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    La formica di fuoco è arrivata in Europa, in Sicilia

    In un’area di 4,7 ettari in provincia di Siracusa, in Sicilia, sono stati trovati 88 diversi nidi di formica di fuoco (Solenopsis invicta), una delle specie più invasive al mondo: è la prima volta che la sua presenza viene individuata in Europa. È infatti una specie animale aliena, o alloctona, che l’azione diretta o indiretta delle persone ha spostato in zone diverse rispetto al suo ambiente abituale. Originarie del Sud America, le formiche di fuoco sono arrivate in Australia, Cina, Caraibi, Messico e Stati Uniti in meno di un secolo: potrebbero potenzialmente diffondersi in modo molto rapido in Italia come nel resto d’Europa, con possibili impatti gravi su ecosistemi e agricoltura. La velocità della diffusione della specie è dovuta alla creazione di cosiddette supercolonie, che prevedono la presenza di più formiche regine.– Ascolta anche: Storie di granchi blu e altre specie invasive, nell’ultima puntata di Ci vuole una scienzaLa presenza in Europa delle formiche di fuoco è stata certificata in uno studio pubblicato sulla rivista Current Biology e condotto dall’Istituto spagnolo di Biologia evoluzionistica, in collaborazione con l’Università di Parma e l’Università di Catania. In precedenza i ricercatori avevano trovato formiche di fuoco in prodotti importati in Spagna, Finlandia e Paesi Bassi, ma non era mai stata individuata una colonia sul territorio europeo. Quella siciliana, secondo le analisi genetiche, potrebbe essere composta da insetti provenienti da Stati Uniti o Cina.Le formiche di fuoco sono di colore bruno rossastro e hanno una lunghezza che va dai 2 ai 4 millimetri. Sono dotate di un pungiglione velenoso, che provoca punture molto dolorose, simili a una scottatura con una piccola fiamma, caratteristica da cui hanno preso il nome. Secondo lo studio gli abitanti della zona della provincia di Siracusa dove sono stati trovati i nidi segnalano punture di questo tipo già del 2019, cosa che fa pensare che l’ampiezza delle colonie potrebbe essere anche superiore a quella stimata.(Wikicommons)Uno degli autori dello studio, Mattia Menchetti dell’Istituto spagnolo di Biologia evoluzionistica (IBE), ha spiegato all’Ansa che i «principali tipi di danni per l’uomo riguardano le apparecchiature elettriche e di comunicazione, e l’agricoltura». Le formiche di fuoco possono infatti infestare apparecchiature elettriche presenti anche in automobili e computer, possono danneggiare i raccolti ma soprattutto hanno un impatto sulle specie autoctone degli ecosistemi in cui si diffondono: «È un predatore generalista, e nei luoghi in cui si insedia causa la diminuzione della diversità di invertebrati e piccoli vertebrati».Secondo uno studio pubblicato su Nature la formica di fuoco è la quinta specie invasiva per danni economici causati nel mondo: negli Stati Uniti sono stati stimati in 6 miliardi di dollari ogni anno. Secondo lo studio dell’IBE, anche in ragione del riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra dovute alle attività umane, il 7 per cento del territorio europeo e il 50 per cento delle città del continente presentano un ambiente con condizioni adatte alla diffusione della specie, che predilige i climi caldi. La Regione Sicilia ha messo in atto un piano di monitoraggio e di eradicazione di questa specie di formica: come per altre specie alloctone questa operazione può però essere complessa.– Ascolta anche: Vicini e lontani, un podcast sulle specie aliene LEGGI TUTTO

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    L’uccello a rischio di estinzione alle Hawaii

