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    In Brasile e Colombia si è ridotta la distruzione delle foreste tropicali

    Caricamento playerNel 2023 sono stati abbattuti o bruciati circa 37mila chilometri quadrati di foreste tropicali, una superficie pari a quella di Toscana e Campania messe insieme, con una grave perdita per gli ecosistemi e in generale per il pianeta nel contrastare l’effetto serra. Secondo Global Forest Watch, l’iniziativa che ha diffuso i dati, il disboscamento continua a essere uno dei problemi ambientali più seri, ma ci sono stati comunque alcuni progressi, con una riduzione del 9 per cento del fenomeno tra il 2022 e il 2023, in particolare grazie ad alcune nuove politiche per la tutela delle foreste tropicali avviate in Sudamerica.
    Global Forest Watch offre una piattaforma online per tenere sotto controllo lo stato delle foreste del mondo e, insieme all’istituto di ricerca ambientale World Resources Institute, realizza periodicamente rapporti per confrontare negli anni la perdita di foresta pluviale primaria (cioè di foresta ancora incontaminata e non raggiunta dalle attività umane). Le analisi vengono fatte mettendo a confronto immagini satellitari di diversi periodi, in modo da verificare quali aree abbiano subìto attività di disboscamento anche in pochi mesi. Il sistema consente di verificare soprattutto le perdite dovute agli incendi, ma sono talvolta necessarie analisi successive per distinguere tra eventi naturali e fuochi appiccati intenzionalmente per guadagnare nuovo terreno per le coltivazioni.
    In Sudamerica si distruggono ogni anno grandi porzioni di foreste tropicali primarie per la costruzione di nuove strade e infrastrutture, oppure per rendere coltivabili i terreni. Il rapporto di Global Forest Watch segnala che nel 2023 sono stati distrutti circa 2mila chilometri quadrati di foreste tropicali in quella parte di mondo, un’area paragonabile a circa metà quella del Molise. La perdita è stata rilevante, ma inferiore del 24 per cento rispetto all’anno precedente, soprattutto grazie ai progressi raggiunti dai governi di Brasile e Colombia per limitare la distruzione delle foreste.
    Confronto tra 2022 e 2023 della perdita di foresta tropicale primaria nei dieci paesi del mondo in cui il fenomeno è più diffuso (Global Forest Watch)
    Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, rieletto nel 2022, si è impegnato a fermare completamente la deforestazione entro il 2030, un obiettivo molto ambizioso che non potrà essere raggiunto solamente attraverso l’intensificazione dei controlli. Lula ha revocato buona parte delle leggi che aveva fatto approvare il suo predecessore, Jair Bolsonaro, che di fatto avevano reso più semplice la deforestazione a scopi di sviluppo e commerciali, e ha riorganizzato l’agenzia governativa per la protezione per l’ambiente. Il presidente brasiliano intende inoltre aumentare le aree definite territorio per le popolazioni native, in modo da renderle protette e quindi rendere più difficile il disboscamento. In circa un anno sono già stati aggiunti otto nuovi territori, arrivando quasi a 500: l’intenzione è di riconoscerne altri 200 nel corso dei prossimi anni.
    In Colombia il presidente Gustavo Petro, eletto nel 2023, ha annunciato una nuova serie di politiche per ridurre la deforestazione comprese alcune campagne con contributi economici per le popolazioni locali in modo da disincentivare l’abbattimento degli alberi.
    Altri progressi sembra siano stati raggiunti in seguito ad alcune iniziative di Estado Mayor Central (EMC), il più importante gruppo dissidente delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (FARC). Il gruppo di guerriglieri controlla un’area importante dell’Amazzonia e dal 2022 impone multe dell’equivalente di svariate centinaia di euro a chi abbatte illegalmente gli alberi. Il gruppo sostiene di farlo per motivi ambientalisti, ma secondo gli osservatori l’iniziativa è uno dei modi per avere maggiori possibilità di contrattare con il governo colombiano la fine delle ostilità (nel 2016 l’EMC non aveva accettato gli accordi di pace tra governo e FARC). Stando ai dati forniti da Global Forest Watch, in Colombia nel 2023 la perdita di foresta tropicale è stata inferiore del 49 per cento rispetto al 2022.
    I progressi raggiunti in Colombia e Brasile si inseriscono comunque in un contesto ancora negativo legato alla deforestazione, se si considera che dal 2001 al 2023 in Sudamerica è andato distrutto quasi un terzo delle foreste tropicali. La perdita non implica solamente una riduzione nella capacità del pianeta di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, uno dei principali gas serra. La riduzione delle foreste porta a una marcata riduzione della biodiversità, cioè della varietà di specie che popolano un certo ambiente, con un ulteriore impoverimento di alcuni dei territori altrimenti più floridi del pianeta sia dal punto di vista della flora sia della fauna. LEGGI TUTTO

