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    Intesa Sanpaolo disegna il nuovo polo delle polizze

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    Intesa Sanpaolo rifà il look della sua divisione assicurativa. Dall’inizio di dicembre, infatti, il gruppo guidato da Carlo Messina (foto) lancia Intesa Sanpaolo Assicurazioni (che fino a ieri si era chiamata Intesa Sanpaolo Vita). Questa nuova realtà – per la quale è stata confermata alla guida Virginia Borla nelle vesti di ad, direttore generale e responsabile della divisione insurance di Intesa Sanpaolo di fatto sarà la capogruppo nella quale confluiranno i servizi in ambito previdenza, danni, salute e welfare oltre a gestire investimenti e risparmi. Realtà a parte, ma sempre controllata al 100% da Intesa Sanpaolo Assicurazioni, sarà Intesa Sanpaolo Protezione, nata dalla fusione di Intesa Sanpaolo Assicura con Intesa Sanpaolo Rbm Salute che diventa un’unica compagnia con la specializzazione sui rami danni e salute, affidata alla guida di Massimiliano Dalla Via, ad e direttore generale. LEGGI TUTTO

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    Per le banche utili record, ai risparmiatori solo briciole

    Negli ultimi anni, il sistema bancario italiano ha registrato utili record grazie all’aumento dei tassi d’interesse da parte della Banca centrale europea. Tuttavia, questa situazione non ha beneficiato in modo significativo i risparmiatori, che continuano a ricevere una remunerazione minima sui loro depositi.Utili bancari alle stelleLa Bce ha adottato una politica monetaria restrittiva per combattere l’inflazione, portando i tassi ufficiali al 4,5% nei mesi scorsi, con un successivo assestamento al 3,25%. Questo aumento ha consentito alle banche di ampliare i margini di interesse, facendo crescere i loro profitti da 16,4 miliardi di euro nel 2021 a un’eccezionale previsione di 50,2 miliardi per il 2024. Complessivamente, il sistema bancario italiano ha accumulato utili per oltre 132 miliardi di euro in quattro anni, sostenuto dall’ampliamento della forbice tra tassi attivi (prestiti e mutui) e tassi passivi (depositi).Tassi irrisori sui depositiMentre i mutui variabili raggiungevano punte del 6% e i finanziamenti alle imprese superavano il 7%, i depositi a vista sono stati remunerati con tassi medi compresi tra lo 0,15% e lo 0,35% per la maggior parte dei correntisti. Solo i depositi superiori ai 250.000 euro hanno ottenuto tassi leggermente più alti, come l’1,57% registrato in Trentino-Alto Adige per le imprese. Solo i grandi depositi, superiori ai 250.000 euro, riescono a ottenere tassi più elevati, con un massimo dell’1,57% registrato nel Trentino-Alto Adige per le imprese e dell’1,31% nel Lazio. Tuttavia, anche in questi casi, i tassi restano largamente insufficienti rispetto al rendimento dei titoli di Stato, che offrono oggi il 4% sui Btp a breve termine. La situazione è ancora più marcata per le famiglie. È quanto emerge da un report del Centro studi di Unimpresa secondo cui l’analisi dei tassi d’interesse passivi applicati dalle banche italiane evidenzia un quadro che, a fronte di una politica monetaria restrittiva della Bce, lascia i correntisti fortemente penalizzati. Per i depositi inferiori a 50.000 euro, che rappresentano la maggioranza, i tassi medi si sono attestati tra lo 0,15% e lo 0,20%, senza differenze significative tra Nord e Sud.Secondo l’analisi del Centro studi di Unimpresa, che ha analizzato dati aggiornati al secondo semestre del 2024, i depositi oltre i 250.000 euro, che rappresentano una quota minima della raccolta bancaria, ricevono tassi che in media non superano lo 0,72%. Per fasce inferiori, i tassi scendono ulteriormente: lo 0,35% per i saldi tra 100.000 e 250.000 euro e appena lo 0,27% per quelli tra 50.000 e 100.000 euro. In alcune regioni del Sud, come Calabria e Basilicata, la remunerazione per le famiglie è ancora più bassa, attestandosi rispettivamente allo 0,46% e 0,80% per i grandi depositi, con tassi prossimi allo zero per le fasce più basse. L’analisi regionale conferma come i tassi passivi non solo siano bassi, ma rispecchino anche le profonde disuguaglianze economiche del Paese.Nelle regioni del Nord, come Lombardia, Trentino-Alto Adige ed Emilia-Romagna, i depositi delle imprese con saldi superiori ai 250.000 euro vengono remunerati con tassi compresi tra l’1,26% e l’1,57%, a fronte di valori inferiori all’1% nel Sud e nelle Isole. Le famiglie consumatrici seguono una dinamica analoga, con tassi superiori allo 0,70% nelle regioni più ricche e inferiori allo 0,50% nel Mezzogiorno. Tale situazione evidenzia non solo la minore competizione bancaria nelle aree meno sviluppate, ma anche un sistema che penalizza strutturalmente le fasce di risparmio più basse. Per i depositi inferiori a 50.000 euro, che rappresentano la maggior parte dei conti correnti in Italia, i tassi passivi restano uniformemente bassi in tutte le regioni, con valori medi tra lo 0,15% e lo 0,20%, incapaci di offrire una vera remunerazione ai piccoli risparmiatori.Confronto con il resto d’EuropaL’Italia si distingue negativamente rispetto ad altri Paesi europei. In Germania e Francia, la remunerazione media per i depositi sopra i 50.000 euro ha superato l’1,5%, evidenziando una maggiore competizione bancaria e un sistema più equo verso i risparmiatori. LEGGI TUTTO

