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    L’estensione invernale del ghiaccio marino in Antartide è stata molto minore del solito

    Secondo un’analisi preliminare del Centro dati nazionale sulla neve e i ghiacci degli Stati Uniti (NSIDC), a settembre il massimo di estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide è stato il più basso mai registrato. Il nuovo record, che dovrà essere confermato da altre analisi i cui risultati sono previsti per inizio ottobre, si aggiunge alle rilevazioni svolte nell’ultimo periodo che hanno segnalato un periodo di sensibile riduzione nella presenza di ghiaccio in Antartide, con conseguenze che si estendono oltre quelle per gli ecosistemi del continente.A settembre il ghiaccio marino antartico raggiunge il proprio massimo, più o meno in corrispondenza con la fine dell’inverno nell’emisfero australe. L’andamento è infatti ciclico e legato alle stagioni: il minimo della copertura si registra a febbraio con l’estate antartica, quando fonde una parte del ghiaccio, che inizia poi a riformarsi nei mesi seguenti fino al picco di settembre.La linea gialla mostra la media del massimo di copertura di ghiaccio marino nel periodo 1981-2010, in bianco la copertura rilevata il 10 settembre scorso (NSIDC)In media tra il 1981 e il 2010 la copertura massima di ghiaccio marino è stata di 18,7 milioni di chilometri quadrati. A settembre di quest’anno il massimo è stato invece di 16,9 milioni di chilometri quadrati, registrato il 10 di settembre: in sensibile anticipo rispetto al solito e senza riscontrare ulteriori aumenti nei giorni seguenti. Il nuovo record è di circa un milione di chilometri quadrati inferiore rispetto al precedente minimo nella stagione di picco rilevato nel 1986.Estensione del ghiaccio marino tra giugno e ottobre in Antartide (NSIDC)Secondo i gruppi di ricerca, le cause sono probabilmente riconducibili ad alcune condizioni del meteo nelle ultime settimane (specialmente nell’area del Mare di Ross, la grande baia nella parte meridionale dell’Antartide) e agli effetti del riscaldamento globale. Saranno necessarie altre analisi per confermare il ruolo del cambiamento climatico, ma la perdita di ghiaccio è comunque in linea con i modelli che studiano gli effetti dovuti all’aumento della temperatura media ai poli. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico potrebbe aver reso più probabile l’alluvione in Libia

    Caricamento playerSecondo un primo studio scientifico, la possibilità che nel nord-est della Libia piovesse come nella notte tra il 10 e 11 settembre è stata resa 50 volte più probabile dal cambiamento climatico causato dalle attività umane. In altre parole, le alluvioni causate dalla tempesta Daniel sono legate al modo in cui l’umanità ha modificato l’atmosfera terrestre: è la conclusione di 13 scienziati della World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra ricercatori esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, nata per rispondere in modo rapido alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” quando si verifica un evento meteorologico estremo.Decenni di studi di climatologia dicono che una delle conseguenze del riscaldamento globale è l’aumento della frequenza di alcuni fenomeni, come precipitazioni particolarmente intense e siccità in diverse parti del pianeta. Ma solo confrontando i dati su un particolare evento con le statistiche del passato è possibile dire quali eventi meteorologici estremi abbiano davvero un legame con il cambiamento climatico. I risultati di questo primo studio vanno in questa direzione e sebbene ci siano ampie incertezze contestualizzano un po’ ciò che è successo rispetto al clima.Per la tempesta che ha interessato la Libia, e che prima aveva causato intense piogge anche su Grecia, Bulgaria e Turchia, gli scienziati della WWA hanno usato delle simulazioni: hanno confrontato la probabilità che un tale evento di precipitazione avvenga col clima attuale con quella che avrebbe avuto col clima di 200 anni fa, prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane riscaldassero l’atmosfera. Rispetto a quell’epoca la temperatura media globale è aumentata di 1,2 °C.Gli scienziati hanno condotto analisi diverse per la Libia da una parte e per la Grecia, la Bulgaria e la Turchia dall’altra, dato che si tratta di zone geografiche con caratteristiche diverse, per quanto affacciate sul mar Mediterraneo.Per la Libia la quantità di pioggia caduta tra il 10 e l’11 settembre è piuttosto straordinaria, «estremamente insolita» anche per il clima attuale, secondo lo studio: statisticamente ha una probabilità di verificarsi una volta ogni 3-6 secoli. In epoca pre-industriale tuttavia era ancora meno probabile. Le alluvioni generate hanno provocato la morte di più di 11mila persone secondo le stime della Mezzaluna Rossa (come si chiama la Croce Rossa nei paesi arabi), anche per via del cedimento di due vecchie dighe maltenute e in conseguenza del contesto politico instabile della Libia.Secondo lo studio della WWA, anche le precipitazioni come quelle che ci sono state in Grecia, Turchia e Bulgaria, e che complessivamente