More stories

  • in

    Perché ci sono orche che attaccano le barche vicino alle coste iberiche?

    Caricamento playerLa notte del 4 maggio, al largo di Gibilterra, la barca a vela “Champagne” che era in viaggio tra le isole Canarie e le Baleari è stata attaccata da tre orche che hanno colpito il timone. L’equipaggio, soccorso dalla Guardia costiera spagnola, è riuscito a mettersi in salvo abbandonando l’imbarcazione, che a causa dei danni provocati alla fine è affondata.È stato un evento straordinario, ma non così raro nella parte di oceano Atlantico più vicina alle coste di Spagna e Portogallo. Dal maggio del 2020 è successo più di 500 volte che vicino allo Stretto di Gibilterra o al largo della Galizia, nel nord della Spagna, le orche si mettessero a colpire delle imbarcazioni, nella maggior parte dei casi barche a vela monoscafo (in altre due occasioni ne avevano affondata una). È un comportamento che non è ancora stato del tutto spiegato, ma gli scienziati hanno fatto un’ipotesi: una singola orca ferita avrebbe cominciato ad attaccare le barche per difendersi e le altre avrebbero cominciato a colpire le barche a loro volta imparando da lei.Ci sono orche (Orcinus orca) in tutti gli oceani del mondo, ma i comportamenti delle diverse popolazioni possono variare parecchio da zona a zona, tanto che i biologi hanno ipotizzato che in realtà ne esistano diverse sottospecie o specie, e non solo una come dice l’attuale classificazione scientifica dei mammiferi marini. Alcuni gruppi di orche vivono per tutto l’anno nelle stesse acque e per questo sono dette “residenti”. Altri si spostano molto, sempre restando lungo le coste: per questo sono dette “transienti”. Ci sono poi orche che vivono in mare aperto e per questo vengono chiamate “offshore”.Da un tipo di gruppo all’altro variano anche le abitudini alimentari (ci sono orche che mangiano solo salmoni, altre non interessate al pesce ma solo alle foche), i suoni con cui comunicano e altri comportamenti.Al largo delle coste iberiche vivono sei comunità di orche, alcune molto numerose altre ristrette, che in parte interagiscono tra loro e i cui territori possono essere più o meno ampi (alcune si trovano solo nello Stretto di Gibilterra, altre da lì al Golfo di Biscaglia, tra Spagna e Francia) e più o meno sovrapposti. In totale le orche che abitano questa parte di oceano sono una cinquantina. Quelle che attaccano le barche però sono solo 15, secondo le stime del Grupo de Trabajo Orca Atlántica, il gruppo di scienziati spagnoli e portoghesi che le studiano.Il gruppo sta cercando di capire esattamente perché le orche attacchino le barche e come evitare che questo comportamento metta in pericolo delle persone. Ma lavora anche per impedire che le interazioni dannose con le barche portino le persone a odiare le orche, comprese quelle che non mostrano interesse per le barche. «Pensiamo che in una data zona le orche interagiscano solo con una barca su cento», ha detto al sito di notizie scientifiche Live Science Alfredo López Fernandez, biologo dell’Università di Aveiro, in Portogallo, e membro del gruppo di ricerca, per dare una dimensione del fenomeno. Inoltre nella maggior parte dei casi le orche sembrano perdere interesse per le barche una volta che queste si sono fermate.Il Grupo de Trabajo Orca Atlántica gestisce un sito in cui sono registrati tutti gli episodi di interazioni tra orche e barche e che dà alcune raccomandazioni a chi naviga per evitare problemi.Dato che è solo dal 2020 che le orche iberiche hanno cominciato ad attaccare le barche e che inizialmente erano solo tre animali a colpirle, gli scienziati hanno ipotizzato che il comportamento sia cominciato dopo un evento traumatico accaduto a un’orca specifica. Le altre avrebbero gradualmente imparato da lei a colpire le barche. Le orche infatti sono animali sociali che oltre ai comportamenti innati ne possono imparare di nuovi dai propri simili: per questo nelle diverse popolazioni e comunità di orche si trovano vocalizzi (i suoni che producono) e comportamenti diversi, che possono essere trasmessi di generazione in generazione come una forma di cultura animale.L’orca da cui sarebbe iniziato tutto è stata chiamata Gladis Negra dal gruppo di ricerca e ha una grossa ferita sul dorso, dietro la pinna dorsale. Il trauma che ha subito sarebbe all’origine del comportamento aggressivo verso le barche, secondo l’ipotesi degli scienziati.La ferita dietro la pinna dorsale dell’orca Gladis Negra, che peraltro permette di identificarla facilmente (Grupo de Trabajo Orca Atlántica)López Fernandez ha spiegato che lui e i suoi colleghi non pensano che le orche che attaccano le barche «insegnino» a farlo alle altre: «Il comportamento si è diffuso dalle più anziane alle più giovani semplicemente per imitazione, e poi in modo orizzontale, tra giovani, perché per loro è qualcosa di importante». Per qualche ragione insomma per le orche le interazioni con le barche devono essere “vantaggiose”, nonostante i rischi che corrono ad avvicinarsi.È anche possibile che nonostante dal punto di vista umano le interazioni siano definibili come “attacchi”, cioè come un comportamento aggressivo, per la maggior parte delle orche che li compiono siano una forma di gioco.A prescindere da cosa l’ha causato però questo modo di fare delle orche è rischioso sia per chi naviga che per le orche stesse, che sono a rischio d’estinzione in questa parte dell’Atlantico. LEGGI TUTTO

