More stories

  • in

    Una pillola per allungare la vita dei cani

    Caricamento playerA fine ottobre in Portogallo è morto Bobi, quello che secondo il Guinness World Records era il cane più anziano del mondo: aveva 31 anni e mezzo. La notizia era stata ripresa dai giornali e discussa sui social network, con qualche dubbio sull’effettiva età del cane al momento della morte, e aveva portato a nuovi dibattiti e riflessioni sulla longevità dei cani in generale e su come cambia il nostro rapporto con loro, man mano che invecchiano.L’aspettativa di vita di un cane varia moltissimo a seconda della razza e della taglia. Chi decide di crescerne uno sa che molto probabilmente farà parte di una porzione relativamente ridotta della sua esistenza e che gli sopravviverà. È inevitabile e per questo riscuotono un certo successo i prodotti, come mangimi e integratori, che vengono venduti come soluzioni specifiche per contribuire a mantenere in salute i cani anziani. Le confezioni e le pubblicità di questi prodotti non promettono esplicitamente di allungargli la vita, ma comunicano qualcosa che ci si avvicina e che risponde al comprensibile desiderio di prolungare il più possibile la convivenza con il proprio cane.È un settore economicamente florido e che potrebbe presto arricchirsi di farmaci sviluppati proprio con lo scopo di rendere più longevi i cani. Le sperimentazioni sono già in corso, in alcuni casi sono alquanto avanzate, e potrebbero un giorno offrire spunti e dati importanti per il passaggio successivo: rallentare il processo di invecchiamento negli esseri umani.Tra le società del settore più citate negli ultimi anni c’è Loyal, una startup di San Francisco (California) fondata nel 2019 con l’obiettivo esplicito di prolungare la vita dei cani. In poco tempo, l’azienda ha raccolto finanziamenti per circa 60 milioni di dollari e ha curato lo sviluppo di due principi attivi sperimentali. Lo scorso martedì 28 novembre uno di questi, per ora definito con il nome di sviluppo LOY-001, ha ricevuto un primo parere positivo da parte della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale degli Stati Uniti che si occupa di farmaci.– Leggi anche: Perché può essere così difficile elaborare il lutto per la morte di un animale domesticoUn gruppo di lavoro della FDA ha inviato una comunicazione a Loyal specificando che: «I dati che ci avete fornito sono sufficienti per dimostrare una ragionevole aspettativa di efficacia» nel principio attivo sperimentale. L’autorizzazione per poterlo commercializzare è ancora distante, ma la dichiarazione è comunque un passaggio importante per raggiungere la cosiddetta “approvazione condizionale estesa”, una procedura prevista dalla FDA per accelerare l’autorizzazione di un farmaco in ambito veterinario. Riguarda di solito principi attivi che rispondono a esigenze per cui non ci sono ancora trattamenti e che richiedono test clinici complessi e di lunga durata.La FDA deve ancora analizzare molti altri dati forniti dall’azienda legati anche alle garanzie offerte da Loyal sulla sicurezza del farmaco e della sua produzione. Se non ci saranno inconvenienti, la startup potrebbe ricevere un’autorizzazione preliminare intorno al 2026, seppure vincolata ad alcune condizioni. Il trattamento potrebbe quindi essere poi messo in vendita come prodotto per estendere la vita dei cani. Nel frattempo dovrà però continuare a svolgere i test clinici su una grande quantità di animali, in modo da fornire ulteriori dati su sicurezza ed efficacia alla FDA.Non ci sono molti dettagli intorno a LOY-001 sia perché sul principio attivo non ci sono stati ancora molti studi, sia perché Loyal mantiene riservate alcune caratteristiche in modo da tutelarsi contro la concorrenza in un settore che si sta velocemente popolando con iniziative simili. L’azienda prevede di somministrare LOY-001 periodicamente dal veterinario per intervenire sul fattore di crescita insulino-simile 1 (IGF-1), un ormone molto presente nella fase della pubertà e coinvolto nei meccanismi della crescita. I cani di grande taglia hanno spesso valori di IGF-1 molto più alti dei cani di dimensioni più ridotte, a parità di età, e secondo alcune ricerche questi alti livelli potrebbero essere responsabili dell’invecchiamento più rapido.Un cane di grossa taglia arriva ad avere 28 volte i livelli di IGF-1 di un cane di piccola taglia. Questa disparità è stata probabilmente causata dai numerosi incroci effettuati nei secoli scorsi per selezionare nuove razze canine. L’aspettativa di vita di un chihuahua è per esempio di 15 anni contro gli 8 di un alano danese.(Jack Taylor/Getty Images)I gruppi di ricerca di Loyal si sono quindi chiesti se portare i livelli di IGF-1 nei cani di grande taglia a quantità comparabili con quelli dei cani più piccoli potesse avere qualche effetto, per lo meno per le numerose razze canine di grandi dimensioni. Lo hanno fatto partendo da precedenti ricerche che avevano già esplorato il ruolo di quell’ormone nei processi di invecchiamento, svolti in laboratorio su piccoli organismi come i nematodi o nei topi. In quegli esperimenti era stato rilevato un allungamento della vita degli animali nel momento in cui si riduceva IGF-1 e un accorciamento della vita nel caso di un aumento dei livelli dell’ormone.Loyal ritiene che l’invecchiamento accelerato dei cani di grande taglia debba essere considerato come una condizione medica e che quindi debba essere trattata per prevenirla. Oltre alle iniezioni, la società sta lavorando a un’ulteriore versione del farmaco da somministrare sotto forma di pillole. La società non ha ancora pubblicato uno studio scientifico, ma ha segnalato l’esito di un test su piccola scala dal quale è emerso che LOY-001 sembra agire su alcuni meccanismi del metabolismo riconducibili ai processi di invecchiamento.