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    Il clima di un pezzo di Africa cambierà grazie alla “Grande muraglia verde”?

    Caricamento playerDal 2007 undici paesi stanno portando avanti un progetto molto ambizioso per influenzare il clima (e quindi l’abitabilità) e lo sviluppo economico di un grosso pezzo di Africa: la realizzazione di una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri tra Dakar, in Senegal, sulla costa occidentale del continente, e Gibuti, la capitale del paese omonimo, sulla costa orientale. Il progetto si chiama “Grande muraglia verde”, e i risultati di una simulazione da poco pubblicati sulla rivista scientifica One Earth dicono che porterà un aumento delle precipitazioni medie e una diminuzione della durata dei periodi di siccità.

    Nell’idea iniziale, che risale agli anni Ottanta e a Thomas Sankara, leader carismatico e primo presidente del Burkina Faso, la Grande muraglia verde doveva essere davvero una specie di lunga barriera di alberi. Si riteneva che avrebbe potuto arginare un processo che avrebbe reso il Sahel, l’arida regione a sud del Sahara, più simile al deserto vero e proprio. Poi il progetto venne corretto tenendo conto di analisi scientifiche aggiornate e dei vantaggi socio-economici di foreste, praterie e terre coltivate per la popolazione locale. Nella forma attuale il progetto prevede di realizzare un “mosaico” di terreni coperti da vari tipi di vegetazione che dovrebbe occupare 1 milione di chilometri quadrati, più o meno la stessa superficie di Francia e Germania messe insieme, entro il 2030. In parte saranno riforestati piantando nuovi alberi, in parte coltivati.
    I principali paesi coinvolti sono, da est a ovest, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Sudan, Ciad, Niger, Nigeria, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Senegal, e il progetto è stato approvato dall’Unione Africana, l’organizzazione internazionale di paesi africani che ha per modello l’Unione Europea.
    Una zona forestata nel Sahel senegalese, l’11 luglio 2021 (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Lo studio uscito su One Earth è stato fatto da Roberto Ingrosso e Francesco Pausata, due climatologi italiani che lavorano all’Università del Québec, in Canada, ed è il primo ad aver valutato i possibili impatti sul clima del Sahel della versione più aggiornata della Grande muraglia verde. È basato su modelli di simulazione climatica con una risoluzione spaziale di circa 13 chilometri: mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici su superfici minime di 169 chilometri quadrati, cioè con un buon approfondimento tenendo conto dell’ampiezza complessiva del territorio interessato.
    Le simulazioni sono state fatte tenendo conto di diverse densità di vegetazione che si potrebbero ottenere con la Grande muraglia verde. E sono stati considerati due diversi scenari di cambiamento climatico globale: quello in cui grazie alle politiche di contrasto alle emissioni di gas serra si raggiungono gli obiettivi più ambiziosi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, e quello in cui invece le emissioni continuano ad aumentare e l’atmosfera del pianeta a riscaldarsi. Per entrambi gli scenari, nel caso di un aumento significativo della densità di vegetazione, Ingrosso e Pausata hanno previsto un aumento delle precipitazioni in alcune zone del Sahel, una diminuzione dei periodi di siccità e delle temperature estive.
    Al tempo stesso però i modelli indicano che in relazione alla Grande muraglia verde ci sarà un maggior numero di giorni dell’anno con temperature estremamente alte, in particolare prima della stagione delle piogge. «Questi risultati sottolineano gli effetti contrastanti della Grande muraglia verde», spiega lo studio, «e dunque la necessità di fare valutazioni complessive nel decidere politiche future». Gli effetti saranno diversi a livello locale e se complessivamente la regione sarà meno arida – posto che effettivamente si riesca a ottenere una buona densità di vegetazione con il progetto – in alcune zone aumenteranno i giorni con temperature molto alte, cosa che può avere effetti rilevanti per la popolazione.
    Illustrazione dallo studio di Roberto Ingrosso e Francesco Pausata: in verde l’area interessata dalla Grande muraglia verde, in azzurro quella in cui è stato previsto un potenziale aumento delle precipitazioni. Le nuvole indicano le zone in cui potrebbero diminuire i periodi di siccità, i termometri quelle in cui potrebbero registrarsi temperature massime più alte
    Nel Sahel così come nel Sahara le precipitazioni sono legate all’intensità del monsone dell’Africa occidentale, quel sistema periodico di perturbazioni che interessa la regione tra giugno e ottobre e a cui si deve la sopravvivenza di milioni di persone. Dagli anni Settanta in poi però questa parte dell’Africa è diventata meno ospitale a causa di intense siccità, molto probabilmente legate all’aumento della temperatura superficiale dell’oceano Atlantico, oltre che al modo in cui il territorio è stato sfruttato. L’idea di usare la vegetazione per contrastare questi effetti nasce dal fatto che le piante contribuiscono a conservare l’acqua nel suolo e con i loro processi biologici influenzano anche la quantità di umidità nell’aria.
    È inoltre possibile che l’aumento del suolo coperto da foreste riduca la forza dei venti sulla regione, dice lo studio di Ingrosso e Pausata, e per questo contribuisca a un aumento di precipitazioni.
    Un rapporto del 2020 della Convenzione contro la desertificazione delle Nazioni Unite (UNCCD) ha cercato di stimare in quale misura l’obiettivo fissato per il 2030 sia già stato raggiunto: non è chiarissimo perché i confini dei territori coinvolti non sono stati fissati in modo inequivocabile, quindi si è parlato di una percentuale compresa tra il 4 e il 18 per cento, sulla base delle informazioni fornite dai paesi coinvolti. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno promesso un consistente finanziamento del progetto per accelerarlo: sono stati annunciati 14,3 miliardi di dollari di finanziamento entro il 2025, di cui 2,5 sono stati consegnati tra il 2021 e il 2023.
    I lavori per la creazione di un giardino che fa parte della Grande muraglia verde a Boki Diawe, in Senegal, il 10 luglio 2021: questo genere di giardini prevede di piantare piante adatte a condizioni climatiche aride all’interno di buche circolari che permettono di sfruttare al meglio le risorse idriche (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Al di là delle risorse economiche necessarie per portarla avanti, la Grande muraglia verde ha altri ostacoli, di natura politica e di sicurezza. Infatti nel Sahel sono attivi molti gruppi terroristici, come il nigeriano Boko Haram, e in alcune zone ritenute particolarmente pericolose sia le organizzazioni che si stanno occupando di riforestazione che gli abitanti locali sono restii a portare avanti i progetti legati alla Grande muraglia verde.

