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    Non riuscire a capire i colori

    Una ciliegia rossa. Per la maggior parte delle persone sono sufficienti poche parole per immaginare un frutto con una particolare forma e soprattutto con un colore specifico, quello che del resto associamo nel nostro immaginario alle ciliegie mature al punto giusto. Eppure ci sono persone che a causa dei loro problemi di visione non sanno che cosa sia il rosso, o qualsiasi altro colore. Hanno una rara condizione che si chiama “agnosia per il colore” e non riguarda problemi di percezione o il daltonismo, ma è piuttosto una incapacità di capire il colore.Studiare queste persone è importante non solo per provare ad alleviare i loro problemi, ma anche per capire meglio come funziona il nostro cervello, come distingue i colori e come organizza le informazioni che derivano dalla loro presenza per dare un senso a ciò che abbiamo intorno.L’agnosia per il colore è nota da tempo, ma ha ricevuto particolari attenzioni negli ultimi vent’anni soprattutto grazie a un paziente chiamato MAH dai ricercatori per tutelarne la privacy. È una delle pochissime persone che a quanto pare ha ereditato questo condizione, invece di svilupparla in seguito a un evento traumatico come un ictus. Solitamente sono infatti episodi di questo tipo a danneggiare le aree del cervello deputate alla visione, che smettono di funzionare come dovrebbero, mentre è estremamente raro che l’agnosia per il colore sia trasmessa per linea familiare.La storia di MAH è particolare. Aveva una quarantina di anni quando ebbe un ictus, che non gli lasciò particolari conseguenze. Aderì a un programma di riabilitazione e fu in quell’occasione che i neurologi che lo seguivano notarono qualcosa di strano quando si trattava di sottoporlo ai test che riguardavano i colori. Era restio a svolgere prove sul riconoscimento di un colore dall’altro e si sbagliava spesso. Inizialmente i medici avevano pensato che quelle stranezze fossero dovute all’ictus: MAH però aveva poi confidato di avere da sempre problemi con i colori.MAH riusciva a vederli normalmente tutti, non era daltonico quindi, e riusciva a svolgere vari test, come quelli in cui si devono raggruppare oggetti dello stesso colore. Se però gli veniva chiesto di ordinare in una certa sequenza degli oggetti colorati, non riusciva a superare il test. Non era in grado di associare il concetto di rosso a un oggetto rosso e nemmeno di immaginare il colore di oggetti a lui familiari, come quello della sua automobile. Se gli veniva mostrato il disegno di un frutto di un colore diverso da quello che avrebbe dovuto avere non notava nulla di strano.Gli esiti dei test avevano lasciato perplessi i medici: la spiegazione più logica era che MAH avesse subìto un danno cerebrale, ma dagli esami non erano emersi elementi per ritenerlo. Lo stesso MAH, oltre a confermare di avere avuto sempre quella condizione, aveva spiegato che anche sua madre soffriva di agnosia per il colore, e così anche la sua figlia più grande. Era il primo caso osservato di agnosia per il colore di tipo familiare, o “dello sviluppo” come sarebbe stata in seguito definita dai gruppi di ricerca.Come racconta all’Atlantic, il neuroscienziato J. Peter Burbach ha trascorso gli ultimi anni alla ricerca di altre persone con la medesima condizione, cercando di distinguerle da quelle che hanno invece sviluppato l’agnosia per il colore in seguito a un evento traumatico. Burbach dice che finora è stato «un compito pressoché impossibile». È impensabile che la famiglia di MAH sia l’unica, ma trovare altre persone non è semplice perché chi è nato con quella condizione vive una normalità diversa e non è detto che ne abbia consapevolezza. Anche per questo motivo è difficile fare una diagnosi, che avviene solo nel caso in cui un medico insista mentre sta conducendo la visita per altri problemi neurologici più evidenti.L’agnosia per il colore non deve essere confusa con l’acromatopsia