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    È sbagliato dare a una nuova specie il nome di una persona?

    Caricamento playerNell’aprile del 2022 l’entomologo statunitense Derek Hennen descrisse in un articolo scientifico pubblicato insieme a due suoi colleghi 17 nuove specie di millepiedi del genere Nannaria (detti anche millepiedi dagli artigli ritorti) scoperte nella catena montuosa degli Appalachi, nella parte orientale dell’America del Nord. Nel dare un nome a due nuove specie da lui scoperte Hennen si ispirò al nome di sua moglie Marian per una delle due (Nannaria marianae) e a quello della cantautrice Taylor Swift, di cui è un grande fan, per l’altra specie (Nannaria swiftae).Per quanto stravagante possa sembrare in alcuni casi, la prassi di utilizzare il nome di una persona per decidere la definizione scientifica di un organismo vivente è abbastanza comune. Si stima che circa il 20 per cento di tutti i nomi in uso per le specie animali siano eponimi, cioè nomi dati in onore di una o più persone specifiche. Taylor Swift è soltanto una delle migliaia di persone famose da cui sia stato tratto il nome di una specie, di cui esiste peraltro una raccolta su Wikipedia talmente ampia da essere suddivisa per periodi storici.A marzo, riprendendo una discussione in corso già da tempo, un gruppo internazionale di ricercatori e ricercatrici dell’Università di Porto (UP), in Portogallo, e di altre sei università in diversi paesi del mondo ha pubblicato su una rivista del gruppo Nature un articolo in cui propone di rimuovere gli eponimi dalle modalità di attribuzione dei nomi alle nuove specie. La critica condivide qualche principio con quella che all’interno del movimento “Black Lives Matter” portò nel 2020 all’abbattimento di alcuni monumenti dedicati a personaggi del passato coloniale e razzista dei paesi occidentali. Ma si basa principalmente su considerazioni più ampie e generali.L’idea alla base dell’articolo, intitolato Non c’è più posto per gli eponimi nella nomenclatura biologica del XXI secolo, è che questa prassi sia «ingiustificabile» a prescindere da chi sia la persona a cui la nuova specie viene dedicata, perché riflette un approccio riduttivo e intrinsecamente colonialista. «La biodiversità della Terra fa parte di un patrimonio globale che non dovrebbe essere banalizzato dall’associazione con un singolo individuo umano, qualunque sia il suo valore percepito», affermano gli autori e le autrici dell’articolo, aggiungendo che l’eliminazione di questa prassi comporterebbe diversi benefici sia per la conservazione delle specie che per la società.Altri studiosi, pur condividendo in parte questo punto di vista, sostengono che l’utilizzo degli eponimi possa essere – e di fatto è, in molti casi – un giusto riconoscimento ai ricercatori che più si sono occupati dello studio di una determinata specie e meritano di essere ricordati. Suggeriscono quindi una riforma della tassonomia degli organismi viventi che, anziché eliminare la possibilità degli eponimi, includa piuttosto un processo di valutazione preliminare dell’adeguatezza delle proposte da parte della comunità scientifica. Tale processo potrebbe tuttavia comportare di volta in volta una serie di rallentamenti e complicazioni, obiettano altri studiosi ancora, e in generale richiederebbe una valutazione “politica” che non rientra nei compiti degli scienziati.– Leggi anche: La scienza non è “neutra”Avere nomi scientifici stabili e universalmente accettati è una condizione fondamentale per una condivisione e una comunicazione dei dati chiara e inequivocabile nelle scienze moderne. L’attuale classificazione tassonomica degli organismi deriva da un metodo introdotto nel XVIII secolo dall’influente naturalista e accademico svedese Carlo Linneo, basato sulle somiglianze tra gli esseri viventi. Linneo codificò una nomenclatura binomiale, in base alla quale ciascuna specie è definita dalla combinazione di due nomi: il genere a cui appartiene la specie (Nannaria, per esempio) seguito da un epiteto per distinguere quella specie dalle altre appartenenti allo stesso genere (swiftae da marianae, per esempio).Nel caso di moltissime specie gli epiteti sono eponimi risalenti a quel primo periodo in cui naturalisti e collezionisti classificarono migliaia di nuove specie utilizzando la nomenclatura binomiale. E queste attività rientrarono il più delle volte in più ampi programmi di colonizzazione delle potenze europee nel corso del XVIII, XIX e XX secolo. Il risultato è che nella lista degli eponimi esiste una sproporzione nettissima verso quelli derivati da nomi di comandanti, conquistatori, collezionisti e studiosi che, nel caso dell’avifauna degli Stati Uniti, per esempio, trasformarono il continente in un insieme di omaggi alla conquista e alla colonizzazione, ha scritto recentemente sull’Atlantic il giornalista scientifico Ed Yong, riassumendo la discussione in corso.Negli ultimi anni, all’interno di un processo più ampio di rivalutazione degli effetti del colonialismo e del razzismo sistemico sulle istituzioni pubbliche, anche la scelta degli eponimi di alcune specie è stata oggetto di contestazioni. Nel 2018 gli ornitologi Robert Driver e Alexander Bond proposero all’American Ornithological Society, la principale organizzazione statunitense di ornitologia, di cambiare il nome di una specie di uccello passeriforme, lo zigolo di McCown (Rhynchophanes mccownii), ma la loro proposta fu respinta. Questa specie prende il nome da un naturalista dilettante e ufficiale dell’esercito, John P. McCown, che nel 1851 sparò a uno stormo di allodole e colpì anche un esemplare di passeriforme mai classificato prima di allora.A parte l’idea contestabile di nominare una specie dopo che il primo europeo ne raccolse un esemplare «quando indubbiamente i popoli indigeni conoscevano quella specie da millenni», scrissero Driver e Bond, McCown fu un comandante in capo dell’esercito degli Stati confederati impegnato durante la Guerra civile nella battaglia per la conservazione della schiavitù. Condusse missioni contro diverse tribù indigene lungo il confine canadese, tra il 1840 e il 1841, e contro la popolazione dei Seminole in Florida, tra il 1856 e il 1857.Descrivendo le ragioni del rifiuto della proposta, i membri di un comitato dell’American Ornithological Society obiettarono che «giudicare le figure storiche in base agli attuali standard morali è problematico». E si dissero preoccupati riguardo a quali potrebbero essere i criteri su «dove tracciare la linea per questo tipo di cambiamento», sostenendo che chi si occupa di tassonomia e nomenclatura dovrebbe piuttosto «lottare per la stabilità nei nomi», a meno che non ci siano motivi straordinariamente convincenti per cambiarli.– Leggi anche: L’ornitorinco ci ha sempre mandati in crisiL’orientamento dell’organizzazione cambiò nel 2020, dopo l’uccisione di George Floyd e i successivi movimenti di protesta, che coinvolsero anche il mondo dell’ornitologia nel dibattito sulle discriminazioni razziali in corso in tutto il paese. Molti naturalisti, osservatori e appassionati sostennero che fosse necessario cambiare gli eponimi problematici (sono eponimi i nomi di circa 150 specie di uccelli del Nord America). Due ornitologi, Jordan Rutter e Gabriel Foley, avviarono a giugno del 2020 la campagna Bird Names for Birds, con l’obiettivo di rinominare tutti gli uccelli americani il cui nome fosse un eponimo.A luglio l’American Ornithological Society riconsiderò la proposta di Driver e Bond a causa «dell’accresciuta consapevolezza sulle questioni razziali», e ad agosto il nome comune dello zigolo di McCown fu cambiato in zigolo dal becco grosso. Gruppi di studiosi motivati da questi stessi sentimenti chiesero e ottennero anche in Europa una modifica dei nomi comuni di altri animali, tra cui una specie di falena (Lymantria dispar dispar) il cui nome comune gypsy moth, “falena zingara”, fu modificato in spongy moth, “falena spugnosa”.Tra le istituzioni scientifiche responsabili dell’approvazione dei nomi delle nuove specie esistono posizioni generalmente meno inclini all’introduzione di cambiamenti. Secondo il ricercatore portoghese Luis Ceríaco, membro della Commissione internazionale di nomenclatura zoologica (International Commission on Zoological Nomenclature, ICZN), un gruppo di 