È un risultato importante, ma l’azienda non ha ancora dimostrato che in questo modo si possa allungare la vita dei cani. Per farlo, Loyal dovrà organizzare un test clinico su larga scala, raccogliere una grande quantità di dati e derivare poi da questi le informazioni per confermare l’efficacia e la sicurezza del trattamento. Alcuni test sono già in corso, ma richiedono molto tempo e secondo altri esperti sarà difficile stabilire con chiarezza i benefici in termini di un eventuale allungamento della vita.L’approccio seguito da Loyal è simile a quello seguito da altri gruppi di ricerca, ma dedicato a un’altra molecola: la rapamicina, normalmente impiegata per ridurre il rigetto nelle persone che vengono sottoposte a un trapianto d’organi. La sostanza interviene sulla proteina mTOR, che ha il compito di trasmettere i segnali degli ormoni della crescita alle cellule. Ne riduce le funzioni e in varie sperimentazioni si è visto che può allungare la vita di alcuni tipi di lievito, di nematodi, moscerini e ratti.Gli effetti della rapamicina sui cani sono stati testati di recente su due piccoli gruppi di individui: il primo aveva ricevuto la molecola, mentre il secondo una sostanza che non faceva nulla (placebo). Al termine dei sei mesi della sperimentazione, il 27 per cento delle persone i cui cani appartenevano al primo gruppo ha segnalato miglioramenti nel comportamento e nella salute dei propri animali; nel gruppo del placebo gli stessi risultati sono stati segnalati circa nell’8 per cento dei cani.L’impiego della rapamicina è discusso da tempo anche per eventuali terapie per rallentare l’invecchiamento negli esseri umani, ma i dati per ora a disposizione sono limitati e sono stati rilevati alcuni effetti avversi da non sottovalutare. I più importanti sono a carico del sistema immunitario e per questo i dosaggi devono essere regolati attentamente a seconda dei pazienti, in modo da tenerli sotto controllo. LOY-001 sembra dare meno problemi, almeno secondo Loyal che ha segnalato per lo più eventi avversi gastrointestinali nei cani ai quali è stato somministrato. Anche in questo caso, però, servono più dati e su un numero maggiore di cani.(Matt Cardy/Getty Images)Lo sviluppo di farmaci di questo tipo si porta inoltre dietro numerose implicazioni etiche che secondo gli esperti dovrebbero essere approfondite, insieme a quelle prettamente cliniche. LOY-001 è stato pensato come molecola da somministrare a cani che sono in salute per provare a farli vivere più a lungo, la sua somministrazione dovrebbe quindi iniziare prima che il cane diventi anziano. Sarebbe una forma di prevenzione diversa da quella che si dovrebbe sempre fare, curando per esempio l’alimentazione e l’attività fisica.Non è soprattutto chiaro come i cani trattati con farmaci di questo tipo vivrebbero i loro ultimi anni, se con altri problemi di salute non letali, ma che comportano comunque un peggioramento della qualità della vita come artriti, difficoltà respiratorie o problemi cognitivi. Il prolungamento della loro esistenza sarebbe inoltre per il loro bene o per quello delle persone che non vogliono separarsene? Le società come Loyal ritengono che il problema non si porrebbe, perché semplicemente i cani diventerebbero vecchi più lentamente, ma si porrebbero comunque problemi legati al loro mantenimento in salute.Su scale e implicazioni naturalmente molto diverse, gli stessi problemi si porrebbero anche nel caso in cui dai cani si passasse a molecole che aiutano gli esseri umani a rallentare l’invecchiamento, un ambito in cui la ricerca investe molte risorse da tempo. I cani in questo senso sono visti come un buon modello di partenza per acquisire conoscenze, che potrebbero essere poi impiegate su di noi.Lo studio di cani molto longevi potrebbe offrire qualche ulteriore spunto alla ricerca, anche se le cause per cui a volte alcuni cani arrivano a vivere molto a lungo continuano a essere sfuggenti. Bobi, il cane del record di longevità, apparteneva alla razza “rafeiro do Alentejo” di taglia medio-grande i cui individui di solito vivono molto meno di 31 anni e mezzo. La famiglia che aveva cresciuto Bobi in un paese nel Portogallo centrale ha detto che il cane era libero di girare come preferiva e che viveva insieme ad altri animali. La famiglia non aveva mai adottato particolari accorgimenti, ma ha detto di essere convinta che Bobi avesse buoni geni visto che la madre aveva vissuto fino a 18 anni.La storia di Bobi ha raccolto un certo scetticismo tra i veterinari, sia per la mancanza di prove molto convincenti sul fatto che fosse nato nel 1992 sia per la scarsa probabilità di un cane di quella razza che viva così a lungo. Hanno inoltre segnalato che il record precedente era più verosimile: apparteneva a Spike, un chihuahua morto nel 2022 nell’Ohio (Stati Uniti) quando aveva 23 anni e sette giorni. I cani di questa razza sono piuttosto longevi anche per via della loro taglia più piccola. LEGGI TUTTO