  • in

    In Irlanda le etichette degli alcolici dovranno indicare i rischi per la salute

    Il ministro della Salute dell’Irlanda, Stephen Donnelly, ha firmato oggi una discussa legge che renderà obbligatoria l’indicazione sulle etichette degli alcolici di varie informazioni sulla salute, dalle calorie per ogni porzione al rischio di sviluppare tumori e altre malattie. I produttori di alcolici avranno tre anni per mettersi in regola, modificando le etichette dei loro prodotti. La firma della legge era attesa da tempo, considerato che il governo irlandese aveva annunciato le nuove regole mesi fa, ricevendo critiche soprattuto dai grandi produttori di vino, birra e altre bevande alcoliche.La nuova legge è la prima di questo genere a richiedere indicazioni così dettagliate e avvisi sulla salute, come avviene già da tempo per le sigarette. Per questo motivo l’Irlanda aveva prima chiesto un parere alla Commissione Europea e all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), in modo da non rischiare sanzioni o di dover correggere alcune parti del nuovo provvedimento una volta entrato in vigore.In un comunicato, Donnelly ha detto che l’Irlanda «è il primo paese al mondo a introdurre indicazioni sulle etichette legate alla salute sui prodotti alcolici» e che confida ci possano essere «altri paesi che seguiranno il nostro esempio». Al momento nessun altro paese europeo ha comunque annunciato iniziative simili, anche perché alcuni paesi come Italia e Spagna avevano protestato per la scelta dell’Irlanda rivolgendosi alla Commissione Europea. Diversi esponenti del governo italiano avevano criticato duramente l’Irlanda e sostenuto che una legge di questo tipo avrebbe penalizzato le esportazioni di vino.Entro il 22 maggio 2026, tutti i produttori di alcolici dovranno indicare sulle etichette di ogni bottiglia e lattina l’apporto calorico dei loro prodotti, accompagnato da avvisi sul rischio di cancro derivante dal consumo di alcol e di altre malattie, come per esempio quelle legate al fegato. Le indicazioni dovranno essere riportate anche ai banconi dei bar e dei pub che somministrano birra alla spina e altre bevande alcoliche.Drinks Ireland, uno dei più grandi gruppi d’interesse in Irlanda legato alla produzione e alla vendita delle bibite alcoliche, ha criticato la legge dicendo che potrebbe indurre alcuni produttori di vino a non esportare più i loro prodotti in Irlanda, per evitare di dover utilizzare etichette diverse da quelle impiegate nel resto del mondo. Secondo l’organizzazione la scelta per i consumatori si potrebbe quindi ridurre, ma è ancora presto per capire come si regoleranno i produttori europei in un mercato comunque molto importante come quello irlandese.Altri gruppi di interesse nei mesi scorsi avevano detto di essere contrari alla nuova legge perché non ci sono elementi per sostenere che il consumo di vino e altri alcolici faccia aumentare il rischio di ammalarsi di cancro. In realtà la questione è stata studiata per decenni e – sulla base delle numerose ricerche scientifiche svolte – l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti e solidi per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Nel medesimo gruppo ci sono anche l’amianto, il fumo e gli insaccati, per esempio.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” su vino e rischio tumoriLe sostanze negli altri gruppi non sono necessariamente meno rischiose per la nostra salute, ma semplicemente si trovano in classi più basse di rischio perché non ci sono ancora studi convincenti come per quelli del Gruppo 1 (e potrebbero non esserci mai). Una sostanza è cancerogena oppure non lo è: la parola stessa “cancerogeno” indica qualcosa che fa aumentare il rischio di insorgenza di un certo tipo di tumore. Ogni cancerogeno agisce in modo diverso su un rischio che varia a seconda del tipo di tumore e che dipende da come si è fatti e dal proprio stile di vita.Nell’Unione Europea si parla da tempo della possibilità di introdurre etichette che mettano meglio in evidenza i rischi per la salute legati al consumo di determinate sostanze, un po’ come si fa già con il fumo. Per questo nei mesi scorsi alcuni paesi avevano chiesto all’Irlanda di attendere che fossero introdotte regole comuni, che potrebbero però escludere alcune indicazioni come i rischi legati ai tumori. Si è per esempio parlato della possibilità di inserire nelle etichette rimandi ai siti web dei produttori, con indicazioni più dettagliate, ma che secondo i detrattori sarebbero meno efficaci nel segnalare la presenza dei rischi. LEGGI TUTTO

  • in

    Il dilemma della bella addormentata

    Caricamento playerOltre che protagonista di una delle favole più conosciute di sempre, la bella addormentata è il soggetto immaginario di un esperimento mentale conosciuto da oltre due decenni e molto popolare tra studiosi e appassionati di matematica e filosofia, perché riguarda il modo in cui le informazioni e le convinzioni possono influenzare le scelte razionali. Ideato e proposto tra gli anni Novanta e il Duemila dai filosofi statunitensi Arnold Zuboff e Adam Elga, e discusso negli stessi anni anche dagli economisti Michele Piccione e Ariel Rubinstein, l’esperimento pone una questione ancora oggi irrisolta perché le due soluzioni proposte sono entrambe sostenute da argomenti formalmente validi.Secondo la formulazione classica del dilemma, su cui esistono oltre cento pubblicazioni scientifiche, la bella addormentata accetta di sottoporsi a un esperimento. Il gruppo di ricerca la addormenterà domenica utilizzando un particolare sonnifero che provoca anche una parziale amnesia, e a quel punto lancerà una moneta per decidere come proseguire. Se esce testa, la bella addormentata verrà svegliata e intervistata una sola volta, lunedì. Se esce croce, verrà risvegliata e intervistata due volte: una volta lunedì e un’altra volta martedì, dopo essere stata addormenta di nuovo lunedì, dopo l’intervista.Per effetto della particolare amnesia provocata dal sonnifero, ogni volta che viene svegliata la bella addormentata non sa che giorno sia, se lunedì o martedì, e non sa se sia stata svegliata altre volte in precedenza. Ricorda soltanto le regole dell’esperimento, cioè il criterio del lancio della moneta – il cui risultato lei ignora – per decidere quante volte svegliarla e intervistarla. Nell’intervista le viene posta ogni volta una sola domanda: «Quanta probabilità assegni all’ipotesi che sia uscito testa al lancio della moneta?».Sia gli ideatori del