26 scienziati che fornisce le linee guida per la denominazione degli organismi viventi, l’obiettivo della nomenclatura deve essere garantire l’uniformità in diversi campi di ricerca. Le regole, ha detto Ceríaco alla rivista Undark, dovrebbero «consentire alle persone di sapere davvero di cosa stanno parlando quando si riferiscono alle specie».Per questo motivo la tendenza dell’ICZN, così come quella della International Association for Plant Taxonomy, l’organizzazione internazionale che si occupa di tassonomia e nomenclatura nella botanica, è di dare priorità ai nomi che esistono da più tempo e modificarli soltanto per motivi scientifici. I nomi possono cambiare perché una specie viene riclassificata o suddivisa in diverse nuove specie, per esempio, o quando gli scienziati scoprono un nome alternativo che era stato assegnato in precedenza e poi dimenticato. Le proposte di modificare i nomi delle specie per ragioni sociali o politiche sono invece controverse: criticate da alcuni e sostenute da altri.Ceríaco è uno dei commissari dell’ICZN autori di un articolo pubblicato a febbraio scorso sulla rivista Zoological Journal of the Linnean Society e contrario alla ridenominazione delle specie per motivi etici da parte dell’ICZN. Decidere quali eponimi debbano essere modificati perché percepiti come offensivi, secondo Ceríaco e gli altri, non è un compito della commissione. «A causa della natura intrinsecamente soggettiva di queste valutazioni, sarebbe inopportuno per la commissione esprimere giudizi su tali questioni di moralità, perché non esistono parametri specifici per determinare le soglie di offensività di un nome scientifico per una determinata comunità o individuo, nel presente o nel futuro».– Leggi anche: Se volete chiamare col vostro nome una nuova specie, vi basta vincere un’astaUn esempio citato spesso tra i più problematici è quello di una rara specie di coleottero cieco, l’Anophthalmus hitleri, presente soltanto in alcune grotte in Slovenia. A scegliere il nome di questo coleottero fu un naturalista austriaco, Oskar Scheibel, che lo scoprì nel 1933 e decise di dedicarlo al neocancelliere tedesco Adolf Hitler, che apprezzò la scelta e scrisse a Scheibel per ringraziarlo. A causa di questo particolare eponimo, al di là delle considerazioni di tipo etico, gli esemplari di questo coleottero sono diventati nel corso del tempo un obiettivo di molti collezionisti di cimeli nazisti, e questa specie è attualmente considerata a rischio di estinzione.Nemmeno il caso dell’Anophthalmus hitleri è stato ritenuto dall’ICZN un esempio di ragioni appropriate per cambiare il nome di una specie, nonostante le numerose richieste. «Siamo assolutamente fermi nel non regolamentare sulla base dell’etica, non è il nostro mandato», ha spiegato all’Atlantic il presidente della commissione Thomas Pape.In un numero del 2010 della rivista American Entomologist l’importante entomologa statunitense May Berenbaum scrisse che la logica nel preservare “hitleri” è che il nome di per sé non è offensivo. «Francamente, però, un nome scientifico che condanni una specie all’estinzione per mano di fanatici collezionisti di cimeli fascisti provoca un’offesa considerevole, almeno per me», aggiunse Berenbaum, suggerendo che il coleottero «meriterebbe di essere liberato dalla sua sfortunata storia etimologica».Un esempio problematico citato in botanica riguarda l’estesa e da alcuni criticata diffusione della radice linguistica “rhodes-” nella nomenclatura delle piante, in onore dell’imprenditore e politico inglese Cecil John Rhodes, a cui fu intitolata l’intera colonia britannica della Rhodesia (che occupava il territorio dello stato oggi chiamato Zimbabwe). Arrivato in Sudafrica alla fine del XIX secolo, Rhodes ebbe un ruolo rilevantissimo nell’evoluzione storica dell’Africa coloniale e nell’ispirazione delle politiche segregazioniste. Nel 2015, a fronte delle proteste di centinaia di studenti, la statua di Rhodes posta davanti all’università sudafricana di Città del Capo venne rimossa su richiesta del consiglio dell’università.Le richieste di modificare la nomenclatura hanno tuttavia portato alcuni tassonomisti a sostenere che l’introduzione di valutazioni politiche nella tassonomia aprirebbe una serie di questioni spinose. In un articolo pubblicato nel 2022 il botanico ucraino Sergei Mosyakin si è chiesto quali dovrebbero essere le linee di demarcazione utili per gli scienziati per distinguere gli epiteti buoni da quelli cattivi. «Dovremmo sbarazzarci dei nomi scientifici delle piante associate alla regina Vittoria, che governò il più grande impero coloniale del XIX secolo?», si è chiesto Mosyakin. In questo caso servirebbe trovare nuovi nomi, «politicamente neutri», sia a tutto un genere di piante acquatiche dedicato alla regina Vittoria, il genere Victoria, che a numerose specie tra cui l’Agave victoriae-reginae e il Dendrobium victoriae-reginae. E un discorso simile vale anche per George Washington e Thomas Jefferson.Esiste un codice etico fornito dall’ICZN in base al quale nessuno scienziato dovrebbe consapevolmente scegliere un nome offensivo per una nuova specie, ha detto Ceríaco a Undark. Ma la commissione è comunque molto attenta a lasciare alle persone una certa libertà nella scelta dei nomi, ragione per cui anche quelli che potrebbe infrangere il codice etico tendenzialmente non vengono modificati.«Raccomandiamo vivamente alle persone di essere sicure che ciò che sceglieranno non offenderà nessuno», ha detto Ceríaco, sostenendo che scegliere in alternativa di giudicare quali nomi siano accettabili e quali no scoperchierebbe «un vaso di Pandora». Sottoporre la scelta dei nomi a una valutazione collettiva di questo tipo, secondo Ceríaco, influenzerebbe significativamente il lavoro dei ricercatori in tutto il mondo, che dipende da un quadro tassonomico stabile. E cambiare i nomi finirebbe probabilmente per provocare più complicazioni che mantenerli.– Leggi anche: I “pesci” non esistonoConsapevoli del fatto che cambiare tutti gli eponimi problematici già in uso da secoli sarebbe impraticabile, gli autori e le autrici dell’articolo pubblicato a marzo su Nature Ecology and Evolution sostengono che l’ICZN potrebbe rafforzare le regole del codice per limitare al massimo l’utilizzo degli eponimi in futuro. E potrebbe incaricare i tassonomisti delle regioni native delle varie specie di rinominare le proposte che giungono alla commissione.Il problema della prassi degli eponimi, secondo il gruppo, è che è indissolubilmente legata alla storia coloniale della scienza: ragione per cui molte specie finirono per prendere il nome da europei bianchi, maschi e di classe elevata. In Africa 1.565 specie di uccelli, rettili, anfibi e mammiferi (ossia un quarto dei vertebrati endemici) sono eponimi, osservano gli autori e le autrici dello studio, e «i ricercatori delle ex colonie potrebbero sentirsi giustamente a disagio, risentiti o addirittura arrabbiati per i continui richiami ai regimi imperiali e/o politici che si riflettono nei nomi delle specie autoctone ed endemiche».Finché gli organismi prenderanno il nome da persone, secondo la ricercatrice portoghese Patrícia Guedes, coautrice dell’articolo, queste discussioni continueranno. «Sono sicura che esistono altri modi di onorare le persone che hanno contribuito alla scienza, diversi dall’attribuire il loro nome a un altro essere vivente», ha detto Guedes.Secondo altri studiosi, la prassi di attribuire degli eponimi alle nuove specie può però avere anche risvolti positivi. Scegliere personaggi famosi può coinvolgere la comunità e attirare l’attenzione verso scoperte e ricerche che potrebbero passare altrimenti inosservate, come per esempio quella di una specie di vipera che prende il nome da James Hetfield dei Metallica (Atheris hetfieldi) o quella di un serpente non velenoso che prende il nome da Leonardo DiCaprio (Sibon irmelindicaprioae).Inoltre, come del resto sostenuto anche dagli autori e dalle autrici dell’articolo uscito a marzo, gli eponimi danno ai ricercatori la possibilità di scegliere come nome da dare a una nuova specie quello di scienziati dei paesi in cui quelle specie vengono scoperte, come per esempio un geco endemico in Angola (Pachydactylus maiatoi) che prende il nome dal biologo angolano Francisco Maiato Gonçalves. LEGGI TUTTO

