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    Le sperimentazioni per produrre fertilizzanti con la pipì

    A Brattleboro, nello stato americano del Vermont, c’è un’organizzazione che raccoglie donazioni di pipì. Si chiama Rich Earth Institute e dal 2012 conduce ricerche sui fertilizzanti ottenuti ​​dall’urina. Il suo obiettivo è recuperare alcune sostanze che rendono il suolo fertile, riducendo al tempo stesso la quantità di acque fognarie da trattare e l’uso di fertilizzanti sintetici, la cui produzione è responsabile di grosse quantità di emissioni di gas serra.I fertilizzanti che sostentano gran parte della produzione di cibo nel mondo contengono tre elementi particolarmente importanti: l’azoto, il potassio e il fosforo, elemento usato anche per la realizzazione di pannelli solari e batterie per auto elettriche. Ed è proprio il fosforo una delle sostanze che il Rich Earth Institute ricava dall’urina.Oggi i fertilizzanti contenenti fosforo si ottengono nella stragrande maggioranza dei casi dalla fosforite, un minerale estratto da rocce di origine sedimentaria. Fino al 2021 i dati dello US Geological Survey, l’istituto geologico statunitense, parlavano di riserve mondiali di fosforite che ammontavano a 71 miliardi di tonnellate e si trovavano principalmente in Marocco (50 miliardi di tonnellate): per questo si parlava del rischio che in qualche decennio si sarebbe arrivati a una carenza di fertilizzanti con gravi conseguenze sulla produzione alimentare globale.Dopo la recente scoperta di un gigantesco deposito da 70 miliardi di tonnellate di fosforite in Norvegia, le cose potrebbero cambiare: la compagnia mineraria Norge Mining prevede che tali disponibilità potrebbero soddisfare la domanda mondiale di fertilizzanti, pannelli solari e batterie per auto elettriche dei prossimi 50 anni. Inserito dalla Commissione Europea nella lista delle materie prime critiche, il fosforo rimane comunque una risorsa esauribile nel medio periodo.Le piante richiedono sostanze nutritive per crescere e produrre il cibo che mangiamo, e per incrementare la rendita dei raccolti i fertilizzanti sintetici ricchi di fosforo e azoto sono diventati sempre più usati dagli agricoltori di tutto il pianeta. Dal momento in cui, nei primi del Novecento, i chimici tedeschi Fritz Haber e Carl Bosch impararono a produrre industrialmente ammoniaca a partire dall’azoto, i fertilizzanti sintetici hanno contribuito in modo determinante alla riduzione delle carestie nel mondo. Sono così importanti che, con i metodi agricoli attuali, il centro di ricerche britannico Rothamsted stima che senza di essi potremmo produrre solamente la metà del cibo. Negli ultimi 50 anni l’utilizzo di fertilizzanti è quadruplicato e con l’aumento della popolazione la domanda è destinata a salire.L’urina può contenere tra il 50 e il 70 per cento del fosforo contenuto negli scarichi domestici, e il suo riciclo per uso agricolo – o “pipiciclo”, come lo chiamano in Vermont – è considerato una pratica che, comparata alla produzione e all’uso di tradizionali fertilizzanti sintetici, può avere un minore impatto ambientale per diverse ragioni. Secondo uno studio del 2023 realizzato da un gruppo di ricerca dell’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (INRAE) francese, causa minori emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale gas che causa l’effetto serra, minore eutrofizzazione (cioè nutrimento eccessivo delle alghe nei corsi d’acqua), limita l’utilizzo di materie prime e di acqua. Le diverse tecnologie disponibili per trattare l’urina umana ed estrarne il fosforo consumano ancora tanta energia, e dunque causano una significativa produzione di emissioni di gas serra a meno di usare esclusivamente energia prodotta da fonti rinnovabili, ma il riciclo consentirebbe una riduzione degli impatti ambientali sia nella fertilizzazione agricola sia nel trattamento delle acque reflue.A livello globale l’80 per cento delle acque fognarie non riceve alcun trattamento, e per questo l’urina e le feci umane non correttamente trattate rilasciano fosforo e azoto nelle acque di fiumi e laghi, contaminandoli. Un eccessivo incremento provoca l’eutrofizzazione, che può portare alla crescita eccessiva di alghe che impoveriscono l’acqua di ossigeno e per questo decimano le specie acquatiche. In alcuni casi poi le specie di alghe in eccesso possono contenere e disperdere nell’acqua sostanze tossiche anche per gli esseri umani.L’eutrofizzazione non deriva solamente dall’inquinamento provocato dalle acque fognarie non trattate, ma anche dal