hanno causato la morte di almeno 28 persone, sono state rese più probabili dal cambiamento climatico: di 10 volte. Col clima attuale, per questi territori dobbiamo aspettarci che precipitazioni simili siano relativamente comuni: lo studio dice che c’è il 10 per cento di probabilità che accadano ogni anno.Lo studio ha dei limiti perché i modelli climatici di cui disponiamo sono molto efficaci nel descrivere eventi atmosferici su larga scala, meno quando si studiano territori circoscritti come quelli interessati dalle recenti alluvioni. Gli scienziati della WWA sono tuttavia piuttosto sicuri che il cambiamento climatico abbia avuto un’influenza su questi eventi, perché le proiezioni climatologiche per questa parte del Mediterraneo prevedono un aumento delle precipitazioni con l’aumento delle temperature, già rilevato nei dati degli ultimi anni.La World Weather Attribution (WWA) fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica possa rispondere il più velocemente possibile alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che giornalisti e altre persone di tutto il mondo si chiedono se un certo evento meteorologico abbia un legame con il riscaldamento globale.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati senza essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Tra gli enti che collaborano alla WWA ci sono l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Gli scienziati che collaborano agli studi dell’iniziativa lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO

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    La scomparsa dei crateri

    Caricamento playerFlagstaff è una città al centro dell’Arizona (Stati Uniti), ci vivono circa 66mila persone e non ha particolari attrattive se non quella di essere una delle vie di accesso per raggiungere il Grand Canyon, a un’ora di auto più a nord. L’enorme gola è la principale attrazione turistica nella zona, una delle migliori e più evidenti testimonianze dei lenti processi geologici che in milioni di anni plasmano la Terra. Ma c’è un’altra attrazione meno nota una sessantina di chilometri a est di Flagstaff che mostra invece come una grande area del nostro pianeta possa cambiare in pochi istanti. È il Meteor Crater, un grande cratere largo 1,2 chilometri e profondo 170 metri che si formò in seguito all’impatto di un meteorite circa 50mila anni fa.Il cratere si formò quando l’altopiano del Colorado aveva un clima più fresco e umido dell’attuale: era un ampio pianoro erboso popolato da molti animali compresi i mammut. Un giorno in cielo apparve una grande meteora, probabilmente con un diametro di una cinquantina di metri, che iniziò a sgretolarsi nell’atmosfera prima di raggiungere il suolo ad alta velocità. L’energia liberata al momento dell’impatto fu enorme (10 megatoni), produsse un’ampia depressione con un margine alto una sessantina di metri, un effetto che ricorda quello che si osserva nell’acqua nei primi istanti dopo aver lanciato un sasso in una pozzanghera.Complice la sua giovane età, il Meteor Crater è considerato uno dei crateri meglio conservati della Terra, anche se i processi di erosione hanno fatto sì che le creste lungo la sua circonferenza perdessero una ventina di metri di altezza. Lentamente, ma inesorabilmente, il cratere continuerà a modificarsi fino a diventare sempre meno visibile. Accadrà in tempi lunghissimi per noi umani, ma relativamente brevi per i processi geologici che in milioni di anni cambiano il nostro pianeta. E sono proprio questi fenomeni a rendere difficile lo studio degli impatti con meteoriti che hanno riguardato la Terra e che potrebbero aiutarci a comprendere molte cose del suo passato.(NASA)Uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Geophysical Research: Planets ha segnalato che le tracce dei crateri più antichi, dunque molto più vecchi rispetto al Meteor Crater, stanno scomparendo e sono ormai difficili da studiare. Secondo l’analisi, i crateri più vecchi di due miliardi di anni sono probabilmente ormai indistinguibili dalle altre formazioni rocciose, soprattutto a causa dei fenomeni di erosione naturale. Due miliardi di anni sono una dimensione temporale difficile da immaginare per i nostri tempi umani, ma non sono moltissimi per un pianeta come il nostro che ha circa 4 miliardi e mezzo di anni.La ricerca cita in particolare il caso del cratere Vredefort, il più grande cratere meteoritico conosciuto della Terra, che si trova in Sudafrica. Quando si formò a causa del grande impatto, la struttura aveva un diametro massimo stimato tra i 180 e i 300 chilometri. Si formò poco più di due miliardi di anni fa nel Paleoproterozoico, la prima delle tre ere geologiche del Proterozoico, in cui i continenti iniziarono a stabilizzarsi e iniziarono a emergere i primi lontani parenti degli eucarioti, che avrebbero poi portato a buona parte delle forme di vita che conosciamo oggi.Ciò che resta del cratere Vredefort (NASA)Secondo i calcoli dello studio se il cratere si fosse formato 200 milioni di anni prima, oggi non sarebbero più visibili le sue tracce, già ampiamente ridotte rispetto a quanto poteva essere osservato nei milioni