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    Non riuscire a capire i colori

    Una ciliegia rossa. Per la maggior parte delle persone sono sufficienti poche parole per immaginare un frutto con una particolare forma e soprattutto con un colore specifico, quello che del resto associamo nel nostro immaginario alle ciliegie mature al punto giusto. Eppure ci sono persone che a causa dei loro problemi di visione non sanno che cosa sia il rosso, o qualsiasi altro colore. Hanno una rara condizione che si chiama “agnosia per il colore” e non riguarda problemi di percezione o il daltonismo, ma è piuttosto una incapacità di capire il colore.Studiare queste persone è importante non solo per provare ad alleviare i loro problemi, ma anche per capire meglio come funziona il nostro cervello, come distingue i colori e come organizza le informazioni che derivano dalla loro presenza per dare un senso a ciò che abbiamo intorno.L’agnosia per il colore è nota da tempo, ma ha ricevuto particolari attenzioni negli ultimi vent’anni soprattutto grazie a un paziente chiamato MAH dai ricercatori per tutelarne la privacy. È una delle pochissime persone che a quanto pare ha ereditato questo condizione, invece di svilupparla in seguito a un evento traumatico come un ictus. Solitamente sono infatti episodi di questo tipo a danneggiare le aree del cervello deputate alla visione, che smettono di funzionare come dovrebbero, mentre è estremamente raro che l’agnosia per il colore sia trasmessa per linea familiare.La storia di MAH è particolare. Aveva una quarantina di anni quando ebbe un ictus, che non gli lasciò particolari conseguenze. Aderì a un programma di riabilitazione e fu in quell’occasione che i neurologi che lo seguivano notarono qualcosa di strano quando si trattava di sottoporlo ai test che riguardavano i colori. Era restio a svolgere prove sul riconoscimento di un colore dall’altro e si sbagliava spesso. Inizialmente i medici avevano pensato che quelle stranezze fossero dovute all’ictus: MAH però aveva poi confidato di avere da sempre problemi con i colori.MAH riusciva a vederli normalmente tutti, non era daltonico quindi, e riusciva a svolgere vari test, come quelli in cui si devono raggruppare oggetti dello stesso colore. Se però gli veniva chiesto di ordinare in una certa sequenza degli oggetti colorati, non riusciva a superare il test. Non era in grado di associare il concetto di rosso a un oggetto rosso e nemmeno di immaginare il colore di oggetti a lui familiari, come quello della sua automobile. Se gli veniva mostrato il disegno di un frutto di un colore diverso da quello che avrebbe dovuto avere non notava nulla di strano.Gli esiti dei test avevano lasciato perplessi i medici: la spiegazione più logica era che MAH avesse subìto un danno cerebrale, ma dagli esami non erano emersi elementi per ritenerlo. Lo stesso MAH, oltre a confermare di avere avuto sempre quella condizione, aveva spiegato che anche sua madre soffriva di agnosia per il colore, e così anche la sua figlia più grande. Era il primo caso osservato di agnosia per il colore di tipo familiare, o “dello sviluppo” come sarebbe stata in seguito definita dai gruppi di ricerca.Come racconta all’Atlantic, il neuroscienziato J. Peter Burbach ha trascorso gli ultimi anni alla ricerca di altre persone con la medesima condizione, cercando di distinguerle da quelle che hanno invece sviluppato l’agnosia per il colore in seguito a un evento traumatico. Burbach dice che finora è stato «un compito pressoché impossibile». È impensabile che la famiglia di MAH sia l’unica, ma trovare altre persone non è semplice perché chi è nato con quella condizione vive una normalità diversa e non è detto che ne abbia consapevolezza. Anche per questo motivo è difficile fare una diagnosi, che avviene solo nel caso in cui un medico insista mentre sta conducendo la visita per altri problemi neurologici più evidenti.L’agnosia per il colore non deve essere confusa con l’acromatopsia cerebrale, altra condizione che porta chi ne soffre a vedere il mondo sostanzialmente in tonalità di grigio a causa dell’incapacità del cervello di elaborare correttamente i colori. Non dipende insomma da parti del sistema visivo come occhi e nervo ottico, che inviano correttamente i segnali sulla presenza del colore al cervello.Le condizioni neurologiche intorno ai colori sono del resto numerose e non sempre semplici da distinguere e diagnosticare. Un altro tipo di disturbo impedisce per esempio alle persone di dare un nome al colore che vedono, ma non gli impedisce di indicarne uno richiesto tra una serie di opzioni disponibili.Marlene Behrmann, una ricercatrice che si occupa di visione all’Università di Pittsburgh (Stati Uniti) ha detto sempre all’Atlantic che le persone con agnosia per il colore riescono a percepire il rosso o il verde, per esempio, ma «hanno in un certo senso perso il concetto stesso di colore». Non riescono a costruire e mantenere nella loro mente l’idea di un determinato colore e per questo non trovano particolarmente strano il disegno di una ciliegia viola.Trovare altre persone con una forma di agnosia per il colore come quella di MAH potrebbe aiutare i gruppi di ricerca a portare avanti le conoscenze sulla visione in generale, un meccanismo altamente complesso. Il confronto tra queste persone e il resto della popolazione vedente potrebbe inoltre offrire spunti importanti per comprendere in generale come vediamo e interpretiamo le cose che abbiamo intorno.Un maggior numero di persone con la forma di agnosia per il colore che ha MAH consentirebbe inoltre di effettuare studi genetici alla ricerca delle mutazioni che lo determinano. Il gene o i geni interessati potrebbero influenzare altri meccanismi legati allo sviluppo cerebrale, tali da offrire nuove opportunità di studio. La ricerca non è semplice, ma i ricercatori confidano che facendo conoscere più diffusamente questa condizione alcune persone interessate si sentano incentivate a mettersi in contatto con loro. LEGGI TUTTO

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    Il diritto del mare ha sempre più limiti