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    Banco Bpm schiera Numia e cresce nei pagamenti del futuro

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    Dopo quasi due mesi di attività, è già diventata un punto di riferimento nel panorama fintech. Nata dalla partnership strategica tra Banco Bpm, Gruppo Bcc Iccrea e Fsi, la joint venture Numia – nuova realtà italiana e indipendente nel settore dei pagamenti digitali si sta distinguendo per un approccio orientato all’innovazione e alla crescita tecnologica del Paese. A seguito del conferimento delle attività di monetica di Banco Bpm, Numia rappresenta il secondo operatore nazionale nel settore dei pagamenti digitali, con una quota di mercato superiore al 10% nel settore della monetica e con circa 8 milioni di carte, 400mila Pos e oltre 100 miliardi di transato intermediato. «La scelta di sviluppare la partnership Numia è mirata ad avere un presidio ancora più diretto di un business, quello dei pagamenti, che è fra i pochi nel settore finanziario ad avere registrato tassi di crescita a doppia cifra con attese di ulteriore significative crescite anche nei prossimi anni», ha dichiarato Luca Vanetti, vicepresidente Numia e responsabile marketing e omnicanalità di Banco Bpm, sottolineando poi uno degli aspetti più caratterizzanti per la società guidata dall’amministratore delegato e direttore generale Fabio Pugini. «Numia fa della capacità di innovazione uno dei suoi pilastri di sviluppo grazie al suo essere agile come una start-up». Nella doppia veste di distributore e di azionista di riferimento, l’istituto bancario ricopre un ruolo rilevante nella governance della nuova società, essendo presente nei board e in tutti i comitati strategici e di indirizzo. «I primi riscontri della collaborazione con Numia si sono rivelati particolarmente positivi. A poco meno di due mesi dall’avvio dell’operatività oltre 30mila clienti merchant hanno scelto e hanno iniziato a operare con i Pos e i servizi di Acquiring di Numia. È un risultato che riteniamo di assoluto rilievo, anche superiore alle iniziali aspettative», ha aggiunto Vanetti. Al riguardo, va ricordato che dallo scorso settembre è stata avviata la commercializzazione dei servizi Pos e Acquiring di Numia alla clientela di Banco Bpm. E nel corso del 2025 verranno realizzati i nuovi prodotti relativi all’ambito Issuing, riferito cioè alle carte di credito, di debito e prepagate. L’obiettivo è quello di fornire, intorno ai servizi «core» di accettazione dei pagamenti, tutta una serie di servizi aggiuntivi per semplificare la vita al cliente.«Per i professionisti e le piccole imprese, ad esempio, Numia ha potenziato la propria offerta integrando nei terminali Pos, ormai prevalentemente dotati di tecnologia Android e quindi versatili e potenti come i migliori smartphone, specifiche app proprietarie che ampliano le funzionalità del terminale, offrendo all’esercente una esperienza innovativa», ha spiegato ancora Vanetti. LEGGI TUTTO