di anni dopo l’impatto. Il fatto che i crateri scompaiano non è certo una novità, ma soffermarsi sulle implicazioni del fenomeno può aiutare a mettere nella giusta prospettiva un pezzo importante della storia del pianeta.I dati satellitari, le ricognizioni aeree e lo studio dei minerali hanno permesso di identificare con certezza circa 200 crateri dovuti a un impatto con un meteorite. I più antichi hanno intorno ai 2 miliardi di anni, proprio come nel caso del cratere Vredefort, ma secondo gli autori dello studio è probabile che i crateri siano molti di più. Non sappiamo di preciso dove avvennero alcuni degli impatti più importanti, ma sappiamo che si sono verificati perché ancora oggi possiamo riscontrarne gli effetti per lo meno indiretti.Per capire quando l’erosione fa sì che un cratere non possa essere più definito tale, semplicemente perché sono scomparse le sue strutture più rilevanti e si sono modificate le caratteristiche geologiche del territorio interessato, il gruppo di ricerca ha studiato il cratere Vredefort, concentrandosi sui minerali che si trovano nella zona dell’impatto. I ricercatori hanno raccolto campioni per 20 chilometri, mettendo a confronto le caratteristiche fisiche delle rocce presenti nel cratere con quelle che non avevano invece subito gli effetti dell’impatto, con la produzione di alte temperature che modificano la struttura dei minerali.Dal confronto è emerso che ormai le rocce legate all’impatto sono indistinguibili da quelle che non erano state coinvolte dall’arrivo del meteorite. Nel corso di miliardi di anni di piogge, vento, altri processi di erosione e geologici le differenze sono scomparse. «A un certo punto, perdiamo tutte le caratteristiche che rendono un cratere un cratere» ha spiegato uno degli autori della ricerca.Su una scala ancora più grande del cratere Vredefort, la ricerca segnala che probabilmente una parte rilevante della storia geologica del nostro pianeta è persa per sempre. La riduzione delle differenze tra aree di impatto e non, fino al loro azzeramento, è la causa principale della grande difficoltà nell’identificare zone di impatto molto antiche che potrebbero aiutare i gruppi di ricerca a comprendere altri processi. Gli impatti non solo determinarono il repentino cambiamento di ampie aree, ma ebbero probabilmente un influsso sulla formazione dei primi esseri viventi, senza contare eventi più catastrofici come quello legato all’estinzione dei dinosauri, forse il caso di impatto meteoritico più conosciuto e ancora oggi molto discusso.È probabile che crateri molto antichi siano sommersi nelle profondità oceaniche, dove la raccolta dei minerali per compiere analisi e fare confronti è più difficoltosa e richiede importanti investimenti economici. I sistemi per rilevare a distanza le caratteristiche dei fondali, nell’ambito dei progetti per mapparli, offrono talvolta indizi sulla presenza di siti anticamente interessati da un impatto meteoritico. Come mostra il caso di Vredefort, comunque, più si va indietro nel tempo più diventa difficile distinguere quelle zone.Il cratere lunare Shackleton (NASA)Per trovare nuovi spunti di ricerca e comprendere meglio le caratteristiche dei crateri alcuni gruppi di ricerca preferiscono guardare verso l’alto, spingendosi oltre l’atmosfera terrestre. La Luna, il nostro satellite naturale, è famosa per avere una grande quantità di crateri che si sono formati in seguito a impatti con meteoriti di varie dimensioni. A differenza della Terra, la Luna ha un’atmosfera del tutto trascurabile ed è quindi meno interessata dai processi di erosione, circostanza che porta i suoi crateri a non modificarsi più di tanto nel corso del tempo. LEGGI TUTTO

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    La tempesta delle alluvioni in Libia era un “medicane”?

    Le gravi alluvioni in Libia che secondo le autorità della parte orientale del paese hanno causato la morte di più di 3mila persone sono dovute alla tempesta Daniel, che in precedenza era passata sulla Grecia, provocando anche lì grandi allagamenti. Nell’attraversare il mar Mediterraneo la tempesta è probabilmente diventata più intensa, tanto che se ne è parlato come di un possibile ciclone simil-tropicale, o medicane (che si pronuncia “medichein”), un raro tipo di perturbazione che ha caratteristiche simili agli uragani, le tempeste che tipicamente colpiscono la costa orientale del Nord America. Pare tuttavia che non sia stato il caso di Daniel.Full timelapse of Storm #Daniel ⛈️Daniel brought devastating flooding to central Greece as the system stalled in the Mediterranean Sea.When the system finally moved south, it strengthened into a Medicane tropical-like system before landfalling near Benghazi, Libya. pic.twitter.com/nCs0icxua3— Zoom Earth (@zoom_earth) September 10, 2023L’espressione “ciclone simil-tropicale” è usata in meteorologia per descrivere delle tempeste che avvengono nel bacino del mar Mediterraneo, ma anche sul mar Nero, che condividono alcune caratteristiche con le tempeste tropicali e gli uragani, pur avendo dimensioni molto minori. “Medicane” invece è una crasi delle parole “mediterranean” e “hurricane” e per questo si pronuncia all’inglese. Nella comunità scientifica è un termine meno usato rispetto a “ciclone simil-tropicale”, e più o meno sono usati come sinonimi.I medicane hanno una forma simile a quella delle tempeste tropicali che si formano negli oceani, cioè spirali con un occhio al centro, ma al di là delle dimensioni i due fenomeni si differenziano per la loro diversa origine.Le tempeste tropicali nascono quando gli strati d’acqua superficiali dell’oceano hanno temperature particolarmente elevate, pari o superiori ai 26 °C. In queste condizioni, l’evaporazione aumenta e così la quantità di vapore acqueo presente nell’atmosfera. Il vapore poi condensa in grandi nubi: rilascia calore, produce un abbassamento della pressione e un’intensificazione del vento vicino alla superficie del mare. L’intera sequenza si ripete in un processo a catena creando la tempesta.I medicane invece non si formano a causa delle condizioni marine. La loro origine è atmosferica: si generano quando si incontrano una massa d’aria calda tipicamente di origine subtropicale e una massa d’aria fredda tipicamente di origine subpolare. Assumono però caratteristiche simili alle tempeste tropicali perché quando passano sul mare la loro parte centrale, più calda, “si carica” dell’acqua che evapora e la trasporta con sé. A quest’acqua si devono poi le precipitazioni legate alla tempesta.Non avendo origine marina, i medicane si verificano anche quando le temperature marine di superficie sono più basse, comprese tra i 15 e i 26 °C. È comunque più probabile che si formino in autunno, quando il mare risente ancora del riscaldamento estivo. Generalmente non sono più di uno o due all’anno e finora nel 2023 non ce n’è stato nessuno accertato.Nel caso di Daniel sembra che non si siano verificate condizioni tali da poter parlare di medicane (non tutti i cicloni del Mediterraneo lo diventano) secondo Sante Laviola, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR).La tempesta Daniel, la cui dinamica precisa è ancora in corso di analisi, è stata molto intensa a causa del cosiddetto “blocco a omega” che negli ultimi giorni si è manifestato in Europa, spiega Sante Laviola: «È una struttura atmosferica con una forma che ricorda la lettera greca omega: nelle pieghe dell’omega, la sua parte inferiore, ci sono zone di bassa pressione, mentre nella parte centrale una zona di alta pressione. Noi in Italia eravamo nella zona di alta pressione, quindi abbiamo avuto bel tempo. Nella parti estreme, la Grecia da una parte, e la Spagna e il Portogallo dall’altra, ci sono stati bassa pressione e temporali». La zona di alta pressione è quella a cui si devono le alte temperature raggiunte sulle Alpi, che in alcuni casi hanno battuto dei record raggiunti nell’estate del 2003 e in quella del 2022, entrambe ricordate per il caldo estremo.The current #weather situation in Europe is a textbook Omega block. While central Europe will “enjoy” a #heatwave, Greece will face a #medicane with disastrous damages due to heavy rain and #floods fueled by an extremely hot #MediterraneanSea. #ClimateEmergency #heavyrain pic.twitter.com/qtkNTX9ZLg— Dr. Monica Ionita 🇷🇴 🇩🇪 🇪🇺🌡🌧💧🔥🌊 (@IonitaMoni) September 5, 2023Si parla di blocco a omega perché in concreto quello che succede è che la zona di alta pressione, cioè l’anticiclone, blocca per un periodo di tempo piuttosto lungo le perturbazioni delle pieghe dell’omega.Giulio Betti, meteorologo del CNR e del Consorzio LaMMA, il Laboratorio di monitoraggio e modellistica ambientale della Regione Toscana, aggiunge: «Quello che colpisce dei fenomeni degli ultimi giorni è la durata causata dalla configurazione a omega, che probabilmente è favorita dal cambiamento climatico. Le ondate di calore e gli anticicloni di blocco, come quelli che hanno fatto superare i record termici in Canada nel 2021 e che hanno causato la siccità nel 2022, sono favoriti dal cambiamento climatico».Per quanto riguarda i medicane, stando agli studi disponibili, con il cambiamento climatico potrebbero diventare meno frequenti ma più intensi in caso di formazione. È la stessa previsione che è stata fatta anche per gli uragani. Infatti il riscaldamento dell’atmosfera (dovuto alle emissioni di gas serra delle attività umane) dovrebbe indebolire i movimenti di aria fredda che contribuiscono alla formazione dei cicloni simil-tropicali, ma al tempo stesso le maggiori temperature marine dovrebbero aumentare l’evaporazione e quindi la quantità d’acqua trasportata dai cicloni che comunque continueranno a formarsi.Prossimamente sarà possibile avere più informazioni sulla tempesta Daniel e fare analisi più approfondite. Sicuramente ha causato raffiche di vento molto forti: da 160 chilometri orari, una velocità maggiore rispetto a quella raggiunta dalle raffiche del medicane Apollo, che tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 2021 arrivò in Sicilia. Furono più forti invece le raffiche del medicane Ianos, che interessò la Grecia nel settembre del 2020: raggiunsero i 190 chilometri orari.Il ciclone Daniel si è intensificato attraversando il Mediterraneo perché lì ha raccolto molto vapore acqueo dagli strati superficiali del mare, che essendo caldi causavano una notevole evaporazione. I grandi danni in Libia sono stati causati principalmente dal crollo di alcune dighe e ora la tempesta si sta spostando sull’Egitto, ma dato che non si trova più sul mare si sta esaurendo: l’energia delle tempeste infatti deriva dagli scambi con il mare e diminuisce quando questi fenomeni sovrastano la terraferma. LEGGI TUTTO