    Caricamento playerPer lungo tempo, prima di essere codificato in una serie di trattati e poi in una Convenzione introdotta dalle Nazioni Unite nel 1982, il diritto internazionale che regola i rapporti tra gli stati in ambito marittimo si basava su una concezione del mare inteso come spazio libero, privo delle regole valide sulla terraferma. Fu inizialmente un principio funzionale agli interessi commerciali e strategici delle potenze coloniali europee, in particolare i Paesi Bassi, la cui supremazia economica all’inizio del Seicento dipese fortemente dai successi della loro marina mercantile e dal potere esercitato lungo le principali rotte d’oltreoceano.Qualsiasi tentativo di regolare i diritti di navigazione in quel contesto era per quelle potenze sostanzialmente sconveniente. Ma dalla seconda metà dell’Ottocento cominciò ad affermarsi una tendenza degli stati costieri a estendere progressivamente la propria giurisdizione sui mari adiacenti. E sia dalla normalizzazione di questa successiva tendenza che dal principio della libertà rimasto valido per il mare più distante dalle coste derivano in gran parte gli istituti del diritto internazionale del mare vigenti ancora oggi, che stabiliscono una serie di delimitazioni più o meno rigide degli spazi marini e regole sui poteri che gli stati possono esercitare su quegli spazi.In un lungo articolo sulla rivista The Dial, Surabhi Ranganathan, ricercatrice inglese e docente di diritto internazionale alla University of Cambridge, ha posto alcune questioni centrali riguardo alle evoluzioni più recenti del dibattito sul diritto del mare e quelle prevedibili nel prossimo futuro. E ha citato diversi esempi di come le categorie e le classificazioni su cui si basa la distinzione tra parti del mare giuridicamente assimilabili alla terraferma e parti che non lo sono siano diventate nel corso del tempo più incerte e problematiche a causa di molteplici fattori.Le innovazioni tecnologiche hanno permesso di rendere terra parte di ciò che prima era mare: è successo per esempio con gli ampi progetti di bonifica nello stretto di Singapore. Gli effetti dei cambiamenti climatici potrebbero anche rapidamente trasformare in mare ciò che prima era terra. E spazi oceanici di scoperta relativamente recente, come le “isole di plastica” e le sorgenti idrotermali, non sono né completamente mare né completamente terra. Questi fenomeni mettono in discussione non soltanto i modi in cui responsabilità e diritti sui diversi spazi del mare sono stati interpretati nei secoli, ma lasciano emergere parti sempre più ampie di questioni indefinite e complicano la nostra stessa immaginazione su cosa sia terra e cosa sia mare.– Leggi anche: La Terra è rotondaL’innalzamento del livello del mare avrà un impatto significativo sui territori più fragili ed esposti, incluse le molte zone portuali del mondo ricavate da attività di bonifica di territori a contatto con gli oceani. Ma in generale è uno dei fenomeni che mettono più a rischio l’esistenza di grandi centri urbani e la sopravvivenza di milioni di persone, tra cui molte che si sono faticosamente stabilite in quelle aree dopo aver già perso altrove la casa e i mezzi di sussistenza.Ci sono poi stati insulari che rischiano di scomparire del tutto, come Tuvalu, le isole Marshall, le Kiribati e le Salomone nell’oceano Pacifico, o le Maldive e le Seychelles nell’oceano Indiano. E la possibilità di una completa estinzione di questi territori solleva questioni giuridiche irrisolte. Se, come scrisse l’esperto australiano di diritto internazionale James Richard Crawford, la presenza di «una comunità territoriale governata» è uno dei criteri da soddisfare affinché uno stato possa esistere, «che fare delle isole che non avranno più comunità territoriali perché il loro territorio sarà stato reclamato dal mare?», si chiede Ranganathan, indicando anche un problema di definizioni. «Quelle popolazioni diventeranno apolidi, per aver perso non la cittadinanza o la nazionalità, ma piuttosto il terreno su cui si trovavano un tempo?».L’atollo di Tarawa, nelle isole Kiribati, il 30 marzo 2004 (AP Photo/Richard Vogel)In anni recenti alcuni stati insulari comprensibilmente preoccupati della propria sovranità e indipendenza a fronte degli effetti del cambiamento climatico hanno esplorato la possibilità di dislocare i propri territori. Nel 2014, dopo il parziale insuccesso di un programma di adattamento sostenuto dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale, la Repubblica di Kiribati acquistò 20 chilometri quadrati di territorio perlopiù disabitato nelle isole Fiji pagando 8,77 milioni di dollari alla Chiesa anglicana, giunta in diverse regioni del Pacifico nell’Ottocento attraverso l’espansione dell’Impero britannico e l’attività dei missionari.«Speriamo di non trasferire tutti su quel pezzo di terra, ma se diventasse assolutamente necessario, sì, potremmo farlo», disse l’allora presidente di Kiribati Anote Tong riferendosi ai circa 110 mila abitanti delle isole del paese che potrebbero un giorno abitare nel territorio delle Fiji. Acquisti di questo tipo riguardano tuttavia la proprietà dei territori ma non la sovranità, che deve essere invece discussa con lo stato cedente e su cui di solito è molto più difficile trovare un accordo, come dimostra tra gli altri un caso storico tra l’Australia e la piccola repubblica di Nauru, analizzato dalla giurista australiana ed esperta di cambiamenti climatici Jane McAdam.A lungo colonia dell’Impero tedesco, Nauru divenne alla fine dell’Ottocento uno dei territori governati tramite un mandato della Lega delle Nazioni, l’organizzazione da cui poi nacque l’ONU, e la sua gestione fu affidata all’Australia, alla Nuova Zelanda e al Regno Unito. Dopo aver subito diversi danni ambientali a causa dell’estrazione di fosfato, una sostanza impiegata nella produzione di fertilizzanti e molto presente nei giacimenti del paese, Nauru propose un reinsediamento su una nuova isola. Nel 1963 l’Australia dichiarò la disponibilità a fornire a questo scopo Curtis Island, un’isola di 400 mila metri quadrati nello stato del Queensland, distante circa 3 mila chilometri da Nauru. Ma rifiutò categoricamente di trasferire a Nauru la sovranità dell’isola.Un altro problema posto dalla possibilità di reinsediamento degli stati insulari a rischio di estinzione territoriale, considerando questa estinzione un fenomeno graduale e già in corso, riguarda i confini da usare come riferimento per tracciare altrove i limiti di un eventuale nuovo territorio. Un’ipotesi valutata in anni recenti nel diritto internazionale e sostenuta da diversi paesi e territori dell’Oceania è di “congelare” le linee di riferimento, cioè fissare in modo definitivo nel tempo dei punti sulla base dei quali misurare l’estensione degli stati de-territorializzati.Questo approccio avrebbe il vantaggio di garantire che progressive riduzioni o estensioni dei territori, dipendenti dai confini mutevoli tra terra e mare, non abbiano alcun effetto sui diritti alle risorse reclamati dagli stati che stanno affondando, scrive Ranganathan. Ma ovviamente un eventuale trasferimento di massa risolverebbe solo una parte del problema, dal momento che le persone costrette a lasciare le loro case per l’innalzamento del livello del mare avrebbero comunque bisogno di nuove case e di prospettive per la loro sussistenza e per la sopravvivenza delle loro comunità politiche.– Leggi anche: Adattarsi male al cambiamento climaticoPer come si è sviluppato nel Novecento il diritto del mare ha posto una serie di problemi anche riguardo alla piattaforma continentale, cioè la parte sommersa dei continenti che si estende fino al punto in cui la pendenza del fondale marino aumenta nettamente (in corrispondenza della cosiddetta scarpata continentale). Su questo spazio, considerato da meno di un secolo il naturale prolungamento del territorio degli stati costieri, ciascuno degli stati può esercitare il diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse minerali e viventi. Solo che alcune coste hanno una piattaforma continentale molto ampia e altre ne hanno una stretta, e quindi per convenzione si considera come zona di sfruttamento esclusivo un’area di mare che si estende per 200 miglia nautiche (circa 370 chilometri) dalla costa, indipendentemente dalla struttura fisica del fondale e dalla profondità.A portare i paesi costieri verso questa convenzione furono soprattutto due fattori, scrive Ranganathan. Il primo fu la pressione delle compagnie petrolifere e le loro migliorate capacità di compiere estrazioni in acque più profonde, cosa che incoraggiò gli stati a estendere la giurisdizione su tratti più ampi della piattaforma continentale così da poter garantire alle società l’utilizzo esclusivo dei siti di trivellazione. E l’altro fattore fu la pressione degli stati con piattaforme poco ampie, come molti paesi latinoamericani, interessati a tenere in considerazione un criterio di distanza dalla costa anziché uno di profondità del fondale.La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare introdotta nel 1982, che riflette questo orientamento dei paesi, stabilisce che sia possibile per gli stati costieri affermare il controllo sui fondali marini anche oltre il confine convenzionale di 200 miglia nautiche. Ma per poterlo fare è necessario dimostrare a un’istituzione specifica delle Nazioni Unite – la Commissione per i limiti della piattaforma continentale – che la propria piattaforma si estenda oltre quel limite. Se le prove geologiche vengono accettate, la parte ulteriormente qualificata come piattaforma viene posta sotto la giurisdizione dello stato che ha presentato la richiesta e sottratta alle acque internazionali, cioè quelle su cui nessun paese ha giurisdizione né proprietà e a cui tutti hanno libero accesso.Un caso molto noto di disputa sulla piattaforma continentale riguarda parti dell’oceano Artico rivendicate da Canada, Danimarca, Norvegia, Stati Uniti e Russia: tutti paesi che possiedono solo una parte dell’Artide, mentre la maggior parte degli oltre quattro milioni di chilometri quadrati su cui si estende la regione non è sotto alcuna giurisdizione nazionale. I motivi delle rivendicazioni sono sia economici che politici, legati ai giacimenti di petrolio e gas naturale nell’Artico non ancora scoperti, e all’importanza strategica della possibilità di aprire rotte commerciali che potrebbero diventare più percorribili in seguito allo scioglimento dei ghiacci provocato dal riscaldamento globale.Dopo aver formulato una richiesta alle Nazioni Unite già nel 2002, senza ottenere alcun risultato, nel 2007 la Russia posizionò una bandiera russa sul fondale del Mar Glaciale Artico, come gesto simbolico per reclamare la sovranità su quel tratto. «Questo non è il Quindicesimo secolo. Non puoi andare in giro per il mondo piantando bandiere, e dire: “Rivendichiamo questo territorio”», disse l’allora ministro degli Esteri canadese Peter MacKay contestando l’azione della Russia.Una bandiera russa sul fondale di un tratto del Mar Glaciale Artico, il 2 agosto 2007 (AP Photo/Association of Russian Polar Explorers)Sebbene le aspettative dei paesi siano che la Convenzione e la Commissione possano risolvere dispute come quelle sulla piattaforma continentale, scrive Ranganathan, bisognerebbe tenere presente che molte rivendicazioni in conflitto tra loro sono fondate proprio sul diritto del mare come regolamentato da questi strumenti, in una sorta di circolo vizioso. A questo si aggiunge che la Commissione non può pronunciarsi su rivendicazioni in conflitto tra loro: se più di un paese avanza richieste di possesso e sovranità sulle stesse zone, si devono mettere d’accordo tra loro quei paesi, con la supervisione di tutti i firmatari della Convenzione.Molti problemi sono cioè effetti a lungo termine di orientamenti espressi a monte di quegli accordi, in parte funzionali allo sfruttamento delle risorse naturali e, nello specifico, all’estrazione di combustibili fossili: che è a sua volta in relazione con il riscaldamento globale e lo scioglimento dei ghiacci dell’Artico, origine delle dispute recenti.