cerebrale, altra condizione che porta chi ne soffre a vedere il mondo sostanzialmente in tonalità di grigio a causa dell’incapacità del cervello di elaborare correttamente i colori. Non dipende insomma da parti del sistema visivo come occhi e nervo ottico, che inviano correttamente i segnali sulla presenza del colore al cervello.Le condizioni neurologiche intorno ai colori sono del resto numerose e non sempre semplici da distinguere e diagnosticare. Un altro tipo di disturbo impedisce per esempio alle persone di dare un nome al colore che vedono, ma non gli impedisce di indicarne uno richiesto tra una serie di opzioni disponibili.Marlene Behrmann, una ricercatrice che si occupa di visione all’Università di Pittsburgh (Stati Uniti) ha detto sempre all’Atlantic che le persone con agnosia per il colore riescono a percepire il rosso o il verde, per esempio, ma «hanno in un certo senso perso il concetto stesso di colore». Non riescono a costruire e mantenere nella loro mente l’idea di un determinato colore e per questo non trovano particolarmente strano il disegno di una ciliegia viola.Trovare altre persone con una forma di agnosia per il colore come quella di MAH potrebbe aiutare i gruppi di ricerca a portare avanti le conoscenze sulla visione in generale, un meccanismo altamente complesso. Il confronto tra queste persone e il resto della popolazione vedente potrebbe inoltre offrire spunti importanti per comprendere in generale come vediamo e interpretiamo le cose che abbiamo intorno.Un maggior numero di persone con la forma di agnosia per il colore che ha MAH consentirebbe inoltre di effettuare studi genetici alla ricerca delle mutazioni che lo determinano. Il gene o i geni interessati potrebbero influenzare altri meccanismi legati allo sviluppo cerebrale, tali da offrire nuove opportunità di studio. La ricerca non è semplice, ma i ricercatori confidano che facendo conoscere più diffusamente questa condizione alcune persone interessate si sentano incentivate a mettersi in contatto con loro. LEGGI TUTTO

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    In Irlanda le etichette degli alcolici dovranno indicare i rischi per la salute

    Il ministro della Salute dell’Irlanda, Stephen Donnelly, ha firmato oggi una discussa legge che renderà obbligatoria l’indicazione sulle etichette degli alcolici di varie informazioni sulla salute, dalle calorie per ogni porzione al rischio di sviluppare tumori e altre malattie. I produttori di alcolici avranno tre anni per mettersi in regola, modificando le etichette dei loro prodotti. La firma della legge era attesa da tempo, considerato che il governo irlandese aveva annunciato le nuove regole mesi fa, ricevendo critiche soprattuto dai grandi produttori di vino, birra e altre bevande alcoliche.La nuova legge è la prima di questo genere a richiedere indicazioni così dettagliate e avvisi sulla salute, come avviene già da tempo per le sigarette. Per questo motivo l’Irlanda aveva prima chiesto un parere alla Commissione Europea e all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), in modo da non rischiare sanzioni o di dover correggere alcune parti del nuovo provvedimento una volta entrato in vigore.In un comunicato, Donnelly ha detto che l’Irlanda «è il primo paese al mondo a introdurre indicazioni sulle etichette legate alla salute sui prodotti alcolici» e che confida ci possano essere «altri paesi che seguiranno il nostro esempio». Al momento nessun altro paese europeo ha comunque annunciato iniziative simili, anche perché alcuni paesi come Italia e Spagna avevano protestato per la scelta dell’Irlanda rivolgendosi alla Commissione Europea. Diversi esponenti del governo italiano avevano criticato duramente l’Irlanda e sostenuto che una legge di questo tipo avrebbe penalizzato le esportazioni di vino.Entro il 22 maggio 2026, tutti i produttori di alcolici dovranno indicare sulle etichette di ogni bottiglia e lattina l’apporto calorico dei loro prodotti, accompagnato