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    La formica di fuoco è arrivata in Europa, in Sicilia

    In un’area di 4,7 ettari in provincia di Siracusa, in Sicilia, sono stati trovati 88 diversi nidi di formica di fuoco (Solenopsis invicta), una delle specie più invasive al mondo: è la prima volta che la sua presenza viene individuata in Europa. È infatti una specie animale aliena, o alloctona, che l’azione diretta o indiretta delle persone ha spostato in zone diverse rispetto al suo ambiente abituale. Originarie del Sud America, le formiche di fuoco sono arrivate in Australia, Cina, Caraibi, Messico e Stati Uniti in meno di un secolo: potrebbero potenzialmente diffondersi in modo molto rapido in Italia come nel resto d’Europa, con possibili impatti gravi su ecosistemi e agricoltura. La velocità della diffusione della specie è dovuta alla creazione di cosiddette supercolonie, che prevedono la presenza di più formiche regine.– Ascolta anche: Storie di granchi blu e altre specie invasive, nell’ultima puntata di Ci vuole una scienzaLa presenza in Europa delle formiche di fuoco è stata certificata in uno studio pubblicato sulla rivista Current Biology e condotto dall’Istituto spagnolo di Biologia evoluzionistica, in collaborazione con l’Università di Parma e l’Università di Catania. In precedenza i ricercatori avevano trovato formiche di fuoco in prodotti importati in Spagna, Finlandia e Paesi Bassi, ma non era mai stata individuata una colonia sul territorio europeo. Quella siciliana, secondo le analisi genetiche, potrebbe essere composta da insetti provenienti da Stati Uniti o Cina.Le formiche di fuoco sono di colore bruno rossastro e hanno una lunghezza che va dai 2 ai 4 millimetri. Sono dotate di un pungiglione velenoso, che provoca punture molto dolorose, simili a una scottatura con una piccola fiamma, caratteristica da cui hanno preso il nome. Secondo lo studio gli abitanti della zona della provincia di Siracusa dove sono stati trovati i nidi segnalano punture di questo tipo già del 2019, cosa che fa pensare che l’ampiezza delle colonie potrebbe essere anche superiore a quella stimata.(Wikicommons)Uno degli autori dello studio, Mattia Menchetti dell’Istituto spagnolo di Biologia evoluzionistica (IBE), ha spiegato all’Ansa che i «principali tipi di danni per l’uomo riguardano le apparecchiature elettriche e di comunicazione, e l’agricoltura». Le formiche di fuoco possono infatti infestare apparecchiature elettriche presenti anche in automobili e computer, possono danneggiare i raccolti ma soprattutto hanno un impatto sulle specie autoctone degli ecosistemi in cui si diffondono: «È un predatore generalista, e nei luoghi in cui si insedia causa la diminuzione della diversità di invertebrati e piccoli vertebrati».Secondo uno studio pubblicato su Nature la formica di fuoco è la quinta specie invasiva per danni economici causati nel mondo: negli Stati Uniti sono stati stimati in 6 miliardi di dollari ogni anno. Secondo lo studio dell’IBE, anche in ragione del riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra dovute alle attività umane, il 7 per cento del territorio europeo e il 50 per cento delle città del continente presentano un ambiente con condizioni adatte alla diffusione della specie, che predilige i climi caldi. La Regione Sicilia ha messo in atto un piano di monitoraggio e di eradicazione di questa specie di formica: come per altre specie alloctone questa operazione può però essere complessa.– Ascolta anche: Vicini e lontani, un podcast sulle specie aliene LEGGI TUTTO

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    Lo sci e il cambiamento climatico

    Negli ultimi dieci anni un gruppo di scienziati francesi e austriaci ha cercato di capire quale sarà il futuro dello sci in Europa considerate le conseguenze del cambiamento climatico. Il gruppo ha stimato che senza la neve artificiale più della metà delle stazioni sciistiche europee si troverà in condizioni di scarsità di neve un anno su due a meno che non si applichino in tempi rapidi politiche di transizione energetica molto più decise di quelle di oggi. La previsione, spiegata in un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, riguarda lo scenario in cui la temperatura media globale supererà di almeno 2 °C quella dell’epoca preindustriale, cioè prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane causassero l’attuale riscaldamento del pianeta.L’accordo internazionale sul clima di Parigi del 2015 aveva fissato come obiettivo più ottimista 1,5 °C in più rispetto ai livelli preindustriali, e come obiettivo secondario 2 °C. La comunità scientifica ritiene ormai irrealistico il primo obiettivo, perché le politiche di transizione energetica