– Leggi anche: Come stanno cambiando le rotte articheUn fenomeno utile a chiarire quanto la definizione delle responsabilità nel diritto del mare possa essere tanto problematica quanto urgente sono le isole galleggianti di rifiuti di plastica che si raccolgono sulla superficie degli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano, provocando gravi danni ambientali e contaminazioni lungo la catena alimentare. Secondo le stime di uno studio del 2018 la quantità di plastica accumulata nelle acque subtropicali tra la California e le Hawaii ha un peso approssimativo di 79 mila tonnellate e un’estensione di 1,6 milioni di chilometri quadrati (quanto tutto l’Iran, oltre 5 volte l’Italia).Nonostante l’esistenza di diversi accordi che regolano la cooperazione internazionale in materia di protezione dell’ambiente marino, come la Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi (Marpol 73/78) e la Convenzione di Londra del 1972, è difficile sia attribuire responsabilità specifiche per il problema delle isole di plastica, sia individuare quali paesi dovrebbero risolverlo nell’interesse collettivo. E non è chiaro nemmeno quanta responsabilità gli stati saranno disposti ad assumersi nel nuovo atteso trattato internazionale per ridurre i rifiuti di plastica che dovrebbe essere completato entro il 2024.Eventuali operazioni di rimozione e bonifica delle aree in cui è raccolta la plastica galleggiante, ricorda Ranganathan, presentano inoltre due grandi problemi pratici. Uno riguarda i costi, così ingenti da aver dissuaso dal sostenerli anche i paesi con una più forte e influente presenza di associazioni ambientaliste. E l’altro riguarda le tecnologie specificamente studiate per questo scopo, che secondo uno studio del 2020 metterebbero a rischio la vita di una quantità di animali compresa tra 0,8 e 40 miliardi per ogni ora di utilizzo, condizionando negativamente il rapporto tra costi e benefici.Un cumulo di rifiuti galleggianti sul lago Potpeć vicino a Priboj, in Serbia, il 22 gennaio 2021 (AP Photo/Darko Vojinovic)Per attirare l’attenzione sulla dimensione del problema della plastica in mare e sulle responsabilità collettive, nel 2017 il gruppo editoriale inglese LADbible e l’associazione statunitense non profit Plastic Oceans International avviarono una campagna piuttosto creativa per chiedere alle Nazioni Unite di riconoscere l’accumulo di plastica presente nel Pacifico come un paese autonomo e indipendente, chiamato Trash Isles (“Isole Spazzatura”). Ne progettarono la bandiera, la valuta, il passaporto e i francobolli, e invitarono le persone a richiederne la cittadinanza: l’appello fu accolto da oltre 225 mila aspiranti cittadini dell’isola, tra cui il famoso divulgatore scientifico inglese David Attenborough e l’ex vicepresidente statunitense Al Gore.In un articolo dedicato all’iniziativa, in cui ne descrivevano le implicazioni paradossali, i responsabili suggerirono che l’isola avrebbe potuto teoricamente soddisfare i criteri di territorialità, sovranità e altri necessari per essere considerata un paese. E diventando un paese delle Nazioni Unite avrebbe potuto chiedere agli altri paesi membri, sulla base del principio 7 della Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992, di intervenire sull’isola «cooperando in uno spirito di partnership globale per conservare, tutelare e ripristinare la salute e l’integrità dell’ecosistema terrestre».– Leggi anche: È difficile sapere dove finisce tutta la plasticaEsistono infine, secondo Ranganathan, altri esempi concreti di attività umane o naturali che descrivono i limiti del diritto del mare nel definire responsabilità e diritti in acque internazionali. Uno di questi sono le reti di cavi sottomarini che, dopo varie evoluzioni ma attraverso vecchie rotte telegrafiche e telefoniche, collegano i continenti fin dalla seconda metà dell’Ottocento: «le arterie nascoste della globalizzazione», come le definisce Ranganathan. Si calcola che poche centinaia di cavi sottomarini, che appartengono perlopiù a grandi aziende private e coprono complessivamente una lunghezza di oltre 1,4 milioni di chilometri, siano attualmente responsabili di quasi tutto il traffico di dati transoceanico.La produzione e la posa di questi cavi ebbe un pesante impatto ambientale fin da subito, definito dallo storico australiano John A. Tully un «disastro ecologico vittoriano». Per ottenere l’isolamento dall’acqua necessario al funzionamento dell’infrastruttura, all’inizio, i fili dei cavi erano avvolti in un tipo di gomma naturale – la guttaperca – ricavata da alberi delle foreste pluviali del Sudest asiatico. Questa necessità, secondo Tully, portò alla distruzione complessiva di circa 88 milioni di alberi fino all’inizio del Novecento, quando la guttaperca cominciò a essere progressivamente sostituita da altri materiali, che ancora oggi comportano comunque costi ambientali estremamente elevati.Una serie di cavi telefonici sottomarini vengono posati lungo un tratto del fiume Charles a Boston, di fronte alla baia del Massachusetts, il 21 aprile 1952 (AP Photo)Oltre alle responsabilità dei costi ambientali esiste anche una questione relativa ai rischi di danni accidentali alla rete, provocati a loro volta dagli altri utilizzi intensivi degli oceani: spedizioni, pesca, estrazione di petrolio, gas e minerali in acque profonde, per esempio. Come esiste anche il rischio di danni provocati intenzionalmente, per atti di terrorismo o in contesti di guerra, o causati da eventi meteorologici estremi legati agli effetti del cambiamento climatico. Secondo Ranganathan e altri esperti il diritto del mare non offre sufficienti protezioni contro tutti questi rischi: perché l’infrastruttura si trova in quella complicata e indistinta zona del diritto a metà tra la proprietà privata e l’interesse pubblico, e perché le leggi sottolineano la libertà di posare cavi ma forniscono indicazioni molti limitate sui diritti e le responsabilità che ne derivano.– Leggi anche: Dobbiamo preoccuparci di più di cavi e tubi sottomarini?Un’altra questione rispetto alla quale gli strumenti forniti dal diritto del mare risultano limitati e inadatti riguarda le sorgenti idrotermali: fratture nelle profondità oceaniche da cui fuoriesce acqua riscaldata e in cui si trovano molti minerali preziosi, scoperte negli anni Settanta in corrispondenza di aree vulcaniche attive. Le sorgenti ospitano ecosistemi molto rari e forniscono sostanze essenziali per microrganismi che per sopravvivere in mancanza di luce solare non utilizzano la fotosintesi ma la chemiosintesi (un processo di conversione di sostanze inorganiche, derivate da particolari reazioni chimiche, in sostanze organiche ed energia).Queste parti del pianeta, che non ricadono sotto alcuna giurisdizione nazionale, rappresentano un punto di interesse per il possibile sfruttamento delle risorse: dalle fratture sgorgano minerali sempre più richiesti dall’industria mondiale, tra cui manganese, rame, ferro, nichel, cobalto, oro e argento, che precipitano e si depositano sul fondale formando lastre e tumuli. Ma rappresentano anche un’opportunità per la ricerca scientifica e una preziosa fonte di informazioni sulle condizioni in cui la vita potrebbe aver avuto origine. Proprio per questo, alcune aree in corrispondenza delle sorgenti idrotermali potrebbero ottenere protezione dall’UNESCO attraverso l’assegnazione del titolo di Patrimonio mondiale dell’umanità.Un veicolo della National Oceanic and Atmospheric Administration, l’agenzia statunitense che si occupa degli studi meteorologici e oceanici, esplora una formazione idrotermale in acque profonde vicino alle isole Marianne, nell’oceano Pacifico, il 28 aprile 2016 (NOAA/AP)Questo fenomeno naturale, scoperto troppo tardi perché la Convenzione del 1982 potesse tenerne conto e citarlo direttamente, secondo Ranganathan espone in modo molto chiaro una debolezza intrinseca nel trattato: quella di essere basato su «nette classificazioni binarie tra terra e acqua, vita e materia, mobilità e immobilità», e su disposizioni che suddividono l’oceano e il suo contenuto in regimi economici discreti.I minerali dei fondali marini indicati come patrimonio dell’umanità, per esempio, sono posti sotto la giurisdizione dell’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA), un ente indipendente istituito dalla Convenzione, peraltro non interessato a proibire l’estrazione mineraria ma solo a limitarne l’impatto ambientale. E per le forme di vita vige invece il principio di libertà del mare, e cioè le disposizioni generali in materia di pesca e, prossimamente, quelle contenute in un accordo sulla conservazione e l’utilizzo sostenibile della diversità biologica marina delle zone al di fuori della giurisdizione nazionale.È tuttavia improbabile, conclude Ranganathan, che le sorgenti idrotermali possano essere inquadrate correttamente nelle normative. In parte le classificazioni assecondano fin dall’origine, regolandolo, un orientamento incline all’estrazione di risorse. Ma le sorgenti idrotermali sfuggono per loro natura a qualsiasi classificazione. Sono luoghi in cui «solidi e liquidi si mescolano e si fondono in modo dinamico», in cui materia e vita sono entità intrecciate, e «mobilità e immobilità sono distinzioni prive di significato», in attesa di conoscenze più approfondite sui processi che avvengono all’interno delle sorgenti.– Leggi anche: Dragheremo gli oceani LEGGI TUTTO