suolo dedicato all’allevamento intensivo. Per esempio, la proliferazione di alghe tossiche nel lago Erie, nel nord degli Stati Uniti, è causata dalle feci prodotte negli allevamenti che sorgono lungo il fiume Maumee, immissario del lago: mucche e maiali trasformano soia e granturco (fertilizzati) in letame contenente sostanze nutritive per le piante che poi finisce nel lago. Nel 2018 la superficie di un altro lago americano, il lago Okeechobee, in Florida, è stata coperta per il 90 per cento da una fanghiglia tossica. La stessa situazione riguarda anche altri laghi e fiumi in giro per gli Stati Uniti, il terzo maggior produttore di fosfato raffinato, un composto del fosforo.La proliferazione di alghe nell’ovest del lago Erie nel settembre del 2017 vista da un satellite della NASA (NASA via AP)Questo tipo di inquinamento è dovuto al fatto che i fertilizzanti vengono spesso applicati in dosi più elevate rispetto alla capacità di assorbimento delle piante. Le sostanze nutritive che contengono filtrano rapidamente attraverso il terreno e gli agricoltori ne applicano grandi quantità per essere sicuri di nutrire sufficientemente le radici. Il risultato è che si diffonde nell’ambiente una grande quantità di sostanze che si trasformano in una fonte di inquinamento.L’uso eccessivo di fertilizzanti contribuisce anche al cambiamento climatico. Se vengono applicati in eccesso o in modo improprio, diffondono nell’atmosfera protossido di azoto, un gas che ha un contributo all’effetto serra 300 volte maggiore rispetto a quello dell’anidride carbonica a parità di massa. E la produzione di ammoniaca sintetica (sostanza attraverso cui le piante assorbono azoto e quindi ingrediente fondamentale dei fertilizzanti) richiede molta energia e dunque causa notevoli emissioni di CO2. Si stima che il letame e i fertilizzanti sintetici siano responsabili dell’emissione di 2,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno, più dell’aviazione e del trasporto marittimo messi insieme.Diversi studi scientifici dicono che il riciclo dell’urina può diventare una pratica efficiente anche in termini di resa agricola, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. «La combinazione di humus (complesso di sostanze organiche presenti nel suolo derivate dalla decomposizione di residui vegetali e animali) e fertilizzante organico-minerale ottenuto dal riciclo dell’urina migliora la crescita delle piante e mantiene la fertilità del suolo», dice Ariane Krause, ricercatrice al Leibniz-Institut e co-autrice di uno studio che ha testato i benefici del riciclo da urina e feci, stimando che i fertilizzanti ricavati dagli escrementi umani potrebbero sostituire oltre il 25 per cento di quelli sintetici attualmente utilizzati.Tuttavia anche le quantità dei fertilizzanti organico-minerali devono essere dosate in modo da consentire al suolo di rigenerarsi. Per mantenere la fertilità del terreno e contenere la fuoriuscita di sostanze nutritive dal letame animale è quindi importante nutrire le piante senza esagerare.Al Rich Earth Institute l’urina donata deve essere consegnata in apposite taniche con imbuto, progettate per eliminare gli odori e consentire il travaso del liquido. Poi viene pastorizzata, cioè sottoposta a un trattamento termico che serve per eliminare molti microrganismi e aumentare i tempi di conservazione, e distribuita agli agricoltori locali come fertilizzante organico-minerale. Grazie alle ultime tecnologie è possibile produrre 100 litri di concime liquido da mille litri di urina. Considerando che in un anno gli abitanti della città di New York producono circa 4,5 miliardi di litri di pipì e quelli di Shanghai quasi 14, il potenziale potrebbe essere immenso.Al momento però la sfida più complessa è trovare un metodo efficiente ed economico per raccogliere la giusta quantità di pipì. Un modo prevede la raccolta e il trattamento dell’urina dagli impianti di depurazione delle acque reflue (acqua contaminata dall’uso umano e industriale). Nonostante si parli di questa pratica da diversi decenni, sono ancora molti, forse troppi, gli ostacoli per vedere un suo sviluppo su vasta scala. Gli impianti odierni sono progettati per rimuovere i nutrienti come fosforo e azoto piuttosto che recuperarli. Alcune ricerche suggeriscono che per far diventare il pipiciclo una possibilità reale nell’agricoltura su larga scala sarebbe necessaria una riconversione dei nostri sistemi fognari che renda possibile la separazione dell’urina.L’approccio di raccolta più innovativo consiste invece nel separare l’urina alla fonte: per quanto