  • in

    Weekly Beasts

    Ogni anno il presidente in carica degli Stati Uniti concede la grazia a un tacchino per il giorno del Ringraziamento, e quel tacchino viene ovviamente fotografato durante l’apposita cerimonia alla Casa Bianca: nella raccolta degli animali da fotografare in settimana si vede quello di quest’anno, molto da vicino. Poi ci sono un giaguaro, un tucano e un alligatore nel Pantanal, nelle zone interessate dagli incendi a causa del caldo anomalo, per finire con la lingua di una giraffa e un pinguino in Antartide. Bonus: le foto che hanno vinto il concorso che premia le foto di animali che fanno ridere, qui..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

  • in

    Animali, buffi

    È stata annunciata l’immagine vincitrice dei Comedy Wildlife Photography Awards, un concorso che premia ogni anno le foto di animali più divertenti: mostra un canguro che sembra fingere di suonare una chitarra ed è stata scattata da Jason Moore fuori Perth, in Australia, mentre osservava questo e altri individui in un prato.Un canguro grigio occidentale a Perth, Australia, Air Guitar Roo, © Jason Moore/Comedy Wildlife Photography Awards 2023Il concorso è stato fondato nel 2015 da due fotografi professionisti e ambientalisti, Paul Joynson-Hicks e Tom Sullam, con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema della conservazione della fauna selvatica e dell’ambiente in modo leggero e positivo.Altre foto sono state premiate in categorie minori: Jacek Stankiewicz ha scattato quella di due verdoni che sembrano discutere su un ramo e che ha vinto nelle categorie Junior (per fotografi sotto i 18 anni) e Affinity Photo People’s Choice Award (scelta dal pubblico). Poi ci sono un airone striato che cade in acqua, una lontra ballerina, una libellula su una tartaruga e una famiglia di sule..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

  • in

    Fino a poco tempo fa le tartarughe marine erano quasi un mistero

    Le tartarughe marine non sono animali che si incontrano facilmente: a meno che non vivano in cattività, passano sulla terraferma solo i primi momenti della loro vita, quando escono dalle uova su una spiaggia per spostarsi subito nel mare, e anni dopo, se sono femmine, per deporre le proprie uova. Anche per questo per secoli abbiamo saputo pochissime cose sulle sette specie di tartarughe marine esistenti, comprese le tartarughe liuto (Dermochelys coriacea), quelle più grandi (arrivano a 400 chili di peso), e tuttora dobbiamo scoprirne.Lo racconta l’ecologo e divulgatore scientifico statunitense Carl Safina nel libro Il viaggio della tartaruga, appena pubblicato da Adelphi nella sua collana Animalia, dedicata a saggi sul comportamento di altre specie animali: ne pubblichiamo un estratto. Il 9 dicembre Safina parlerà di tartarughe marine e altri animali a Peccioli (Pisa), in occasione della nuova edizione di “A Natale libri per te”, una manifestazione progettata in collaborazione col Post e coordinata dal suo peraltro direttore Luca Sofri.***Nonostante millenni di venerazione e di commercio, le tartarughe marine sono incredibilmente misconosciute. Molti fatti basilari sulle varie specie, sui territori di nidificazione e sul comportamento sono stati oggetto di dibattito fino in tempi molto recenti, e alcuni restano ancora sconosciuti. Era il 1959 quando una Tartaruga Liuto avvistata al largo di Soay, nei pressi dell’isola di Skye in Scozia, non solo finì sulle prime pagine dei giornali, ma divenne argomento di discussione – come possibile mostro marino – perfino nella letteratura specializzata. Un testimone dichiarò quasi fuori di sé: «Rimanemmo pietrificati e lo osservammo mentre si avvicinava sempre di più… come un mostro infernale di tempi preistorici».Un disegno raffigura un serpente marino (che altro, se no?), benché entrambi i testimoni oculari avessero tracciato discreti schizzi di una Tartaruga Liuto sopra il pelo dell’acqua, e nonostante la sobria descrizione del secondo testimone contenesse alcune scrupolose osservazioni («quando la bocca era aperta … potevo vedere delle crescite filamentose simili a viticci pendenti dal palato»: le proiezioni usate per trattenere le meduse). Il punto è che nessuno disse: «Oh, ma si tratta di una grossa tartaruga – potrebbe essere una Liuto»; in molti luoghi al di fuori dei tropici, infatti, la gente non aveva ancora alcuna familiarità con le tartarughe marine.Una tartaruga