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    Messina: “La Cdp non entri nel capitale delle Generali”

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    La notizia (non smentita) delle trattative tra Generali e i francesi di Natixis per un’alleanza nel risparmio gestito ha fatto alzare le antenne a Roma e in ambienti finanziari. Il timore è che all’orizzonte possa materializzarsi un attacco al cuore della finanza nazionale, con oltre 2 .100 miliardi di asset (1.300 gestiti da Natixis e 845 dalle Generali) coinvolti e il pericolo che uno dei centri nevralgici del nostro sistema possa passare in mani straniere. Da qui l’indiscrezione per la quale, anche in vista del rinnovo dei vertici del Leone di Trieste in primavera, la Cassa depositi e prestiti possa entrare nel capitale delle Generali, per creare stabilità tra i soci e un cordone sanitario a protezione da appetiti stranieri. Ma non tutti concordano che sia la strada giusta. Ieri il ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, è stato a tal proposito perentorio: «Per gli ingressi di operatori pubblici nelle società private deve esserci un interesse di sicurezza nazionale che lo giustifichi, altrimenti non riesco a capire il motivo». Insomma, il capo della prima banca italiana fa capire che un intervento di Cdp sarebbe giustificato solo a condizioni molto particolari. «È chiaro – ha aggiunto – che se Cdp dovesse intervenire, qualcuno avrà valutato che c’è un interesse di sicurezza nazionale. Se non è per quello, ma è soltanto per intervenire in partite finanziarie per definire chi comanda nei diversi contesti, penso che ci siano tanti investimenti su infrastrutture e motori di crescita del Paese più importanti rispetto a quello». Viceversa, se ci sono informazioni per cui ci possa essere un rischio, «allora ben venga qualunque tipo di investimento».Il capo della prima banca italiana, interpellato dai giornalisti, si è poi espresso sull’Offerta pubblica di scambio lanciata da Unicredit all’indirizzo del Banco Bpm: «Credo che il pallino di queste operazioni debba essere dal punto di vista della supervisione nelle mani della Bce e dal punto delle decisioni nelle mani degli azionisti». Dichiarazione, quest’ultima, da interpretare nell’ottica di un top manager che alcuni anni fa ha concluso un’operazione simile su Ubi Banca e quindi sarebbe stato quanto meno inusuale esprimersi in modo diverso. Messina, che secondo fonti di stampa potrebbe entrare in qualche modo nelle attuali manovre di risiko bancario, respinge la possibilità che possa immischiarsi nella vicenda Unicredit-Bpm: «Sicuramente non possiamo essere cavalieri in queste operazioni per un motivo molto semplice: abbiamo già una quota di mercato elevata in Italia».Intanto, ieri Unicredit ha risposto alle preoccupazioni espresse dell’ad di Bpm, Giuseppe Castagna, circa la possibilità di 6mila esuberi nel caso l’Ops abbia successo: «Il numero indicato da Bpm è pura congettura», ha detto un portavoce, «speculare su tali dettagli in questa fase è solo fuorviante». Nel frattempo il capo di Unicredit, Andrea Orcel, sta continuando a tessere la tela per arrivare a Bpm (soprattutto ad Anima, che è l’obiettivo più ghiotto per una banca rimasta orfana di una sua fabbrica prodotto di fondi). Secondo indiscrezioni attendibili, Orcel incontrerà in questi giorni a Parigi Philippe Brassac, amministratore delegato di Credit Agricole (azionista del Bpm con il 9,2% delle quote). L’intento è di trovare un accordo per convincere la banca transaplina a essere dalla sua parte, anche se è difficile che i francesi (proprietari di Amundi, che ha un accordo di distribuzione con Unicredit fino al 2027) possano cedere in toto la loro partecipazione. LEGGI TUTTO