abbiano ancora dimensioni ridotte, esistono varie iniziative che se ne occupano.Diversamente dalle feci, la pipì presenta un rischio molto basso di trasmissione di agenti patogeni (i microrganismi responsabili dell’insorgenza di una patologia) e offre la possibilità di filtrare meglio i residui farmaceutici. La raccolta viene effettuata tramite orinatoi a secco (senza o con pochissima acqua) e sono previsti trattamenti che vanno dalla semplice conservazione per uso locale, come nel caso del Rich Earth Institute, a trasformazioni industriali più complesse che producono fertilizzanti organici come l’Aurin, un concentrato a base di urina sviluppato dall’Istituto federale svizzero di scienza e tecnologia acquatica (Eawag) e autorizzato per la vendita anche in Liechtenstein e in Austria.In Francia, il parco dei divertimenti Futuroscope ha iniziato a riciclare la pipì dei suoi visitatori. Entro il 2025 utilizzerà solo orinatoi senza lo sciacquone, in modo che l’urina non finisca nelle fogne ma in appositi serbatoi. Lanciato a luglio 2021 come esperimento, dal parco sono stati recuperati oltre 23.000 litri di pipì con un risparmio di 275.000 litri d’acqua. L’idea è nata dalla startup francese Toopi Organics che collabora con festival di musica, eventi e servizi autostradali per raccogliere l’urina da riciclare.Viste le difficoltà logistiche nella raccolta e il trasporto della pipì, è molto improbabile che il riciclo della pipì possa sostituire completamente i fertilizzanti sintetici, ma può essere un’alternativa più sostenibile e praticabile in alcuni contesti. LEGGI TUTTO

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    La calotta glaciale dell’ovest dell’Antartide continuerà a sciogliersi anche con meno emissioni

    Caricamento playerLa calotta glaciale antartica occidentale, cioè la grande massa di ghiaccio che ricopre l’ovest dell’Antartide, continuerà a sciogliersi sempre di più nel corso di questo secolo. Succederà anche se diminuiremo l’uso dei combustibili fossili al punto da raggiungere il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, quello che prevede di mantenere l’aumento della temperatura media globale annuale sotto 1,5 °C in più rispetto all’epoca preindustriale. Lo dice un nuovo studio della British Antarctic Survey (BAS), l’organizzazione governativa britannica che si occupa di ricerca e divulgazione scientifica sull’Antartide, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change.Le conclusioni dello studio implicano che anche le politiche più significative per il contrasto del riscaldamento globale non permetteranno di limitare l’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento della calotta antartica occidentale: già ora è la parte di ghiaccio dell’Antartide che contribuisce di più a questo fenomeno, e secondo questa ricerca lo farà sempre di più nei prossimi decenni. «Se avessimo voluto preservare la calotta antartica occidentale, avremmo dovuto intervenire contro il cambiamento climatico decenni fa», ha detto Kaitlin Naughten, oceanografa della BAS e prima autrice dello studio.La calotta glaciale antartica è la più grande massa di ghiaccio presente sulla Terra ed è divisa in due parti da una catena montuosa, i Monti Transantartici. La parte orientale è quella di maggiori dimensioni, poggia su una base continentale, cioè su terre emerse, ed è molto stabile: non è previsto che la sua massa diminuirà in modo significativo nei prossimi anni. La parte occidentale invece è una calotta di ghiaccio con base marina: il ghiaccio si appoggia sul suolo, che però si trova sotto il livello del mare.L’innalzamento del livello dei mari è dovuto a due fenomeni legati al riscaldamento globale. Il primo è la dilatazione termica dell’acqua degli oceani: insieme alla temperatura dell’atmosfera sta aumentando anche quella degli oceani, e quando l’acqua si scalda, la sua densità diminuisce facendo aumentare il volume che occupa. Il secondo fenomeno è il fatto che d’estate i ghiacciai del mondo e i ghiacci che ricoprono zone dell’Antartide e della Groenlandia fondono più di quanto poi riescano a righiacciare. Il progressivo scioglimento dei ghiacci che si trovano sulla terra (quindi calotta antartica occidentale compresa) fa infatti aumentare l’acqua negli oceani. Per via dei due fenomeni combinati, tra il 1900 e il 2021 il livello medio del mare è aumentato di 21 centimetri.Facendo delle simulazioni di quattro diversi scenari climatici futuri gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che l’umanità non può fermare lo scioglimento della calotta antartica occidentale. Anche rispettando il limite di 1,5 °C, ritenuto ormai inverosimile dagli esperti di clima, la fusione dei ghiacci della calotta antartica occidentale diventerà tre volte più veloce rispetto al secolo scorso. A causa del riscaldamento del mare di Amundsen, il ramo dell’oceano Antartico su cui si affaccia l’Antartide occidentale, la banchisa legata alla calotta, cioè il ghiaccio marino attaccato a quello continentale, fonderà senza riformarsi, e così diminuirà la stabilità dei ghiacciai sulla terraferma. Sarà il loro contributo a far aumentare la quantità d’acqua negli oceani.