    Oltre ad aver provocato la morte di oltre 110 persone e danni a centinaia di edifici, i recenti incendi boschivi a Maui, nell’arcipelago statunitense delle Hawaii, hanno complicato le attività per la salvaguardia di una specie di uccelli a grave rischio di estinzione: gli ʻakikiki.Al momento in natura ne esistono solo cinque, sulla vicina isola di Kauai, mentre alcuni delle poche decine allevate in cattività hanno rischiato di morire quando un albero è caduto nella riserva di Maui, in cui vivono, proprio a causa di un incendio. A prescindere dagli incendi comunque gli ultimi esemplari esistenti in natura potrebbero avere pochi mesi di vita, e per salvare la specie si sta cercando di eliminare la causa principale della decimazione della sua popolazione: le zanzare.L’ʻakikiki (Oreomystis bairdi), detto anche rampichino di Kauai, è un uccello passeriforme autoctono dell’isola, che si trova nella parte nord-ovest dell’arcipelago, nell’oceano Pacifico. È lungo circa 13 centimetri, pesa più o meno 15 grammi e ha un piumaggio grigio scuro su testa, dorso e fianchi, e più chiaro nella parte inferiore. Negli ultimi anni la sua popolazione si è ridotta così tanto e così velocemente che secondo il dipartimento del Territorio e delle Risorse naturali dello stato le possibilità che la specie riesca a sopravvivere in natura sono «scarse».Alle Hawaii ci sono numerosissime specie di uccelli che sono sopravvissute per milioni di anni sia grazie alla posizione isolata dell’arcipelago, sia perché i loro predatori erano relativamente pochi. Con l’arrivo dei popoli polinesiani prima e di quelli europei dopo, sulle isole furono introdotte nuove specie di animali, tra cui bovini e ovini, che contribuirono a cambiare gli equilibri dell’ecosistema. Il problema più grosso per gli ʻakikiki però è molto più recente, e riguarda anche altre specie di uccelli.Come ha spiegato David Smith, amministratore della divisione di Scienze forestali e Fauna selvatica del dipartimento, il progressivo aumento delle temperature dovuto al riscaldamento globale ha favorito la proliferazione delle zanzare, che hanno facilitato la diffusione della malaria tra gli uccelli. Inizialmente il problema non riguardava gli ʻakikiki, che vivevano a quote più elevate nelle foreste pluviali di Kauai, e fino a una ventina di anni fa gli ornitologi si dicevano «cautamente ottimisti» sulle possibilità di sopravvivenza della specie, visto che quell’ambiente non era adatto alle zanzare. Poi però le cose sono cambiate. Nel 2012 gli ʻakikiki in natura erano meno di 500 e nel 2018 poche centinaia. All’inizio del 2023 alcune decine e a inizio luglio solo 5.Smith ha detto che al momento alle Hawaii ci sono tre specie di uccelli «sul punto di estinguersi», per cui la situazione è «semplicemente critica»: gli ʻakikiki e gli ‘akeke’e a Kauai e i kiwikiu, che vivono a Maui.Il fatto che 500 delle circa 1.700 specie di piante e animali considerate a rischio dall’Endangered Species Act (una delle leggi statunitensi che stabiliscono come proteggere la fauna e la flora) si trovi proprio alle Hawaii ha fatto sì che tra gli scienziati l’arcipelago abbia cominciato a essere conosciuto come «la capitale mondiale delle specie a rischio di estinzione», ha notato in un recente articolo il Washington Post.Il biologo Justin Hite ha spiegato che il programma per cercare di portare in salvo i cinque ʻakikiki che vivono in natura è stato sospeso perché l’operazione li sottoporrebbe a uno stress che probabilmente li porterebbe comunque alla morte. Raccogliere le uova non ancora schiuse e provare a favorire la loro riproduzione altrove è «l’ultimo tentativo per salvare la specie», ha aggiunto Jennifer Pribble, che segue il programma per la loro conservazione nella riserva gestita dallo zoo di San Diego a Maui, dove al momento ne vivono 34. L’altra riserva si trova sull’isola di Hawaii e invece ne ospita 17.Gli esemplari cresciuti in cattività vivono in gabbie dotate di zanzariere, in modo da non essere punti. Al contempo gli addetti provano a facilitare la loro riproduzione, sia simulando le condizioni ambientali e meteorologiche di Kauai con foglie di felce, muschio e un sistema di acqua a spruzzo, sia incoraggiando lo stesso tipo di relazioni che si creerebbero in natura. Dal momento che gli ‘akikiki sono monogami, gli scienziati cercano di far scegliere a una femmina il maschio preferito in modo da aumentare le probabilità che le uova vengano deposte, ha spiegato sempre Hite.C’è poi un intervento molto più strutturato, che come anticipato punta alla causa del problema: è un progetto proposto da un insieme di stati federali, agenzie statali e organizzazioni non profit che prevede per così dire di sterilizzare le zanzare.– Ascolta anche: Vicini e Lontani: “Nemico pubblico”I maschi di zanzara che vivono alle Hawaii sono portatori di un parassita appartenente al genere chiamato Wolbachia e si riproducono con femmine che hanno il medesimo tipo di parassita. Gli scienziati stanno quindi infettando i maschi con un diverso tipo di Wolbachia incompatibile con le femmine, in modo da impedire la riproduzione. In base al progetto le prime zanzare dovrebbero essere rilasciate entro la fine di quest’anno o l’inizio dell’anno prossimo attraverso droni, prima a Maui e poi a Kauai.Smith ha osservato che le zanzare non sono native delle Hawaii e «non hanno un ruolo ecologico fondamentale», pertanto a suo dire eliminandole ci sarebbero «enormi vantaggi ambientali e quasi nessuno svantaggio». Non tutti però sono convinti del progetto, che come ha notato il Washington Post è già costato decine di milioni di dollari e potrebbe richiedere anni prima di funzionare. Un gruppo ambientalista, Hawaii Unites, ha chiesto di bloccare il progetto sostenendo che non siano stati fatti studi ambientali adeguati e che la presenza di altre zanzare potrebbe avere effetti indesiderati per altri animali.Hite ha detto che gli ʻakikiki non sono una specie particolarmente conosciuta dalle persone anche perché non hanno piume molto colorate né melodie elaborate o riconoscibili. A suo dire comunque non intervenire per la loro salvaguardia oggi potrebbe significare perdere uccelli «molto molto belli e colorati» più avanti.– Leggi anche: Gli incendi a Maui c’entrano con le piante portate dalla colonizzazione statunitense LEGGI TUTTO

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    Potrebbe essere esistito un animale molto più grosso della balenottera azzurra