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    Orcel, l’azzardo del grande opportunista

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    Andrea Orcel, il numero uno di Unicredit, è quello che si definirebbe, in finanza, un trader opportunista. Uno che non si fa grandi problemi. Non se ne fece quando «consigliò» il Monte dei Paschi di Siena di comprarsi l’Antonveneta per 9 miliardi di euro, nonostante fosse in «leggero» conflitto di interessi. Non se ne fece quando chiese ad Ubs di rilasciargli le azioni, che normalmente si perdono quando si passa ad un concorrente, e non se ne fece con i passati governi e direttori del Mef che gli chiedevano di comprarsi Mps e che Orcel mandò a stendere. E non si è fatto alcun problema all’inizio di questa settimana a lanciare una scalata ostile nei confronti della Banca popolare di Milano, senza neanche avvisare il governo. In realtà una telefonata a Palazzo Chigi è arrivata, ma un’ora prima dell’ufficialità. Orcel, interrogato dalla commissione parlamentare inglese che indagava sullo scandalo delle manipolazioni del tasso Libor, rispose: «We all got probably too arrogant», probabilmente siamo diventati tutti troppo arroganti.Un tratto che vale anche per la sua ultima mossa. La scalata alla Banca popolare di Milano non è esattamente un’operazione politicamente neutra. L’istituto guidato da Giuseppe Castagna stava lavorando da tempo per mettere in piedi un terzo gruppo bancario italiano. Aveva comprato dal Tesoro un pezzo del Monte dei Paschi di Siena e aveva lanciato un’offerta per comprarsi la totalità di una delle poche fabbriche di risparmio gestito rimaste in Italia, Anima. Si sarebbe creato un terzo grande operatore italiano, accanto all’unica banca di sistema, Intesa, guidata da Carlo Messina, e ad Unicredit, appunto. In un sistema industriale come il nostro, solo il Cielo, forse più del mercato, sa quanto sia necessaria la presenza di più operatori di grandi dimensioni che credano nel nostro sistema paese. Il predecessore di Orcel, proprio in Unicredit, aveva dato mandato ai suoi di fare molta attenzione al cosiddetto «rischio Italia». Il che vuol dire stringere i cordoni del credito, immaginate un po’ voi, quando si parlava di operazioni straordinarie. Fu lo stesso che vendette ai francesi un pezzo importante del risparmio gestito italiano; lo stesso risparmio gestito che oggi Orcel si vuole riprendere conquistando per via Bpm, la controllata Anima. Una certa schizofrenia nella policy della banca, ma questo è un altro discorso.Con la scalata a Bpm inoltre, Orcel ha ribadito che non ne vuole sapere del Monte. Il che vuol dire che il cerino ritorna in mano al Governo, che ne è ancora azionista.Orcel da trader opportunista non sta facendo altro che il suo mestiere e cioè massimizzare le opzioni, o se preferite, tenere il piede in più scarpe. Sta cercando di scalare una grande banca tedesca, ma è bloccato dalla crisi politica a Berlino. E nel frattempo mette un chip sullo scacchiere italiano. Cercando di mettere le mani sulla banca che insiste sul territorio più ricco del paese. L’offerta che ha fatto è secondo il mercato, ridicola. Il prezzo è troppo basso, peraltro pagato, come si usa, solo con carta. Tutti si aspettano un rilancio. E comunque ha spostato la palla in avanti: l’assemblea per emettere nuove azioni con cui comprare eventualmente il Banco si terrà ad aprile. Nel frattempo non solo ha bloccato il tentativo del governo di costruire un terzo polo, ma ha paralizzato anche il numero uno di Bpm, Giuseppe Castagna che, essendo sotto scalata, non può fare alcuna operazione straordinaria: per dire non potrebbe aumentare la sua offerta su Anima, alzando il prezzo, se fosse necessario. Orcel per fare questa operazione da 10 miliardi, come suo costume, non solo non ha avvisato il governo, ma non ha advisor e nessuno ha ascoltato. Si dirà, è il mercato bellezza. Mica tanto, pensando che stiamo parlando di banche. Uno degli slogan che molti politici a destra come a sinistra sventolano è quello che in Europa ci vorrebbe un’Unione bancaria. Sapete cosa vuole dire? Banalmente, che oggi in Europa, per quanto riguarda gli istituti di credito, esistono ancora 27 nazioni indipendenti e autonome. Unicredit controlla Hvb, in Germania. Mai e poi mai, per le regole teutoniche, la controllata tedesca può ridurre il proprio capitale in Germania per operatività fuori dal suo paese. I bilanci delle banche europee sono come segregati: nonostante Milano controlli Berlino, il capitale di quest’ultima non può essere assorbito oltre i confini. Altro che libero mercato. Senza parlare dei fondi interbancari nazionali che non garantiscono i depositari di altri stati. LEGGI TUTTO