    – Leggi anche: Oscurare il Sole contro il riscaldamento globale è una buona idea? LEGGI TUTTO

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    Un malfunzionamento ai freezer ha distrutto decenni di ricerca di un’importante università svedese

    Il Karolinska Institutet, una delle più importanti università di medicina al mondo con sede a Stoccolma, in Svezia, ha reso noto questa settimana che un malfunzionamento ad alcuni dei suoi freezer durante le vacanze di Natale ha distrutto moltissimi campioni raccolti in decenni di ricerca. Il Karolinska Institutet – che è anche l’ente che ogni anno assegna il premio Nobel per la medicina – è uno dei più importanti centri di ricerca al mondo per le discipline biomediche.Non è ancora del tutto chiaro il motivo del malfunzionamento. I campioni erano conservati in vasche raffreddate con azoto liquido, a una temperatura di -190°C, quando fra il 22 e il 23 dicembre si è verificata un’interruzione nella fornitura di azoto liquido a 16 serbatoi. Questi contenitori possono resistere per quattro giorni senza azoto liquido aggiuntivo, ma anche a causa delle vacanze di Natale ne sono rimasti sforniti per cinque. L’innalzamento della temperatura al loro interno ha causato la distruzione dei campioni.
    I campioni distrutti provenivano da diverse istituzioni di ricerca, che spesso inviano il loro materiale a enti con macchinari più sofisticati per condurre alcuni test, ed erano principalmente quelli utilizzati per la ricerca sulla leucemia. La raccolta di alcuni gruppi di campioni durava da 30 anni, con l’obiettivo anche di studiare l’evoluzione della malattia e la risposta del corpo umano ai trattamenti.
    Alcuni giornali svedesi hanno scritto che il valore stimato dei campioni distrutti era di circa 500 milioni di corone (circa 44 milioni di euro). La polizia, che sta indagando sull’accaduto, ha detto che la perdita è sicuramente nell’ordine dei milioni, ma non è ancora stata fatta una stima ufficiale.
    Matti Sällberg, che è stato a capo del laboratorio di medicina del Karolinska Institutet per undici anni ed è tuttora un professore all’università, ha detto al Guardian che la denuncia alla polizia è stata fatta per poter prendere in considerazione qualsiasi ipotesi, ma che «al momento non ci sono indicazioni che l’incidente sia dovuto a un intervento esterno». Si sta tuttavia cercando di capire come sia stato possibile che nessuno si sia accorto del malfunzionamento per così tanti giorni. Sällberg ha aggiunto che i campioni distrutti erano tutti relativi al dipartimento di ricerca e che quindi la loro perdita non influirà sulle cure dei pazienti che sono al momento ricoverati nell’ospedale legato all’istituto. Tuttavia, la perdita in termini di materiale di studio è grandissima. LEGGI TUTTO

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    Le foto della lava che si sta raffreddando, in Islanda

    La seconda eruzione vulcanica di Grindavík, in Islanda, si sta esaurendo, secondo le analisi dell’Agenzia meteorologica islandese. Questa mattina l’esperta di disastri naturali dell’ente Elísabet Pálmadóttir ha detto alla RÚV, la principale rete televisiva del paese, che anche dalla fessura più settentrionale che si era aperta domenica, quella più ampia, si è interrotto il flusso della lava poco dopo l’una di oggi. Nella notte sono stati registrati più di 160 piccoli terremoti dovuti al movimento del magma sotto terra e anche per questo non si può ancora dire che l’eruzione sia finita: c’è ancora la possibilità che si aprano altre fessure nelle prossime ore e per questo attualmente gli abitanti della cittadina non possono tornare nelle proprie abitazioni. LEGGI TUTTO

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    Il più grande ragno dei cunicoli finora scoperto

    In Australia è stato scoperto il più grande individuo mai osservato di ragno dei cunicoli (Atrax robustus), tra i ragni più velenosi e aggressivi al mondo. Per le sue grandi dimensioni è stato chiamato “Hercules” e sarà tenuto in cattività per poterne estrarre il veleno, in modo da produrre un antiveleno da utilizzare nel caso di persone morse accidentalmente da uno dei suoi simili. Se non trattato adeguatamente, il morso del ragno dei cunicoli può causare gravi problemi di salute e in alcuni casi la morte.Hercules era stato trovato lungo la regione della Costa Centrale in un luogo una cinquantina di chilometri a nord di Sydney, la città più popolosa dell’Australia. Inizialmente era stato trasportato in un ospedale della zona per poterlo gestire in sicurezza e in seguito era stato trasferito all’Australian Reptile Park, una piccola riserva che si occupa della cura e della tutela di molte specie locali. All’interno del parco un’area è dedicata all’estrazione del veleno da ragni e altri animali velenosi, proprio con l’obiettivo di produrre antidoti e di fare attività di ricerca sulla loro efficacia.
    Dopo avere ricevuto il ragno dei cunicoli, i responsabili del parco hanno velocemente realizzato di avere a che fare con l’individuo più grande mai identificato di Atrax robustus). Comprese le zampe, il ragno raggiunge una larghezza massima di 8,9 centimetri, ben al di sopra dei 5 centimetri raggiunti di solito dagli individui più grandi. È inoltre particolare che un maschio abbia dimensioni così grandi, considerato che solitamente sono più piccoli delle femmine, per quanto più letali.
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    Emma Teni, una delle responsabili del parco, ha detto ad Associated Press: «Siamo abituati alle donazioni di grandi ragni dei cunicoli, ma ricevere un maschio di questa specie così grande è come vincere alla lotteria. Anche se le femmine sono più velenose, i maschi hanno mostrato di essere più letali». L’estrazione del veleno consentirà di produrre maggiori quantità di antiveleno, che in caso di necessità può essere inviato agli ospedali che ne fanno richiesta. L’iniziativa fu avviata nel 1981 e da allora non sono state più registrate morti a causa del ragno dei cunicoli in Australia.
    Hercules e i suoi simili, per quanto di taglia inferiore, vivono nelle aree boschive, ma in alcuni casi possono essere trovati anche nei parchi e nei giardini dell’area di Sydney e più a nord fino alla città di Newcastle lungo la costa. La specie è presente solo in Australia come le altre sempre appartenenti al genere Atrax. In inglese sono di solito definiti “funnel-web spiders”, letteralmente “ragni dalla tela a imbuto” per via della particolare forma delle loro ragnatele. LEGGI TUTTO