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    Non si può ancora dire se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo nelle alluvioni in Romagna

    Caricamento playerUn gruppo di ricerca internazionale ha realizzato un primo studio per verificare se – ed eventualmente in quale misura – il cambiamento climatico dovuto alle attività umane abbia contribuito alle alluvioni di maggio in Romagna, e non ha trovato prove del fatto che abbia reso più probabili o intense le precipitazioni che le hanno causate. Tuttavia saranno necessarie altre ricerche, più approfondite, per dare risposte più chiare e definite sul tema e capire bene le eccezionali dinamiche atmosferiche che hanno portato alle alluvioni. Per questo gli scienziati che hanno partecipato allo studio non escludono ancora che il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo.Le uniche analisi scientifiche che si possono fare molto a ridosso di un evento meteorologico estremo sono statistiche. In questo caso la quantità di pioggia responsabile delle alluvioni è stata confrontata con i dati sulle precipitazioni in Emilia-Romagna che partono dagli anni Sessanta. Poi sono state usate 19 diverse simulazioni climatiche computazionali per vedere se la probabilità che cadesse quella stessa quantità di pioggia nell’arco di 21 giorni di primavera sarebbe stata diversa in assenza del cambiamento climatico: nessuna simulazione ha indicato che quelle precipitazioni sarebbero state meno probabili o meno intense. Il limite di questa analisi, e la ragione per cui lo studio non è definitivo, è che non dice nulla sulle ragioni fisiche per cui tre cicloni si sono sono susseguiti in breve tempo e sono stati tanto persistenti, e non spiega se l’aumento della temperatura media globale abbia avuto un ruolo nel loro sviluppo.Lo studio è stato condotto dalla World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra scienziati esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, tra cui l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica potesse rispondere il più velocemente possibile e nel dettaglio alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che si verifica un evento meteorologico estremo particolarmente disastroso.Allo studio sulle alluvioni in Romagna hanno partecipato 13 scienziati. Hanno preso in considerazione i tre eventi di pioggia abbondante e concentrata nel tempo che sono avvenuti intorno al 2, al 10 e al 16 maggio e che sono stati causati tra tre diversi cicloni formatisi sul mar Tirreno. Il primo ha provocato l’esondazione di alcuni corsi d’acqua e un numero limitato di allagamenti; il secondo non ha causato inondazioni, ma ha contribuito a saturare di acqua il suolo, rendendo così più disastrosi gli effetti del terzo ciclone: a quel punto il terreno non poteva più assorbire le precipitazioni. Questo terzo evento ha causato l’esondazione di 23 corsi d’acqua, l’allagamento di numerosi centri abitati e campi coltivati, più di 400 frane e tutti i gravi danni che ne sono conseguiti.Complessivamente la quantità di pioggia caduta nei primi 21 giorni di maggio è stata la maggiore mai registrata in Emilia-Romagna in tre settimane consecutive tra aprile e giugno. È stato stimato che un evento del genere abbia un tempo di ritorno di 200 anni, un’espressione scientifica che significa che la probabilità che si verifichi in un dato anno è circa dello 0,5 per cento. Da quando abbiamo cominciato a registrare dati sulle precipitazioni questa probabilità non è aumentata, stando al confronto dei dati storici.«Si può dire che quello che è successo apre un campo di ricerca perché la successione degli eventi, i tre cicloni che hanno seguito la siccità, è stata straordinaria», commenta Davide Faranda, fisico del clima e ricercatore dell’LSCE e tra i membri del gruppo di ricerca che ha condotto lo studio del WWA. «È un evento senza precedenti e quindi è anche molto difficile trovare cose che gli somigliano nei dati storici, ma anche nelle simulazioni future o presenti. I metodi per studiare le catene di eventi li stiamo ancora sviluppando». Faranda sottolinea che il confronto sulla precipitazione cumulata, cioè sulla quantità d’acqua piovuta complessivamente nell’intervallo di tempo considerato, è solo un pezzo della storia, perché non dice nulla su come è piovuta.Gli scienziati della WWA hanno anche utilizzato le simulazioni climatiche, cioè dei programmi simili a quelli che si usano per fare le previsioni del tempo che mostrano che tipi di eventi meteorologici si potrebbero verificare in diversi scenari climatici in parti differenti del mondo. Ne esistono tanti diversi e nel caso dello studio sulle alluvioni in Romagna hanno dato lo stesso risultato: con o senza cambiamento climatico la bassissima probabilità che cada così tanta pioggia come successo a maggio non cambia.Tuttavia bisogna considerare che anche questa conclusione ha un limite. Sono state usate simulazioni che hanno una risoluzione spaziale di 12 chilometri, che cioè mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici in una superficie di 144 chilometri quadrati, spiega Erika Coppola, fisica del clima e ricercatrice del Centro internazionale di fisica teorica Abdus Salam (ICTP) di Trieste, che ha a sua volta partecipato alla studio: «Non è detto che su questa scala si riescano a vedere gli effetti di un clima più caldo sul territorio». La complessa geografia dell’Emilia-Romagna, stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico, dovrebbe essere presa in considerazione su una scala minore per valutare meglio l’effetto della forma del territorio sui venti, ad esempio.All’ICTP possono fare anche simulazioni più sofisticate, con risoluzione di 3 chilometri, ma richiedono molta più potenza di calcolo, più tempo e una maggiore quantità di dati, e per questo hanno costi elevati: finora è stato possibile realizzarne prendendo solo alcuni intervalli di tempo definiti, non ci sono serie continue di dati che invece servirebbero per studiare eventi rari come la sequenza di cicloni che ha interessato la Romagna. «Una ragione in più per dire che bisognerebbe dare finanziamenti più sostanziosi alla ricerca», aggiunge Faranda.Parlando invece del modo in cui il risultato di questo primo studio potrebbe essere interpretato dall’opinione pubblica Faranda dice: «Frequento i social e so che il messaggio dello studio potrebbe essere riportato in modo impreciso. Io voglio dare il messaggio più veritiero possibile, non sono un attivista ambientalista ma uno scienziato, mi interessa dare il messaggio corretto, però non voglio che questo messaggio venga usato dagli scettici del cambiamento climatico per dire cavolate».La climatologia ha mostrato che in generale il riscaldamento globale ha reso e renderà più frequenti le alluvioni, ma questo non vale per tutte le parti del mondo. In altre zone si prevede invece un aumento della frequenza di altri fenomeni meteorologici estremi, come le siccità. Può anche succedere che in certe parti del mondo sia prevista una più alta frequenza di alluvioni in una specifica stagione dell’anno e meno precipitazioni nelle altre: l’Italia ha un territorio morfologicamente complesso e diverso nelle sue parti, per cui le conseguenze del riscaldamento globale potrebbero essere diverse da regione a regione.E potrebbero anche sembrare in controtendenza le une con le altre. «Il Mediterraneo per il ciclo dell’acqua è una zona veramente particolare del globo», spiega Federico Grazzini, meteorologo dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna (Arpae) e ricercatore all’Università di Monaco di Baviera, che ha a sua volta collaborato con la WWA: «In generale c’è una forte diminuzione delle piogge sulla quantità totale annuale, però questa tendenza si manifesta in tutte le stagioni tranne l’autunno: in autunno invece c’è una tendenza all’aumento. In media le piogge diminuiscono, ma quando piove sono più intense, e questo sul suolo ha effetti molto diversi». Grazzini sta lavorando a uno studio sulle precipitazioni sull’Italia centro-settentrionale che mostra che gli eventi di pioggia estremi stanno diminuendo in frequenza, ma aumentando in intensità.Gli scienziati della WWA ricordano sempre che i disastri legati a eventi meteorologici estremi vanno oltre gli eventi meteorologici presi singolarmente: sono sempre dovuti anche alla vulnerabilità della società ai loro effetti. Per questo nel caso delle alluvioni in Romagna hanno sottolineato che l’urbanizzazione e lo sfruttamento del territorio, molto elevato nella regione, aumentano i rischi legati alle piogge intense.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati prima di essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Gli scienziati che collaborano alla WWA lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO

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    Quanto dobbiamo preoccuparci di questa influenza aviaria

