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    Costanza Caracciolo e Christian Vieri a Madonna di Campiglio con le figlie

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    Che animali sono davvero gli ermellini

    Caricamento playerMercoledì sera, durante il Festival di Sanremo, sono state presentate le mascotte per le Olimpiadi e Paralimpiadi di Milano-Cortina del 2026: sono due ermellini e si chiamano Tina e Milo, dai nomi delle città coinvolte nella manifestazione. Tina rappresenta le Olimpiadi e ha la pelliccia bianca; suo fratello Milo rappresenta le Paralimpiadi – è nato senza una zampa, ma cammina usando la coda – e ha la pelliccia marrone.
    Nella realtà gli ermellini sono bianchi d’inverno e marroni d’estate. In tutte le stagioni sono piuttosto difficili da vedere, non solo perché in Italia vivono solo sulle Alpi, ma anche perché sono piuttosto piccoli (massimo 30 centimetri di lunghezza), vivono soprattutto sotto terra o sotto la neve e si mimetizzano. Sono tra le specie italiane di mammiferi selvatici di cui sappiamo meno cose perché la loro elusività rende difficile studiarli e perché, anche tra i biologi, sono spesso ignorati a vantaggio di specie che si notano di più, come lupi e orsi tra i carnivori, e cinghiali, cervi e stambecchi tra gli erbivori. Meriterebbero più attenzione però: ci sono buone ragioni per pensare che la diminuzione della neve sulle Alpi dovuta al cambiamento climatico non complichi solo la pratica degli sport invernali ma metta a grosso rischio la conservazione della specie.
    «Vederli nella trasmissione più seguita d’Italia mi è sembrata un’allucinazione», racconta Marco Granata, biologo e dottorando dell’Università di Torino che è una delle poche persone a studiarli in Europa: «È una specie molto trascurata: per chi dedica la sua vita alla conservazione degli ermellini e cerca di farli conoscere è davvero strano vederli in televisione».
    Nella primavera del 2023 Granata ha iniziato un progetto di ricerca nelle Aree Protette Alpi Marittime, nel Piemonte sud-occidentale, per capire sul campo quale sia il metodo migliore per monitorare la presenza degli ermellini dato che «c’è un disperato bisogno di dati» che permettano di stimare quanti siano e in che misura siano danneggiati dagli effetti del riscaldamento globale. Tra i metodi testati ci sono le fototrappole, cioè quelle fotocamere che scattano quando rilevano un movimento e che si usano anche per altri animali selvatici, e le cosiddette Mostela, delle scatole con dei buchi contenenti fototrappole che possono essere interessanti come nascondigli per alcuni piccoli animali.

    Gli ermellini (Mustela erminea) sono mustelidi, cioè appartengono a quella famiglia di mammiferi carnivori in cui rientrano anche le lontre, i tassi, i visoni, le donnole, le puzzole (da cui derivano i domesticati furetti), le faine e le meno conosciute martore. In Italia si trovano solo sulle Alpi, mentre a latitudini più settentrionali vivono anche in zone di pianura. A differenza degli orsi, ma anche delle volpi e dei lupi che mangiano anche vegetali, gli ermellini e gli altri mustelidi sono esclusivamente carnivori. Gli ermellini in particolare cacciano soprattutto roditori, come le arvicole, e occasionalmente uccelli. Sulle Alpi si stima che abbiano un’aspettativa di vita attorno all’anno e mezzo, mentre in cattività possono vivere anche dieci anni.
    Studiare gli ermellini è complicato anche perché non ce ne sono tanti in un unico posto, piuttosto il contrario: sono animali solitari che, essendo cacciatori, si fanno competizione tra loro e che per questo non possono condividere il proprio territorio con loro simili. Per tutte queste ragioni, sebbene sappiamo che sono presenti più o meno su tutto l’arco alpino, negli anni sono stati pubblicati solo tre studi scientifici italiani sugli ermellini: uno è del 1995, il secondo del 2001 (ha come primo autore lo zoologo Adriano Martinoli, una delle voci del podcast del Post sulle specie aliene Vicini e lontani) e il terzo del 2006. Tutti e tre avevano limiti geografici e di finalità, e non permettono di stimare quanti ermellini possano esserci in Italia. «Abbiamo zero informazioni su questo», conferma Granata.