dilemma che le persone che si sono appassionate alla questione nel corso degli anni hanno proposto due possibili risposte. Un gruppo, quello dei cosiddetti “mezzisti” (halfters), sostiene che la bella addormentata dovrebbe rispondere: «una possibilità su due». E lo sostiene sulla base del fatto che la probabilità che la moneta dia testa (o dia croce) è del 50 per cento, indipendentemente dal resto dell’esperimento.Come sostenuto dal filosofo statunitense David Lewis e da altri, si potrebbe anche lanciare la moneta prima anziché dopo aver addormentato la bella addormentata, e – proprio per come è costruito l’esperimento – non cambierebbe molto. Lei comunque non avrebbe informazioni aggiuntive per concludere che, a meno che la moneta non sia truccata, la probabilità che esca testa sia diversa dal 50 per cento. E ogni volta che viene svegliata, secondo i mezzisti, la bella addormentata si trova in questa condizione: non sa se è il suo primo e unico risveglio, o se si tratta del secondo risveglio, né ha modo di scoprirlo. La sua stima sarà quindi inevitabilmente uguale a quella che avrebbe fornito a priori, prima di essere addormentata.– Leggi anche: Costruire nuove strade è un problema matematico non da pocoUn altro gruppo di persone, i “terzisti” (thirders), di cui fa parte anche l’ideatore del dilemma Elga, ritiene invece che la risposta corretta della bella addormentata dovrebbe essere: «una possibilità su tre». Dal punto di vista della bella addormentata possono infatti verificarsi tre diversi eventi: un risveglio di lunedì, dopo che il lancio ha dato testa; un risveglio di lunedì, dopo che il lancio ha dato croce; e un risveglio di martedì, dopo che il lancio ha dato croce. In media, un terzo dei risvegli seguirà un lancio della moneta in cui è uscito testa, e due terzi dei risvegli seguiranno un lancio della moneta in cui è uscito croce.Per metterla nei termini matematici utilizzati dalla divulgatrice e fisica tedesca Manon Bischoff, se la bella addormentata sapesse al suo risveglio che è lunedì (L), allora la probabilità (P) dell’evento “lunedì/testa” (T|L) e quella dell’evento “lunedì/croce” (C|L) sarebbero certamente uguali: e cioè P(T|L) = P(C|L) = ½. E se la bella addormentata sapesse al suo risveglio che è uscito croce (C), sarebbero uguali la probabilità (P) che sia lunedì (L) e quella che sia martedì (M): e cioè P(C|L) = P(C|M) = ½.La conseguenza logica di queste premesse, in base al calcolo della probabilità condizionata, è che nel caso generale – e cioè in assenza di informazioni date alla bella addormentata – tutti e tre gli eventi hanno la stessa probabilità: e cioè P(T|L) = P(C|L) = P(C|M). Secondo Elga, poiché la bella addormentata si sveglia due volte più spesso nel caso in cui esce croce rispetto al caso in cui esce testa, dovrebbe rispondere che la probabilità che sia uscito testa al lancio della moneta è una su tre.Questo punto di vista è spesso rafforzato dall’idea che l’esperimento sia ripetuto un certo numero di volte e non una volta soltanto (sebbene la valutazione delle probabilità dei tre eventi, secondo i terzisti, non sia diversa nemmeno nel caso in cui sia effettuato una sola volta). Se l’esperimento venisse ripetuto 1.000 volte, in media si verificherebbero 500 risvegli singoli e 500 doppi risvegli, per un totale di 1.500 interviste: 1.000 di queste interviste seguirebbero un lancio in cui è uscito croce, e questo renderebbe poco sensata la risposta dei mezzisti.– Leggi anche: Per valutare il successo bisogna considerare il “pregiudizio di sopravvivenza”In altri casi sono state analizzate versioni modificate dell’esperimento mentale, più estreme. In una versione suggerita nel 2006 dal filosofo svedese Nick Bostrom, la bella addormentata viene svegliata e intervistata non soltanto una seconda volta il giorno successivo al primo risveglio, nel caso in cui esca croce, ma un milione di altre volte. Anche in questo caso, la risposta della bella addormentata secondo cui c’è una possibilità su due che sia uscito testa non sembra la più sensata.Portare all’estremo alcune caratteristiche dell’esperimento è una tecnica utilizzata anche per venire a capo di altri dilemmi relativi al calcolo delle probabilità, tra cui il problema di Monty Hall. In quel caso, un ipotetico gioco a premi, il giocatore può scegliere fra tre porte: dietro una c’è un’automobile e dietro le altre due una capra. Il giocatore sceglie una porta, ma riceve la possibilità di cambiare la sua scelta dopo che il conduttore apre una delle due porte dietro cui si trova una capra. L’idea che al giocatore convenga a quel punto cambiare la sua scelta iniziale appare controintuitiva a molte persone, ma diventa più ragionevole nel caso in cui le porte siano molte di più, un milione, e il conduttore ne apra 999.998 con dietro una capra, dando al giocatore la possibilità di cambiare a quel punto la sua scelta iniziale.Versioni modificate dell’esperimento della bella addormentata sono però state utilizzate anche per indebolire l’opinione dei terzisti, ricorda Bischoff, ponendo come esempio il caso in cui l’esito del lancio della moneta venisse sostituito dall’esito di una scommessa sportiva su un evento facilmente prevedibile: una corsa podistica tra la cantante Taylor Swift e l’ex corridore Usain Bolt. Se vince Bolt, come molte persone considererebbero più probabile, la bella addormentata viene svegliata e intervistata soltanto lunedì. Se vince Swift, la bella addormentata viene svegliata e intervistata ogni giorno per un mese.La probabilità che Bolt perda contro Swift è molto bassa, ma applicando la logica “a posteriori” utilizzata dai terzisti, secondo Bischoff, la bella addormentata dovrebbe comunque considerare più probabile un suo risveglio avvenuto dopo una vittoria di Swift: perché in questo caso, per quanto improbabile, lei però verrebbe svegliata 30 volte. Le obiezioni a questo tipo di versione modificata dell’esperimento mentale si basano sul fatto che alterano in modo troppo significativo l’esperimento stesso e il tipo di informazioni a disposizione della bella addormentata.In termini generali, a prescindere dalla soluzione proposta, il dilemma è considerato un esempio utile di enigma relativo alla teoria delle decisione, lo studio matematico e statistico del modo in cui compiamo scelte tra varie alternative possibili. E mostra come le convinzioni e le informazioni delle persone, in questo caso quelle della bella addormentata, possano portare a più conclusioni razionali. LEGGI TUTTO