    Caricamento playerPiù di dieci anni fa il paleontologo peruviano Mario Urbina dell’Università di San Marcos, a Lima, scoprì uno scheletro parziale fuori dal comune nel deserto di Ica, una regione del Perù un tempo sommersa dagli oceani e ricca di fossili marini. Negli ultimi anni un gruppo di ricercatori internazionali – tra cui molti italiani provenienti dalle università di Pisa e Milano Bicocca – ha lavorato per estrarlo e per capire a che genere di animale appartenesse.Ora, in uno studio pubblicato su Nature, hanno presentato le proprie conclusioni, e cioè che appartenessero a un animale mastodontico estinto, da loro denominato Perucetus colossus (il nome richiama il Perù, dove è stato trovato, e le sue dimensioni eccezionali), che nelle loro stime potrebbe essere stato più grosso della balenottera azzurra, finora considerata il più grande animale mai esistito.Una balenottera azzurra può arrivare a pesare 190 tonnellate: gli esemplari più lunghi mai misurati erano di circa 33 metri, con un cuore grande quanto una piccola automobile. Secondo il nuovo studio il Perucetus colossus potrebbe essere stato ancora più grosso, arrivando a pesare 340 tonnellate per 20 metri di lunghezza. «Mi sono trovato di fronte a qualcosa di completamente diverso da qualsiasi cosa io abbia mai visto», ha raccontato al Washington Post il ricercatore dell’Università di Pisa Alberto Collareta.I ricercatori affermano di non poter dire con certezza che il Perucetus colossus fosse effettivamente più grosso della balenottera azzurra. Nello studio infatti le stime della massa corporea dell’animale vanno dalle 85 alle 340 tonnellate e variano così tanto perché il gruppo non è riuscito finora a trovare il teschio dell’animale, che aiuterebbe a comprenderne meglio la forma, e perché non è sicuro che il modo in cui ha immaginato la distribuzione della carne attorno alle ossa dell’animale nei modelli 3D sia quello corretto.«Siamo stati estremamente prudenti nel nostro approccio e non forniamo una singola stima ma una gamma di valori», ha affermato Eli Amson, uno dei co-autori dello studio. Considerato che anche la stima più bassa – 85 tonnellate – è superiore alla stazza di alcune balenottere azzurre adulte, si sentono però di «affermare con grande certezza che il peso del Perucetus colossus era comparabile a quello delle balenottere azzurre».Gli studiosi ritengono comunque interessante il fatto che il Perucetus assomigliava più a un lamantino che a una balenottera azzurra. Al contrario delle balene, i lamantini trascorrono il proprio tempo in acque costiere poco profonde, e hanno sviluppato ossa pesanti che li aiutano a stare vicini al fondale marino.«A causa del suo scheletro pesante e, molto probabilmente, del suo corpo molto voluminoso, questo animale era certamente un nuotatore lento. Questo mi permette di immaginarlo, per quanto ne sappiamo ora, come una specie di gigante pacifico, un po’ come un lamantino gigante. Doveva essere un animale molto impressionante, ma forse non così spaventoso», ha detto il paleontologo belga Olivier Lambert, tra gli autori dello studio.– Leggi anche: Perché le balene sono così grandi?Da anni gli scienziati si interrogano su come abbiano fatto le balene a diventare così grosse. Da una parte, è chiaro che gli animali acquatici hanno più probabilità di crescere molto, dato che non devono preoccuparsi del peso della propria massa sulle ossa e sulle articolazioni delle zampe. Ma una delle ipotesi più accreditate è che le balenottere azzurre e le altre balene a loro imparentate siano riuscite a evolversi in quel modo circa 3 milioni di anni fa, quando i ghiacci dell’era glaciale si ritirarono aumentando il quantitativo di sostanze nutrienti per crostacei e piccoli pesci, e conseguentemente per le balene, che di questi si nutrono. In queste circostanze, è probabile che le balene più grandi fossero avvantaggiate perché in grado di sopravvivere nei lunghi percorsi tra una zona ricca di cibo e l’altra, e capaci di ingerire in modo relativamente rapido una grossa quantità di acqua e cibo.Il Perucetus, però, sembra essere stato un animale molto diverso: le sue ossa erano spesse e compatte, più simili a quelle di un ippopotamo che di una balenottera azzurra, il che suggerisce che per loro non fosse così semplice inseguire prede in rapido movimento. I ricercatori pensano piuttosto che potrebbe essersi nutrito di vegetali, carcasse e piccoli animali trovati sui fondali marini.Questa ipotesi ha qualche problema, a partire dal fatto che le balene non si nutrono di piante e che ci vorrebbe un numero impressionante di carcasse per cibare un animale così grande. A prescindere da questo, però, la scoperta di questo gigantesco cetaceo potrebbe contribuire allo studio dell’evoluzione degli animali di grandi dimensioni.– Leggi anche: Come si spolvera una gigantesca balena LEGGI TUTTO

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    Anche i delfini “parlano” ai loro piccoli in modo diverso

    Caricamento playerAnche i delfini tursiopi, come gli umani, comunicano con i loro neonati con suoni più acuti rispetto a quelli che rivolgono agli adulti. È la conclusione di uno studio scientifico pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences e realizzato registrando per più di trent’anni i suoni prodotti da 19 femmine tursiopi che vivono nella baia di Sarasota, in Florida.Secondo gli autori dello studio, anche per i tursiopi si può dunque parlare di “maternese”, espressione con cui in ambito accademico si indicano i versi e i suoni, spesso privi di senso compiuto, con cui in molte culture del mondo ci si rivolge ai bambini che ancora non sanno parlare e che si pensa aiuti a creare legami affettivi e ad avvicinare all’uso della lingua. Nel caso degli umani si usa anche la variante “parentese” (dall’inglese parent, genitore), dato che anche i padri possono usare questo tipo di comunicazione.I tursiopi (Tursiops truncatus) hanno alcune caratteristiche comuni con gli umani: sono animali sociali; anche tra loro il rapporto tra madri e figli è duraturo (nella baia di Sarasota dura tre anni in media, a volte di più); e per tutta la vita possono imparare a produrre nuovi suoni. Come le altre specie di delfini, i tursiopi emettono suoni utilizzando dei sacchi pieni d’aria che si trovano appena sotto lo sfiatatoio, il buco attraverso cui respirano, e che permettono loro di fischiare, in sostanza. Tra i diversi suoni che producono, ciascuno ha un proprio fischio personale, che costituisce una sorta di “nome” per ogni individuo e viene utilizzato nella comunicazione con altri delfini.Non conosciamo bene il significato e le funzioni di queste comunicazioni, ma per quanto riguarda i fischi personali si pensa che servano per aggiornare gli altri delfini sulla propria posizione. «È come se si dicessero periodicamente “Io sono qui, io sono qui”», ha spiegato ad Associated Press Laela Sayigh, biologa marina del Woods Hole Oceanographic Institution e una degli autori dello studio. E quando a farlo sono le madri rivolte ai loro piccoli il suono è più acuto, stando alle analisi di Sayigh e dei suoi colleghi, che hanno confrontato i fischi personali prodotti dalle stesse delfine nei casi in cui comunicavano con i figli piccoli e in quelli in cui li indirizzavano ad altri adulti. Più nello specifico, la frequenza massima del fischio personale e l’ampiezza di frequenze usata per produrlo sono maggiori quando le tursiopi comunicano con i figli.Do you hear the pitch change between these 2 whistles? It’s a bottlenose dolphin mom using “baby talk!”Find out more about #WHOI biologist Laela Sayigh’s study in @PNASNews from @AP: https://t.co/A8yZWUqB80📸 & 🎵: Sarasota Dolphin Research Program, NMFS MMPA Permit 20455 pic.twitter.com/GnKRNzgWrL— Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI) (@WHOI) June 27, 2023Sono state fatte diverse ipotesi sul perché i delfini usino il “maternese”. Una possibilità è che serva per aiutare i piccoli a produrre i suoni, come è stato teorizzato per gli umani. Un’altra è che sia più efficace ad attirare la loro attenzione. Secondo alcune ricerche degli anni Ottanta sarebbe questa la funzione principale del parentese tra gli umani.Per quanto riguarda questo studio non si possono trarre eccessive conclusioni perché i ricercatori hanno preso in considerazione i soli fischi personali e non le altre forme di comunicazione usate dai delfini: in sostanza non sappiamo se anche quando producono altri suoni le madri tursiopi usino frequenze diverse nel caso in cui si rivolgano ai loro piccoli.Lo studio comunque potrebbe implicare qualcos’altro di altrettanto interessante per la scienza del comportamento animale: che il maternese sia un prodotto dell’evoluzione convergente, cioè di processi evoluzionistici che si verificano in diverse specie in modo indipendente.– Leggi anche: L’esperimento che provò a insegnare a parlare a un delfino LEGGI TUTTO