da avvisi sul rischio di cancro derivante dal consumo di alcol e di altre malattie, come per esempio quelle legate al fegato. Le indicazioni dovranno essere riportate anche ai banconi dei bar e dei pub che somministrano birra alla spina e altre bevande alcoliche.Drinks Ireland, uno dei più grandi gruppi d’interesse in Irlanda legato alla produzione e alla vendita delle bibite alcoliche, ha criticato la legge dicendo che potrebbe indurre alcuni produttori di vino a non esportare più i loro prodotti in Irlanda, per evitare di dover utilizzare etichette diverse da quelle impiegate nel resto del mondo. Secondo l’organizzazione la scelta per i consumatori si potrebbe quindi ridurre, ma è ancora presto per capire come si regoleranno i produttori europei in un mercato comunque molto importante come quello irlandese.Altri gruppi di interesse nei mesi scorsi avevano detto di essere contrari alla nuova legge perché non ci sono elementi per sostenere che il consumo di vino e altri alcolici faccia aumentare il rischio di ammalarsi di cancro. In realtà la questione è stata studiata per decenni e – sulla base delle numerose ricerche scientifiche svolte – l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti e solidi per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Nel medesimo gruppo ci sono anche l’amianto, il fumo e gli insaccati, per esempio.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” su vino e rischio tumoriLe sostanze negli altri gruppi non sono necessariamente meno rischiose per la nostra salute, ma semplicemente si trovano in classi più basse di rischio perché non ci sono ancora studi convincenti come per quelli del Gruppo 1 (e potrebbero non esserci mai). Una sostanza è cancerogena oppure non lo è: la parola stessa “cancerogeno” indica qualcosa che fa aumentare il rischio di insorgenza di un certo tipo di tumore. Ogni cancerogeno agisce in modo diverso su un rischio che varia a seconda del tipo di tumore e che dipende da come si è fatti e dal proprio stile di vita.Nell’Unione Europea si parla da tempo della possibilità di introdurre etichette che mettano meglio in evidenza i rischi per la salute legati al consumo di determinate sostanze, un po’ come si fa già con il fumo. Per questo nei mesi scorsi alcuni paesi avevano chiesto all’Irlanda di attendere che fossero introdotte regole comuni, che potrebbero però escludere alcune indicazioni come i rischi legati ai tumori. Si è per esempio parlato della possibilità di inserire nelle etichette rimandi ai siti web dei produttori, con indicazioni più dettagliate, ma che secondo i detrattori sarebbero meno efficaci nel segnalare la presenza dei rischi. LEGGI TUTTO

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    Il mito dei diecimila passi al giorno

    È probabile che le smartphone sul quale state leggendo questo articolo stia diligentemente prendendo nota del numero di passi che state facendo oggi, in modo da scoprire se a fine giornata abbiate raggiunto i diecimila, l’obiettivo su cui sono tarati praticamente tutti i pedometri e gli altri dispositivi che tengono traccia della propria attività fisica. È un traguardo talmente noto e promosso da applicazioni, tracker per il fitness e pubblicità da essere diventato per molte persone il metodo principale per distinguere le giornate in cui si è fatto qualcosa per la propria salute da quelle in cui si è stati indolenti e sedentari. Eppure lo standard dei diecimila passi non ha solide basi scientifiche e nacque molti anni fa più per ragioni di marketing che altro.La storia del contapassi ha origini incerte e ancora oggi dibattute, ma la sua invenzione viene spesso fatta risalire all’orologiaio svizzero Abraham-Louis Perrelet, il quale nel 1777 aveva perfezionato un primo meccanismo per la carica automatica degli orologi portatili che sfruttava i movimenti di chi li indossava. Partendo da quel sistema, tre anni dopo Perrelet aveva inventato un pedometro basato su alcuni principi di