    Caricamento playerDa circa due anni è in corso una grande epidemia di influenza aviaria, che ha causato la morte di milioni di uccelli e in misura minore alcuni contagi tra mammiferi, compresi alcuni esseri umani. La situazione è tenuta sotto controllo dalle principali organizzazioni sanitarie internazionali e negli ultimi mesi sono state pubblicate analisi per valutare i fattori di rischio, importanti per comprendere quanto preoccuparsi per l’epidemia. Dopo tre anni di pandemia da coronavirus l’attenzione è piuttosto alta, ma al momento la situazione sembra essere relativamente sotto controllo almeno per quanto riguarda la salute degli esseri umani.Bassa e altaEsistono numerosi tipi e varianti di virus che causano l’influenza aviaria. Circolano di continuo tra gli uccelli selvatici e solitamente non causano particolari malattie, al punto che gli esemplari infetti non manifestano sintomi e la loro infezione passa inosservata. Questi virus poco aggressivi sono legati a una particolare forma di influenza aviaria a bassa patogenicità (LPAI, dalla sigla inglese che la identifica).Altri virus aviari sono invece più aggressivi e comportano una forma di influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI), che può comportare gravi conseguenze per gli animali che li contraggono e una diffusione ampia della malattia. È il caso del principale virus responsabile dell’attuale epidemia, che ha decimato intere popolazioni di uccelli selvatici e del pollame in molti allevamenti in giro per il mondo, in particolare in Europa e in seguito negli Stati Uniti.H5N1Oltre alla catalogazione in base alle forme di influenza che possono causare, i virus aviari sono classificati in base al tipo e alle loro varianti di appartenenza. Quello che da circa due anni suscita il maggiore interesse è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso. Le segnalazioni alle autorità sanitarie all’epoca furono spesso tardive, in un contesto di allevamenti industriali molto grandi, una circostanza che aveva reso più difficile il tracciamento del virus.– Ascolta anche: L’influenza aviaria, senza allarmismiAlcune versioni di H5N1 iniziarono a essere rilevate con crescente frequenza negli uccelli selvatici e in particolare in varie specie di uccelli acquatici migratori, che sviluppavano sintomi lievi, tali da non compromettere i loro spostamenti di migliaia di chilometri effettuati stagionalmente. Le loro migrazioni furono, e sono ancora oggi, una delle cause della periodica diffusione di virus aviari che avrebbero poi raggiunto gli allevamenti.La variante di H5N1 responsabile della maggior parte dei contagi in questa fase dell’epidemia era emersa tra il 2020 e il 2021, con focolai importanti in Asia e in Europa. Inizialmente gli Stati Uniti sembravano essere stato risparmiati, ma i primi casi nel Nord America erano poi emersi alla fine del 2021, con nuovi contagi sia negli allevamenti sia tra gli uccelli selvatici. Alla fine dello scorso anno furono poi rilevati i primi casi in Sudamerica, con grandi epidemie tra gli uccelli selvatici e alcuni casi di passaggio del virus verso i mammiferi, poi riscontrati anche in altre aree del mondo.Diffusione di H5N1 nel mondo fino ad aprile 2023: in rosso i paesi con uccelli selvatici e pollame interessati dall’epidemia, in rosso scuro i paesi anche con casi di contagio verso gli esseri umani (Wikimedia)SaltiCiò che rende particolare questa epidemia di influenza aviaria rispetto alle precedenti è che sta proseguendo ormai da un paio di anni, senza seguire una stagionalità come avveniva di solito in passato. Le misure di controllo, che comprendono l’abbattimento degli stormi infetti di uccelli selvatici e il loro successivo ripopolamento si stanno rivelando meno efficaci, proprio perché il virus continua a circolare e a causare nuovi contagi.In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.L’eventualità dei salti di specie spiega perché l’attuale epidemia sia tenuta sotto stretto controllo da parte delle autorità sanitarie. In questi due anni sono emersi passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno dello scorso anno era poi emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.(David Silverman/Getty Images)ControlloUn virus che riesce a passare da una specie a un’altra suscita sempre attenzione da parte delle autorità sanitarie, perché attraverso le sue mutazioni casuali potrebbe diventare pericoloso per gli esseri umani, come si ipotizza sia del resto avvenuto con SARS-CoV-2, il coronavirus con cui facciamo i conti da tre anni. Al momento i rari passaggi rilevati sembrano essere avvenuti per lo più da uccelli a esseri umani, mentre non sono stati identificati con certezza casi di successivi contagi da umano a umano, condizione che potrebbe rivelarsi molto più pericolosa.Le persone entrate in contatto con uccelli e altri animali contagiati, per esempio il personale degli allevamenti, vengono tenute sotto controllo non solo per rilevare la comparsa di eventuali sintomi, ma anche per ridurre il rischio che contagino altri individui. Le attuali varianti di H5N1 non sembrano costituire un particolare rischio per la nostra salute, ma i virus mutano di continuo e potrebbe emergere una versione più pericolosa. In Cambogia, a inizio anno una bambina di 12 anni è morta a causa della malattia, anche se il virus che l’aveva causata è diverso da quello più diffuso e che suscita le maggiori preoccupazioni.Nel suo ultimo rapporto, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che: «Il rischio di infezione con gli attuali virus aviari H5 in circolazione e appartenenti al gruppo 2.3.4.4b in Europa rimane basso per la popolazione in generale e basso/moderato per le persone che sono più a diretto contatto per ragioni lavorative o altro» con uccelli selvatici e pollame. Anche per le autorità sanitarie degli Stati Uniti il rischio continua a essere relativamente basso, seppure in un contesto di alta diffusione del virus tra i volatili.Martedì 23 maggio il Brasile ha dichiarato una emergenza sanitaria per gli animali che durerà almeno 180 giorni, dopo avere riscontrato i primi casi di influenza aviaria in alcuni uccelli selvatici. Il Brasile è il più grande esportatore di pollame: solo nel 2022 ha prodotto esportazioni per quasi 10 miliardi di euro. Una rapida e ampia diffusione del virus potrebbe avere conseguenze molto gravi sul settore economico. Le infezioni da H5N1 non determinano sospensioni delle attività commerciali, ma un focolaio in un allevamento può comunque causare l’abbattimento di grandi quantità di esemplari e potrebbe inoltre spingere i paesi importatori a sospendere gli ordini.Oltre agli aspetti sanitari, la protratta epidemia di influenza aviaria sta avendo importanti ripercussioni sulle attività commerciali in molti paesi. Negli Stati Uniti l’abbattimento di milioni di esemplari negli allevamenti di pollame ha avuto ripercussioni specialmente sul prezzo delle uova e sulla disponibilità di altre materie prime.Quindi?A oggi le principali autorità sanitarie non segnalano rischi immediati per gli esseri umani, ma invitano comunque a tenere sotto controllo la situazione e a ridurre il più possibile la diffusione del virus, per esempio negli allevamenti. È normale che ci sia una certa preoccupazione, nel senso di concentrare l’attenzione sul problema senza ansie per fare prevenzione ed evitare che diventi più grave e difficile da gestire. LEGGI TUTTO

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    La Commissione Europea e Pfizer-BioNTech si sono accordate per ridurre la fornitura di vaccini contro il coronavirus

    La Commissione Europea si è accordata con l’azienda farmaceutica Pfizer-BioNTech per rinegoziare il contratto di fornitura di vaccini contro il coronavirus (SARS-CoV-2): l’accordo prevede che vengano inviate ai paesi dell’Unione Europea meno dosi di quelle che erano originariamente previste dal contratto, in virtù del miglioramento della situazione epidemiologica e della minore necessità di vaccini per la popolazione europea.Il contratto in questione era stato stipulato nel maggio del 2021 e prevedeva la consegna di 900 milioni di dosi di vaccino all’Unione Europea fino al 2023 e altre 900 milioni di dosi opzionali, per un costo massimo stimato in 35 miliardi di euro, a carico dei singoli stati.Con la diminuzione generale dei contagi e la fine dell’emergenza dovuta alla pandemia, negli ultimi mesi diversi paesi, soprattutto dell’Europa centrale e orientale, avevano chiesto che si rinegoziasse il contratto, giudicato ormai eccessivo nei costi e nelle dosi da fornire.Il nuovo accordo riguarda 450 milioni di dosi che devono essere ancora consegnate all’Unione Europea entro la fine dell’anno. La Commissione Europea non ha comunicato quanto saranno diminuite le forniture, né i termini economici dell’accordo: ha detto però che le dosi originariamente previste dal contratto saranno convertite in ordini facoltativi «dietro pagamento di una compensazione», di cui non ha specificato l’entità. (AP Photo/Rogelio V. Solis, File) LEGGI TUTTO

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    Vedremo aurore boreali in posti in cui normalmente non si vedono