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    È morta a 95 anni Gao Yaojie, dottoressa cinese che contribuì a rendere nota l’epidemia di AIDS nella Cina rurale negli anni Novanta

    È morta a 95 anni Gao Yaojie, una dottoressa cinese che contribuì a rendere nota l’epidemia di AIDS nella Cina rurale negli anni Novanta. Gao scoprì che le scarse norme igieniche nelle cliniche per la donazione di sangue a pagamento avevano contribuito a diffondere l’AIDS anche nelle zone rurali della Cina. All’epoca in Cina era diffusa la convinzione che l’AIDS fosse trasmesso solo tramite i rapporti sessuali non protetti e dalla madre al feto durante la gravidanza. Gao, già in pensione, visitò cittadine e famiglie colpite dalla malattia, donò anche cibo e stampò volantini educativi sull’AIDS, spesso a sue spese.La vendita di sangue fu vietata negli anni Novanta, ma secondo Gao continuò in maniera illegale anche negli anni successivi. La dottoressa non fu la prima a scoprire l’epidemia, ma permise che fosse conosciuta in Cina e all’estero avvisando il New York Times. Nel 2009 Gao si trasferì a New York, negli Stati Uniti, a causa della crescente ostilità delle autorità cinesi nei suoi confronti, fra cui l’arresto e la detenzione per 20 giorni ai domiciliari da parte del governo provinciale dell’Henan, la provincia in cui fu più attiva, nel 2007. Il governo centrale in seguito annullò l’arresto.– Leggi anche: Dobbiamo parlare diversamente di HIVL’AIDS è una sindrome che porta il sistema immunitario a perdere la capacità di contrastare anche le infezioni più banali. Si raggiunge a uno stadio avanzato dell’infezione del virus HIV (Human Immunodeficiency Virus). Grazie alle moderne terapie antiretrovirali oggi chi è positivo al virus può condurre una vita quotidiana normale, anche dal punto di vista dell’attività sessuale. Le condizioni sono che l’infezione sia diagnosticata per tempo, e che ci sia la possibilità di accedere alle cure. (AP Photo/Greg Baker, File) LEGGI TUTTO

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    L’anomalo aumento di polmoniti infantili in Cina