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    Le zanzare invasive continuano a espandersi in Europa

    Caricamento playerIl Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), l’agenzia indipendente dell’Unione Europea che controlla la comparsa e la diffusione di malattie infettive, ha aggiornato le proprie mappe sulla presenza delle diverse specie di zanzare in Europa segnalando la loro continua espansione, anche in regioni dove fino a qualche anno fa non erano presenti, e il conseguente rischio che aumentino le trasmissioni di malattie legate a questi insetti. «Potremmo vedere più casi ed eventualmente morti dovute a malattie come la dengue, la chikungunya e la febbre West Nile», ha detto Andrea Ammon, direttrice dell’ECDC.L’aumento delle regioni in cui le zanzare prosperano è favorito dal fatto che per via del cambiamento climatico la stagione calda dura più a lungo, con giornate con temperature più alte e più umide in alcune zone. Ma è dovuto anche ad altri fattori, come gli scambi commerciali internazionali (la causa originaria dell’arrivo delle zanzare invasive nel continente europeo) e la gestione del territorio.Nel 2022 in undici paesi dell’Unione Europea ci sono stati 1.112 casi di trasmissione della febbre West Nile, di cui 723 in Italia: è il dato annuale più alto che sia stato registrato dopo il 2018, che fu il momento di massima diffusione del virus in Europa finora, con 1.548 casi. La febbre West Nile nella maggior parte delle persone infette non provoca sintomi; solo un quinto dei contagiati ne mostra qualcuno, solitamente è lieve. In rari casi il virus può causare convulsioni, paralisi e coma, e in quelli più gravi, che riguardano generalmente persone anziane o debilitate per altre ragioni, può essere letale ed è bene prevenirne la diffusione anche perché non esiste una cura specifica, né un vaccino.Per quanto riguarda la dengue, un’altra malattia di origine tropicale per cui non ci sono cure specifiche, ma che comunque risulta grave o letale solo raramente, nel 2022 i casi nell’Unione Europea sono stati 71, quasi tutti in Francia: è lo stesso numero di casi che è stato registrato nei paesi dell’Unione insieme a Islanda, Liechtenstein e Norvegia tra il 2010 e il 2021.Questi dati non indicano che ci si debba allarmare per questi virus, ma le autorità sanitarie devono comunque tenere conto dei fattori che favoriscono l’aumento dei rischi e prevenirli, ad esempio con iniziative per il controllo delle popolazioni di zanzare e con l’informazione.Non tutte le specie di zanzare possono essere vettori di virus, cioè contribuire alla loro trasmissione da persona a persona. Tra le specie autoctone europee, la zanzara comune (Culex pipiens) può fare da vettore al virus della febbre West Nile, mentre notoriamente le specie europee del genere Anopheles possono trasmettere il virus della malaria se diffuso – l’Italia ne fu dichiarata libera dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 1970 dopo diversi anni con assenza di casi. Invece la principale specie invasiva, la zanzara tigre (Aedes albopictus), può fare da vettore per il virus della dengue, oltre che per quello della chikungunya, che ha caratteristiche simili alla dengue, e Zika, che invece può avere conseguenze più gravi.La zanzara tigre, riconoscibile dalle visibili macchie bianche da cui prende il nome comune, è ben presente in Italia da più di trent’anni: originaria dell’Asia orientale, si è diffusa per via del trasporto accidentale delle sue uova dentro pneumatici usati e piante ornamentali commerciate tra continenti diversi. Le zanzare infatti depongono le proprie uova in luoghi umidi, come può essere l’interno di uno pneumatico con un po’ d’acqua o il sottovaso di una pianta, e quelle delle zanzare tigre possono poi resistere a temperature molto diverse e in assenza di acqua anche per mesi, e quindi nella stiva di una nave ad esempio.In alcuni paesi europei la zanzara tigre non c’è ancora, ma sta pian piano espandendo il proprio areale, cioè la zona in cui prospera: negli ultimi dieci anni è arrivata in cinque nuovi paesi europei.La diffusione della zanzara tigre in Europa: è ben presente nelle regioni indicate in rosso, assente da quelle indicate in verde, appena introdotta in quelle indicate in giallo (ECDC)Ci sono poi altre tre specie di zanzare invasive che si sono stabilite in alcune regioni europee. Due sono arrivate anche in Italia, dove infatti sono state citate più volte sui giornali negli ultimi anni: la zanzara giapponese (Aedes japonicus) e la zanzara coreana (Aedes koreicus). Entrambe possono essere confuse con la zanzara tigre perché hanno a loro volta delle macchie bianche; per il momento sono presenti solo nel nord-est del paese e, per quanto riguarda la sola zanzara coreana, in Liguria.La zanzara giapponese è originaria di vari paesi dell’Asia orientale e non solo del Giappone. Sopporta bene anche le temperature che si registrano d’inverno nelle regioni temperate e può sopravvivere in assenza di acqua stagnante, a differenza della zanzara tigre. Grazie a queste caratteristiche si è stabilita negli Stati Uniti e nell’Europa centrale, dove è arrivata a partire dagli anni Novanta grazie ai commerci internazionali. Si sa che potrebbe a sua volta fare da vettore per i virus della febbre West Nile, della dengue e della chikungunya.La diffusione della zanzara giapponese in Europa (ECDC)La zanzara coreana, un po’ più presente in Italia ma meno in Europa rispetto a quella giapponese, ha cominciato a diffondersi più di recente ma sembra a sua volta più capace di sopportare temperature basse rispetto alla zanzara tigre. In alcune zone della Russia ha trasmesso un virus che causa l’encefalite che però non è presente in Europa. Come le altre specie del genere Aedes è attiva anche nelle ore diurne.La diffusione della zanzara coreana in Europa (ECDC)Una specie di zanzara più preoccupante per l’ECDC è la cosiddetta zanzara della febbre gialla (Aedes aegypti), che è originaria dell’Africa, ha a sua volta macchie bianche ed è ritenuta la più pericolosa per il trasporto dei virus; la malattia da cui prende il nome peraltro ha sintomi più gravi rispetto alla febbre West Nile e alla dengue. Da tempo la zanzara della febbre gialla si è espansa lungo le coste orientali del mar Nero, in alcune regioni della Russia, della Georgia e della Turchia, e nell’ultimo anno secondo i dati dell’ECDC anche a Cipro – l’isola del Mediterraneo orientale che è anche un paese membro dell’Unione Europea.Per questa come per le altre specie comunque il fatto che sia presente non comporta necessariamente la trasmissione di malattie e in particolare la trasmissione della febbre gialla, il cui virus non è presente in Europa.– Leggi anche: Perché certe zanzare preferiscono pungere noi invece che altri animali LEGGI TUTTO