liuto su una spiaggia di Trinidad, vicino a un cane, nel 2013 (AP Photo/David McFadden)Fino agli anni Sessanta e Settanta nessuno dei principali territori di nidificazione delle Tartarughe Liuto era noto alla scienza; e solo negli anni Sessanta gli scienziati capirono che il sesso delle tartarughine è determinato dalla temperatura di incubazione delle uova. Negli anni Settanta si stava appena cominciando a scoprire che le tartarughe marine migrano. Ancora nel 1988 l’idea che le Liuto nidificanti nei Caraibi si spingessero fino a latitudini temperate era considerata tutta da dimostrare.Fino a metà degli anni Novanta l’origine delle giovani Tartarughe Caretta trovate in acque messicane rimase sconosciuta; il territorio di nidificazione più vicino era il Giappone – distante oltre diecimila chilometri – e, poiché imprese migratorie di tale entità erano ritenute quasi impossibili, alcuni studiosi continuarono a cercare siti sconosciuti nel Nuovo Mondo. Uno di loro osservò: « Una migrazione transpacifica supererebbe di gran lunga la portata geografica nota delle migrazioni delle tartarughe marine». (Soltanto qualche anno dopo, i trasmettitori satellitari e le targhette identificative avrebbero fatto a pezzi quelle posizioni, dimostrando che effettivamente le Caretta giapponesi e australiane nuotano da costa a costa nel bacino del Pacifico e che quasi tutte le specie marine sono magistrali navigatrici).Negli anni Novanta non si sapeva pressoché niente della localizzazione delle tartarughe neonate dal momento in cui lasciano la spiaggia dove si sono schiuse fino a quando ricompaiono come giovani individui delle dimensioni d’un vassoio; di diverse specie non sappiamo essenzialmente ancora nulla. Perfino negli anni Novanta i ricercatori si limitavano a ipotizzare che spesso le tartarughe tornassero a deporre le uova sulla spiaggia della propria schiusa (oggi, le evidenze fornite in tal senso dal DNA sembrano convincenti).Tartarughe liuto appena uscite dal proprio guscio su una spiaggia della Thailandia, nel 2021 (Sirachai Arunrugstichai/Getty Images)A metà del ventesimo secolo, e anche successivamente, gli scienziati discutevano se tre tipi di tartarughe marine fossero davvero specie distinte (come ricorderete, nel mondo ne esistono soltanto sette). Ancora negli anni Sessanta ci si scontrava sul fatto che la Tartaruga di Kemp fosse o meno una specie a sé. Nessuno scienziato ne aveva mai vista una deporre le uova, e così qualcuno pensava si trattasse di ibridi. Le nidificazioni di massa della Tartaruga Olivacea e di quella di Kemp, cui partecipavano decine di migliaia di individui che arrivavano insieme sulle spiagge con la luce del giorno, rimasero a quanto pare sconosciute alla scienza finché nel 1960 un documentario amatoriale – girato nel 1947, sulla nidificazione di massa della Tartaruga di Kemp – non giunse infine nelle sale consacrate.La Tartaruga a Dorso Piatto, una specie australiana, rimase ignota alla scienza fino agli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, e per cent’anni gli studiosi discussero se si trattasse effettivamente di una specie distinta. Ancora nel 1996 infuriava il dibattito sulla cosiddetta «Black Turtle», la Tartaruga Nera («infuriava» per chi si occupava di Tartarughe Nere): si trattava di una specie a sé oppure soltanto di una razza di Tartaruga Verde? (L’analisi genetica dimostra che sono semplicemente Tartarughe Verdi con una colorazione più scura).Il fatto che almeno alcune Liuto compissero viaggi di andata e ritorno dai territori di alimentazione a quelli riproduttivi, per poi far nuovamente rotta verso la stessa area generale di foraggiamento non fu confermato fino al 2005. Cosa piuttosto notevole, poi, sempre nel 2005 un articolo erudito ammetteva: «Se le giovani tartarughe si spostino andando semplicemente alla deriva, o invece nuotino attivamente controcorrente, è materia di qualche dibattito». Oggi il tracciamento satellitare ha confermato quello che era probabile: se ne hanno voglia, le giovani tartarughe entrano nel flusso della corrente e lo attraversano. La scienza avanza. Ma il punto è che le tartarughe svelano i propri segreti lentamente, e molti restano chiusi «tra le loro piastre corazzate».Traduzione di Isabella C. Blum© 2007 Carl SafinaPublished by arrangement with Jean V. NaggarLiterary Agency, Inc., and The Italian Literary Agency© 2023 Adelphi edizioni s.p.a. Milano LEGGI TUTTO