    «A lungo termine mi piacerebbe costruire una rete di monitoraggio per conservare la specie sull’arco alpino», continua il biologo. Dato che anche negli altri paesi non ci sono molti dati, gli ermellini non sono considerati in pericolo dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN, cioè l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione) tuttavia siamo piuttosto sicuri che siano danneggiati dal cambiamento climatico. In Nord America, dove la specie è a sua volta presente, è stato stimato che gli ermellini e le donnole siano diminuiti di più dell’80 per cento negli ultimi 60 anni.
    Tale diminuzione della loro popolazione è stata ricondotta al riscaldamento globale per diverse ragioni e una ha a che fare con la neve. Per via delle loro dimensioni gli ermellini sono prede di altri animali, come volpi e uccelli rapaci, e il cambiamento del colore della loro pelliccia nel corso dell’anno è funzionale proprio a nascondersi dai predatori. Se c’è meno neve però la pelliccia bianca invernale li rende al contrario molto visibili e più facili da cacciare.
    Sempre in Nord America la loro diminuzione ha anche altre probabili cause, tra cui la caccia praticata dagli esseri umani. Sulle Alpi anche la presenza delle piste da sci potrebbe danneggiarli: uno studio del 2013 fatto tra Piemonte e Valle d’Aosta ha mostrato che le piste creano problemi a vari piccoli mammiferi, comprese le principali prede degli ermellini, perché ne frammentano l’habitat, e per questo potrebbero danneggiare anche loro, sia indirettamente che direttamente.
    Le mascotte delle Olimpiadi e Paralimpiadi di Milano-Cortina 2026; per Granata sono abbastanza precise come rappresentazione degli animali, anche se i veri ermellini non hanno il naso rosa e una coda in proporzione più corta rispetto al resto del corpo (Ufficio Stampa Milano Cortina 2026, ANSA)
    «Io sono un po’ ossessionato dai fantasmi», dice Granata per spiegare come mai si sta dedicando a questo campo della biologia, «e studio questi animali così elusivi, che sono come dei fantasmi selvatici perché non li vedi mai, perché vorrei che non diventassero dei fantasmi veri e propri, cioè che scomparissero del tutto».

    – Leggi anche: In Nuova Zelanda invece gli ermellini sono invasivi e molto dannosi, per questo c’è un piano per eliminarli LEGGI TUTTO

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    Lo sci e il cambiamento climatico