    Nelle ultime settimane in Cina è stato rilevato un aumento anomalo di casi di polmonite infantile, le cui cause non sono ancora completamente chiare. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha chiesto maggiori informazioni e il governo cinese ha risposto dicendo di non avere rilevato «nuovi o strani patogeni» collegati alle polmoniti. La situazione al momento non suscita particolare preoccupazione, ma dopo la pandemia da coronavirus SARS-CoV-2 iniziata proprio in Cina ci sono grandi attenzioni, soprattutto da parte delle istituzioni sanitarie internazionali.Ormai da qualche mese i medici cinesi segnalano un aumento dei casi di malattie respiratorie, attribuendole a varie cause note come i virus influenzali, il SARS-CoV-2 e il Mycoplasma pneumoniae, un batterio tra i più comuni nelle forme di infiammazione ai polmoni che chiamiamo genericamente polmoniti. L’infezione batterica interessa con maggior frequenza i bambini e causa di solito una malattia di lieve entità, che deve comunque essere trattata per evitare il peggioramento dei sintomi.Per i medici è quindi normale e atteso che si debbano occupare spesso di polmoniti di questo tipo tra i bambini, ma secondo le informazioni fornite dai media cinesi nelle ultime settimane i casi sono aumentati notevolmente. Per giorni ci sono state notizie di ospedali con decine di bambini ricoverati in varie zone della Cina, talvolta con seri problemi nel fornire loro assistenza a causa del grande afflusso di pazienti.In un ospedale nella provincia orientale di Anhui, i medici hanno effettuato 67 broncoscopie in un giorno rispetto alla media giornaliera di una decina di esami di questo tipo, che servono per valutare le condizioni e lo stato di infiammazione a livello polmonare. Un altro ospedale nella provincia costiera orientale dello Zhejiang ha stimato che le visite pediatriche siano triplicate rispetto allo scorso anno e che a circa un bambino su tre sia stata diagnosticata una polmonite da Mycoplasma pneumoniae.In seguito alle notizie sui molti ricoveri, mercoledì 22 novembre l’OMS aveva chiesto pubblicamente al governo cinese di fornire maggiori informazioni, utilizzando i canali appropriati per segnalare gli aumenti di particolari malattie. In seguito alla richiesta, l’agenzia di stampa Xinhua controllata dal governo aveva diffuso un articolo che segnalava le dichiarazioni di alcuni funzionari della Commissione nazionale di sanità, l’organismo che si occupa della salute pubblica in Cina. I funzionari avevano detto di essere al lavoro per analizzare le diagnosi di bambini con malattie respiratorie.Il giorno seguente, giovedì 23 novembre, l’OMS aveva poi comunicato di avere ricevuto nuove informazioni direttamente dal governo cinese, che aveva indicato di non avere rilevato la presenza di «nuovi o strani patogeni» legati alle polmoniti. Secondo le autorità sanitarie cinesi, la maggior quantità di malattie respiratorie sarebbe dovuta a più cause già note, a cominciare dai virus influenzali. L’ipotesi è che si siano diffusi più del solito in seguito alla rimozione delle forti limitazioni imposte nel paese negli anni scorsi per provare a ridurre la circolazione del coronavirus, con la cosiddetta “strategia zero-COVID”.Il lungo isolamento ha reso meno frequenti i contagi da influenza, contribuendo a una minore