introdotte finora non sono state abbastanza decise. Con quelle attuali, senza ulteriori cambiamenti, si prevede un aumento di 3 °C entro la fine del secolo.Lo studio sulle piste da sci europee è stato fatto innanzitutto perché il turismo invernale legato a questo sport è un importante settore economico per l’Europa: circa la metà delle stazioni sciistiche del mondo si trova nel continente e il 43 per cento delle giornate di sci che vengono praticate ogni anno avviene sulle Alpi.La possibilità di sciare però è legata al clima, prima di tutto perché la neve si conserva sulle piste solo al di sotto di certe temperature. In caso di assenza prolungata di precipitazioni – come quella che c’è stata con la siccità tra il 2021 e il 2023, peraltro legata al cambiamento climatico – la neve può essere assente. Si può rimpiazzarla con quella prodotta artificialmente, che però richiede molta acqua e particolari condizioni di temperatura e umidità nell’ambiente.Il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi e altre montagne europee sono state coperte di neve è già diminuito nell’arco dell’ultimo secolo. Erano già state fatte delle ricerche per studiare l’impatto del cambiamento climatico sul turismo sciistico, ma nessuna finora aveva tenuto in considerazione il contributo della neve artificiale e analizzato tutte le montagne europee insieme. Il nuovo studio, che si basa su modelli statistici, ha invece preso in considerazione 2.234 stazioni sciistiche, rappresentative di tutte le montagne europee in cui si scia, e nelle stime ha tenuto conto dell’uso della neve artificiale.Nello studio le condizioni di scarsità di neve sono state definite come quelle medie che si sono verificate nei 6 anni peggiori per la presenza di neve nel periodo considerato, dal 1961 al 1990. Il turismo sciistico si considera ad «alto rischio» se le previsioni indicano che ogni due inverni su cinque ci sarà scarsità di neve.Lo studio parla invece di «rischio molto alto» se è prevista scarsità di neve ogni due anni. Quest’ultima condizione è quella anticipata per più della metà (il 53 per cento) delle stazioni sciistiche europee se si raggiungeranno i 2 °C sopra i livelli preindustriali, senza considerare il contributo della neve artificiale.Se il pianeta si riscalderà di più, e raggiungerà i 4 °C di temperatura media sopra i livelli preindustriali, sarà il 98 per cento delle stazioni sciistiche a essere a «rischio molto alto» in assenza di neve artificiale.Nei due scenari climatici futuri, se si tiene conto del contributo della neve artificiale, le prospettive per la pratica dello sci migliorano: considerando di produrre la metà della neve sulle piste in modo artificiale le stazioni a «rischio molto alto» si riducono al 27 per cento nel caso di un aumento di temperatura media di 2 °C, e al 71 per cento nel caso che l’aumento sia di 4°C. Per produrre la neve artificiale servono però acqua ed energia elettrica, e quindi non è detto che in futuro sarà possibile e raccomandabile procedere in questo modo per garantire la possibilità di sciare.Considerando solo gli Appennini, lo studio prevede condizioni di «rischio molto alto» in tutti gli scenari climatici futuri, compreso quello di soli 1,5 °C sopra ai livelli preindustriali, anche a fronte di un’intensissima produzione di neve artificiale. In sostanza dice che non si potrà più sciare sugli Appennini.Per quanto riguarda le stazioni sciistiche sulle Alpi italiane, che raggiungono altitudini molto maggiori, lo studio prevede invece rischi minori. Nello scenario dei 2 °C non si potrà fare a meno della neve artificiale, ma prevedendo di usarla per innevare solo un quarto delle piste il rischio è «moderato»: solo un terzo degli inverni sarebbe a rischio di scarsità di neve. Già con un aumento di 3 °C tuttavia anche lo sci sulle Alpi risulterebbe molto compromesso e richiederebbe un uso molto maggiore di neve artificiale, che a un certo punto non sarebbe in grado di compensare all’assenza di quella naturale.Queste stime ovviamente sono medie e non riguardano dunque per forza ogni singola stazione sciistica, ma nel complesso non sono positive per la pratica dello sci. Lo studio non prevede «la fine immediata del turismo sciistico in Europa», ha detto uno dei suoi autori, il climatologo Samuel Morin, ricercatore di Météo-France e del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano: «ma condizioni sempre più difficili per tutte le stazioni sciistiche, alcune delle quali arriveranno, nel giro di qualche decennio, a un’offerta di neve criticamente bassa per poter operare come oggi».– Leggi anche: Quando potremmo superare il limite di 1,5 °C? LEGGI TUTTO

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    Il Mediterraneo più caldo causa temporali più intensi

    Caricamento playerIn questi giorni il Nord Italia e la Sardegna sono interessati dall’ennesima serie di precipitazioni e grandinate dell’estate, che tra le altre cose hanno causato una frana per cui è stato chiuso un tratto dell’autostrada A43 e interrotto il traffico ferroviario di collegamento diretto con la Francia. Fenomeni meteorologici di questo tipo ci sono sempre stati durante la stagione estiva, tuttavia l’aumento della loro intensità negli ultimi anni è associato dalla comunità scientifica alle maggiori temperature dell’acqua del mar Mediterraneo, a loro volta dovute al più ampio riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra umane.I temporali estivi si formano quando grandi masse di aria calda si spostano dalla parte più bassa dell’atmosfera (quella vicino al suolo o alla superficie del mare) verso l’alto portandosi dietro l’acqua evaporata, e poi incontrando masse d’aria più fredda: il vapore acqueo condensa, creando particelle d’acqua liquida e quindi nubi, che causano precipitazioni temporalesche la cui intensità è legata alla differenza di temperatura tra le masse d’aria coinvolte. Per questo la temperatura superficiale del mar Mediterraneo influenza i temporali: tanto più è alta, maggiore è l’acqua evaporata e l’energia che alimenta i fenomeni atmosferici.Ciò che sta cambiando in questi anni è che, contestualmente al cambiamento climatico dovuto alle attività umane, non stanno aumentando solo le temperature medie dell’atmosfera ma anche quelle degli strati più superficiali degli oceani e dei mari. Il Mediterraneo è uno dei bacini che si stanno scaldando più velocemente sul pianeta e a questo si devono i temporali più intensi (e forse un aumento delle grandinate).La tempesta di questi giorni – indicata col nome ufficiale Rea dal Servizio meteorologico dell’Aeronautica militare, anche se alcuni giornali usano il nome Poppea scelto dal sito ilMeteo – è dovuta all’arrivo di un fronte di aria fredda da ovest che ha raggiunto la Sardegna e la Liguria nel fine settimana. Causerà precipitazioni fino a mercoledì, in particolare sulle regioni centrali, sulla Campania e sulla Calabria, e mareggiate in Sardegna e nel Tirreno centro-meridionale.In un’intervista con il Corriere della Sera il climatologo Massimiliano Pasqui, ricercatore dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), ha detto che ultimamente sulla superficie del Tirreno settentrionale, cioè proprio il mare su cui si affaccia la Liguria, sono state registrate temperature superiori ai 27 °C. Sono «3-4 gradi sopra la media del periodo» e «anche se può sembrare poco, dal punto di vista dell’energia sprigionata è tanto». «Sono temperature da mari tropicali», ha spiegato Pasqui, «per dire: ai Caraibi siamo sui 30 gradi».Il vortice centrato sul golfo Ligure. Fino a domani, martedì, marcata instabilità con rovesci e temporali sparsi al Nord (soprattutto Nord Est) e sulle regioni centrali. Fenomeni possibili, ma meno frequenti, anche sul basso v. Tirrenico e sulla Sicilia settentrionale. 1/2 pic.twitter.com/hGnhqTJ23w— Giulio Betti (@Giulio_Firenze) August 28, 2023Il 2023 finora è stato un anno di record di temperature per gli oceani e i mari. Il 24 luglio una boa nella Baia dei Lamantini, circa 65 chilometri a sud di Miami, in Florida, registrò 38,4 °C, che potrebbe essere la più alta temperatura marina mai rilevata. Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile invece la media globale della temperatura marina superficiale aveva raggiunto il valore più alto mai registrato (21,05 °C) secondo i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia. Lo stesso valore di temperatura globale è stato raggiunto la scorsa settimana, tra lunedì e mercoledì, probabilmente anche per via di El Niño, quel fenomeno atmosferico dell’oceano Pacifico che tra le altre cose contribuisce all’aumento della temperatura media globale.Sempre il 24 luglio i satelliti di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, avevano rilevato temperature superiori anche di 5 °C alla media dei decenni passati per lo stesso periodo in gran parte del Mediterraneo.(Unione Europea, dati del Copernicus Marine Service)– Leggi anche: Cosa comporta il riscaldamento del mar Mediterraneo LEGGI TUTTO

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    L’uccello a rischio di estinzione alle Hawaii

    Oltre ad aver provocato la morte di oltre 110 persone e danni a centinaia di edifici, i recenti incendi boschivi a Maui, nell’arcipelago statunitense delle Hawaii, hanno complicato le attività per la salvaguardia di una specie di uccelli a grave rischio di estinzione: gli ʻakikiki.Al momento in natura ne esistono solo cinque, sulla vicina isola di Kauai, mentre alcuni delle poche decine allevate in cattività hanno rischiato di morire quando un albero è caduto nella riserva di Maui, in cui vivono, proprio a causa di un incendio. A prescindere dagli incendi comunque gli ultimi esemplari esistenti in natura potrebbero avere pochi mesi di vita, e per salvare la specie si sta cercando di eliminare la causa principale della decimazione della sua popolazione: le zanzare.L’ʻakikiki (Oreomystis bairdi), detto anche rampichino di Kauai, è un uccello passeriforme autoctono dell’isola, che si trova nella parte nord-ovest dell’arcipelago, nell’oceano Pacifico. È lungo circa 13 centimetri, pesa più o meno 15 grammi e ha un piumaggio grigio scuro su testa, dorso e fianchi, e più chiaro nella parte inferiore. Negli ultimi anni la sua popolazione si è ridotta così tanto e