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    Le Nazioni Unite hanno adottato il primo trattato per proteggere la vita marina in alto mare

    Lunedì i 193 paesi membri delle Nazioni Unite hanno adottato il trattato per proteggere la vita marina in alto mare. Il trattato mira a proteggere la biodiversità nelle acque al di fuori dei confini nazionali (l’”alto mare”), che coprono quasi la metà della superficie terrestre ma sono finora state in larga parte escluse da tutti i trattati esistenti sulla preservazione della biodiversità. Nelle Nazioni Unite si discuteva di questo trattato da vent’anni, ma si è trovato un accordo sul testo soltanto nel marzo di quest’anno.Il nuovo accordo è considerato particolarmente importante perché negli ultimi decenni gli animali e le piante marine sono diventati sempre più vulnerabili non solo a causa degli effetti del cambiamento climatico, ma anche per via della pesca eccessiva, del traffico navale e dell’inquinamento.Per entrare in vigore il testo dovrà essere ratificato da 60 paesi: lo si potrà fare a parrtire dal 20 settembre, quando i leader mondiali si troveranno per l’incontro annuale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il nuovo accordo contiene 75 articoli: tra le altre cose, verrà creato un nuovo organismo per gestire la conservazione della vita oceanica e istituire aree marine protette in alto mare, con l’obiettivo di trasformare il 30 per cento delle acque internazionali in mare aperto in aree protette entro il 2030. Verranno inoltre stabilite delle regole su come svolgere le valutazioni di impatto ambientale sulle attività commerciali negli oceani.– Leggi anche: Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancora (Pixabay) LEGGI TUTTO

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    Una femmina di coccodrillo si è riprodotta da sola

    Una femmina di coccodrillo in uno zoo del Costa Rica si è riprodotta da sola, in un raro caso di partenogenesi in questa specie. Nel gennaio del 2018 l’animale aveva deposto 14 uova, nonostante fosse vissuto in isolamento per 16 anni senza avere contatti con altri simili. Sorpresi dalla circostanza, i responsabili dello zoo avevano selezionato sette uova e le avevano messe all’interno di una incubatrice. Dopo tre mesi le uova non si erano ancora schiuse e si era quindi deciso di analizzarle, scoprendo che all’interno di una c’era il feto di un coccodrillo completamente formato, ma non vitale. Servivano però ulteriori analisi per confermare che la femmina di coccodrillo si fosse riprodotta autonomamente.Come racconta uno studio sulla vicenda pubblicato sulla rivista scientifica Biology Letters, i test del DNA avevano rivelato che la madre e il feto erano sostanzialmente identici dal punto di vista del materiale genetico, fatta eccezione per le estremità dei cromosomi del feto. Possiamo immaginare i cromosomi come matasse a forma di X (fatta eccezione del cromosoma Y) per la trasmissione delle informazioni genetiche.Le differenze riscontrate con le analisi suggerivano che la cellula uovo prodotta dalla madre non si fosse unita con uno spermatozoo, come avviene normalmente nella fecondazione, ma con un “globulo polare”, una delle piccole sacche cellulari che si formano insieme alla cellula uovo vera e propria contenenti cromosomi molto simili a quelli materni. Di solito i globuli polari diventano materiale di scarto e non sono coinvolti direttamente nella riproduzione, ma in alcuni casi si possono fondere con la cellula uovo, completando il materiale genetico in assenza di uno spermatozoo e portando quindi alla partenogenesi.Il fenomeno è abbastanza comune in varie specie di uccelli, pesci, serpenti e lucertole, mentre non era mai stato osservato tra i Crocodylia, l’ordine di rettili che comprende i coccodrilli, gli alligatori e i caimani, per citarne alcuni. La femmina di coccodrillo nel Costa Rica era stata portata al Parque Reptilandia, un parco per i rettili, quando aveva due anni, nel 2002, e da allora non aveva avuto contatti con propri simili. Questa circostanza esclude la possibilità di un concepimento ritardato, dove uno o più spermatozoi riescono a sopravvivere a lungo (sono stati osservati casi di anni) nell’apparato riproduttivo della femmina prima di fecondare una cellula uovo.Non è ancora chiaro come mai alcuni animali riescano a riprodursi per partenogenesi. Un’ipotesi è che questa capacità possa rivelarsi utile nei periodi di prolungata assenza di maschi disponibili per la riproduzione, in modo da garantire comunque il proseguimento della specie. Una teoria simile contempla la possibilità che la partenogenesi avvenga con più probabilità nelle specie a rischio di estinzione. Altri ipotizzano che si tratti semplicemente di un fenomeno del tutto casuale e che non abbia una grande utilità per buona parte delle specie viventi odierne. Se la partenogenesi fosse molto comune, la varietà genetica degli esemplari sarebbe molto più bassa e indebolirebbe le specie.La maggiore disponibilità di sistemi per le analisi genetiche ha comunque reso evidente negli ultimi anni una quantità di partenogenesi superiore alle aspettative, come dimostra anche il caso della femmina di coccodrillo nel Costa Rica. La sua storia potrebbe aggiungere qualche elemento affascinante sui lontani parenti degli odierni coccodrilli come i dinosauri e gli pterosauri, che si sospetta da tempo avessero la capacità di riprodursi da soli in determinate circostanze. I fossili non permettono di recuperare il materiale genetico di quegli animali, quindi forse non sapremo mai se la partenogenesi fosse effettivamente comune tra alcune delle loro specie. LEGGI TUTTO