esposizione alla malattia e di conseguenza a una minore immunità nei suoi confronti rispetto ad altri periodi, specialmente nelle persone non vaccinate. Ciò ha fatto sì che i sintomi fossero più significativi e tali da rendere necessari accertamenti in ospedale per molti pazienti. Qualcosa di analogo potrebbe essere successo con altri virus e batteri che interessano con maggiore frequenza i bambini, come il virus respiratorio sinciziale (RSV) e il Mycoplasma pneumoniae.Le cause dell’attuale aumento di polmoniti tra i bambini sono comunque difficili da ricostruire sulla base delle informazioni fornite finora dal governo cinese, ritenute ancora insufficienti da molti osservatori. È forse anche per questo motivo che l’OMS ha scelto di chiedere pubblicamente spiegazioni, invece di seguire le vie della comunicazione interna.Un gruppo di lavoro dell’OMS si occupa infatti di sorvegliare le notizie che circolano sui giornali e sui social network, confrontandole con quelle fornite dalle istituzioni sanitarie dei singoli paesi, in modo da occuparsi il prima possibile di eventuali anomalie. Quando emergono stranezze, l’OMS invia una richiesta di maggiori informazioni al paese interessato, ma è raro che la procedura sia annunciata pubblicamente. Si preferiscono comunicazioni dirette e interne con le istituzioni coinvolte, arrivando a qualcosa di pubblico solo nel caso in cui ci siano elementi utili da condividere globalmente per esempio per ridurre i rischi di avere un’emergenza sanitaria.Nelle prime fasi di quella che sarebbe poi diventata la pandemia da coronavirus, l’OMS era accusata di essere troppo cauta nei confronti del governo cinese e di non avere richiesto da subito maggiore trasparenza sulla diffusione del SARS-CoV-2. La richiesta pubblica di chiarimenti mostra un cambiamento di approccio in un contesto in cui c’è più attenzione su questi temi da parte della popolazione in generale, che negli ultimi anni ha dovuto affrontare grandi difficoltà e limitazioni.Al momento mancano dati più precisi e ufficiali sulla diffusione delle polmoniti tra i bambini, anche se la richiesta dell’OMS ha portato a qualche maggiore concretezza. Il fatto che non sia stato segnalato un aumento di malattie respiratorie simili tra gli adulti sembra comunque rendere meno probabile la presenza di un nuovo virus, ancora non conosciuto. Per avere maggiori informazioni, i bambini con sintomi dovrebbero essere sottoposti ai test per i patogeni che con maggiore frequenza causano malattie respiratorie, in modo da comprendere meglio la causa dei loro problemi di salute. Una grande quantità di test negativi su virus e batteri noti più diffusi e in circolazione in questo periodo potrebbe dare qualche indicazione su eventuali nuovi patogeni.Secondo alcuni osservatori, la vicenda mostra come l’approccio delle autorità cinesi nel comunicare in maniera trasparente con le istituzioni sanitarie internazionali non sia cambiata molto, nonostante la recente pandemia avesse avuto origine proprio nel paese. Tra il 2019 e il 2020 la Cina era stata relativamente solerte nel condividere le informazioni su quello che sarebbe stato poi chiamato SARS-CoV-2, ma emersero comunque ritardi e omissioni nella gestione della prima fase dell’emergenza sanitaria che si sarebbe poi diffusa in tutto il mondo. LEGGI TUTTO