così velocemente che secondo il dipartimento del Territorio e delle Risorse naturali dello stato le possibilità che la specie riesca a sopravvivere in natura sono «scarse».Alle Hawaii ci sono numerosissime specie di uccelli che sono sopravvissute per milioni di anni sia grazie alla posizione isolata dell’arcipelago, sia perché i loro predatori erano relativamente pochi. Con l’arrivo dei popoli polinesiani prima e di quelli europei dopo, sulle isole furono introdotte nuove specie di animali, tra cui bovini e ovini, che contribuirono a cambiare gli equilibri dell’ecosistema. Il problema più grosso per gli ʻakikiki però è molto più recente, e riguarda anche altre specie di uccelli.Come ha spiegato David Smith, amministratore della divisione di Scienze forestali e Fauna selvatica del dipartimento, il progressivo aumento delle temperature dovuto al riscaldamento globale ha favorito la proliferazione delle zanzare, che hanno facilitato la diffusione della malaria tra gli uccelli. Inizialmente il problema non riguardava gli ʻakikiki, che vivevano a quote più elevate nelle foreste pluviali di Kauai, e fino a una ventina di anni fa gli ornitologi si dicevano «cautamente ottimisti» sulle possibilità di sopravvivenza della specie, visto che quell’ambiente non era adatto alle zanzare. Poi però le cose sono cambiate. Nel 2012 gli ʻakikiki in natura erano meno di 500 e nel 2018 poche centinaia. All’inizio del 2023 alcune decine e a inizio luglio solo 5.Smith ha detto che al momento alle Hawaii ci sono tre specie di uccelli «sul punto di estinguersi», per cui la situazione è «semplicemente critica»: gli ʻakikiki e gli ‘akeke’e a Kauai e i kiwikiu, che vivono a Maui.Il fatto che 500 delle circa 1.700 specie di piante e animali considerate a rischio dall’Endangered Species Act (una delle leggi statunitensi che stabiliscono come proteggere la fauna e la flora) si trovi proprio alle Hawaii ha fatto sì che tra gli scienziati l’arcipelago abbia cominciato a essere conosciuto come «la capitale mondiale delle specie a rischio di estinzione», ha notato in un recente articolo il Washington Post.Il biologo Justin Hite ha spiegato che il programma per cercare di portare in salvo i cinque ʻakikiki che vivono in natura è stato sospeso perché l’operazione li sottoporrebbe a uno stress che probabilmente li porterebbe comunque alla morte. Raccogliere le uova non ancora schiuse e provare a favorire la loro riproduzione altrove è «l’ultimo tentativo per salvare la specie», ha aggiunto Jennifer Pribble, che segue il programma per la loro conservazione nella riserva gestita dallo zoo di San Diego a Maui, dove al momento ne vivono 34. L’altra riserva si trova sull’isola di Hawaii e invece ne ospita 17.Gli esemplari cresciuti in cattività vivono in gabbie dotate di zanzariere, in modo da non essere punti. Al contempo gli addetti provano a facilitare la loro riproduzione, sia simulando le condizioni ambientali e meteorologiche di Kauai con foglie di felce, muschio e un sistema di acqua a spruzzo, sia incoraggiando lo stesso tipo di relazioni che si creerebbero in natura. Dal momento che gli ‘akikiki sono monogami, gli scienziati cercano di far scegliere a una femmina il maschio preferito in modo da aumentare le probabilità che le uova vengano deposte, ha spiegato sempre Hite.C’è poi un intervento molto più strutturato, che come anticipato punta alla causa del problema: è un progetto proposto da un insieme di stati federali, agenzie statali e organizzazioni non profit che prevede per così dire di sterilizzare le zanzare.– Ascolta anche: Vicini e Lontani: “Nemico pubblico”I maschi di zanzara che vivono alle Hawaii sono portatori di un parassita appartenente al genere chiamato Wolbachia e si riproducono con femmine che hanno il medesimo tipo di parassita. Gli scienziati stanno quindi infettando i maschi con un diverso tipo di Wolbachia incompatibile con le femmine, in modo da impedire la riproduzione. In base al progetto le prime zanzare dovrebbero essere rilasciate entro la fine di quest’anno o l’inizio dell’anno prossimo attraverso droni, prima a Maui e poi a Kauai.Smith ha osservato che le zanzare non sono native delle Hawaii e «non hanno un ruolo ecologico fondamentale», pertanto a suo dire eliminandole ci sarebbero «enormi vantaggi ambientali e quasi nessuno svantaggio». Non tutti però sono convinti del progetto, che come ha notato il Washington Post è già costato decine di milioni di dollari e potrebbe richiedere anni prima di funzionare. Un gruppo ambientalista, Hawaii Unites, ha chiesto di bloccare il progetto sostenendo che non siano stati fatti studi ambientali adeguati e che la presenza di altre zanzare potrebbe avere effetti indesiderati per altri animali.Hite ha detto che gli ʻakikiki non sono una specie particolarmente conosciuta dalle persone anche perché non hanno piume molto colorate né melodie elaborate o riconoscibili. A suo dire comunque non intervenire per la loro salvaguardia oggi potrebbe significare perdere uccelli «molto molto belli e colorati» più avanti.– Leggi anche: Gli incendi a Maui c’entrano con le piante portate dalla colonizzazione statunitense LEGGI TUTTO