiIl periodo di vita di un macrofago può variare a seconda delle circostanze, ma in media non va oltre qualche giorno o settimana. Quando la cellula immunitaria muore, l’inchiostro che era riuscita a catturare torna libero e diventa preda di un nuovo macrofago, che a sua volta tenterà invano di distruggere quelle strane molecole. Alla sua morte ne subentrerà un altro e così via, potenzialmente per tutta la vita, anche se non è chiaro se dopo un certo periodo subentri un certo adattamento alla situazione.Questo processo potrebbe essere una delle cause per cui con il passare del tempo i contorni dei tatuaggi diventano meno netti, con le scritte e i disegni che appaiono quasi sfumati. I nuovi macrofagi nelle vicinanze, che ereditano dai loro predecessori il compito di occuparsi del problema, spostano lievemente le molecole dei pigmenti, che quindi cambiano di qualche frazione di millimetro la loro posizione. Il cambiamento dei tatuaggi nel tempo è probabilmente dovuto ad altri fattori aggiuntivi, per esempio al modificarsi delle cellule della pelle, che invecchiando tendono a essere meno toniche e a cedere a causa dell’effetto della gravità.Altre ricerche hanno invece evidenziato come minuscole parti dei tatuaggi possano essere trasportate dalle cellule immunitarie verso i linfonodi, strutture molto importanti per il sistema immunitario. Nelle persone molto tatuate è stata osservata una colorazione di alcuni dei loro linfonodi, si sospetta proprio a causa della migrazione dei pigmenti. Anche in questo caso gli studi sono per ora parziali e non ci sono elementi per valutare gli eventuali effetti sulla salute di questo spostamento.La difficoltà nell’avere elementi chiari dipende da una condizione piuttosto comune in medicina: siamo sostanzialmente tutti diversi e reagiamo in modo diverso a molte delle sostanze con cui entriamo in contatto e a cui siamo esposti. Nelle ore e nei primi giorni dopo un tatuaggio alcune persone avvertono un lieve fastidio, mentre altre sviluppano irritazioni della pelle più importanti, che tendono comunque a risolversi con il tempo. Queste derivano dalle sollecitazioni meccaniche dell’ago sulla pelle e da una risposta del sistema immunitario, che porta i tessuti a infiammarsi in modo da renderli meno ospitali per agenti che potrebbero infettarli, come i batteri.Le infezioni per lo più batteriche interessano fino al 6 per cento circa delle persone che si sottopongono ai tatuaggi (le stime variano molto) e di solito possono essere risolte applicando creme antibiotiche, o altri farmaci su indicazione del medico. Le complicazioni sono più rare rispetto a un tempo soprattutto grazie al miglioramento delle tecnologie utilizzate e a una maggiore attenzione all’impiego di materiale sterile. La reazione dei primi giorni al tatuaggio lascia poi spazio a una condizione che sembra essere costante, ma di minore entità, legata all’attività dei macrofagi e di altre cellule immunitarie.Alcuni studi hanno riscontrato che le persone che si tatuano di frequente tendono ad avere livelli più alti di anticorpi e altre sostanze del sistema immunitario, rispetto alle persone che si tatuano meno. Un’ipotesi è che a ogni tatuaggio l’organismo sia stimolato ad aumentare l’attività immunitaria, ma non si può invece escludere che la correlazione sia inversa, e cioè che le persone con un sistema immunitario più attivo tendano a tatuarsi più spesso perché non avvertono gli effetti meno piacevoli, come i giorni di infiammazione e prurito del tratto di pelle interessato.Non è inoltre chiaro se la costante sollecitazione dovuta alla presenza dell’inchiostro distolga parti del sistema immunitario da altre attività. Una ricerca segnalata da Wu e pubblicata lo scorso anno aveva segnalato che i pigmenti dei tatuaggi potrebbero interferire su alcune proteine, che i macrofagi utilizzano per comunicare con altre cellule, che di conseguenza sarebbero meno preparate ad affrontare eventuali minacce. Il sistema immunitario è però estremamente complesso e articolato, può aumentare enormemente le proprie capacità nel caso in cui sia necessario un intervento massiccio, di conseguenza sembra improbabile che altri patogeni o processi pericolosi possano sfuggirgli, mentre una sua parte è alle prese coi tatuaggi.Considerate le grandi incertezze e le difficoltà nel condurre studi che devono durare anni, gli inchiostri per i tatuaggi sono altamente normati e sottoposti a numerosi principi di precauzione. Nel 2015, per esempio, la Commissione Europea chiese all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) una valutazione dei rischi per la salute delle sostanze chimiche contenute negli inchiostri per i tatuaggi e in quello che viene definito “trucco permanente”, che è comunque un tatuaggio. Dopo circa cinque anni di lavoro, nel luglio del 2020 l’ECHA propose alla Commissione alcune limitazioni dei prodotti fino ad allora impiegati. Sulla base di quelle indicazioni, la Commissione aveva poi definito nuove regole entrate in vigore all’inizio del 2022.I tecnici dell’ECHA avevano valutato alcune sostanze in maniera esclusivamente