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027Lo studio della BAS non comprende una stima di quale sarà il contributo all’aumento del livello del mare della calotta antartica occidentale (è stato calcolato che se fondesse tutta alzerebbe il livello medio di 5 metri, ma non è di una prospettiva così catastrofica che si sta parlando), ma comporta che le attuali stime sull’innalzamento del livello del mare potrebbero essere superate. Secondo le ultime valutazioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo scientifico internazionale dell’ONU per la valutazione dei cambiamenti climatici, si prevede un aumento medio compreso tra 28 centimetri e 1,01 metri entro il 2100: 1 metro in più potrebbe sembrare poco, ma in certe zone del mondo metterebbe centinaia di milioni di persone a rischio di allagamenti costieri.Queste stime hanno una certa incertezza perché non si sa bene in che modo le calotte glaciali in riduzione interagiranno con gli oceani nel corso del secolo: lo studio della BAS appena pubblicato è il primo ad aver simulato cosa potrebbe succedere alla calotta antartica occidentale. Anche per questo ne saranno necessari altri, sia per confermarne i risultati sia per fare previsioni più precise, che tengano conto di altri aspetti – ad esempio la possibilità che l’aumento delle temperature in Antartide causi nevicate e quindi un accrescimento della massa dei ghiacciai del continente.L’innalzamento del livello del mare è un problema soprattutto per alcune piccole isole nell’oceano, come quelle di Tuvalu, e per le zone abitate costiere, alcune più di altre: ad esempio quelle lungo la costa orientale degli Stati Uniti, ma anche in India, nel Sud-Est asiatico e in Cina, dove si trovano grandi città popolosissime, come Calcutta, Mumbai, Dacca, Bangkok e Shanghai. Naughten ha commentato lo studio dicendo che «il lato positivo» è che abbiamo ancora tempo per «adattarci all’innalzamento del livello del mare che verrà»: «Se c’è bisogno di abbandonare o ripensare totalmente una regione costiera avere 50 anni di tempo a disposizione fa la differenza».– Leggi anche: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide LEGGI TUTTO

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    Gli effetti della grave siccità in Amazzonia

    Nella città brasiliana di Manaus, la più popolata di tutta l’Amazzonia con oltre 2 milioni di abitanti, negli ultimi giorni sono stati registrati livelli molto più alti del solito di inquinamento atmosferico a causa di un prolungato periodo di siccità. Gli incendi nella foresta intorno alla città hanno contribuito al peggioramento della qualità dell’aria, al punto che in alcuni giorni della scorsa settimana Manaus era la città più inquinata del Brasile e una delle aree abitate con il più alto livello di inquinamento al mondo.La stagione secca più lunga e intensa del solito in parte dell’Amazzonia è probabilmente dovuta a “El Niño”, l’insieme di periodici fenomeni atmosferici nell’oceano Pacifico che influenza il clima in gran parte del pianeta, causando anche un aumento delle temperature che si unisce agli effetti del riscaldamento globale dovuto alle attività umane.Oltre a essere rimasti avvolti per diversi giorni nelle polveri e nei fumi prodotti dagli incendi, gli abitanti di Manaus si sono anche dovuti confrontare con una marcata riduzione delle risorse idriche. Il livello dell’acqua si è ridotto al punto da lasciare in secca molte imbarcazioni nel porto, di solito florido grazie alla vicina confluenza del Rio Negro con il Rio delle Amazzoni, due dei fiumi più grandi e importanti al mondo. L’acqua solitamente abbondante è diventata scarsa a causa delle poche piogge in un’area solitamente molto piovosa, soprattutto alla fine della stagione secca che è invece durata più a lungo del solito.