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    La reintroduzione dei ghepardi in India non sta andando affatto bene

    Tra il 17 settembre 2022 e il 18 febbraio 2023 venti ghepardi sono stati portati in India dalla Namibia e dal Sudafrica per un progetto di reintroduzione, cioè per cercare di far tornare la specie nel paese, dove è estinta almeno dal 1952. Il progetto è stato molto apprezzato dal primo ministro indiano Narendra Modi, che in occasione del suo 72esimo compleanno era stato invitato ad aprire la gabbia del primo ghepardo rilasciato in libertà in India. Ma per il momento non si può dire che il piano di reintroduzione stia andando bene, anzi.Da marzo sei dei ghepardi arrivati dall’Africa sono morti, così come tre dei quattro cuccioli che erano nati nel frattempo. Tra luglio e agosto tutti i ghepardi superstiti che erano stati lasciati liberi all’interno del Parco nazionale di Kuno-Palpur, che si trova nel centro dell’India, sono stati ricatturati dal gruppo di esperti che segue il progetto e ora sono tenuti all’interno di zone recintate.In passato i ghepardi erano presenti in gran numero non solo in Africa, ma anche in alcune zone dell’Asia, dalla penisola arabica all’Afghanistan, con la sottospecie dei ghepardi asiatici, Acinonyx jubatus venaticus secondo la nomenclatura scientifica. Oggi ne restano pochissimi e solo in Iran: negli anni Settanta erano circa 300, adesso, secondo l’ultimo conteggio ufficiale iraniano, ce ne sarebbero solo 12.La specie è praticamente scomparsa a causa della riduzione del suo habitat per via delle attività umane, della scarsità di cibo dovuta a una più generale riduzione delle popolazioni di animali selvatici e della caccia: durante la dominazione britannica dell’India, venivano uccisi per evitare che sbranassero il bestiame. Negli scorsi decenni si è provato più volte a reintrodurli, ma senza successo, e perché il Project Cheetah fosse approvato era stata necessaria l’autorizzazione della Corte Suprema indiana. Gli animali presi per la reintroduzione venivano dalla Namibia e dal Sudafrica perché sono due tra i paesi dell’Africa meridionale con le più grandi popolazioni di ghepardi.Il piano iniziale del Project Cheetah prevedeva che i ghepardi provenienti dall’Africa si acclimatassero nell’ambiente indiano gradualmente: prima all’interno di aree recintate ristrette, per un periodo di quarantena di 50-70 giorni, poi dentro aree recintate più ampie per uno o due mesi e infine in libertà nel Parco di Kuno-Palpur, dopo essere stati dotati di radiocollari per seguirne gli spostamenti. Sempre secondo il piano iniziale, prima sarebbero stati liberati i maschi e poi, dopo qualche settimana, le femmine. Nell’esecuzione del piano però ci sono stati ritardi e problemi, tanto che dei 20 ghepardi arrivati dall’Africa solo 12 sono stati liberati. E dopo che due di quelli sono morti, così come quattro di quelli ancora in cattività, i superstiti che erano liberi nel territorio del parco sono stati ricatturati.Le cause di morte dei ghepardi sono elencate nel primo rapporto annuale del Project Cheetah, ma non sono tutte note con esattezza. Il primo individuo morto, una femmina proveniente dalla Namibia, aveva problemi di insufficienza renale pregressi che non hanno risposto alle cure date all’animale. Il secondo ghepardo morto era un maschio sudafricano, deceduto improvvisamente all’interno della recinzione di acclimatamento più ampia: non si sa perché. Un’altra femmina, sudafricana, è stata uccisa da un maschio durante un tentativo di accoppiamento. Tre dei cuccioli nati in India invece sono morti a causa del caldo estremo dello scorso