  • in

    Perché mezzo mondo è intollerante al lattosio

    Caricamento playerIl latte è una delle bevande più consumate al mondo, eppure la maggior parte della popolazione mondiale ha diversi gradi di intolleranza al lattosio, il principale zucchero presente nel latte. La distribuzione delle persone che non riescono a digerirlo non è però omogenea: ci sono posti del mondo in cui quasi tutte le persone riescono a bere il latte senza problemi, come l’Irlanda e buona parte del nord Europa, e altre dove l’intolleranza è molto diffusa, come in alcuni paesi asiatici. Le ragioni di queste marcate differenze sono ancora oggi un mistero, ma le molte ipotesi formulate in questi anni sulla base di test, esperimenti e grandi quantità di dati suggeriscono qualche spiegazione e soprattutto dicono qualcosa su come siamo fatti e su come ci siamo evoluti.Nei primi anni di vita quasi tutti i mammiferi riescono a digerire normalmente il latte, l’unico alimento per i piccoli di molte specie compresa la nostra. Questa digestione è resa possibile dalla lattasi, un enzima che si occupa di scindere il lattosio in glucosio e galattosio, rendendo il latte più facilmente digeribile dall’organismo. Dopo lo svezzamento, l’attività dell’enzima si riduce in quasi tutti i mammiferi, determinando una intolleranza al lattosio. In alcune popolazioni umane, però, la lattasi si mantiene attiva e rende possibile la normale digestione del latte anche in età adulta, una condizione che viene definita: “persistenza di lattasi”.L’assenza o la minore attività della lattasi dopo i primi anni di vita fa sì che il lattosio non venga scomposto efficacemente, comportando problemi soprattutto a livello intestinale dove il lattosio fermenta. I meno esposti al problema hanno disturbi lievi, mentre chi ha maggiori difficoltà digestive fa spesso i conti con mal di pancia, accumulo di gas intestinale ed episodi di diarrea, che possono essere ricorrenti e nei casi più gravi debilitanti. A queste persone viene consigliato di solito di astenersi dal consumo di latte e di molti dei suoi derivati, oppure di assumere farmaci che aiutano l’organismo a digerire il lattosio.La persistenza di lattasi varia molto tra le popolazioni di esseri umani. Si stima che in Grecia ce l’abbiano solo due persone su dieci, mentre nei paesi nordici europei si arriva a 8-9 su dieci. Tra i più tolleranti al lattosio ci sono gli irlandesi, dove si stima che la persistenza di lattasi riguardi la quasi totalità della popolazione. In Cina si stima che più dell’85 per cento della popolazione sia intollerante al latte e le percentuali sono molto alte in numerose zone dell’Africa, per quanto con qualche eccezione. Spiegare questa grande varietà nella distribuzione geografica non è semplice, ma aiuterebbe a comprendere meglio non solo il problema dell’intolleranza al lattosio, ma anche a capire come mai talvolta l’evoluzione si muove molto rapidamente.Percentuale della popolazione in grado di digerire il lattosio (Wikimedia)La capacità di digerire o meno il lattosio ha infatti una componente genetica molto importante, mentre sembra avere meno a che fare con l’abitudine di continuare a bere il latte dopo lo svezzamento (come invece si sente dire spesso). Di solito è sufficiente che uno dei due genitori abbia la persistenza di lattasi per trasmetterla alla prole, perché basta una variante del gene che regola l’enzima per digerire efficacemente buona parte del lattosio in una porzione di latte. Ma come mai ci sono posti del mondo in cui sono praticamente tutti tolleranti al latte e altri dove regna il mal di pancia?L’ipotesi più condivisa, per quanto ancora discussa, è che la persistenza di lattasi iniziò ad affermarsi in alcune popolazioni umane dopo la domesticazione e l’allevamento di alcune specie animali che producevano latte, circa 10mila anni fa. Prima di quel periodo le popolazioni di cacciatori-raccoglitori erano intolleranti al lattosio, secondo gli studi paleogenetici, basati quindi sulle caratteristiche genetiche degli umani più antichi.L’allevamento aveva reso disponibile in breve tempo il latte come nuovo alimento nella dieta di molte persone: era nutriente e permetteva di sfruttare molto più velocemente gli animali per nutrirsi rispetto alla macellazione delle loro carni, che era più laboriosa e richiedeva tempi più lunghi. La maggiore disponibilità di latte fu quindi probabilmente uno dei fattori che favorirono una rapida evoluzione della nostra specie verso la capacità di produrre la lattasi. Come avviene spesso con l’evoluzione, il processo non fu però omogeneo e fu condizionato da numerosi fattori, come mostra il caso europeo.Ancora 5mila anni fa pochissimi esseri umani riuscivano a digerire il latte, nonostante fosse ormai alquanto diffuso. Le cose cambiarono però drasticamente in poche migliaia di anni, quando nelle popolazioni del nord Europa si presentò una mutazione genetica che cambiò tutto, rendendo possibile l’attuale tasso del 95 per cento circa di tolleranza al lattosio tra chi vive nei paesi nordici europei.Per capire che cosa determinò questa accelerazione, un gruppo internazionale di ricerca ha provato a tenere traccia del consumo di latte da parte delle antiche popolazioni europee a partire da 9mila anni fa. Ha analizzato più di 13mila frammenti di vasellame rinvenuto in vari siti archeologici ed è andato alla ricerca delle tracce lasciate dalle sostanze grasse del latte penetrate all’interno dei recipienti utilizzati dai nostri antenati. L’analisi ha permesso di confermare che già 9mila anni fa il latte veniva consumato dalle popolazioni europee.Una successiva analisi basata sull’esame del materiale genetico di oltre 1.700 resti di esseri umani ha poi permesso di riscontrare l’emergere della variante del gene responsabile della persistenza di lattasi intorno a 5mila anni fa, a conferma del fatto che per molto tempo il latte era bevuto in assenza o con attività ridotta della lattasi. Dalle analisi dei dati raccolti non era emersa una differenza particolare nel consumo di latte prima e dopo l’avvento della persistenza di lattasi: a quanto pare la possibilità o meno di digerire il latte non fu così determinante nella sua diffusione e in quella dei suoi derivati (che hanno una concentrazione variabile di lattosio, spesso più bassa). Quelle popolazioni non lasciavano che gli effetti spiacevoli condizionassero il consumo di latte.A ben vedere, qualcosa di analogo avviene ancora oggi. Una ricerca condotta nel Regno Unito su circa 500mila individui non ha trovato differenze significative nel consumo di latte tra chi ha la persistenza di lattasi e chi non ce l’ha. Gli intolleranti al lattosio non sembrano avere problemi di salute nel lungo periodo se consumano ugualmente latte, né in termini di longevità né di capacità di riprodursi. L’ipotesi è che nell’antichità il latte fosse quindi consumato pur con qualche inconveniente perché i benefici erano superiori agli aspetti negativi.Questa osservazione non aiuta però a spiegare come mai a un certo punto molte popolazioni europee svilupparono ugualmente la persistenza di lattasi e così velocemente. Se potevano bere lo stesso il latte, che beneficio avrebbe portato svilupparla?Non c’è ancora una risposta condivisa e convincente fino in