    Negli ultimi dieci anni un gruppo di scienziati francesi e austriaci ha cercato di capire quale sarà il futuro dello sci in Europa considerate le conseguenze del cambiamento climatico. Il gruppo ha stimato che senza la neve artificiale più della metà delle stazioni sciistiche europee si troverà in condizioni di scarsità di neve un anno su due a meno che non si applichino in tempi rapidi politiche di transizione energetica molto più decise di quelle di oggi. La previsione, spiegata in un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, riguarda lo scenario in cui la temperatura media globale supererà di almeno 2 °C quella dell’epoca preindustriale, cioè prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane causassero l’attuale riscaldamento del pianeta.L’accordo internazionale sul clima di Parigi del 2015 aveva fissato come obiettivo più ottimista 1,5 °C in più rispetto ai livelli preindustriali, e come obiettivo secondario 2 °C. La comunità scientifica ritiene ormai irrealistico il primo obiettivo, perché le politiche di transizione energetica introdotte finora non sono state abbastanza decise. Con quelle attuali, senza ulteriori cambiamenti, si prevede un aumento di 3 °C entro la fine del secolo.Lo studio sulle piste da sci europee è stato fatto innanzitutto perché il turismo invernale legato a questo sport è un importante settore economico per l’Europa: circa la metà delle stazioni sciistiche del mondo si trova nel continente e il 43 per cento delle giornate di sci che vengono praticate ogni anno avviene sulle Alpi.La possibilità di sciare però è legata al clima, prima di tutto perché la neve si conserva sulle piste solo al di sotto di certe temperature. In caso di assenza prolungata di precipitazioni – come quella che c’è stata con la siccità tra il 2021 e il 2023, peraltro legata al cambiamento climatico – la neve può essere assente. Si può rimpiazzarla con quella prodotta artificialmente, che però richiede molta acqua e particolari condizioni di temperatura e umidità nell’ambiente.Il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi e altre montagne europee sono state coperte di neve è già diminuito nell’arco dell’ultimo secolo. Erano già state fatte delle ricerche per studiare l’impatto del cambiamento climatico sul turismo sciistico, ma nessuna finora aveva tenuto in considerazione il contributo della neve artificiale e analizzato tutte le montagne europee insieme. Il nuovo studio, che si basa su modelli statistici, ha invece preso in considerazione 2.234 stazioni sciistiche, rappresentative di tutte le montagne europee in cui si scia, e nelle stime ha tenuto conto dell’uso della neve artificiale.Nello studio le condizioni di scarsità di neve sono state definite come quelle medie che si sono verificate nei 6 anni peggiori per la presenza di neve nel periodo considerato, dal 1961 al 1990. Il turismo sciistico si considera ad «alto rischio» se le previsioni indicano che ogni due inverni su cinque ci sarà scarsità di neve.Lo studio parla invece di «rischio molto alto» se è prevista scarsità di neve ogni due anni. Quest’ultima condizione è quella anticipata per più della metà (il 53 per cento) delle stazioni sciistiche europee se si raggiungeranno i 2 °C sopra i livelli preindustriali, senza considerare il contributo della neve artificiale.Se il pianeta si riscalderà di più, e raggiungerà i 4 °C di temperatura media sopra i livelli preindustriali, sarà il 98 per cento delle stazioni sciistiche a essere a «rischio molto alto» in assenza di neve artificiale.Nei due scenari climatici futuri, se si tiene conto del contributo della neve artificiale, le prospettive per la pratica dello sci migliorano: considerando di produrre la metà della neve sulle piste in modo artificiale le stazioni a «rischio molto alto» si riducono al 27 per cento nel caso di un aumento di temperatura media di 2 °C, e al 71 per cento nel caso che l’aumento sia di 4°C. Per produrre la neve artificiale servono però acqua ed energia elettrica, e quindi non è detto che in futuro sarà possibile e raccomandabile procedere in questo modo per garantire la possibilità di sciare.Considerando solo gli Appennini, lo studio prevede condizioni di «rischio molto alto» in tutti gli scenari climatici futuri, compreso quello di soli 1,5 °C sopra ai livelli preindustriali, anche a fronte di un’intensissima produzione di neve artificiale. In sostanza dice che non si potrà più sciare sugli Appennini.Per quanto riguarda le stazioni sciistiche sulle Alpi italiane, che raggiungono altitudini molto maggiori, lo studio prevede invece rischi minori. Nello scenario dei 2 °C non si potrà fare a meno della neve artificiale, ma prevedendo di usarla per innevare solo un quarto delle piste il rischio è «moderato»: solo un terzo degli inverni sarebbe a rischio di scarsità di neve. Già con un aumento di 3 °C tuttavia anche lo sci sulle Alpi risulterebbe molto compromesso e richiederebbe un uso molto maggiore di neve artificiale, che a un certo punto non sarebbe in grado di compensare all’assenza di quella naturale.Queste stime ovviamente sono medie e non riguardano dunque per forza ogni singola stazione sciistica, ma nel complesso non sono positive per la pratica dello sci. Lo studio non prevede «la fine immediata del turismo sciistico in Europa», ha detto uno dei suoi autori, il climatologo Samuel Morin, ricercatore di Météo-France e del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano: «ma condizioni sempre più difficili per tutte le stazioni sciistiche, alcune delle quali arriveranno, nel giro di qualche decennio, a un’offerta di neve criticamente bassa per poter operare come oggi».– Leggi anche: Quando potremmo superare il limite di 1,5 °C? LEGGI TUTTO