funzionamento dei suoi orologi e che consentiva di contare il numero di passi e di calcolare la distanza percorsa.Perrelet aveva probabilmente elaborato la propria idea basandosi su invenzioni e prototipi realizzati in passato, se si considera che già un secolo prima era stata segnalata l’esistenza di strumenti per misurare i passi e che già Leonardo da Vinci nel sedicesimo secolo aveva ipotizzato la costruzione di un pedometro a scopo militare (Leonardo aveva progettato anche un odometro, per misurare le distanze).Sarebbero stati però necessari circa due secoli dall’invenzione di Perrelet e alcuni intraprendenti giapponesi per rendere popolari i pedometri, la camminata come attività per tenersi in forma e l’obiettivo dei diecimila passi. Iniziò tutto un anno prima delle Olimpiadi di Tokyo del 1964, quando l’attenzione verso lo sport era crescente tra i giapponesi e l’eminente medico Iwao Ohya aveva iniziato a mettere in dubbio le abitudini di vita dei suoi connazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale il settore terziario in Giappone si era rapidamente espanso e molte persone avevano iniziato a condurre una vita sedentaria, con molte ore passate alle scrivanie dei loro uffici.Stava per iniziare l’evento sportivo più conosciuto al mondo e Ohya riteneva che si dovesse fare qualcosa per spingere i giapponesi a muoversi di più per tenersi in salute. Si mise in contatto con Juri Kato dell’azienda produttrice di orologi Yamasa Tokei Keiki, proponendogli di costruire un pedometro impostato per contare diecimila passi al giorno. Non è chiaro perché avesse scelto proprio quell’obiettivo, ma dalle ricostruzioni sembra che fosse stata una scelta piuttosto arbitraria e legata alla necessità di proporre un numero tondo, facile da ricordare e ragionevolmente raggiungibile in una giornata.Una delle prime pubblicità del Manpo-kei (Yamasa Tokei Keiki)Juri Kato lavorò un paio di anni realizzando infine un pedometro meccanico, il Manpo-kei, nome traducibile dal giapponese come “contatore di diecimila passi”. Fu messo in vendita con una vasta campagna pubblicitaria, che metteva bene in evidenza la possibilità di contare i passi e soprattutto di assicurarsi che fossero almeno diecimila. In Giappone nacquero associazioni per promuovere l’importanza della camminata come attività sportiva accessibile a buona parte della popolazione, senza particolari distinzioni legate alle condizioni fisiche e all’età. Tra le strade di Tokyo e delle altre città giapponesi diventava sempre più frequente osservare persone con il Manpo-kei per tenere traccia dei loro passi.Nei decenni successivi furono messe in vendita versioni alternative e imitazioni di quel pedometro non solo in Giappone, ma in vari altri paesi occidentali, dove iniziava ad affermarsi la moda dei 10mila passi. La miniaturizzazione dei componenti elettronici e la progressiva diffusione dei dispositivi digitali portò i contapassi a essere sempre più diffusi, sia come singoli gadget elettronici sia all’interno di lettori MP3, poi dei cellulari e infine degli smartphone e dei tracker.Mentre i primi pedometri meccanici utilizzavano un piccolo pendolo o una piccola sfera di metallo per rilevare il movimento e far scattare un contatore, gli attuali dispositivi elettronici impiegano sistemi microelettromeccanici (MEMS), che mettono insieme sensori di vario tipo per rilevare il movimento. Sono solitamente più affidabili, anche grazie agli algoritmi che utilizzano i dati rilevati dai MEMS per valutare se sia stato effettivamente compiuto un passo o un altro movimento del corpo. Grazie agli accelerometri e ad altri sensori, per esempio, gli smartphone possono ricostruire la loro posizione nello spazio (se sono messi in tasca rivolti verso l’alto o verso il basso per esempio), utilizzando queste informazioni per calcolare correttamente i passi, con un margine di errore relativamente basso.Tra dispositivi e applicazioni l’assortimento è ormai molto ampio, ma una costante è