qualitativa, senza indicarne una dose massima considerata la mancanza di soglie di sicurezza per quelle sostanze. Tra queste ne erano comprese di note per essere cancerogene e per causare mutazioni del materiale genetico, oppure per contenere tracce di piombo. Le analisi semi-quantitative avevano invece interessato diverse altre sostanze per le quali erano disponibili dati tossicologici. Infine, l’ECHA aveva condotto analisi sull’esposizione, perché non tutti i tatuaggi sono uguali e l’esposizione a certe sostanze varia a seconda della loro grandezza.Le limitazioni alla fine avevano interessato circa 4mila sostanze, tra le proteste di molti operatori del settore. L’entrata in vigore delle nuove regole li aveva costretti a gettare parte delle loro scorte di inchiostri, non più utilizzabili, ad avere difficoltà nel reperire quelli nuovi perché i produttori dovevano cambiare le formulazioni e a imparare a lavorare con inchiostri di nuovo tipo, quindi con rese e caratteristiche diverse dalle precedenti anche in merito alla loro pigmentazione.Come in molte altre circostanze, l’ECHA ha mantenuto un approccio di precauzione, in attesa che nuove ricerche offrano elementi più solidi su alcune sostanze sulle quali ha imposto limitazioni, che in futuro potrebbero rivelarsi non necessarie oppure molto importanti. L’attenzione in questi anni si è concentrata soprattutto sui rischi legati ai tumori, ma come ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a oggi è impossibile dire se le persone tatuate abbiano un rischio più alto di sviluppare un tumore.L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), che fa parte dell’OMS, ha avviato alcuni importanti studi epidemiologici sui tatuaggi. Le analisi richiederanno però decenni per essere svolte, proprio per poter osservare eventuali effetti dei tatuaggi nel lungo periodo, e non saranno quindi disponibili ancora per molto tempo. Per questo motivo prevale il principio di precauzione con alcune sostanze, già osservate e studiate in altri ambiti legati alla valutazione del rischio in ambito tumorale.Come per tutte le altre cose che comportano una modifica al nostro organismo, molto temporanea come l’assunzione di un determinato farmaco o nel lungo periodo come nel caso di una protesi o di un tatuaggio permanente, è importante che la persona coinvolta sia informata e consapevole degli eventuali rischi. Oltre ad assicurarsi delle condizioni igieniche delle strumentazioni con cui si verrà tatuati, può essere utile informarsi sui tipi di inchiostri che saranno utilizzati e che devono riportare la lista delle sostanze che li compongono.Nel caso dell’Unione Europea, per essere venduti e utilizzati gli inchiostri devono essere in regola con le normative più recenti. Sulle confezioni devono essere riportate indicazioni come «Preparazione per l’impiego nei tatuaggi e nel trucco permanente» e deve essere riportato un lotto di produzione, che consenta di risalire al produttore e al momento in cui è avvenuta la sua preparazione. Gli inchiostri che non osservano le indicazioni UE devono contenere l’esplicita indicazione: «Non utilizzabile nell’Unione Europea».Per le persone tatuate da tempo è quasi sempre impossibile sapere quali sostanze fossero state impiegate. Tuttavia, i colori possono fornire qualche indizio. I tatuaggi monocolori di solito utilizzano solo il nero che viene prodotto utilizzando pigmenti a base di ferro o carbonio; i colori più brillanti sono ottenuti partendo da tinture organiche mentre i vecchi colori più spenti possono contenere maggiori quantità di metalli.È importante ricordare che il fatto che determinate sostanze siano studiate, analizzate e sottoposte a limitazioni non implica necessariamente che siano pericolose per la salute. Le ricerche servono proprio per verificarlo e gli esiti stessi possono cambiare nel corso del tempo, sulla base dei nuovi studi e di sistemi di analisi più precisi.Tatuarsi implica comunque effettuare una modifica permanente al proprio corpo, che non può essere portata indietro nemmeno nel caso in cui il tatuaggio venga poi rimosso. Come spiega sempre l’OMS, a oggi non ci sono metodi sicuri per rimuovere i tatuaggi, anche se alcune tecniche sono considerate meno a rischio di altre. Il metodo più diffuso consiste nell’utilizzare il laser: la procedura permette di distruggere i pigmenti iniettati nella pelle, ma fa anche sì che una grande quantità di sostanze potenzialmente tossiche finiscano in giro per il resto dell’organismo.Non ci sono ancora molte ricerche in merito, ma si ritiene che la distruzione dei pigmenti sia probabilmente più rischiosa del mantenere gli stessi pigmenti nella loro forma più “stabile” e poco solubile nella pelle. Il laser è inoltre più efficace su alcuni tipi di pigmenti rispetto ad altri, quindi può essere necessaria più di una seduta per effettuare la rimozione e con risultati non sempre corrispondenti ai desideri di chi vorrebbe far sparire un tatuaggio. L’OMS su questo ha un consiglio piuttosto netto: «Il modo più sicuro per evitare di dover rimuovere un tatuaggio è semplicemente non tatuarsi». LEGGI TUTTO