fondo, ma gruppi di ricerca hanno sviluppato alcune teorie. Una è che probabilmente lunghi e difficili periodi di carestia accelerarono la diffusione della variante del gene che rende tolleranti al lattosio. In condizioni normali è probabile che nessuno morisse per un’intolleranza al lattosio, visto che gli effetti sono dolori addominali e nel peggiore dei casi qualche episodio di diarrea. Ma avere questi disturbi quando si è malnutriti a causa della mancanza di cibo cambia le cose: episodi ricorrenti di diarrea debilitano ulteriormente l’organismo, favoriscono la disidratazione e nei casi più gravi possono causare la morte.In mancanza di altro cibo è probabile che ci fosse un maggior ricorso al latte, peggiorando ulteriormente la situazione per chi era intollerante. Dobbiamo immaginare che ciò avvenisse in un mondo molto diverso dal nostro, dove infezioni e malattie ora curabili con facilità potevano rivelarsi letali. In un contesto simile, gli individui con persistenza di lattasi avevano più probabilità di sopravvivenza rispetto agli intolleranti al lattosio. Ci fu di conseguenza una rapida selezione che insieme ad altre mutazioni del tutto casuali a livello genetico favorì l’emergere di popolazioni via via più in grado di digerire il lattosio. Il fenomeno si verificò in modo disomogeneo in varie aree dell’Europa favorendo la diversità che riscontriamo ancora oggi.Un’altra teoria simile vede come causa le epidemie al posto delle carestie. Le prime popolazioni vivevano al chiuso in ambienti poco spaziosi e a stretto contatto con gli animali, in condizioni che potevano favorire la circolazione di virus e batteri. Se si ammalavano in molti c’erano minori possibilità di gestire il raccolto, la disponibilità di cibo diminuiva e si faceva un maggior ricorso al latte. Le persone già debilitate dalla malattia e intolleranti al lattosio avevano minori possibilità di sopravvivenza rispetto a chi aveva la persistenza di lattasi e l’avrebbe poi trasmessa alla prole.Le simulazioni basate su queste teorie fanno riscontrare una corrispondenza tra l’aumento della persistenza di lattasi tra le popolazioni europee e i periodi in cui ci furono carestie ed epidemie. Lo stesso approccio fatica però a trovare spiegazioni convincenti per altre aree del mondo. Nelle steppe tra Europa e Asia ci sono popolazioni che tradizionalmente consumano molto latte, ma tra i cui individui c’è una bassa percentuale di persone in grado di digerire il lattosio.Oltre al vasellame e alle analisi del materiale genetico, informazioni sul consumo di latte in tempi relativamente più recenti possono essere derivate dalle testimonianze scritte. Alcuni autori dell’antica Roma, per esempio, segnalavano nei loro testi con una certa sorpresa un importante consumo di latte da parte dei popoli nordici. Le condizioni climatiche probabilmente influivano sulla minore disponibilità e varietà di cibo nel nord dell’Europa, rendendo più significativo il ricorso al latte come alimento.Uno studio realizzato sulle isole britanniche ha rilevato che la persistenza di lattasi si diffuse agli inizi dell’età del ferro, circa un millennio prima della sua forte presenza in alcune aree dell’Europa continentale. Anche in questo caso la tempistica sembra indicare che il latte divenne in quel periodo un’importante fonte alimentare. L’alta percentuale di persone che digeriscono il latte avrebbe influito molti secoli dopo sulla diffusione della bevanda anche in luoghi dove non viene digerita, almeno secondo alcune recenti analisi sulla storia dell’intolleranza al lattosio.Nel suo libro Spoiled, parola che in inglese significa “avariato”, la storica culinaria statunitense Anne Mendelson scrive che quando il Regno Unito divenne una potenza mondiale estendendo il proprio dominio in numerose colonie, esportò nei territori conquistati tradizioni e usanze compresa quella di bere il latte. Era considerato un alimento nutriente, completo, relativamente economico e facile da digerire, almeno così ritenevano i britannici dall’alto della loro persistenza di lattasi.Popolazioni che non bevevano latte non processato, o che comunque lo bevevano in rare occasioni, si ritrovarono a cambiare le loro abitudini con le difficoltà del caso. Lo stesso avvenne in seguito anche quando gli Stati Uniti iniziarono a essere una potenza mondiale e ad avere una grande influenza su altri paesi. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ricorda sempre Mendelson, alcuni medici iniziarono a comprendere il latte nelle loro indicazioni per la dieta dei pazienti e nei loro trattati, sostenendo che tutti gli esseri umani potessero digerirlo senza problemi. Dopo la Seconda guerra mondiale l’approccio rimase il medesimo, con campagne volte a incentivare il consumo di latte in molti paesi, spesso dovuto alla necessità di sostenere economicamente il settore.Al crescente numero di persone che consumavano latte non corrispose un aumento considerevole di casi segnalati, soprattutto per i motivi che abbiamo già visto: gli effetti dell’intolleranza variano moltissimo da persona a persona, al punto che molti trascorrono la loro intera esistenza senza scoprire di essere intolleranti al lattosio. In alcuni casi è stata riscontrata la capacità del microbiota – che viene chiamato spesso genericamente “flora intestinale” – di favorire la digestione del lattosio, rendendo quindi possibile un migliore assorbimento senza gli inconvenienti che provano altre persone. I disturbi intestinali possono essere inoltre molto lievi, specialmente se il consumo di latte o prodotti che contengono lattosio è saltuario e le quantità ingerite non sono grandi. Altre persone ancora sviluppano invece disturbi importanti anche dopo l’assunzione di poco lattosio.A chi sospetta di avere un’intolleranza al lattosio di solito viene prescritto un “breath test” (test del respiro), che viene effettuato a intervalli regolari per un paio di ore dopo aver fatto assumere al paziente del lattosio sciolto in acqua. Se nell’aria espirata viene rilevato un alto tasso di idrogeno, significa che il lattosio non è stato scisso dalla lattasi e ha iniziato a fermentare nell’intestino. I gas che si producono a causa della fermentazione vengono assorbiti dalla mucosa del colon, finiscono nel circolo sanguigno e raggiungono i polmoni, che li eliminano attraverso la respirazione. Vengono poi utilizzati specifici parametri per stabilire se la concentrazione sia tale da essere riconducibile alla mancanza di attività della lattasi.La diagnosi di più casi e la maggiore accessibilità dei test genetici dovrebbe favorire nuove ricerche e studi su come siamo diventati più o meno tolleranti al lattosio a seconda dei casi. Quantità maggiori di dati dovrebbero inoltre facilitare un allargamento degli studi ad altre aree del mondo oltre l’Europa, dove finora si è concentrata la maggior parte delle ricerche, proprio per la presenza di popolazioni in cui l’intolleranza al lattosio è marginale se non quasi del tutto inesistente. Secondo i più critici la grande attenzione al contesto europeo ha portato a trascurare fenomeni che si verificarono migliaia di anni fa in Africa e in Asia, che potrebbero aiutarci a capire meglio il nostro rapporto travagliato, a volte letteralmente, col latte. LEGGI TUTTO