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)La siccità ha interessato diverse altre zone dello stato di Amazonas, il più esteso del Brasile e coperto per buona parte dalla foresta amazzonica. Le autorità locali hanno stimato che ci siano stati oltre 2.700 incendi durante la stagione secca, la quantità più alta mai registrata. La crisi era in parte prevedibile, considerato che nei periodi in cui si forma “El Niño” ci sono temperature più alte e meno pioggia. Nonostante ciò, il Brasile non si è attrezzato con squadre di vigili del fuoco e mezzi a sufficienza per affrontare l’emergenza.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)Una stagione secca prolungata non si traduce solamente in maggiori quantità di incendi, ma anche in minori volumi d’acqua nel complesso sistema idrico dell’Amazzonia. Oltre a essere essenziale per la vita di migliaia di specie diverse sia vegetali sia animali, l’acqua è anche il principale mezzo di trasporto per le decine di popolazioni indigene che vivono nello sterminato territorio amazzonico. Muoversi a piedi per lunghe distanze sul fondo della foresta pluviale è pericoloso e quasi sempre impraticabile, di conseguenza gli spostamenti vengono effettuati su canoe e piccole barche attraverso i corsi d’acqua che si formano stagionalmente, ma che quest’anno non sono sempre navigabili a causa della siccità.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)I cambiamenti climatici stanno avendo ormai da anni un forte impatto sulla foresta amazzonica, con conseguenze per la sua biodiversità, cioè la varietà di organismi che popolano i suoi ambienti. Gli incendi non si verificano solo naturalmente: spesso hanno cause dolose dovute alla costruzione di nuove infrastrutture, come strade, o alla creazione di nuovi campi per uso agricolo che modificano gli ecosistemi amazzonici con gravi conseguenze per numerose specie. LEGGI TUTTO

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    La nuova altezza del Monte Bianco

    Il Monte Bianco attualmente è alto 4.805,59 metri, due metri in meno rispetto al 2021. Lo dice l’ultima misura della Chambre Départementale des géomètres-experts dell’Alta Savoia, che dal 2001 misura l’altezza della montagna più alta delle Alpi ogni due anni organizzando una spedizione alpinistica. La cima del Monte Bianco, che si trova tra Italia e Francia, non ha infatti sempre la stessa altitudine, dato che nel misurarne l’altezza si tiene conto della neve che ricopre il ghiaccio che sovrasta le rocce più alte. Lo spessore dello strato di ghiaccio è di una ventina di metri, quello della neve che lo ricopre invece varia.Giovedì, durante una conferenza stampa a Chamonix, il geometra Denis Borrel, presidente della commissione che si occupa delle misure del Monte Bianco, ha raccomandato cautela nel collegare la variazione di altezza al cambiamento climatico. «Anche se osserviamo una leggera tendenza in calo della calotta di neve sopra al Monte Bianco, i climatologi e i glaciologi ci dicono che serviranno circa 50 anni di misurazioni per trarre conclusioni sul possibile riscaldamento globale alla quota di 4.800 metri».Il 2023 è stato comunque un anno «eccezionale», ha detto Borrel, secondo il quale sul Monte Bianco ci sono 3.500 metri cubi di ghiaccio e neve in meno rispetto al 2021, l’equivalente di una piscina olimpionica. Una diminuzione «molto considerevole» rispetto a quelle misurate in precedenza. Non sarebbe comunque corretto dire che il Monte Bianco “si sta abbassando”. Luc Moreau, un glaciologo di Chamonix, ha detto al canale televisivo TF1 che «non è rappresentativo del cambiamento climatico» perché a influire sull’altezza della copertura della neve sulla cima del Monte Bianco è principalmente il vento, su quello che Moreau ha paragonato a un «complesso di dune».Se si considera solo la parte rocciosa della montagna, l’altezza è di 4.792 metri, ma generalmente quando si parla dell’altezza del Monte Bianco si considera anche la parte di ghiaccio e neve. Borrel ha spiegato che «in una notte può cadere un metro o un metro e mezzo di neve sulla cima, per cui l’altezza può cambiare da un giorno all’altro». A seconda delle precipitazioni e dei venti, insomma, l’altezza del Monte Bianco potrebbe tornare ad aumentare nei prossimi anni.L’altezza del Monte Bianco fu stimata per la prima volta nel Settecento con la triangolazione, una tecnica che permette di calcolare distanze fra punti in virtù delle proprietà geometriche dei triangoli. Nel 1775 il matematico britannico George Schuckburgh-Evelyn stimò che la montagna fosse alta 4.804 metri. Oggi per replicare la misura si usa la tecnologia GPS (Global Positioning System), il sistema di posizionamento e navigazione satellitare grazie al quale