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    È sbagliato dare a una nuova specie il nome di una persona?

    Caricamento playerNell’aprile del 2022 l’entomologo statunitense Derek Hennen descrisse in un articolo scientifico pubblicato insieme a due suoi colleghi 17 nuove specie di millepiedi del genere Nannaria (detti anche millepiedi dagli artigli ritorti) scoperte nella catena montuosa degli Appalachi, nella parte orientale dell’America del Nord. Nel dare un nome a due nuove specie da lui scoperte Hennen si ispirò al nome di sua moglie Marian per una delle due (Nannaria marianae) e a quello della cantautrice Taylor Swift, di cui è un grande fan, per l’altra specie (Nannaria swiftae).Per quanto stravagante possa sembrare in alcuni casi, la prassi di utilizzare il nome di una persona per decidere la definizione scientifica di un organismo vivente è abbastanza comune. Si stima che circa il 20 per cento di tutti i nomi in uso per le specie animali siano eponimi, cioè nomi dati in onore di una o più persone specifiche. Taylor Swift è soltanto una delle migliaia di persone famose da cui sia stato tratto il nome di una specie, di cui esiste peraltro una raccolta su Wikipedia talmente ampia da essere suddivisa per periodi storici.A marzo, riprendendo una discussione in corso già da tempo, un gruppo internazionale di ricercatori e ricercatrici dell’Università di Porto (UP), in Portogallo, e di altre sei università in diversi paesi del mondo ha pubblicato su una rivista del gruppo Nature un articolo in cui propone di rimuovere gli eponimi dalle modalità di attribuzione dei nomi alle nuove specie. La critica condivide qualche principio con quella che all’interno del movimento “Black Lives Matter” portò nel 2020 all’abbattimento di alcuni monumenti dedicati a personaggi del passato coloniale e razzista dei paesi occidentali. Ma si basa principalmente su considerazioni più ampie e generali.L’idea alla base dell’articolo, intitolato Non c’è più posto per gli eponimi nella nomenclatura biologica del XXI secolo, è che questa prassi sia «ingiustificabile» a prescindere da chi sia la persona a cui la nuova specie viene dedicata, perché riflette un approccio riduttivo e intrinsecamente colonialista. «La biodiversità della Terra fa parte di un patrimonio globale che non dovrebbe essere banalizzato dall’associazione con un singolo individuo umano, qualunque sia il suo valore percepito», affermano gli autori e le autrici dell’articolo, aggiungendo che l’eliminazione di questa prassi comporterebbe diversi benefici sia per la conservazione delle specie che per la società.Altri studiosi, pur condividendo in parte questo punto di vista, sostengono che l’utilizzo degli eponimi possa essere – e di fatto è, in molti casi – un giusto riconoscimento ai ricercatori che più si sono occupati dello studio di una determinata specie e meritano di essere ricordati. Suggeriscono quindi una riforma della tassonomia degli organismi viventi che, anziché eliminare la possibilità degli eponimi, includa piuttosto un processo di valutazione preliminare dell’adeguatezza delle proposte da parte della comunità scientifica. Tale processo potrebbe tuttavia comportare di volta in volta una serie di rallentamenti e complicazioni, obiettano altri studiosi ancora, e in generale richiederebbe una valutazione “politica” che non rientra nei compiti degli scienziati.– Leggi anche: La scienza non è “neutra”Avere nomi scientifici stabili e universalmente accettati è una condizione fondamentale per una condivisione e una comunicazione dei dati chiara e inequivocabile nelle scienze moderne. L’attuale classificazione tassonomica degli organismi deriva da un metodo introdotto nel XVIII secolo dall’influente naturalista e accademico svedese Carlo Linneo, basato sulle somiglianze tra gli esseri viventi. Linneo codificò una nomenclatura binomiale, in base alla quale ciascuna specie è definita dalla combinazione di due nomi: il genere a cui appartiene la specie (Nannaria, per esempio) seguito da un epiteto per distinguere quella specie dalle altre appartenenti allo stesso genere (swiftae da marianae, per esempio).Nel caso di moltissime specie gli epiteti sono eponimi risalenti a quel primo periodo in cui naturalisti e collezionisti classificarono migliaia di nuove specie utilizzando la nomenclatura binomiale. E queste attività rientrarono il più delle volte in più ampi programmi di colonizzazione delle potenze europee nel corso del XVIII, XIX e XX secolo. Il risultato è che nella lista degli eponimi esiste una sproporzione nettissima verso quelli derivati da nomi di comandanti, conquistatori, collezionisti e studiosi che, nel caso dell’avifauna degli Stati Uniti, per esempio, trasformarono il continente in un insieme di omaggi alla conquista e alla colonizzazione, ha scritto recentemente sull’Atlantic il giornalista scientifico Ed Yong, riassumendo la discussione in corso.Negli ultimi anni, all’interno di un processo più ampio di rivalutazione degli effetti del colonialismo e del razzismo sistemico sulle istituzioni pubbliche, anche la scelta degli eponimi di alcune specie è stata oggetto di contestazioni. Nel 2018 gli ornitologi Robert Driver e Alexander Bond proposero all’American Ornithological Society, la principale organizzazione statunitense di ornitologia, di cambiare il nome di una specie di uccello passeriforme, lo zigolo di McCown (Rhynchophanes mccownii), ma la loro proposta fu respinta. Questa specie prende il nome da un naturalista dilettante e ufficiale dell’esercito, John