  • in

    La reintroduzione dei ghepardi in India non sta andando affatto bene

    Tra il 17 settembre 2022 e il 18 febbraio 2023 venti ghepardi sono stati portati in India dalla Namibia e dal Sudafrica per un progetto di reintroduzione, cioè per cercare di far tornare la specie nel paese, dove è estinta almeno dal 1952. Il progetto è stato molto apprezzato dal primo ministro indiano Narendra Modi, che in occasione del suo 72esimo compleanno era stato invitato ad aprire la gabbia del primo ghepardo rilasciato in libertà in India. Ma per il momento non si può dire che il piano di reintroduzione stia andando bene, anzi.Da marzo sei dei ghepardi arrivati dall’Africa sono morti, così come tre dei quattro cuccioli che erano nati nel frattempo. Tra luglio e agosto tutti i ghepardi superstiti che erano stati lasciati liberi all’interno del Parco nazionale di Kuno-Palpur, che si trova nel centro dell’India, sono stati ricatturati dal gruppo di esperti che segue il progetto e ora sono tenuti all’interno di zone recintate.In passato i ghepardi erano presenti in gran numero non solo in Africa, ma anche in alcune zone dell’Asia, dalla penisola arabica all’Afghanistan, con la sottospecie dei ghepardi asiatici, Acinonyx jubatus venaticus secondo la nomenclatura scientifica. Oggi ne restano pochissimi e solo in Iran: negli anni Settanta erano circa 300, adesso, secondo l’ultimo conteggio ufficiale iraniano, ce ne sarebbero solo 12.La specie è praticamente scomparsa a causa della riduzione del suo habitat per via delle attività umane, della scarsità di cibo dovuta a una più generale riduzione delle popolazioni di animali selvatici e della caccia: durante la dominazione britannica dell’India, venivano uccisi per evitare che sbranassero il bestiame. Negli scorsi decenni si è provato più volte a reintrodurli, ma senza successo, e perché il Project Cheetah fosse approvato era stata necessaria l’autorizzazione della Corte Suprema indiana. Gli animali presi per la reintroduzione venivano dalla Namibia e dal Sudafrica perché sono due tra i paesi dell’Africa meridionale con le più grandi popolazioni di ghepardi.Il piano iniziale del Project Cheetah prevedeva che i ghepardi provenienti dall’Africa si acclimatassero nell’ambiente indiano gradualmente: prima all’interno di aree recintate ristrette, per un periodo di quarantena di 50-70 giorni, poi dentro aree recintate più ampie per uno o due mesi e infine in libertà nel Parco di Kuno-Palpur, dopo essere stati dotati di radiocollari per seguirne gli spostamenti. Sempre secondo il piano iniziale, prima sarebbero stati liberati i maschi e poi, dopo qualche settimana, le femmine. Nell’esecuzione del piano però ci sono stati ritardi e problemi, tanto che dei 20 ghepardi arrivati dall’Africa solo 12 sono stati liberati. E dopo che due di quelli sono morti, così come quattro di quelli ancora in cattività, i superstiti che erano liberi nel territorio del parco sono stati ricatturati.Le cause di morte dei ghepardi sono elencate nel primo rapporto annuale del Project Cheetah, ma non sono tutte note con esattezza. Il primo individuo morto, una femmina proveniente dalla Namibia, aveva problemi di insufficienza renale pregressi che non hanno risposto alle cure date all’animale. Il secondo ghepardo morto era un maschio sudafricano, deceduto improvvisamente all’interno della recinzione di acclimatamento più ampia: non si sa perché. Un’altra femmina, sudafricana, è stata uccisa da un maschio durante un tentativo di accoppiamento. Tre dei cuccioli nati in India invece sono morti a causa del caldo estremo dello scorso maggio; il quarto è sopravvissuto, ma essendo stato rifiutato dalla madre ora viene accudito dai responsabili di Project Cheetah.Le morti più problematiche per il progetto sono state quelle di una femmina e due maschi appena dopo essere stati messi in libertà: sono morti per setticemia, cioè per un’infezione, legata a ferite che si erano formate vicino e sotto i radiocollari. «Queste circostanze sono senza precedenti per la specie e non erano state anticipate dagli esperti internazionali di ghepardi», spiega il rapporto. I ricercatori del progetto ritengono che i radiocollari non siano stati l’origine dei problemi dei ghepardi, ma piuttosto che abbiano facilitato lo sviluppo di infezioni che potrebbero essere state causate da insetti o parassiti indiani a cui i ghepardi, provenendo da un altro ambiente, erano particolarmente vulnerabili.Le persone che si occupano del Project Cheetah sono comunque ottimiste sulla reintroduzione e nel rapporto sottolineano che «alcune morti sono eventi inevitabili». Tuttavia non era previsto che morissero così tanti ghepardi ancora nella fase in cattività. In un articolo pubblicato sul quotidiano indiano The Hindu l’esperto di animali selvatici Ravi Chellam, amministratore delegato di Metastring Foundation, una società che si occupa di raccogliere dati sulla biodiversità indiana, ha rivolto alcune critiche al Project Cheetah e ipotizzato che nel rapporto sul primo anno della reintroduzione si sia cercato di giustificare a posteriori le morti dei ghepardi.Secondo Chellam il fatto che una dei ghepardi sia morta per un problema di salute pregresso potrebbe indicare che la scelta degli animali dall’Africa non è stata fatta nel migliore dei modi, considerando peraltro che il trasporto da un continente a un altro e la permanenza in cattività sono esperienze stressanti per un animale selvatico anche quando non è particolarmente vulnerabile. Anche la nascita dei cuccioli e la morte di un’altra femmina durante un tentativo di accoppiamento fa pensare a una gestione scorretta degli animali: «Perché c’è stata fretta di farli accoppiare in cattività quando sarebbe potuto succedere una volta lasciati liberi nel parco?».In generale Chellam pensa che il fatto che nove morti siano avvenute con gli animali in cattività sia problematico e che i responsabili del progetto dovrebbero anche valutare se ghepardi che hanno passato così tanto tempo in aree recintate ristrette possano poi sopravvivere in autonomia una volta liberati.Anche altri esperti internazionali di fauna selvatica hanno dei dubbi sulla bontà della gestione del progetto. Tra questi c’è il veterinario sudafricano, esperto di ghepardi, Adrian Tordiffe, che ha fatto parte di una commissione di consulenza per il Project Cheetah. Ha detto alla rivista Time che lui e altri esperti stranieri a un certo punto sono stati esclusi dalle riunioni della commissione e hanno ricevuto in ritardo le informazioni sugli animali malati.Attualmente si sta considerando di proseguire il progetto di reintroduzione in un altro parco naturale, sempre nello stato del Madhya Pradesh in cui si trova quello di Kuno-Palpur. È possibile che alcuni ghepardi siano liberati nella riserva di Gandhi Sagar entro la fine dell’anno. Sono poi attesi altri ghepardi dall’Africa l’anno prossimo: da progetto ne dovrebbero arrivare più o meno una dozzina ogni anno per i prossimi cinque anni, con l’obiettivo di creare una popolazione di almeno 40 individui.I ghepardi sono una specie considerata «vulnerabile» all’estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione. Dovrebbero essercene circa settemila in natura in tutto il mondo. LEGGI TUTTO

  • in

    Le cimici dei letti che infestano Parigi arriveranno anche in Italia?