rimasta: sono quasi tutti impostati con l’obiettivo dei diecimila passi giornalieri, pari a circa 7 chilometri.Un pedometro offerto dalla catena di fast food McDonald’s nell’ambito di un’iniziativa di marketing nel 2004 (Getty Images)Diecimila è un numero tondo e chiaro, facile da comunicare e ricordare, ma come mostra la storia del pedometro moderno non è sostenuto da particolari basi scientifiche. Camminare fa sicuramente bene ed è un’attività fisica a basso impatto per l’organismo, ma ogni persona è fatta diversamente e le sue condizioni di salute variano nel tempo a causa dell’invecchiamento e di altri fattori, di conseguenza non può esserci un numero di passi “salutare” uguale per tutti.Alcuni gruppi di ricerca hanno comunque messo alla prova la teoria dei diecimila passi, per vedere se porti effettivamente a qualche beneficio. Uno studio pubblicato nel 2019, per esempio, ha preso in considerazione 16.741 volontarie con un’età compresa tra 62 e 101 anni che tra il 2011 e il 2015 avevano utilizzato un pedometro per calcolare il numero di passi compiuti ogni giorno. Dall’analisi dei dati è emerso che le donne più sedentarie non superavano i 2.700 passi al giorno e che per le volontarie con una media di 4.400 passi giornalieri era stimabile una riduzione della mortalità pari al 41 per cento. La riduzione continuava a progredire all’aumentare dei passi giornalieri per poi stabilizzarsi intorno alla media di 7.500 passi al giorno. Oltre questo numero i benefici non erano sostanzialmente apprezzabili, secondo la ricerca a indicazione del fatto che basta camminare meno rispetto al diffusissimo obiettivo dei diecimila passi per ottenere comunque benefici.Lo studio aveva però preso in considerazione solamente la mortalità, trascurando altri fattori importanti, ma più difficili da stimare come la qualità della vita, le capacità cognitive e il mantenimento di particolari condizioni fisiche.Un’altra ricerca pubblicata nel 2020 aveva invece coinvolto 5mila persone, arrivando a conclusioni simili sul fatto che diecimila passi non influiscano sulla longevità. Dallo studio era emerso che per le persone che facevano 8mila passi al giorno il rischio di morte prematura era circa la metà rispetto a chi non ne faceva più di 4mila. Anche in questo caso non erano stati rilevati benefici statisticamente rilevanti nel fare più passi oltre gli 8mila giornalieri. Risultati simili erano stati ottenuti da un altro studio pubblicato nel 2021.– Ascolta anche: La scienza dei diecimila passi raccontata da “Ci vuole una scienza”Le ricerche effettuate negli anni hanno poi segnalato come siano poche le persone che fanno diligentemente almeno diecimila passi ogni giorno, seguendo per esempio le indicazioni dei loro dispositivi per contare i passi. Uno studio svolto in Belgio e spesso citato era consistito nel fornire pedometri ad alcune centinaia di volontari, incentivandoli a effettuare almeno diecimila passi al giorno per un anno. Tra le circa 660 persone che arrivarono alla fine della sperimentazione, solo l’8 per cento raggiunse l’obiettivo. A quattro anni di distanza, praticamente nessuno dei partecipanti allo studio aveva mantenuto l’abitudine di camminare a lungo nella giornata, tornando alla propria media personale prima dell’esperimento.Secondo gli esperti e le principali istituzioni sanitarie, camminare è una delle attività fisiche più semplici ed efficaci per mantenersi in forma. In generale, il consiglio è di dedicare all’attività fisica circa due ore e mezza ogni settimana, come extra rispetto a quella che eventualmente già si fa per lavorare o nel quotidiano. Considerando una media di circa cinquemila passi effettuati nel corso di una giornata, l’aggiunta di due-tremila passi equivalenti a una breve camminata può essere un obiettivo realistico per la maggior parte delle persone e fa raggiungere la quantità di passi segnalata negli ultimi anni dalle ricerche che hanno messo in dubbio il mito dei diecimila passi. LEGGI TUTTO