P. McCown, che nel 1851 sparò a uno stormo di allodole e colpì anche un esemplare di passeriforme mai classificato prima di allora.A parte l’idea contestabile di nominare una specie dopo che il primo europeo ne raccolse un esemplare «quando indubbiamente i popoli indigeni conoscevano quella specie da millenni», scrissero Driver e Bond, McCown fu un comandante in capo dell’esercito degli Stati confederati impegnato durante la Guerra civile nella battaglia per la conservazione della schiavitù. Condusse missioni contro diverse tribù indigene lungo il confine canadese, tra il 1840 e il 1841, e contro la popolazione dei Seminole in Florida, tra il 1856 e il 1857.Descrivendo le ragioni del rifiuto della proposta, i membri di un comitato dell’American Ornithological Society obiettarono che «giudicare le figure storiche in base agli attuali standard morali è problematico». E si dissero preoccupati riguardo a quali potrebbero essere i criteri su «dove tracciare la linea per questo tipo di cambiamento», sostenendo che chi si occupa di tassonomia e nomenclatura dovrebbe piuttosto «lottare per la stabilità nei nomi», a meno che non ci siano motivi straordinariamente convincenti per cambiarli.– Leggi anche: L’ornitorinco ci ha sempre mandati in crisiL’orientamento dell’organizzazione cambiò nel 2020, dopo l’uccisione di George Floyd e i successivi movimenti di protesta, che coinvolsero anche il mondo dell’ornitologia nel dibattito sulle discriminazioni razziali in corso in tutto il paese. Molti naturalisti, osservatori e appassionati sostennero che fosse necessario cambiare gli eponimi problematici (sono eponimi i nomi di circa 150 specie di uccelli del Nord America). Due ornitologi, Jordan Rutter e Gabriel Foley, avviarono a giugno del 2020 la campagna Bird Names for Birds, con l’obiettivo di rinominare tutti gli uccelli americani il cui nome fosse un eponimo.A luglio l’American Ornithological Society riconsiderò la proposta di Driver e Bond a causa «dell’accresciuta consapevolezza sulle questioni razziali», e ad agosto il nome comune dello zigolo di McCown fu cambiato in zigolo dal becco grosso. Gruppi di studiosi motivati da questi stessi sentimenti chiesero e ottennero anche in Europa una modifica dei nomi comuni di altri animali, tra cui una specie di falena (Lymantria dispar dispar) il cui nome comune gypsy moth, “falena zingara”, fu modificato in spongy moth, “falena spugnosa”.Tra le istituzioni scientifiche responsabili dell’approvazione dei nomi delle nuove specie esistono posizioni generalmente meno inclini all’introduzione di cambiamenti. Secondo il ricercatore portoghese Luis Ceríaco, membro della Commissione internazionale di nomenclatura zoologica (International Commission on Zoological Nomenclature, ICZN), un gruppo di 26 scienziati che fornisce le linee guida per la denominazione degli organismi viventi, l’obiettivo della nomenclatura deve essere garantire l’uniformità in diversi campi di ricerca. Le regole, ha detto Ceríaco alla rivista Undark, dovrebbero «consentire alle persone di sapere davvero di cosa stanno parlando quando si riferiscono alle specie».Per questo motivo la tendenza dell’ICZN, così come quella della International Association for Plant Taxonomy, l’organizzazione internazionale che si occupa di tassonomia e nomenclatura nella botanica, è di dare priorità ai nomi che esistono da più tempo e modificarli soltanto per motivi scientifici. I nomi possono cambiare perché una specie viene riclassificata o suddivisa in diverse nuove specie, per esempio, o quando gli scienziati scoprono un nome alternativo che era stato assegnato in precedenza e poi dimenticato. Le proposte di modificare i nomi delle specie per ragioni sociali o politiche sono invece controverse: criticate da alcuni e sostenute da altri.Ceríaco è uno dei commissari dell’ICZN autori di un articolo pubblicato a febbraio scorso sulla rivista Zoological Journal of the Linnean Society e contrario alla ridenominazione delle specie per motivi etici da parte dell’ICZN. Decidere quali eponimi debbano essere modificati perché percepiti come offensivi, secondo Ceríaco e gli altri, non è un compito della commissione. «A causa della natura intrinsecamente soggettiva di queste valutazioni, sarebbe inopportuno per la commissione esprimere giudizi su tali questioni di moralità, perché non esistono parametri specifici per determinare le soglie di offensività di un nome scientifico per una determinata comunità o individuo, nel presente o nel futuro».– Leggi anche: Se volete chiamare col vostro nome una nuova specie, vi basta vincere un’astaUn esempio citato spesso tra i più problematici è quello di una rara specie di coleottero cieco, l’Anophthalmus hitleri, presente soltanto in alcune grotte in Slovenia. A scegliere il nome di questo coleottero fu un naturalista austriaco, Oskar Scheibel, che lo scoprì nel 1933 e decise di dedicarlo al neocancelliere tedesco Adolf Hitler, che apprezzò la scelta e scrisse a Scheibel per ringraziarlo. A causa di questo particolare eponimo, al di là delle considerazioni di tipo etico, gli esemplari di questo coleottero sono diventati nel corso del tempo un obiettivo di molti collezionisti di cimeli nazisti, e questa specie è attualmente considerata a rischio di estinzione.Nemmeno il caso dell’Anophthalmus hitleri è stato ritenuto dall’ICZN un esempio di ragioni appropriate per cambiare il nome di una specie, nonostante le numerose richieste. «Siamo assolutamente fermi nel non regolamentare sulla base dell’etica, non è il nostro mandato», ha