    Le notizie sulla estesa infestazione di cimici dei letti a Parigi hanno suscitato qualche preoccupazione in alcuni paesi vicini o molto ben collegati alla Francia. Il 5 ottobre il ministero della Salute dell’Algeria ha annunciato l’introduzione di «misure preventive» su aerei e navi per evitare la diffusione degli insetti nel proprio territorio. E dopo che vari giornali del Regno Unito hanno parlato della possibilità che le cimici dei letti arrivassero da Parigi a Londra, Eurostar, il servizio ferroviario che collega le due capitali, ha fatto sapere che i suoi treni saranno controllati per verificare l’eventuale presenza dei parassiti.Anche tra Francia e Italia ci sono molti collegamenti, sebbene dal 27 agosto e fino alla prossima estate quelli ferroviari siano sospesi a causa di una frana, ma tra gli esperti di insetti e di disinfestazioni non c’è particolare preoccupazione. Per il momento infatti nelle città italiane non ci sono stati aumenti significativi di segnalazioni di cimici dei letti, e inoltre chi si occupa di disinfestazioni ritiene che i metodi usati in Italia per contrastarle siano più efficaci di quelli preferiti all’estero.Le cimici dei letti in Italia comunque ci sono già. Dopo essere quasi scomparse a metà Novecento in seguito al grande uso di DDT e al miglioramento delle condizioni igieniche delle case, è dai primi anni Duemila che hanno ricominciato a essere avvistate all’interno di abitazioni e alberghi sia nei paesi europei che negli Stati Uniti a causa dei viaggi internazionali. In Italia il numero di infestazioni è aumentato soprattutto tra il 2012 e il 2014 e poi è rimasto più o meno costante.«Sono abbastanza diffuse quindi la probabilità di incontrarle nelle città italiane c’è», dice Fabrizio Montarsi, biologo dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) che tra le altre cose si occupa di insetti e altri parassiti. «Ma non sono comuni come le mosche o le zanzare, il problema è comunque limitato per ora. Se si riesce a intercettare subito un’infestazione, il ciclo di diffusione si interrompe facilmente».Le cimici dei letti, il cui nome scientifico è Cimex lectularius, sono insetti ematofagi, cioè che si nutrono di sangue. I loro morsi sono fastidiosi, ma non costituiscono un pericolo a meno che non si sia allergici. In natura sono parassiti di uccelli e pipistrelli e creano le proprie colonie nei nidi o nei dormitori dei pipistrelli nelle grotte, ma nel corso della storia si sono trovate bene anche nelle abitazioni umane: soprattutto nei secoli passati era facile che nei tetti delle case si riparassero degli uccelli, e da lì le cimici potevano passare a infestare i materassi di una volta, fatti di paglia ricoperta da teli. Si chiamano “cimici dei letti” appunto per questo.Cimici dei letti (Uwe Anspach, ANSA-DPA)Di giorno si nascondono dalla luce e se infestano una casa si annidano nelle strutture dei letti e dei divani, ma anche tra i libri, dietro battiscopa, quadri o altri anfratti nascosti. Di notte escono per nutrirsi, quindi di solito la loro presenza viene scoperta dopo essersi svegliati con una serie di arrossamenti pruriginosi sulla pelle. Si possono diffondere o perché aumentano talmente tanto di numero da spostarsi da una camera di albergo a un’altra, o da un appartamento all’altro, oppure perché trovano riparo all’interno di valigie e borse e grazie a questi involontari mezzi di trasporto raggiungono treni, aerei, case o stanze d’albergo in altre città.«La diffusione delle cimici avviene quasi sempre tramite i bagagli, non sono come le zecche che rimangono addosso alle persone», chiarisce Montarsi, «quindi la cosa importante se si passa per un albergo infestato è “bonificare” i bagagli e il loro contenuto, con lavaggi ad alte temperature o usando il congelatore».Non c’è invece nessuna relazione tra la pulizia di un ambiente e la presenza di cimici, che si possono presentare anche in hotel di lusso estremamente puliti, perché l’unica condizione necessaria alla loro prosperità è la vicinanza di persone o altri animali da cui succhiare il sangue. È solo più facile che in luoghi in cui ci sono scarse condizioni igieniche una piccola infestazione venga trascurata e finisca per aggravarsi.Secondo Marco Leva, disinfestatore di Roma e consigliere dell’Associazione nazionale delle imprese di disinfestazione (ANID), a Parigi la situazione si è aggravata perché sono stati fatti degli errori: «A giudicare dalle immagini che sono state diffuse le infestazioni sono davvero estreme e se i letti sono pieni di cimici significa che la convivenza va avanti da tempo o che la ditta di disinfestazione che se ne è occupata ha sbagliato approccio».Leva spiega che all’estero contro le cimici dei letti si usano ancora molto gli insetticidi, che sono poco efficaci perché molto spesso questi insetti si rivelano resistenti alle sostanze che contengono. Gli insetticidi possono addirittura essere controproducenti, perché le operazioni per stanare le cimici ed esporle alle sostanze velenose possono spingerle a spostarsi e infestare altri spazi.L’approccio più efficace, che in Italia è stato adottato negli ultimi dieci anni e oggi è usato dalla stragrande maggioranza delle aziende che si occupano di disinfestazioni, si basa sull’uso di macchine per uccidere le cimici e le loro uova con un vapore ad alte temperature, fino a 180 °C. La prima macchina di questo tipo – prodotta dall’azienda italiana Polti – è stata sviluppata a partire dal 2011 proprio facendo degli esperimenti con le cimici dei letti, che hanno coinvolto lo stesso Leva e l’entomologo e disinfestatore Franco Casini. Da allora sul mercato sono arrivate anche altre macchine simili e il loro uso si è diffuso nel settore. «È un approccio più impegnativo rispetto a quello chimico, ma è apprezzato anche dai clienti che preferiscono che non siano sparsi insetticidi nelle camere da letto».Né l’ANID né Montarsi nelle regioni in cui lavora l’IZSVe hanno osservato un aumento dei casi di infestazioni da cimici dei letti negli ultimi mesi. Anche per questo «non c’è da creare allarmismo», per Leva: «Non ci sarà un’invasione delle cimici dei letti dalla Francia, così come non c’era stata da New York qualche anno fa». LEGGI TUTTO