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    Bancomat pensa digitale. Ecco l’hub dei pagamenti

    Il ceo di Bancomat Fabrizio Burlando

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    A 41 anni dai primi prelievi elettronici di contante, che nel 1983 fecero sentire gli italiani più moderni, Bancomat si trasforma nella «moneta digitale di tutti gli italiani». È questo uno degli slogan che da oggi accompagna la nuova vita di Bancomat, un nome che si trova anche sulla Treccani con il significato di «circuito di servizi per il prelievo di denaro contante», ma che in realtà è una società fintech a tutti gli effetti. E che, dalla mezzanotte di ieri, ha cambiato logo per riunire in un solo brand e un’unica app tutto quello che si può e si potrà fare nell’ambito dei pagamenti: dal prelievo, al pos; dal pagamento con il QR, al trasferimento di denaro istantaneo; dai bonifici, all’ordine su Amazon. Così, sempre da oggi, vanno in soffitta sia il BancomatPay (pagamenti digitali), sia il PagoBancomat (tramite pos): tutto viene assorbito da un unico nuovo Bancomat.Dice al Giornale Fabrizio Burlando, ceo dal giugno scorso: «La parola d’ordine è semplificazione: da oggi si farà tutto con il solo numero del cellulare. Paypal, Satispay, MasterCard, tanto per citare alcuni nomi: noi vogliamo essere tutto questo in una sola app, senza aprire un altro conto da nessuna parte e senza le 16 cifre della carta o le 27 dell’iban da utilizzare, basta il cellulare. Certo, la carta resta per tutti, ma il cliente potrà anche non volerla». Quello che però non tutti sanno è che tutti questi servizi erano già presenti in Bancomat. E con costi 2-3 volte inferiori dei concorrenti. Solo mancava una strategia univoca e, soprattutto, condivisa dai soci, cioè dalle banche da cui dipende un po’ tutto: la peculiarità di Bancomat è infatti quella di connettere al circuito i clienti direttamente con i loro iban, attivi in questo o quell’istituto.Il nuovo logo unico di BancomatLa molla è scattata con l’ingresso nel capitale del fondo Fsi di Maurizio Tamagnini, che con un aumento di capitale da 75 milioni è entrato al 42,9%, stringendo un patto parasociale con 4 grandi soci: Intesa Sanpaolo, Iccrea, Banco Bpm e Bper, insieme con Fsi, arrivano oggi al 74,7%. Ed è Fsi che ha chiamato Burlando, strappato a Mastercard, per affidargli il compito che inizia oggi (con il rebranding curato con la consulenza di Landor). LEGGI TUTTO