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    Sulle Alpi non ci sono più i giorni di neve di una volta

    Dal Quattrocento all’inizio del Novecento il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi sono state coperte di neve è stato più o meno costante. Poi nell’ultimo secolo è via via diminuito e la media degli ultimi vent’anni è inferiore di 36 giorni a quella dei precedenti 600 anni. Sono le conclusioni di uno studio realizzato da un gruppo di ricerca dell’Università di Padova e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (ISAC) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) di Bologna, appena pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Climate Change.I dati sui fenomeni meteorologici nelle Alpi arrivano al massimo alla metà dell’Ottocento e quelli sulla durata del manto nevoso, cioè sui giorni dell’anno con presenza di neve, risalgono solo agli ultimi decenni. I dati che avevamo a disposizione dicevano che tra il 1971 e il 2019 i giorni con presenza di neve tra novembre e maggio erano diminuiti del 5,6 per cento ogni dieci anni. Per andare più indietro nel tempo, i ricercatori dell’Università di Padova e dell’ISAC hanno utilizzato gli anelli di accrescimento nei fusti dei ginepri (Juniperus communis), arbusti molto comuni sulle Alpi, ad alta quota, e molto longevi.Il ginepro si presta a dare informazioni sul manto nevoso perché «ha un portamento strisciante sul terreno, ovvero cresce orizzontalmente molto vicino al suolo», ha spiegato l’ecologo forestale Marco Carrer dell’Università di Padova, primo autore dello studio. In pratica, i ginepri, essendo alti poche decine di centimetri, passano parte dei mesi invernali ricoperti dalla neve, quando c’è, e gli anelli di accrescimento nei loro fusti mostrano segni di questa permanenza sotto il manto nevoso. «La stagione di crescita del ginepro dipende fortemente da quanto precocemente riesce ad emergere dalla coltre bianca che lo ricopre», ha aggiunto sempre Carrer.Finché restano sepolti dalla neve, i ginepri non crescono e questo permette di stimare la durata del manto nevoso anno per anno.Il gruppo di Carrer ha analizzato gli anelli di accrescimento di una serie di ginepri vivi e morti cresciuti in Val Ventina, una valle laterale della Valtellina, in provincia di Sondrio, cresciuti ad altitudini comprese tra 2.100 e 2.400 metri sul livello del mare. Confrontando le informazioni ottenute in questo modo con i dati meteorologici disponibili, gli scienziati sono riusciti a stimare i cambiamenti nella durata del manto nevoso dal Quattrocento in avanti. «Ciò ci ha permesso di comprendere che quello che stiamo vivendo negli ultimi anni è qualcosa che non si era mai presentato precedentemente», ha concluso Carrer insieme a Michele Brunetti dell’ISAC. È il primo studio che dà informazioni riguardo ai giorni con la neve sulle Alpi andando tanto lontano nel tempo.Il numero di giorni con presenza di neve variano di anno in anno, in linea con la variabilità delle precipitazioni che c’è sempre stata. Ma l’andamento dei valori medi sul lungo periodo, che mostra una correlazione con l’andamento delle temperature medie, suggerisce che la riduzione dei giorni con la neve sia legata al riscaldamento globale dovuto alle attività umane.– Leggi anche: Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancoraTra le altre cose, l’osservazione degli anelli dei ginepri ha anche confermato che nell’inverno tra il 1916 e il 1917, quando era in corso la Prima guerra mondiale e lungo le Alpi c’era un fronte di guerra tra l’Impero Austroungarico e l’Italia, il manto nevoso si mantenne per un periodo particolarmente lungo: il più lungo di tutto il Ventesimo secolo, con 67 giorni con la neve in più rispetto alla media secolare, che è di 251 giorni all’anno. Migliaia di soldati morirono per le condizioni meteorologiche, oltre che per i combattimenti, per via dell’inverno particolarmente rigido. LEGGI TUTTO