  • in

    Sono state trovate altre due specie di granchi alieni nell’Adriatico

    Il granchio blu non è l’unica specie di granchi alieni presente nel mar Mediterraneo: ne sono state trovate almeno altre due. Mercoledì l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRBIM) ha annunciato il ritrovamento di un granchio della specie Charybdis feriata, chiamata anche “granchio crocifisso”, al largo delle coste di Senigallia, in provincia di Ancona. E uno studio pubblicato ad agosto da un gruppo di ricerca dello stesso istituto dava conto della presenza di una terza specie, il granchio blu del mar Rosso (Portunus segnis), sempre vicino ad Ancona e nel mar Ionio, vicino alle coste calabresi.Il granchio crocifisso è una specie originaria delle acque tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e dell’oceano Pacifico e ha grandi dimensioni: i maschi possono arrivare a pesare un chilo. Come i granchi blu, vengono pescati e mangiati nelle zone di origine. Secondo i ricercatori dell’IRBIM potrebbe essere arrivato nel Mediterraneo nello stesso modo in cui si pensa sia arrivato il granchio blu: nelle acque di zavorra delle navi mercantili, cioè nell’acqua che le grandi imbarcazioni prelevano dal mare per mantenersi stabili durante la navigazione e che possono poi disperdere a migliaia di chilometri di distanza.Il granchio crocifisso trovato al largo di Senigallia è il primo individuo della specie segnalato nell’Adriatico, ma già nel 2004 ne era stato segnalato uno vicino a Barcellona, in Spagna, e più di recente altri vicino a Livorno (2015) e nel golfo di Genova (2o22): tutti insomma sono stati avvistati vicino a grandi porti, e dato che finora i ritrovamenti sono stati pochi si può pensare che per il momento la loro presenza sia sporadica e limitata ad alcuni individui.Il granchio blu del mar Rosso trovato nell’Adriatico (Ernesto Azzurro, CNR-IRBIM)– Leggi anche: Nei mari della Calabria sono stati avvistati due pesci scorpioneAnche per il granchio blu del mar Rosso è stata ipotizzata la stessa origine. Per entrambe le specie, almeno per il momento, i ricercatori dell’IRBIM non temono che si possa arrivare una proliferazione simile a quella del granchio blu (Callinectes sapidus), che in alcune zone d’Italia è diventato una specie invasiva e ha causato grossi danni alle specie autoctone e agli allevamenti di molluschi. Infatti le temperature dei mari che circondano l’Italia sono probabilmente troppo basse perché le due specie di granchi ci si possano trovare bene al punto da creare nuove popolazioni.«Considerate le caratteristiche ecologiche del granchio crocifisso e la sua tolleranza termica, non riteniamo che ci sia il rischio di un’invasione di questa specie in Adriatico», ha detto Ernesto Azzurro, biologo dell’IRBIM di Ancona, che aveva commentato in modo simile lo studio sul granchio blu del mar Rosso. Tuttavia Azzurro e i suoi colleghi hanno sottolineato che le cose potrebbero cambiare, dato che per via del cambiamento climatico causato dalle attività umane anche le temperature del mar Mediterraneo stanno aumentando: «L’attuale aumento delle temperature sta favorendo il successo di specie tropicali invasive, ed è molto importante monitorare la presenza e la distribuzione di questi alieni in stretta collaborazione con i pescatori».Al di là dei granchi nuotatori, negli ultimi anni si sono viste sempre più specie animali aliene nel Mediterraneo. Spesso si tratta di pesci e spesso arrivano dal mar Rosso attraverso il Canale di Suez: come nel caso del pesce scorpione (di cui quest’estate sono stati trovati due individui in Calabria). Il Mediterraneo e il mar Rosso sono collegati dal Canale fin dal 1869, ma è solo negli ultimi decenni che certe specie hanno cominciato a migrare dall’uno all’altro perché il cambiamento climatico ha reso il Mediterraneo più ospitale per certi animali del mar Rosso. Dal 1869 al 2008 sono state almeno 63 le specie che sono arrivate nel Mediterraneo dal mar Rosso.– Ascolta anche: Vicini e lontani, il podcast sulle specie aliene prodotto dal Post con Oikos LEGGI TUTTO