    Nel prossimo paio di anni le aurore polari saranno visibili con maggiore frequenza in cielo e spesso a latitudini più basse del solito, a causa di una maggiore attività del Sole. Negli ultimi mesi gli avvistamenti sono già stati segnalati in numerose aree del Regno Unito e in alcune parti della Germania e della Polonia, quindi molto più a sud dei paesi scandinavi dove solitamente vengono avvistate le aurore in Europa. Lo scorso 23 aprile la caratteristica colorazione del cielo notturno, con colori dal verde al viola, era stata segnalata anche nella parte meridionale degli Stati Uniti con avvistamenti in California e in Arizona.Le aurore boreali (quelle che si verificano nell’emisfero sud si chiamo invece aurore australi) sono dovute alla grande quantità di particelle che emette il Sole e che in parte raggiungono il nostro pianeta. I protoni e gli elettroni iniziano il loro viaggio dalla corona, la parte più esterna dell’atmosfera del Sole nonché una delle sue aree più calde. Si generano in un processo altamente energetico che consente loro di sfuggire alla forte gravità esercitata dal Sole e di confluire nel plasma, un particolare tipo di gas ionizzato.Il flusso di particelle dal Sole è continuo e viene chiamato “vento solare”. Quando arriva in prossimità della Terra, incontra il campo magnetico terrestre che impedisce a queste particelle di arrivare direttamente sul nostro pianeta, dove potrebbero causare non pochi problemi alle piante e agli animali, ma non solo.Questo scudo magnetico planetario si chiama magnetosfera e consente di deviare le particelle e in condizioni normale di tenerle alla larga. Le cose si complicano però quando il Sole entra ciclicamente in fasi in cui è più attivo del solito e produce colossali eventi come una “espulsione di massa coronale”, una grande emissione di particelle che alle osservazioni appare come una sorta di fiammata filamentosa che supera per dimensioni quelle della Terra.La conseguenza è che il vento solare si rinforza, un po’ come una improvvisa e forte folata di vento, con una quantità molto più grande del solito di particelle che raggiungono la magnetosfera producendo una tempesta magnetica. Il vento solare deforma sensibilmente il campo magnetico e ciò fa sì che le particelle riescano a superare lo scudo, raggiungendo i due poli magnetici della Terra. È per questo motivo che le aurore sono visibili soprattutto avvicinandosi ai poli del pianeta.Quando si trovano in una zona compresa tra i 300 e 30 chilometri di altitudine, le particelle che hanno viaggiato dal Sole fino a noi incontrano gli atomi di ossigeno e azoto che si trovano nell’atmosfera. L’incontro con le particelle solari altamente energetiche fa sì che gli atomi di ossigeno e azoto emettano fotoni, che possiamo considerare come piccole unità di energia sotto forma di luce.La luce è colorata a seconda degli elementi coinvolti. Gli atomi di ossigeno sono responsabili delle tinte verdi e rosse che si osservano in cielo durante un’aurora, mentre l’azoto dei colori come il blu che virano verso il violetto. C’è una certa variabilità nella colorazione di un’aurora a seconda della concentrazione dei due elementi e di altre variabili, come per esempio l’osservazione nel cuore della notte quando è buio o intorno al tramonto e all’alba, quando ci sono altri effetti ottici legati alla rifrazione dei raggi solari.(Getty Images)Il fenomeno nell’atmosfera si riduce via via e nel corso di qualche ora scompare, mentre intanto la magnetosfera recupera lentamente la propria solita configurazione. L’area in cui un’aurora è osservabile dipende quindi molto dalla latitudine a cui ci si trova e dall’attività solare. Viste dallo Spazio, le aurore appaiono come due grandi ciambelle luminose intorno ai poli.(NOAA)Poiché il fenomeno è strettamente legato all’attività solare, è possibile fare previsioni piuttosto accurate nel breve periodo sulla presenza o meno delle aurore e sulla loro estensione. La National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che tra le varie cose si occupa dei fenomeni atmosferici, offre un servizio di previsione sulle aurore, ma ci sono diversi altri siti che offrono informazioni e mantengono un archivio degli eventi passati.Le previsioni si basano in parte sulle conoscenze dei fenomeni solari e sulla ciclicità nell’attività della nostra stella. Il campo magnetico del Sole si inverte ogni undici anni in corrispondenza del massimo del ciclo solare, quando è appunto maggiore l’attività solare. Nell’attuale ciclo iniziato nel 2019 questa circostanza si dovrebbe verificare tra quest’anno e il 2026, secondo le analisi e le previsioni più condivise dai gruppi di ricerca.Come avvenuto già in passato, una maggiore attività solare si traduce in un’aumentata possibilità di avvistare le aurore, anche se molto difficilmente alla latitudine cui si trova il nostro paese. Nella notte tra il 17 e il 18 novembre 1848 ne fu osservata una a Napoli, con cronache di avvistamenti anche a Roma, come testimoniato dalla rivista dell’epoca L’Album: «Un non piccolo numero di persone anche ancor si trovava per le vie rallegrate in quella sera da una imponente festosa dimostrazione, rimaneva estatico a contemplare quel brillantissimo chiarore che rallegrava l’invidiato cielo di Roma».In generale, le stagioni migliori per osservare le aurore nel nostro emisfero sono la primavera e l’autunno, soprattutto in prossimità degli equinozi. Il prossimo autunno potrebbero quindi essere visibili a latitudini più basse del solito, anche se i luoghi dove osservarle con maggiore certezza rimangono i paesi scandinavi per l’Europa, l’Alaska e il Canada settentrionale per il Nord America. LEGGI TUTTO

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    Perché ci sono orche che attaccano le barche vicino alle coste iberiche?

    Caricamento playerLa notte del 4 maggio, al largo di Gibilterra, la barca a vela “Champagne” che era in viaggio tra le isole Canarie e le Baleari è stata attaccata da tre orche che hanno colpito il timone. L’equipaggio, soccorso dalla Guardia costiera spagnola, è riuscito a mettersi in salvo abbandonando l’imbarcazione, che a causa dei danni provocati alla fine è affondata.È stato un evento straordinario, ma non così raro nella parte di oceano Atlantico più vicina alle coste di Spagna e Portogallo. Dal maggio del 2020 è successo più di 500 volte che vicino allo Stretto di Gibilterra o al largo della Galizia, nel nord della Spagna, le orche si mettessero a colpire delle imbarcazioni, nella maggior parte dei casi barche a vela monoscafo (in altre due occasioni ne avevano affondata una). È un comportamento che non è ancora stato del tutto spiegato, ma gli scienziati hanno fatto un’ipotesi: una singola orca ferita avrebbe cominciato ad attaccare le barche per difendersi e le altre avrebbero cominciato a colpire le barche a loro volta imparando da lei.Ci sono orche (Orcinus orca) in tutti gli oceani del mondo, ma i comportamenti delle diverse popolazioni possono variare parecchio da zona a zona, tanto che i biologi hanno ipotizzato che in realtà ne esistano diverse sottospecie o specie, e non solo una come dice l’attuale classificazione scientifica dei mammiferi marini. Alcuni gruppi di orche vivono per tutto l’anno nelle stesse acque e per questo sono dette “residenti”. Altri si spostano molto, sempre restando lungo le coste: per questo sono dette “transienti”. Ci sono poi orche che vivono in mare aperto e per questo vengono chiamate “offshore”.Da un tipo di gruppo all’altro variano anche le abitudini alimentari (ci sono orche che mangiano solo salmoni, altre non interessate al pesce ma solo alle foche), i suoni con cui comunicano e altri comportamenti.Al largo delle coste iberiche vivono sei comunità di orche, alcune molto numerose altre ristrette, che in parte interagiscono tra loro e i cui territori possono essere più o meno ampi (alcune si trovano solo nello Stretto di Gibilterra, altre da lì al Golfo di Biscaglia, tra Spagna e Francia) e più o meno sovrapposti. In totale le orche che abitano questa parte di oceano sono una cinquantina. Quelle che attaccano le barche però sono solo 15, secondo le stime del Grupo de Trabajo Orca Atlántica, il gruppo di scienziati spagnoli e portoghesi che le studiano.Il gruppo sta cercando di capire esattamente perché le orche attacchino le barche e come evitare che questo comportamento metta in pericolo delle persone. Ma lavora anche per impedire che le interazioni dannose con le barche portino le persone a odiare le orche, comprese quelle che non mostrano interesse per le barche. «Pensiamo che in una data zona le orche interagiscano solo con una barca su cento», ha detto al sito di notizie scientifiche Live Science Alfredo López Fernandez, biologo dell’Università di Aveiro, in Portogallo, e membro del gruppo di ricerca, per dare una dimensione del fenomeno. Inoltre nella maggior parte dei casi le orche sembrano perdere interesse per le barche una volta che queste si sono fermate.Il Grupo de Trabajo Orca Atlántica gestisce un sito in cui sono registrati tutti gli episodi di interazioni tra orche e barche e che dà alcune raccomandazioni a chi naviga per evitare problemi.Dato che è solo dal 2020 che le orche iberiche hanno cominciato ad attaccare le barche e che inizialmente erano solo tre animali a colpirle, gli scienziati hanno ipotizzato che il comportamento sia cominciato dopo un evento traumatico accaduto a un’orca specifica. Le altre avrebbero gradualmente imparato da lei a colpire le barche. Le orche infatti sono animali sociali che oltre ai comportamenti innati ne possono imparare di nuovi dai propri simili: per questo nelle diverse popolazioni e comunità di orche si trovano vocalizzi (i suoni che producono) e comportamenti diversi, che possono essere trasmessi di generazione in generazione come una forma di cultura animale.L’orca da cui sarebbe iniziato tutto è stata chiamata Gladis Negra dal gruppo di ricerca e ha una grossa ferita sul dorso, dietro la pinna dorsale. Il trauma che ha subito sarebbe all’origine del comportamento aggressivo verso le barche, secondo l’ipotesi degli scienziati.La ferita dietro la pinna dorsale dell’orca Gladis Negra, che peraltro permette di identificarla facilmente (Grupo de Trabajo Orca Atlántica)López Fernandez ha spiegato che lui e i suoi colleghi non pensano che le orche che attaccano le barche «insegnino» a farlo alle altre: «Il comportamento si è diffuso dalle più anziane alle più giovani semplicemente per imitazione, e poi in modo orizzontale, tra giovani, perché per loro è qualcosa di importante». Per qualche ragione insomma per le orche le interazioni con le barche devono essere “vantaggiose”, nonostante i rischi che corrono ad avvicinarsi.È anche possibile che nonostante dal punto di vista umano le interazioni siano definibili come “attacchi”, cioè come un comportamento aggressivo, per la maggior parte delle orche che li compiono siano una forma di gioco.A prescindere da cosa l’ha causato però questo modo di fare delle orche è rischioso sia per chi naviga che per le orche stesse, che sono a rischio d’estinzione in questa parte dell’Atlantico. LEGGI TUTTO