La proposta di legge che si è arenata alla Camera prevede una riduzione del lavoro settimanale da 40 a 32 ore, a parità di stipendio. È scontro sulle coperture tra maggioranza ed opposizione. Gli esperti si interrogano sul tema a fronte di un calo della produzione industriale che prosegue da 23 mesi consecutivi
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Favorire per legge contratti collettivi che prevedano una riduzione dell’orario di lavoro settimanale fino ad un massimo di 8 ore, con la possibilità di stabilire turni impostati su 4 giorni invece che su 5 e mantenendo gli stipendi invariati. Al contempo, prevedere investimenti mirati in formazione del personale e in innovazione tecnologica ed ambientale.
È questo il cuore della proposta di legge che doveva essere discussa alla Camera nelle scorse ore e che invece – per volontà della maggioranza – tornerà al vaglio della Commissione Lavoro. L’iter di approvazione rallenta perché è scontro aperto tra i partiti di maggioranza e quelli di opposizione sul più classico dei temi: le coperture necessarie a finanziare il progetto.
Esoneri contributivi per le imprese
Il nome della proposta di legge che mira a riformare, almeno in parte, il mercato del lavoro in Italia è “Lavorare meno per vivere meglio” e vede come primo firmatario Nicola Fratoianni (leader di AVS), a seguire Angelo Bonelli (Europa Verde), Giuseppe Conte (M5s) e la leader del Partito Democratico Elly Schlein. La proposta è basata su esoneri contributi per i datori di lavoro privati, al fine di incentivarne l’adesione e la parziale convenienza. Nel dettaglio, nei primi 3 anni dall’entrata in vigore della legge sarebbe previsto un esonero pari al 30% dei contributi a carico dell’azienda per i lavoratori dipendenti ai quali si applichi la riduzione oraria. Per le piccole e medie imprese l’esonero salirebbe al 50%, per i cosiddetti lavori pesanti (edilizia, industria estrattiva ecc…) addirittura al 60%. Se la legge passasse così com’è resterebbero esclusi, invece, i datori di lavoro domestico e quelli del settore agricolo.
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I precedenti
Il dibattito sulla cosiddetta “settimana corta” o su una riduzione delle ore lavorate settimanalmente all’interno delle aziende italiane è iniziato ormai da alcuni anni e diversi sono stati i tentativi di applicazione. I più noti vanno da quello di Intesa Sanpaolo, che da circa un anno consente ai dipendenti di distribuire l’orario di lavoro su 4 giorni invece che su 5, a quello di Lamborghini (che ha puntato sia sulla riduzione delle ore lavorate sia su una alternanza di settimane da 4 o 5 giorni lavorati) e non da ultimo Luxottica, che è considerata l’apri-fila della sperimentazione di una nuova organizzazione aziendale.
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Calo della produzione industriale
“Porre il tema al centro del dibattito politico e sociale ha un grande valore, il vero nodo da sciogliere però è quello di una riorganizzazione del lavoro che faccia i conti anzitutto con un aumento della produttività”, ci dice Francesco Seghezzi, presidente di ADAPT (l’Associazione fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche sul mercato del lavoro). Il riferimento, non troppo velato, è al trend confermato dai dati comunicati ieri dall’Istat di una produzione industriale in calo da 23 mesi consecutivi (-3,5% nel 2024, -7,1% nel mese di dicembre). “Affrontare il tema partendo da una legge nazionale trasversale, che interessa cioè i diversi settori produttivi, non è il modo più adeguato. Sarebbe utile – prosegue Seghezzi – spingere per sperimentazioni che partano da alcune realtà che hanno a disposizione ampie marginalità da spendere (non a caso le prime aziende a partire in Italia sono imprese di grandi dimensioni, particolarmente solide) e da cui la politica possa prendere spunto. Insomma, la prima domanda da porsi dovrebbe essere: come è possibile aumentare la produttività? Di questo la politica dibatte ancora troppo poco.”