  • in

    Qual è il legame tra il cambiamento climatico e le alluvioni in Emilia-Romagna

    Caricamento playerLe due alluvioni in Emilia-Romagna avvenute in pochi giorni questo mese sono state eventi meteorologici estremi. In particolare, le piogge che tra il 15 e il 17 maggio hanno causato numerose esondazioni e frane nel territorio compreso tra la provincia di Bologna e le Marche sono state classificate così dall’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (IRPI) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), sia per la quantità d’acqua precipitata nell’arco di tempo considerato sia per l’ampia estensione geografica del fenomeno.È assodato e noto che il cambiamento climatico causato dalle emissioni di gas serra legate alle attività umane è e sarà responsabile di un generale aumento degli eventi meteorologici estremi come alluvioni e siccità in molte parti del mondo, compresa l’Europa e il bacino del Mediterraneo. Il semplice fatto che avvenga un fenomeno meteorologico estremo però non significa di per sé che la causa sia il cambiamento climatico – se ne verificavano anche in passato – e le relazioni tra un singolo evento e l’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera sono complicate da ricostruire anche per i climatologi. Questo non significa che la crisi mondiale del clima non c’entri nulla con le alluvioni di questi giorni, al contrario. E secondo gli scienziati le attività di prevenzione dei danni da alluvione devono tenere ben conto del contesto della crisi climatica.Silvio Gualdi, geofisico e climatologo del Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), uno dei principali enti di ricerca che si occupano del tema in Italia, ha spiegato al Corriere della Sera che tra i fattori che probabilmente hanno influenzato le piogge sull’Emilia-Romagna c’è il riscaldamento globale perché «un’atmosfera più calda contiene una maggiore quantità di vapore acqueo che, quando si verificano queste condizioni meteorologiche, è quindi in grado di produrre molta più pioggia». Si deve anche considerare l’effetto della siccità che riguarda il Nord Italia dalla fine del 2020, «perché un terreno particolarmente secco non riesce ad assorbire le precipitazioni in modo efficace, pertanto la pioggia tende a scorrere sul terreno». E uno studio ha ricondotto tale siccità, che riguarda anche altri paesi europei, al cambiamento climatico: un altro collegamento che poteva sembrare scontato a livello intuitivo, ma che non era così immediato da provare scientificamente.In un’altra intervista al Corriere Massimiliano Pasqui, ricercatore dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e membro dell’Osservatorio Siccità, ha spiegato che «alluvioni e siccità sono eventi complementari che non si annullano. Per mesi i terreni hanno perso umidità ma seccandosi sono rimasti privi della capacità di assorbire l’acqua piovana che, cadendo nelle quantità enormi di queste ore, passa sopra le superfici riarse, spianando la via agli allagamenti».Gli eventi meteorologici sono influenzati da tanti fattori diversi e alcune delle condizioni che hanno portato alle alluvioni attuali sono state presenti anche in passato, prima che il riscaldamento globale fosse ai livelli di oggi. Come ha spiegato sempre al Corriere Paola Mercogliano, un’altra climatologa del CMCC: «Le attuali condizioni estreme sono simili a quelle che portarono all’alluvione del Po nel 1994 e nel 2000. Quindi non possiamo affermare che si tratti di eventi mai visti prima ma sicuramente il cambiamento climatico amplifica la loro frequenza e intensità».Nel 2020 il CMCC ha pubblicato un lungo rapporto intitolato Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia che spiega cosa sappiamo (e cosa no) delle conseguenze del cambiamento climatico in Italia, anche relativamente alle alluvioni. Chiarisce che a differenza delle variazioni di temperatura è più complesso studiare quelle nel regime delle precipitazioni, dato che «si verificano con spiccata eterogeneità spaziale»: dunque non si può fare un discorso generale che valga per tutta l’Italia, un territorio che per la sua conformazione fisica è molto diverso nelle sue parti, ma solo su contesti locali.Servirebbero maggiori studi, ma a grandi linee «gli eventi estremi di precipitazione sembrano essere aumentati in tutta Italia, in accordo quindi ad un’analisi sull’aumento in frequenza di eventi estremi di pioggia estesa a tutto l’emisfero Nord. Accanto a questo andamento ve ne è un secondo, riscontrato grazie all’analisi eseguita su lunghe serie storiche giornaliere, che evidenzia invece una diminuzione della quantità di precipitazione totale sull’anno specie per l’area meridionale».Per quanto riguarda le conseguenze degli eventi estremi, «cresce il rischio idraulico per i bacini di modesta estensione», come quelli dei fiumi romagnoli, perché «in caso di precipitazione intensa esondano prima di bacini più grandi».La meteorologia e la climatologia sono scienze complicate: producono previsioni associate a probabilità perché – dato che riguardano sistemi fisici molto grandi, vari e interdipendenti tra loro (l’atmosfera, gli oceani e i continenti, giusto per fare una prima distinzione grossolana) – si basano su un gran numero di dati diversi. La fisica dell’atmosfera insomma è molto lontana da quella delle sfere ideali che rotolano su piani inclinati a scuola.Per questo non è banale individuare nel dettaglio la relazione tra l’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera e un singolo fenomeno meteorologico come le alluvioni in Emilia-Romagna, e spesso non ha nemmeno tanto senso per il tipo di lavoro che richiede. Ci sono eventi meteorologici che sono più facilmente attribuibili al cambiamento climatico, come le ondate di calore; per altri, come le precipitazioni e le siccità, è più complicato.Negli ultimi vent’anni si è sviluppata una branca della climatologia, la cosiddetta “attribution science”, letteralmente “scienza dell’attribuzione”, che indaga questo ambito, sviluppando i metodi per trovare eventuali collegamenti, ma di solito viene praticata in caso di fenomeni molto vasti, come ad esempio la siccità che da più di un anno riguarda il Nord Italia, la Francia, la Spagna e altri paesi europei.Ma a prescindere da questo gli scienziati che si occupano di meteo, clima e dissesto idrogeologico in Italia sono concordi nel dire che bisognerebbe intervenire sull’adattamento ai cambiamenti climatici, e nello specifico alle precipitazioni intense che causano alluvioni, visto che si sa che sono rese più frequenti dalla crisi climatica e a maggior ragione nelle zone più a rischio. La Romagna è una di queste secondo le valutazioni dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA).Mappa dell’Italia colorata in base al valore di un indicatore che mostra la popolazione residente in aree allagabili nello scenario di pericolosità idraulica media, indicata da MPH (ISPRA)Mauro Rossi, ricercatore dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (IRPI) del CNR, ha spiegato nel podcast Start On Air che nel contesto di queste alluvioni bisogna considerare l’effetto di alcune scelte della gestione del territorio e di come si è tenuto conto (o meno) dei rischi legati alle sue caratteristiche specifiche. L’Appennino romagnolo e le zone collinari a nord sono infatti «altamente propense al dissesto» per loro natura.Per Rossi sono stati fatti degli errori sia sui versanti dei rilievi, dove si è disboscato e livellato il suolo in eccesso, favorendo il deflusso d’acqua verso valle, sia in pianura, in prossimità dei fiumi: «La gestione dei fiumi nel tempo ha favorito l’esposizione a certi fenomeni. Molti di questi fiumi sono di tipo pensile: significa che il livello del fiume adesso è sopra il piano campagna. Laddove sono stati costruiti degli argini e cedono, per tutta una serie di motivi, tutta la zona che sta intorno, essendo il livello dell’acqua più alto, si allaga». LEGGI TUTTO

  • in

    Per l’OMS il vaiolo delle scimmie non è più un’emergenza sanitaria internazionale

    Giovedì l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che la diffusione del vaiolo delle scimmie non è più un’emergenza sanitaria internazionale, cioè la definizione più grave per una minaccia di tipo sanitario fra quelle in uso. Il vaiolo delle scimmie è una malattia causata da un virus appartenente alla stessa famiglia del vaiolo, il virus MPXV (Monkeypox virus), ma che non va confusa con il ben più rischioso vaiolo, che è una malattia dichiarata eradicata nel 1980.L’OMS aveva dichiarato il vaiolo delle scimmie un’emergenza sanitaria internazionale lo scorso luglio, dopo che nel giro di un paio di mesi c’erano stati più di 10mila casi di contagio in circa 70 paesi in tutto il mondo. Negli ultimi mesi i contagi sono notevolmente diminuiti, anche grazie alle vaccinazioni per i soggetti più a rischio, fino a scomparire quasi del tutto, ha detto giovedì il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus.– Leggi anche: La pandemia da coronavirus non è più un’emergenza internazionale (AP Photo/Mary Altaffer, File) LEGGI TUTTO

  • in

    Se piove finisce la siccità?

    Le piogge delle ultime settimane hanno fatto aumentare la quantità d’acqua presente sia nei laghi che nei fiumi del Nord Italia. Per qualche giorno all’inizio del mese la portata del Po è molto aumentata lungo tutto il corso del fiume e il 10 maggio i livelli del lago Maggiore, di quelli di Como e d’Iseo erano sopra le medie stagionali. Grazie a queste precipitazioni la condizione di siccità che da più di un anno riguarda tutto il Nord, e il Piemonte in modo particolare, si è attenuata, portando benefici per le coltivazioni e le foreste e riducendo il bisogno di consumare acqua delle riserve per l’irrigazione per qualche settimana. Tuttavia non si può dire che la siccità sia finita.La siccità non è data da una semplice assenza o forte carenza di pioggia. Si sviluppa lentamente, con mesi di precipitazioni insufficienti associate a temperature particolarmente alte, e si risolve altrettanto lentamente, soprattutto se dura da tanto come quella attuale, che ha avuto origine alla fine del 2021, quando nevicò pochissimo sulle Alpi. «È probabile che fino a quest’autunno ci sarà ancora un deficit d’acqua», spiega Ramona Magno, ricercatrice dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e coordinatrice scientifica dell’Osservatorio Siccità: «Finché le riserve idriche non cominceranno a tornare alla normalità il problema rimarrà».Le riserve idriche non sono solo i laghi, ma anche le falde sotterranee e in generale la quantità d’acqua presente nel suolo. Perché tornino a riempirsi dopo una siccità prolungata servono precipitazioni nella media o abbondanti per un lungo periodo. Le piogge dell’ultimo periodo hanno sicuramente aumentato l’umidità del suolo, ma possono aver rimpinguato solo le riserve idriche più superficiali.Ramona Magno cura il bollettino mensile dell’Osservatorio Siccità di cui è appena uscito l’aggiornamento relativo al mese di aprile. Il rapporto segnala innanzitutto che, nonostante ora la situazione di molti grandi laghi non sia più preoccupante, il lago di Garda, il più grande dei laghi italiani, sia pieno per il 48,6 per cento («è un problema soprattutto per le aree agricole a valle», commenta Magno), e sottolinea che nel giro di qualche giorno l’aumento della portata del Po si è esaurito e ora i livelli d’acqua nel fiume sono tornati inferiori alla media di questo periodo dell’anno.– Leggi anche: Il piano per limitare gli sprechi d’acqua non sta andando come previstoIl bollettino contiene una serie di mappe che mostrano le condizioni di siccità in modi diversi. Per farsi un’idea della situazione Magno consiglia di osservare quelle basate sull’indice pluviometrico SPI (la sigla sta per l’inglese “Standardised Precipitation Evapotranspiration”), un valore che viene usato per rilevare le siccità meteorologiche, cioè quelle riduzioni delle precipitazioni al di sotto della media climatologica (almeno 30 anni) per un certo periodo in una determinata area. L’indice si basa sulla quantità di pioggia precipitata in uno o più mesi e quantifica di quanto è stata inferiore o superiore rispetto ai valori medi. La mappa che mostra l’SPI considerando il solo mese di aprile 2023 segnala perlopiù condizioni di siccità moderata e in poche zone: un po’ in Piemonte, lungo le coste della Romagna e nei vicini Appennini. È così appunto grazie alle piogge recenti.(Osservatorio Siccità)Tuttavia confrontando la mappa con una che invece mostra l’SPI calcolato tra il maggio del 2022 e il mese scorso, diventa evidente che la siccità non può considerarsi finita come potrebbe erroneamente suggerire la prima mappa. In Piemonte, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia ci sono in realtà zone in condizioni di siccità estrema per quanto poco è piovuto. «Le piogge di un mese non sono sufficienti per appianare il deficit del lungo periodo, la siccità idrologica», spiega Magno: i territori indicati in giallo, arancione e ancor di più rosso continuano a mostrare gli effetti della carenza d’acqua che dura da più di un anno.(Osservatorio Siccità)Un’altra mappa del rapporto mette insieme i valori sulle precipitazioni a quelli sulle temperature e mostra che le regioni che più hanno subìto l’effetto combinato di carenza di piogge e temperature maggiori della media sono Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna. Le alte temperature aumentano l’evaporazione dal suolo e la traspirazione delle piante, aggravando la carenza d’acqua.(Osservatorio Siccità)Le previsioni dei centri meteorologici europei dicono che da giugno ad agosto le temperature saranno probabilmente sopra la media in tutta l’Europa e in particolare in alcune zone già interessate dalla siccità: i paesi centro-occidentali e il Mediterraneo. Si prevede anche che saranno tre mesi più piovosi della media, ma bisogna ricordare che in generale in estate piove poco in Europa. Ancora per diversi mesi, aggiunge Magno, non si vedranno effetti legati a El Niño, quel complesso fenomeno climatico che avviene periodicamente nell’oceano Pacifico meridionale e che influenza gran parte del meteo terrestre: tornerà prossimamente secondo le valutazioni dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) dopo anni di La Niña, la fase opposta.«Da noi gli effetti si cominceranno a vedere verso la fine dell’anno e soprattutto l’anno prossimo», spiega Magno. Per via del Niño in molti paesi del mondo ci si aspetta un aumento delle temperature, anche in Europa, che si andrà a unire alla generale tendenza legata alla crisi climatica – a cui peraltro è stata ricondotta anche la siccità sia nell’Europa occidentale che in Nord Italia. Mentre l’influenza del Niño sulle precipitazioni in Europa non è ancora ben definita.Il dato apparentemente più positivo presente nel bollettino dell’Osservatorio Siccità riguarda la produzione di energia idroelettrica che nel mese di aprile è stata maggiore sia rispetto all’aprile del 2022 che a quello del 2021. Questo aumento però è stato possibile grazie alle alte temperature registrate sulle Alpi che hanno fatto fondere una buona percentuale della neve accumulatasi nei mesi invernali.Bisogna inoltre precisare che quest’anno di neve non se ne è accumulata moltissima. L’abbondante fusione di aprile e le nevicate limitate nei mesi precedenti sono la ragione per cui a metà aprile il deficit di neve accumulata sulle Alpi rispetto alla media dei precedenti 12 anni era del 67 per cento (la stima è stata fatta dalla Fondazione CIMA, Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, ente di ricerca nelle scienze ambientali), e del 73 per cento considerando solo il bacino del fiume Adige – che scorre vicino al lago di Garda.(Osservatorio Siccità)– Leggi anche: Perché l’alluvione in Emilia-Romagna è stata causata anche dalla siccità LEGGI TUTTO

  • in

    Perché alcuni cibi ci disgustano?

    Caricamento playerNelle settimane scorse è circolato molto sui social un test online (in inglese) che cerca di misurare e classificare tramite un’autovalutazione il disgusto per alcuni cibi sulla base dei diversi fattori specifici che lo attivano. Nel test, intitolato Food Disgust Test e sviluppato da una piattaforma (IDRlabs) che pubblica quiz tratti da articoli scientifici, viene chiesto di esprimere approvazione o disapprovazione riguardo a 32 affermazioni del tipo: “Trovo disgustoso mangiare formaggio a pasta dura dalla cui superficie sia stata rimossa la muffa” e “Trovo disgustoso mangiare pesce crudo come il sushi”, ma anche “non bevo dallo stesso bicchiere da cui ha bevuto qualcun altro”.Come specificato dagli autori, il test di sensibilità al disgusto alimentare ha soltanto un valore didattico e non diagnostico (obiettivo per cui è consigliabile rivolgersi eventualmente a specialisti della salute mentale). Ha generato comunque un certo interesse ed è stato ripreso da alcuni siti di informazione per l’opportunità che offre di riflettere su una delle emozioni primarie, il disgusto, e sui condizionamenti sociali, culturali e ambientali che subisce. Questi condizionamenti contribuiscono a determinare la variabilità individuale e collettiva del disgusto alimentare e ne fanno qualcosa di molto più complesso e diverso da un meccanismo evolutivo di difesa dall’ingestione di sostanze tossiche e nocive.Il test circolato su internet si rifà a una classificazione dei fattori di disgusto basata su otto gruppi distinti, proposta nel 2018 da una ricercatrice e un ricercatore del Politecnico federale di Zurigo (ETH), Christina Hartmann e Michael Siegrist. Entrambi si occupano di comportamento dei consumatori, la disciplina che attraverso diverse branche delle scienze sociali (psicologia, sociologia, economia comportamentale, antropologia sociale e altre) studia il modo in cui le emozioni e le preferenze dell’individuo e del gruppo influenzano i comportamenti negli acquisti.Negli studi di Hartmann e Siegrist il disgusto per un certo tipo di cibi o un altro non è inteso come qualcosa che è soltanto o presente o assente, ma come una ripugnanza che può variare di intensità a seconda dei casi. Una delle scale di sensibilità al disgusto alimentare da loro descritte è il grado di sensibilità alla carne animale, che determina la tendenza a provare disgusto per la carne cruda o per le parti degli animali mangiate meno comunemente (le frattaglie, per esempio). Una persona può gradire molto il sapore e la consistenza di una certa pietanza a base di un certo taglio di carne, ma avere un intenso disgusto per pietanze a base di altre parti e tessuti dello stesso animale.Dei diversi fattori di disgusto alimentare, scrivono Siegrist e Hartmann, si ritiene che la sensibilità alla carne sia tra quelli con una più forte base culturale. Per ragioni molto radicate, che possono a loro volta essere influenzate da argomenti relativi ad aspetti religiosi e morali, un certo numero di persone in una determinata società può trovare disgustoso e inaccettabile mangiare carne di animali che invece sono parte della cucina di altri paesi in altre culture.In altri studi sul disgusto alimentare, simili fattori basati su argomenti di ordine culturale e morale sono risultati influenti anche nel caso del disgusto per i prodotti ottenuti tramite nuove biotecnologie, come gli OGM, o per quelli di origine animale considerati inappropriati, come i prodotti a base di insetti. I ricercatori suggeriscono che per molte persone influenzate da questi fattori il disgusto sia tale da renderli sostanzialmente insensibili a eventuali argomenti basati su una valutazione dei rischi e dei benefici dell’introduzione di quegli alimenti.– Leggi anche: Le farine di insetti, spiegateIl genere di disgusto alimentare di cui si sono più occupati Hartmann e Siegrist è però quello alla base di variazioni individuali e di gruppo meno omogenee e prevedibili rispetto a quello mediato da fattori culturali più estesi e condivisi. È in particolare un disgusto attivato da segni che possono essere interpretati in modo diverso da persona a persona. La sensibilità alle muffe indicata da Siegrist e Hartmann come altro possibile fattore di disgusto, per esempio, è un esempio abbastanza chiaro di come un disgusto correlato alla possibile presenza di organismi patogeni possa emergere anche in presenza di muffe che non comportano rischi significativi per la salute.Il disgusto determinato dalla sensibilità alle muffe è un meccanismo di difesa normalmente attivo di fronte ad alimenti potenzialmente dannosi, e cioè quelli su cui si sviluppano muffe che potrebbero renderli non più buoni da mangiare. I formaggi freschi, per esempio, richiedono di essere mangiati entro poche settimane, prima che la muffa favorisca la proliferazione di batteri nocivi. In questo caso il disgusto alimentare è strettamente correlato al disgusto in quanto emozione primaria, in grado cioè di attivare un comportamento necessario alla sopravvivenza: non ingerire il cibo andato a male.– Leggi anche: Partiamo dalle BasiLo stesso disgusto può però manifestarsi anche quando la muffa non comporta concreti rischi per la salute, come nel caso di quella che a volte si forma sulla superficie di formaggi a pasta dura o semidura, come il formaggio svizzero o il cheddar. In questo caso è possibile mangiare il formaggio dopo aver rimosso la parte ammuffita, facendo attenzione a tagliarla via e non a raschiarla (azione che potrebbe aumentare il rischio di contaminare la parte non ammuffita). E ci sono poi anche alcuni tipi di muffe commestibili notoriamente utilizzate per produrre alcuni formaggi, come il Camembert, il Gorgonzola, lo Stilton o altri meno diffusi, che a seconda delle abitudini e dei gusti possono risultare deliziosi ad alcune persone ma sgradevoli ad altre.La ragione evolutiva del disgusto per questo tipo di alimenti è che il deterioramento del cibo, sia quello di origine animale che quello di origine vegetale, è spesso segnalato da cambiamenti di colore, consistenza, odore e sapore. E alimenti che presentano cambiamenti di questo tipo possono quindi indurre una reazione di disgusto, anche quando i cambiamenti non indicano necessariamente la presenza di agenti patogeni, come nel caso di un frutto la cui polpa diventa scura per effetto dell’ossidazione pur rimanendo del tutto commestibile.Un altro fattore di disgusto alimentare descritto da Siegrist e Hartmann non riguarda nemmeno dei cibi specifici bensì le condizioni igieniche relative alla loro preparazione o alla loro assunzione. Anche in questo caso il disgusto deriva da una predisposizione evolutiva a evitare o ridurre rischi di contaminazione del cibo. Ma la soglia di accettabilità delle condizioni igieniche può variare molto, sia tra una cultura e l’altra, sia da persona a persona, e quindi in presenza di pratiche e abitudini alimentari condivise (ci sono persone che non mangiano stuzzichini se sono serviti su un piatto comune, per esempio).Nella letteratura scientifica il disgusto è considerato un’emozione primaria che protegge l’organismo scoraggiando l’ingestione di cibi il cui sapore o aspetto è spesso associato alla presenza di agenti patogeni. Si è quindi evoluto in un meccanismo più complesso, che aiuta a regolare il comportamento in varie situazioni sociali e interpersonali, tenendo conto dei relativi costi e benefici nell’evitare determinati stimoli. E per questa ragione è possibile considerarla «un’emozione dei confini», come ha spiegato la dottoressa e psicoterapeuta Serena Barbieri del centro clinico Spazio FormaMentis di Milano, nel podcast del Post Le Basi, a cura di Isabel Gangitano.È un’emozione che ha originariamente a che fare con la ricerca e la disponibilità di risorse nutrienti necessarie alla sopravvivenza. Non essere abbastanza “disgustati” mentre ci si muove all’interno di un ambiente potrebbe portare a ingerire sostanze nocive. Ma esserlo troppo – non mangiare un frutto un po’ ammaccato – potrebbe limitare le opportunità di nutrimento.Come ricordato dalla neuroscienziata canadese Rachel Herz, esperta nella psicologia degli odori e autrice del libro Perché mangiamo quel che mangiamo, il disgusto è l’unica emozione di base che deve essere «appresa», calibrando la propria reazione agli stimoli sulla base di regole e risposte condivise dai genitori, dagli altri membri del gruppo e dalla cultura in generale. E questa eredità culturale subisce l’influenza dell’ambiente.– Leggi anche: Perché ci piacciono i saponi che sanno di vaniglia e cioccolatoMolti degli alimenti che possono dare disgusto sono quelli ottenuti tramite la fermentazione, il processo in cui gli enzimi di alcuni microrganismi – batteri e funghi, in particolare lieviti e muffe – scompongono lo zucchero presente in un cibo in altre sostanze. È uno dei metodi di conservazione più antichi e relativamente economici al mondo, perché non prevede l’utilizzo di sale o di spezie ma soltanto l’assenza di ossigeno e il passare del tempo.Una delle ragioni per cui alcuni alimenti significano molto per determinate comunità è che contengono qualcosa di essenziale della flora o della fauna di una certa regione, ha scritto Herz. E lo stesso vale per i microrganismi che rendono possibile la fermentazione dei cibi, che variano notevolmente da una parte all’altra del mondo. I batteri utilizzati nella produzione del Kimchi, un piatto coreano a base di cavolo e ravanelli fermentati, non sono gli stessi utilizzati per produrre il formaggio Roquefort.Il disgusto è stato condizionato nel tempo anche dalla disponibilità di nuovi metodi, tecniche e strumenti di conservazione del cibo, dalla pastorizzazione ai frigoriferi, che hanno reso certi tipi di fermentazione meno necessari e diminuito la familiarità delle persone con certi sapori.In uno studio di antropologia, biologia e psicologia pubblicato nel 2021 sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori analizzarono i comportamenti di disgusto tra gli Shuar, un popolo indigeno che abita nella regione amazzonica dell’Ecuador e del Perù. E scoprirono che i membri dei gruppi e delle famiglie meno isolate e più integrate nella moderna economia di mercato – quelli che vivevano non di agricoltura, pesca e caccia, ma con un lavoro salariato o vendendo prodotti agricoli – avevano più alti livelli di sensibilità al disgusto, più probabilità di evitare cibo avariato e un minor numero di infezioni batteriche, virali e parassitarie.– Leggi anche: Il gusto del marcio LEGGI TUTTO