maggio; il quarto è sopravvissuto, ma essendo stato rifiutato dalla madre ora viene accudito dai responsabili di Project Cheetah.Le morti più problematiche per il progetto sono state quelle di una femmina e due maschi appena dopo essere stati messi in libertà: sono morti per setticemia, cioè per un’infezione, legata a ferite che si erano formate vicino e sotto i radiocollari. «Queste circostanze sono senza precedenti per la specie e non erano state anticipate dagli esperti internazionali di ghepardi», spiega il rapporto. I ricercatori del progetto ritengono che i radiocollari non siano stati l’origine dei problemi dei ghepardi, ma piuttosto che abbiano facilitato lo sviluppo di infezioni che potrebbero essere state causate da insetti o parassiti indiani a cui i ghepardi, provenendo da un altro ambiente, erano particolarmente vulnerabili.Le persone che si occupano del Project Cheetah sono comunque ottimiste sulla reintroduzione e nel rapporto sottolineano che «alcune morti sono eventi inevitabili». Tuttavia non era previsto che morissero così tanti ghepardi ancora nella fase in cattività. In un articolo pubblicato sul quotidiano indiano The Hindu l’esperto di animali selvatici Ravi Chellam, amministratore delegato di Metastring Foundation, una società che si occupa di raccogliere dati sulla biodiversità indiana, ha rivolto alcune critiche al Project Cheetah e ipotizzato che nel rapporto sul primo anno della reintroduzione si sia cercato di giustificare a posteriori le morti dei ghepardi.Secondo Chellam il fatto che una dei ghepardi sia morta per un problema di salute pregresso potrebbe indicare che la scelta degli animali dall’Africa non è stata fatta nel migliore dei modi, considerando peraltro che il trasporto da un continente a un altro e la permanenza in cattività sono esperienze stressanti per un animale selvatico anche quando non è particolarmente vulnerabile. Anche la nascita dei cuccioli e la morte di un’altra femmina durante un tentativo di accoppiamento fa pensare a una gestione scorretta degli animali: «Perché c’è stata fretta di farli accoppiare in cattività quando sarebbe potuto succedere una volta lasciati liberi nel parco?».In generale Chellam pensa che il fatto che nove morti siano avvenute con gli animali in cattività sia problematico e che i responsabili del progetto dovrebbero anche valutare se ghepardi che hanno passato così tanto tempo in aree recintate ristrette possano poi sopravvivere in autonomia una volta liberati.Anche altri esperti internazionali di fauna selvatica hanno dei dubbi sulla bontà della gestione del progetto. Tra questi c’è il veterinario sudafricano, esperto di ghepardi, Adrian Tordiffe, che ha fatto parte di una commissione di consulenza per il Project Cheetah. Ha detto alla rivista Time che lui e altri esperti stranieri a un certo punto sono stati esclusi dalle riunioni della commissione e hanno ricevuto in ritardo le informazioni sugli animali malati.Attualmente si sta considerando di proseguire il progetto di reintroduzione in un altro parco naturale, sempre nello stato del Madhya Pradesh in cui si trova quello di Kuno-Palpur. È possibile che alcuni ghepardi siano liberati nella riserva di Gandhi Sagar entro la fine dell’anno. Sono poi attesi altri ghepardi dall’Africa l’anno prossimo: da progetto ne dovrebbero arrivare più o meno una dozzina ogni anno per i prossimi cinque anni, con l’obiettivo di creare una popolazione di almeno 40 individui.I ghepardi sono una specie considerata «vulnerabile» all’estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione. Dovrebbero essercene circa settemila in natura in tutto il mondo. LEGGI TUTTO