possiamo risalire alle coordinate geografiche di più o meno qualunque punto sulla Terra. E quest’anno per la prima volta i geometri francesi hanno usato anche un drone, che hanno portato con sé sul Monte Bianco durante una spedizione verso la cima, per rendere la misura più precisa.Le riprese del drone hanno permesso di realizzare velocemente un modello tridimensionale della cima della montagna. «Ci sono voluti dieci minuti per farlo», ha raccontato Borrel, «mentre nelle spedizioni precedenti dovevamo stare lassù per due ore per ottenere lo stesso risultato».Al di là della misurazione dell’altezza, il modello tridimensionale realizzato grazie al drone ha un valore scientifico perché permetterà di verificare i cambiamenti della calotta glaciale della cima della montagna nel tempo. I ghiacci sulla cima del Monte Bianco sono perenni, cioè non fondono mai, ma le ondate di calore degli ultimi anni, che sono legate al riscaldamento globale causato dalle attività umane e hanno effetti ad altitudini sempre più alte, potrebbero avere un effetto anche oltre i 4mila metri a lungo andare. Una sempre maggiore frequenza di temperature più alte della norma potrebbe compromettere lo stato del permafrost, cioè della parte di suolo ghiacciata. Rispetto a quote più basse comunque si prevede che l’effetto del cambiamento climatico sulla cima delle montagne più alte delle Alpi si vedrà più a lungo termine, e finora non c’è stato sulla cima del Monte Bianco.– Leggi anche: Il futuro dello sci col cambiamento climatico LEGGI TUTTO

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    Il settembre del 2023 è stato il più caldo mai registrato sulla Terra

    Il settembre del 2023 è stato il settembre più caldo mai registrato secondo i dati del Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra. La temperatura media globale dell’aria è stata di 16,38 °C, che significa 0,93 °C in più della media per lo stesso mese tra il 1991 e il 2020, il trentennio di riferimento, e 0,5 °C in più rispetto al precedente massimo storico, registrato nel settembre del 2020. Più in generale tra gennaio e settembre le temperature globali sono state di 0,52 °C superiori alla media e di 0,05 °C in più rispetto allo stesso periodo più caldo mai registrato in un anno (il 2016).Secondo Samantha Burgess, vicedirettore del Copernicus Climate Change Service, le «temperature senza precedenti» di questi mesi fanno ipotizzare che con buona probabilità alla fine di dicembre il 2023 risulterà l’anno più caldo mai registrato.La temperatura media globale di settembre tra il 1940 e il 2023 (Climate Change Service di Copernicus)Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati: le misure dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare, e le stime dei satelliti. Questi rilevano la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e oceanica e ne calcolano la temperatura. (AP Photo/Gregorio Borgia) LEGGI TUTTO

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    Sono state trovate altre due specie di granchi alieni nell’Adriatico

    Il granchio blu non è l’unica specie di granchi alieni presente nel mar Mediterraneo: ne sono state trovate almeno altre due. Mercoledì l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRBIM) ha annunciato il ritrovamento di un granchio della specie Charybdis feriata, chiamata anche “granchio crocifisso”, al largo delle coste di Senigallia, in provincia di Ancona. E uno studio pubblicato ad agosto da un gruppo di ricerca dello stesso istituto dava conto della presenza di una terza specie, il granchio blu del mar Rosso (Portunus segnis), sempre vicino ad Ancona e nel mar Ionio, vicino alle coste calabresi.Il granchio crocifisso è una specie originaria delle acque tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e dell’oceano Pacifico e ha grandi dimensioni: i maschi possono arrivare a pesare un chilo. Come i granchi blu, vengono pescati e mangiati nelle zone di origine. Secondo i ricercatori dell’IRBIM potrebbe essere arrivato nel Mediterraneo nello stesso modo in cui si pensa sia arrivato il granchio blu: nelle acque di zavorra delle navi mercantili, cioè nell’acqua che le grandi imbarcazioni prelevano dal mare per mantenersi stabili durante la navigazione e che possono poi disperdere a migliaia di chilometri di distanza.Il granchio crocifisso trovato al largo di Senigallia è il primo individuo della specie segnalato nell’Adriatico, ma già nel 2004 ne era stato segnalato uno vicino a Barcellona, in Spagna, e più di recente altri vicino a Livorno (2015) e nel golfo di Genova (2o22): tutti insomma sono stati avvistati vicino a grandi porti, e dato che finora i ritrovamenti sono stati pochi si può pensare che per il momento la loro presenza sia sporadica e limitata ad alcuni individui.Il granchio blu del mar Rosso trovato nell’Adriatico (Ernesto Azzurro, CNR-IRBIM)– Leggi anche: Nei mari della Calabria sono stati avvistati due pesci scorpioneAnche per il granchio blu del mar Rosso è stata ipotizzata la stessa origine. Per entrambe le specie, almeno per il momento, i ricercatori dell’IRBIM non temono che si possa arrivare una proliferazione simile a quella del granchio blu (Callinectes sapidus), che in alcune zone d’Italia è diventato una specie invasiva e ha causato grossi danni alle specie autoctone e agli allevamenti di molluschi. Infatti le temperature dei mari che circondano l’Italia sono probabilmente troppo basse perché le due specie di granchi ci si possano trovare bene al punto da creare nuove popolazioni.«Considerate le caratteristiche ecologiche del granchio crocifisso e la sua tolleranza termica, non riteniamo che ci sia il rischio di un’invasione di questa specie in Adriatico», ha detto Ernesto Azzurro, biologo dell’IRBIM di Ancona, che aveva commentato in modo simile lo studio sul granchio blu del mar Rosso. Tuttavia Azzurro e i suoi colleghi hanno sottolineato che le cose potrebbero cambiare, dato che per via del cambiamento climatico causato dalle attività umane anche le temperature del mar Mediterraneo stanno aumentando: «L’attuale aumento delle temperature sta favorendo il successo di specie tropicali invasive, ed è molto importante monitorare la presenza e la distribuzione di questi alieni in stretta collaborazione con i pescatori».Al di là dei granchi nuotatori, negli ultimi anni si sono viste sempre più specie animali aliene nel Mediterraneo. Spesso si tratta di pesci e spesso arrivano dal mar Rosso attraverso il Canale di Suez: come nel caso del pesce scorpione (di cui quest’estate sono stati trovati due individui in Calabria). Il Mediterraneo e il mar Rosso sono collegati dal Canale fin dal 1869, ma è solo negli ultimi decenni che certe specie hanno cominciato a migrare dall’uno all’altro perché il cambiamento climatico ha reso il Mediterraneo più ospitale per certi animali del mar Rosso. Dal 1869 al 2008 sono state almeno 63 le specie che sono arrivate nel Mediterraneo dal mar Rosso.– Ascolta anche: Vicini e lontani, il podcast sulle specie aliene prodotto dal Post con Oikos LEGGI TUTTO

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    L’estensione invernale del ghiaccio marino in Antartide è stata molto minore del solito

    Secondo un’analisi preliminare del Centro dati nazionale sulla neve e i ghiacci degli Stati Uniti (NSIDC), a settembre il massimo di estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide è stato il più basso mai registrato. Il nuovo record, che dovrà essere confermato da altre analisi i cui risultati sono previsti per inizio ottobre, si aggiunge alle rilevazioni svolte nell’ultimo periodo che hanno segnalato un periodo di sensibile riduzione nella presenza di ghiaccio in Antartide, con conseguenze che si estendono oltre quelle per gli ecosistemi del continente.A settembre il ghiaccio marino antartico raggiunge il proprio massimo, più o meno in corrispondenza con la fine dell’inverno nell’emisfero australe. L’andamento è infatti ciclico e legato alle stagioni: il minimo della copertura si registra a febbraio con l’estate antartica, quando fonde una parte del ghiaccio, che inizia poi a riformarsi nei mesi seguenti fino al picco di settembre.La linea gialla mostra la media del massimo di copertura di ghiaccio marino nel periodo 1981-2010, in bianco la copertura rilevata il 10 settembre scorso (NSIDC)In media tra il 1981 e il 2010 la copertura massima di ghiaccio marino è stata di 18,7 milioni di chilometri quadrati. A settembre di quest’anno il massimo è stato invece di 16,9 milioni di chilometri quadrati, registrato il 10 di settembre: in sensibile anticipo rispetto al solito e senza riscontrare ulteriori aumenti nei giorni seguenti. Il nuovo record è di circa un milione di chilometri quadrati inferiore rispetto al precedente minimo nella stagione di picco rilevato nel 1986.Estensione del ghiaccio marino tra giugno e ottobre in Antartide (NSIDC)Secondo i gruppi di ricerca, le cause sono probabilmente riconducibili ad alcune condizioni del meteo nelle ultime settimane (specialmente nell’area del Mare di Ross, la grande baia nella parte meridionale dell’Antartide) e agli effetti del riscaldamento globale. Saranno necessarie altre analisi per confermare il ruolo del cambiamento climatico, ma la perdita di ghiaccio è comunque in linea con i modelli che studiano gli effetti dovuti all’aumento della temperatura media ai poli. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico potrebbe aver reso più probabile l’alluvione in Libia