  • in

    La scoperta di una misteriosa creatura marina su Instagram

    Ryo Minemizu è un fotografo giapponese specializzato in foto sottomarine che mostrano creature variopinte, spesso minuscole, che vivono a varie profondità nell’oceano Pacifico al largo della costa del Giappone. Come molti altri fotografi, Minemizu condivide le proprie immagini su Instagram, in un profilo fitto di immagini di animali dalle forme più strane che ricorda i grandi cataloghi di specie di un tempo, non sempre conosciute e che talvolta attirano la curiosità dei ricercatori. Questa è la storia di una di quelle foto e di quanto possa essere complicato e sorprendente scoprire qualcosa di nuovo su esseri viventi mai visti prima, che magari sono qualcos’altro rispetto a ciò che sembrano.Come racconta il sito della rivista Science, tra le persone incuriosite dalle foto di Minemizu c’era Igor Adameyko, un neurobiologo dell’Università di Vienna, che aveva notato sul profilo Instagram del fotografo un’immagine scattata nel 2018 e condivisa nel 2020 che mostrava una strana creatura marina non identificata. Adameyko si era messo in contatto con Minemizu chiedendogli se per caso avesse raccolto un esemplare di quello strano animale e se fosse interessato a spedirglielo, così da poterlo analizzare. Il fotografo accettò e dopo qualche tempo Adameyko ricevette un pacchetto contenente l’esemplare, grande più o meno quanto una lenticchia e conservato in formalina.L’analisi rivelò che l’animale aveva una parte esterna fluttuante, con una struttura che ricordava tanti piccoli tentacoli collegata a una parte centrale semisferica. A prima vista sembrava che le strutture simili ai tentacoli fossero piccole appendici, ma osservando più attentamente Adameyko si accorse che non si trattava di un singolo animale, ma di una serie di tanti piccoli organismi lunghi pochi millimetri. Erano almeno una ventina e Adameyko iniziò a riferirsi a loro informalmente come “marinai”, visto che sembravano avere la funzione di far muovere nell’acqua la creatura.Una successiva analisi della semisfera rivelò qualcosa di ancora più particolare: era formata da un insieme di centinaia di minuscoli organismi simili ai girini, con una testa grande quanto la punta di una matita e una coda più sottile di un capello umano. Le varie code, ha spiegato di recente Adameyko con un gruppo di colleghi sulla rivista scientifica Current Biology, erano tutte annodate insieme al centro della semisfera, con la testa di ogni organismo rivolta verso l’esterno.(Current Biology)Invece di semplificare le cose, l’analisi della struttura di quello strano animale aveva complicato la ricerca di una possibile specie di appartenenza. Né Adameyko né diversi altri colleghi erano in grado di stabilire che cosa avesse fotografato Minemizu qualche anno prima.Fu solo dopo alcune analisi per rivelare particolari dettagli anatomici, come quelli del sistema nervoso dell’organismo, che Adameyko e colleghi iniziarono a ipotizzare che si trattasse di un esemplare appartenete ai Lophotrochozoa, il vasto gruppo (“clado”) che comprende i molluschi, vari invertebrati acquatici e gli anellidi come i lombrichi, per citarne alcuni. L’ipotesi era che si trattasse di un parassita, ma servivano analisi del DNA per poterlo confermare. L’esemplare era stato conservato in formalina, una sostanza usata spesso per conservare materiali biologici, ma che degrada velocemente il DNA. Fu quindi necessario utilizzare tecniche solitamente impiegate per la raccolta di materiale da reperti antichi, in modo da ottenere ugualmente qualche informazione.Infine, l’analisi del DNA permise di restringere il campo: l’organismo apparteneva ai digenei (Digenea), una sottoclasse di animali vermiformi noti per avere spesso un ciclo vitale particolare, che comporta la colonizzazione di animali di diverse specie. Le modalità variano, ma in generale i parassiti adulti vivono all’interno di un ospite e producono uova che finiscono nell’ambiente circostante, di solito attraverso le feci dell’animale che hanno colonizzato. Le uova si trasformano in larve all’interno di altri animali entrati in contatto con le feci, che a loro volta vengono poi mangiati dagli animali in cui il parassita può passare dalla larva alla fase adulta. Dopodiché produce le uova e il ciclo ricomincia.Le larve simili a girini raggruppate nella parte centrale dell’esemplare analizzato (Current Biology)Nel caso di alcune specie, le larve vivono liberamente e hanno sviluppato la capacità di rimanere insieme, imitando la forma dei piccoli organismi che vivono negli ambienti acquatici di cui si nutrono i pesci. In questo modo un pesce le ingerisce pensando di avere davanti qualcosa di cui va ghiotto e rimedia una parassitosi.Lo strano insieme di organismi fotografato da Minemizu sembra fare qualcosa di simile, ma ciò che è veramente insolito è che lo facciano utilizzando due diverse forme della fase larvale (“cercaria”). Sia i marinai sia i “girini” appartengono infatti alla stessa specie. Secondo la ricerca, i girini sono responsabili della colonizzazione vera e propria dei pesci attraverso le loro branchie o l’apparato digerente, mentre i marinai hanno il compito di portare in giro il groviglio di girini nell’acqua.Questa separazione dei compiti era stata osservata in passato in alcune specie di digenei che conducono il loro stadio larvale all’interno di un altro animale, mentre non era stato ancora osservato nel caso di larve che vivono liberamente nell’ambiente esterno.La scoperta apre nuove possibilità sulla ricerca di altre specie simili nelle quali le larve non hanno da subito bisogno di un ospite e, in un certo senso, collaborano per raggiungerne e invaderne uno. Adameyko ha in programma di proseguire le ricerche per comprendere come funzioni questa forma di collaborazione e se le larve abbiano un sistema per orientarsi, forse seguendo la luce. Minemizu nel frattempo ha pubblicato centinaia di fotografie di altre creature marine, che potrebbero nascondere qualche altra sorpresa a conferma di quanto ci sia ancora da scoprire negli oceani, che del resto ricoprono più del 71 per cento della superficie del nostro pianeta. LEGGI TUTTO