spiegato all’Atlantic il presidente della commissione Thomas Pape.In un numero del 2010 della rivista American Entomologist l’importante entomologa statunitense May Berenbaum scrisse che la logica nel preservare “hitleri” è che il nome di per sé non è offensivo. «Francamente, però, un nome scientifico che condanni una specie all’estinzione per mano di fanatici collezionisti di cimeli fascisti provoca un’offesa considerevole, almeno per me», aggiunse Berenbaum, suggerendo che il coleottero «meriterebbe di essere liberato dalla sua sfortunata storia etimologica».Un esempio problematico citato in botanica riguarda l’estesa e da alcuni criticata diffusione della radice linguistica “rhodes-” nella nomenclatura delle piante, in onore dell’imprenditore e politico inglese Cecil John Rhodes, a cui fu intitolata l’intera colonia britannica della Rhodesia (che occupava il territorio dello stato oggi chiamato Zimbabwe). Arrivato in Sudafrica alla fine del XIX secolo, Rhodes ebbe un ruolo rilevantissimo nell’evoluzione storica dell’Africa coloniale e nell’ispirazione delle politiche segregazioniste. Nel 2015, a fronte delle proteste di centinaia di studenti, la statua di Rhodes posta davanti all’università sudafricana di Città del Capo venne rimossa su richiesta del consiglio dell’università.Le richieste di modificare la nomenclatura hanno tuttavia portato alcuni tassonomisti a sostenere che l’introduzione di valutazioni politiche nella tassonomia aprirebbe una serie di questioni spinose. In un articolo pubblicato nel 2022 il botanico ucraino Sergei Mosyakin si è chiesto quali dovrebbero essere le linee di demarcazione utili per gli scienziati per distinguere gli epiteti buoni da quelli cattivi. «Dovremmo sbarazzarci dei nomi scientifici delle piante associate alla regina Vittoria, che governò il più grande impero coloniale del XIX secolo?», si è chiesto Mosyakin. In questo caso servirebbe trovare nuovi nomi, «politicamente neutri», sia a tutto un genere di piante acquatiche dedicato alla regina Vittoria, il genere Victoria, che a numerose specie tra cui l’Agave victoriae-reginae e il Dendrobium victoriae-reginae. E un discorso simile vale anche per George Washington e Thomas Jefferson.Esiste un codice etico fornito dall’ICZN in base al quale nessuno scienziato dovrebbe consapevolmente scegliere un nome offensivo per una nuova specie, ha detto Ceríaco a Undark. Ma la commissione è comunque molto attenta a lasciare alle persone una certa libertà nella scelta dei nomi, ragione per cui anche quelli che potrebbe infrangere il codice etico tendenzialmente non vengono modificati.«Raccomandiamo vivamente alle persone di essere sicure che ciò che sceglieranno non offenderà nessuno», ha detto Ceríaco, sostenendo che scegliere in alternativa di giudicare quali nomi siano accettabili e quali no scoperchierebbe «un vaso di Pandora». Sottoporre la scelta dei nomi a una valutazione collettiva di questo tipo, secondo Ceríaco, influenzerebbe significativamente il lavoro dei ricercatori in tutto il mondo, che dipende da un quadro tassonomico stabile. E cambiare i nomi finirebbe probabilmente per provocare più complicazioni che mantenerli.– Leggi anche: I “pesci” non esistonoConsapevoli del fatto che cambiare tutti gli eponimi problematici già in uso da secoli sarebbe impraticabile, gli autori e le autrici dell’articolo pubblicato a marzo su Nature Ecology and Evolution sostengono che l’ICZN potrebbe rafforzare le regole del codice per limitare al massimo l’utilizzo degli eponimi in futuro. E potrebbe incaricare i tassonomisti delle regioni native delle varie specie di rinominare le proposte che giungono alla commissione.Il problema della prassi degli eponimi, secondo il gruppo, è che è indissolubilmente legata alla storia coloniale della scienza: ragione per cui molte specie finirono per prendere il nome da europei bianchi, maschi e di classe elevata. In Africa 1.565 specie di uccelli, rettili, anfibi e mammiferi (ossia un quarto dei vertebrati endemici) sono eponimi, osservano gli autori e le autrici dello studio, e «i ricercatori delle ex colonie potrebbero sentirsi giustamente a disagio, risentiti o addirittura arrabbiati per i continui richiami ai regimi imperiali e/o politici che si riflettono nei nomi delle specie autoctone ed endemiche».Finché gli organismi prenderanno il nome da persone, secondo la ricercatrice portoghese Patrícia Guedes, coautrice dell’articolo, queste discussioni continueranno. «Sono sicura che esistono altri modi di onorare le persone che hanno contribuito alla scienza, diversi dall’attribuire il loro nome a un altro essere vivente», ha detto Guedes.Secondo altri studiosi, la prassi di attribuire degli eponimi alle nuove specie può però avere anche risvolti positivi. Scegliere personaggi famosi può coinvolgere la comunità e attirare l’attenzione verso scoperte e ricerche che potrebbero passare altrimenti inosservate, come per esempio quella di una specie di vipera che prende il nome da James Hetfield dei Metallica (Atheris hetfieldi) o quella di un serpente non velenoso che prende il nome da Leonardo DiCaprio (Sibon irmelindicaprioae).Inoltre, come del resto sostenuto anche dagli autori e dalle autrici dell’articolo uscito a marzo, gli eponimi danno ai ricercatori la possibilità di scegliere come nome da dare a una nuova specie quello di scienziati dei paesi in cui quelle specie vengono scoperte, come per esempio un geco endemico in Angola (Pachydactylus maiatoi) che prende il nome dal biologo angolano Francisco Maiato Gonçalves. LEGGI TUTTO