    Caricamento playerSecondo un primo studio scientifico, la possibilità che nel nord-est della Libia piovesse come nella notte tra il 10 e 11 settembre è stata resa 50 volte più probabile dal cambiamento climatico causato dalle attività umane. In altre parole, le alluvioni causate dalla tempesta Daniel sono legate al modo in cui l’umanità ha modificato l’atmosfera terrestre: è la conclusione di 13 scienziati della World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra ricercatori esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, nata per rispondere in modo rapido alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” quando si verifica un evento meteorologico estremo.Decenni di studi di climatologia dicono che una delle conseguenze del riscaldamento globale è l’aumento della frequenza di alcuni fenomeni, come precipitazioni particolarmente intense e siccità in diverse parti del pianeta. Ma solo confrontando i dati su un particolare evento con le statistiche del passato è possibile dire quali eventi meteorologici estremi abbiano davvero un legame con il cambiamento climatico. I risultati di questo primo studio vanno in questa direzione e sebbene ci siano ampie incertezze contestualizzano un po’ ciò che è successo rispetto al clima.Per la tempesta che ha interessato la Libia, e che prima aveva causato intense piogge anche su Grecia, Bulgaria e Turchia, gli scienziati della WWA hanno usato delle simulazioni: hanno confrontato la probabilità che un tale evento di precipitazione avvenga col clima attuale con quella che avrebbe avuto col clima di 200 anni fa, prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane riscaldassero l’atmosfera. Rispetto a quell’epoca la temperatura media globale è aumentata di 1,2 °C.Gli scienziati hanno condotto analisi diverse per la Libia da una parte e per la Grecia, la Bulgaria e la Turchia dall’altra, dato che si tratta di zone geografiche con caratteristiche diverse, per quanto affacciate sul mar Mediterraneo.Per la Libia la quantità di pioggia caduta tra il 10 e l’11 settembre è piuttosto straordinaria, «estremamente insolita» anche per il clima attuale, secondo lo studio: statisticamente ha una probabilità di verificarsi una volta ogni 3-6 secoli. In epoca pre-industriale tuttavia era ancora meno probabile. Le alluvioni generate hanno provocato la morte di più di 11mila persone secondo le stime della Mezzaluna Rossa (come si chiama la Croce Rossa nei paesi arabi), anche per via del cedimento di due vecchie dighe maltenute e in conseguenza del contesto politico instabile della Libia.Secondo lo studio della WWA, anche le precipitazioni come quelle che ci sono state in Grecia, Turchia e Bulgaria, e che complessivamente hanno causato la morte di almeno 28 persone, sono state rese più probabili dal cambiamento climatico: di 10 volte. Col clima attuale, per questi territori dobbiamo aspettarci che precipitazioni simili siano relativamente comuni: lo studio dice che c’è il 10 per cento di probabilità che accadano ogni anno.Lo studio ha dei limiti perché i modelli climatici di cui disponiamo sono molto efficaci nel descrivere eventi atmosferici su larga scala, meno quando si studiano territori circoscritti come quelli interessati dalle recenti alluvioni. Gli scienziati della WWA sono tuttavia piuttosto sicuri che il cambiamento climatico abbia avuto un’influenza su questi eventi, perché le proiezioni climatologiche per questa parte del Mediterraneo prevedono un aumento delle precipitazioni con l’aumento delle temperature, già rilevato nei dati degli ultimi anni.La World Weather Attribution (WWA) fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica possa rispondere il più velocemente possibile alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che giornalisti e altre persone di tutto il mondo si chiedono se un certo evento meteorologico abbia un legame con il riscaldamento globale.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati senza essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Tra gli enti che collaborano alla WWA ci sono l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Gli scienziati che collaborano agli studi dell’iniziativa lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO