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    Le creme solari, spalmate bene

    Questa estate nei Paesi Bassi la crema solare sarà offerta gratuitamente alla popolazione, attraverso distributori collocati nei parchi cittadini, nelle aree sportive, intorno agli ospedali e in diversi altri luoghi pubblici. Vari comuni si sono organizzati nell’ambito di un’iniziativa per sensibilizzare sull’importanza del proteggersi dai raggi dannosi del Sole, che possono causare numerosi problemi di salute a cominciare dai tumori della pelle. I Paesi Bassi negli ultimi anni hanno rilevato un sensibile aumento dei casi di tumore riconducibili all’esposizione solare, come del resto vari altri paesi in Europa.– Ascolta anche: La puntata speciale di “Ci vuole una scienza” sulle creme solariL’impiego delle creme solari è consigliato dai dermatologi non solo perché permette di evitare le scottature, ma anche perché il loro uso corretto consente di ridurre sensibilmente il rischio di sviluppare un tumore della pelle. Il problema è che in pochi fanno un “uso corretto” delle protezioni solari, applicandone la giusta quantità e ripetendo le applicazioni più volte nel corso della giornata, come indicato sulle confezioni e soprattutto nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e di diverse altre istituzioni sanitarie.PelleLa pelle è la barriera più importante di protezione tra il nostro organismo e ciò che abbiamo intorno. Per tutta la vita è sottoposta a sollecitazioni fisiche e chimiche, compresa l’esposizione ai raggi solari che ne possono cambiare le caratteristiche, per esempio facendola disidratare e arrossare. Una eccessiva e prolungata esposizione ai raggi ultravioletti (UV), emessi dal Sole e che non vediamo a occhio nudo, è tra i fattori di rischio più importanti nell’insorgenza del melanoma e di altri tumori della pelle.UVA e UVBIn generale, la crema solare serve a ridurre la quantità di raggi ultravioletti che arrivano sulla nostra pelle. Gli UVB sono filtrati in buona parte dallo strato di ozono atmosferico, ma la quantità che arriva al suolo è comunque sufficiente per crearci qualche problema. Sono i principali responsabili delle scottature e anche per questo motivo sono quelli su cui ci si era concentrati più a lungo in passato, mentre emergevano ricerche e dati più chiari sugli effetti di un altro tipo di raggi ultravioletti: gli UVA.A differenza degli UVB, gli UVA hanno la capacità di penetrare in profondità nella pelle, stimolando la produzione di radicali liberi, atomi o molecole estremamente reattive che interagiscono con ciò che incontrano creando spesso danni. Possono per esempio deteriorare il collagene, una sostanza molto importante per la pelle, e accelerandone l’invecchiamento, oppure possono aumentare il rischio di tumore.Gli UVB sono di solito schermati dal vetro, per esempio dal parabrezza di un’automobile, mentre gli UVA no. Le creme solari moderne proteggono sia dagli UVA sia dagli UVB, ma è sempre opportuno controllare l’etichetta per accertarsi della protezione.AbbronzaturaLa pelle si scurisce al Sole come meccanismo di difesa per contrastare i raggi ultravioletti. Quando ci esponiamo alla luce solare si attivano i melanociti, cellule specializzate che producono melanina, una sostanza che si trova in vari tessuti del nostro organismo compresa la pelle.L’attivazione avviene sempre, anche in pieno inverno, ma la produzione di melanina aumenta quando ci si espone per lunghi periodi al Sole. È in questa circostanza che la pelle si scurisce e diventa abbronzata, ma la sua colorazione non è in alcun modo l’indicazione di essere “più in salute”: semplicemente, è il segno che l’organismo si è attivato per provare a proteggerci dai raggi solari. La capacità di protezione è però molto limitata e deriva da come si è fatti, cioè dal proprio fototipo.FototipoIl principale riferimento per determinare il fototipo fu elaborato a metà degli anni Settanta da Thomas B. Fitzpatrick della Harvard School of Medicine negli Stati Uniti. Formulò uno schema di classificazione per il colore della pelle umana in base alla risposta di diverse persone agli UV. Il sistema fu poi modificato e integrato una decina di anno dopo e raggruppa le persone in sei categorie: dal fototipo I in cui sono comprese le persone che si scottano e non si abbronzano, solitamente con capelli e occhi chiari, al fototipo VI in cui sono comprese le persone che non subiscono scottature e hanno la pelle più scura.IngredientiNell’Unione Europea le creme solari sono molto normate, pur essendo comprese nel grande gruppo dei cosmetici (che hanno regole diverse dai farmaci, per esempio). I filtri solari, cioè le molecole che hanno il compito di assorbire/riflettere gli UV, autorizzati per il commercio sono 28: ogni crema solare ha un componente di assorbimento e uno di riflessione, con proporzioni che variano a seconda dei prodotti e delle esigenze. Tra i componenti più diffusi c’è il biossido di titanio, che arriva a costituire un quarto del contenuto della crema solare, cui si aggiungono poi gli altri filtri: nel complesso le creme sono quindi molto concentrate, anche quando non è segnalato in etichetta (“concentrato” è uno di quei termini usati molto dal marketing).Fattore di protezione solare – SPFIl numero indicato sulle confezioni delle creme solari indica la capacità di proteggere la pelle dal Sole. Viene determinato sperimentalmente con test che vengono effettuati su una ventina di volontari, la cui schiena viene esposta a una lampada che emette raggi ultravioletti imitando quelli solari. Una parte della schiena rimane senza protezione mentre l’altra viene coperta dalla crema solare.La lampada è tarata per produrre una quantità di UV che porti a un eritema sulla pelle non protetta di ogni soggetto, poi si passa all’area con la crema solare aumentando via via la dose di raggi UV. Trascorse alcune ore, si valutano le differenze tra le varie aree e si calcola il rapporto fra la dose minima di UV necessaria per produrre un eritema sulla pelle protetta dalla crema e per la pelle senza protezione. Da questo calcolo deriva infine l’SPF, il numero che viene indicato sulle confezioni.(Getty Images)Per esempio: se serve una dose di UV cinquanta volte maggiore per far sviluppare l’eritema sulla pelle protetta dalla crema rispetto a quella non protetta, significa che la crema ha un SPF uguale a 50.La procedura viene effettuata per gli UVB, mentre per gli UVA il sistema è più complesso e rende necessario l’impiego di altri test. La sigla UVA-PF seguita da un numero indica il fattore di protezione per questi raggi ultravioletti, ma di solito sulle confezioni viene solo indicata la presenza della protezione UVB. I produttori possono metterlo sulle creme solo se l’UVA-PF nella crema è almeno un terzo dell’SPF, altrimenti non possono indicare nulla nell’etichetta.Quanto proteggono le creme solariUn SPF 10 lascia passare 1/10 degli UVB, di conseguenza ne ferma il 90 per cento, un SPF 20 lascia passare 1/20, quindi ne ferma il 95 per cento e così via. Questi sono i valori che si trovano solitamente sulle confezioni e la relativa percentuale di efficacia nel bloccare i raggi solari:SPF 10: 1/10 → 90%SPF 20: 1/20 → 95%SPF 30: 1/30 → 97%SPF 50: 1/50 → 98%SPF 100: 1/100 → 99%.Una protezione “totale” non esiste e nel caso dell’Unione Europea ai produttori viene consigliato di non usare numeri oltre l’indicazione “50+”, proprio per non indurre a pensare che con il numero di SPF più alto si abbia una protezione totale. In più occasioni si è anche discusso di eliminare l’indicazione numerica e di lasciarne una più generica che indichi protezione bassa, media, alta e molto alta, ma ci sono interessi (soprattutto commerciali) a mantenere l’indicazione numerica.Quanta crema solare si deve mettereIl numero di SPF dà la protezione corrispondente solo se la crema solare viene usata nel modo corretto, applicandone la giusta quantità e cioè 2 milligrammi ogni centimetro quadrato di pelle: utilizzandone meno si riduce notevolmente l’effetto protettivo. Servono più o meno 30 grammi di crema per tutto il corpo, circa un sesto di una normale confezione. Non è necessario essere precisi al decimo di grammo e per questo dermatologi e dermatologhe consigliano di abituarsi a usare l’equivalente della capacità di un cucchiaino di caffè (3 grammi) per viso e collo, altrettanto per ogni braccio e un cucchiaio da minestra (6 grammi) rispettivamente per ciascuna gamba, per la schiena, per il petto e per l’addome.Mettere metà della crema necessaria non fa semplicemente dimezzare il numero di SPF come credono in molti: la riduzione è pari alla radice quadrata del fattore di protezione di partenza. Un SPF 30 diventa quindi poco più di 5.(Olaf Kraak/Getty Images)Quando si mette la crema solareLa crema solare va applicata prima di esporsi al Sole, quindi è consigliabile spalmarsela prima di uscire all’aperto, per esempio per andare in spiaggia o in generale a fare una passeggiata. Ripetere l’applicazione periodicamente non serve solamente a ridurre il rischio di lasciare aree della pelle non protette, ma anche a ripristinare lo strato di crema che col passare delle ore tende a ridursi e rimuoversi.Ciò che dà protezione è infatti lo strato di crema solare stesso: funziona fino a quando è presente. Soprattutto d’estate, la sudorazione è una delle principali cause della sua rapida riduzione, così come qualsiasi altra azione meccanica sulla pelle, come infilarsi e sfilarsi degli abiti. Alcuni produttori indicano ancora sulle confezioni la capacità della crema di resistere all’acqua, ma dimostrarlo non è sempre semplice e per questo è consigliabile riapplicare la crema solare dopo un bagno. Anche l’azione dei granelli di sabbia può portare via parzialmente la protezione, comunque.E i vestiti?Esistono molti tessuti diversi tra loro e di conseguenza alcuni filtrano meglio di altri i raggi UV. Il denim dei jeans, per esempio, ha una buona capacità di bloccare i raggi ultravioletti, mentre tessuti più leggeri come il cotone delle magliette non fanno molto. Da qualche tempo si trovano comunque costumi da bagno, abiti da trekking e altri indumenti realizzati con tessuti tecnici con un alto fattore di protezione, solitamente indicato nell’etichetta. Questi prodotti devono essere lavati con attenzione e utilizzando detersivi specifici per ridurre l’usura dello strato che protegge dai raggi solari.Livello di abbronzaturaC’è la convinzione piuttosto diffusa che usando la crema solare “ci si abbronza di meno”. In realtà usando le creme solari ci si abbronza più lentamente, perché come abbiamo visto l’abbronzatura è un meccanismo di difesa della pelle: i filtri solari fanno parte di quel lavoro di protezione. Alla fine ci si abbronza ugualmente perché come abbiamo visto le creme solari non riescono a proteggere totalmente.Il livello di abbronzatura è comunque commisurato al proprio fototipo e in generale a come si è fatti. Arrivati al massimo possibile, non ci si abbronza ulteriormente. Non usare o usare poca crema solare mette sotto forte stress la pelle e può essere molto rischioso per la salute. LEGGI TUTTO

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    Gli Stati Uniti non lasciano in pace i limuli

    Negli Stati Uniti continuano a essere estratte grandi quantità di sangue blu dai limuli per effettuare test di sicurezza sui prodotti farmaceutici, nonostante sia disponibile ormai da tempo un’alternativa sintetica impiegata soprattutto in Europa. L’alta domanda del sangue dei limuli – che sono imparentati più con scorpioni, zecche e ragni che con i granchi – ha un forte impatto sulla popolazione di questi animali e sugli ecosistemi marini, anche perché la loro pesca non è sempre regolamentata a sufficienza.L’utilità del sangue dei granchi in ambito farmaceutico fu scoperta nella seconda metà degli anni Cinquanta dal ricercatore statunitense Frederik B. Bang, che spiegò come la sostanza fosse utile per immobilizzare i batteri, senza ucciderli. Nel sangue del limulo c’è infatti un composto chimico che rende possibile l’identificazione dei batteri: la sostanza si aggrega intorno a loro e crea una sorta di barriera, evitando che si formi una colonia batterica più grande. Per questo il composto viene solitamente indicato come “coagulogen” e negli anni è diventato sempre più importante per le aziende farmaceutiche, perché rende possibile l’identificazione di contaminazioni batteriche nelle sostanze che dovranno entrare in contatto con il nostro organismo, come per esempio un vaccino. Se nella soluzione da testare si forma un coaugulo dopo avere inserito il coagulogen, significa che questa è contaminata e che deve essere scartata.Gli Stati Uniti sono tradizionalmente tra i principali produttori di sangue blu, anche perché per molto tempo i limuli abbondavano lungo la costa orientale del paese, quella che dà sull’oceano Atlantico. Gli animali vengono raccolti a mano dalle spiagge, oppure pescati dai fondali utilizzando le reti. Dopo essere stati ammassati a centinaia, vengono trasportati agli impianti che si occupano di effettuare il prelievo del loro sangue. In ogni limulo viene inserito un lungo ago fino al suo cuore e viene avviata l’estrazione, con gli animali ancora vivi. La procedura porta a estrarre circa la metà del sangue in circolazione in ogni limulo.Al termine dell’estrazione, gli animali vengono restituiti ai pescatori, che hanno il compito di metterli nuovamente in mare. In altri casi, i limuli vengono venduti per essere uccisi e utilizzati come esche. Il tutto avviene nel contesto di una grande area grigia, perché molte regole adottate per tutelare gli animali in altri processi industriali non si applicano strettamente ai limuli. Vengono pescati, ma non per essere mangiati; sono impiegati per il settore farmaceutico, ma non negli iper regolamentati test clinici; sono sì animali, ma non a sangue caldo, di conseguenza non sono soggetti a molte leggi per la tutela dell’impiego degli animali in ambito sanitario.(Insider Business via YouTube)Secondo i dati raccolti da NPR, la radio pubblica statunitense, solo nel 2021 cinque aziende sulla costa orientale hanno estratto sangue blu da oltre 700mila limuli, il dato più alto registrato dal 2004 quando si è iniziato a tenere traccia delle attività intorno a questo animali. Si stima che il sangue estratto venga impiegato in media in 80 milioni di test effettuati in giro per il mondo. Il settore ha dunque continuato a espandersi, ma non è stato regolamentato e soprattutto non sono state introdotte iniziative per usare il metodo alternativo, che si ottiene attraverso processi di clonazione e senza disturbare i limuli.Un primo test alternativo fu reso disponibile nel 2003, ma la sua adozione era progredita molto a rilento anche in attesa di ricerche sulla sua affidabilità. Nel 2020 l’azienda farmaceutica statunitense Eli Lilly fu tra le prime ad adottarlo, in concomitanza con la pandemia da coronavirus e la necessità di verificare la sicurezza dei propri prodotti a base di anticorpi. La società dovette però richiedere una particolare autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale che tra le altre cose si occupa di farmaci, perché il test non era e non è ancora presente nella Farmacopea degli Stati Uniti, il codice farmaceutico contenente regole comuni per la qualità delle medicine.In Europa le cose erano andate diversamente perché già nell’estate del 2020 la Farmacopea europea aveva autorizzato e aggiunto il nuovo test, definendolo utile per avere un’alternativa e soprattutto per ridurre l’impatto sui limuli del prelievo di sangue blu, e in generale sugli ecosistemi marini. Un comitato di esperti dell’organizzazione omologa statunitense decise invece di non cambiare le cose, sostenendo che fossero necessari ulteriori approfondimenti. Due anni dopo il comitato fu sciolto, ma i membri di quello successivo non cambiarono orientamento e ancora oggi non ci sono notizie su una revisione delle regole per riconoscere in maniera più ampia e diffusa la sostanza alternativa al sangue blu dei limuli.Le aziende farmaceutiche hanno comunque margini per cambiare i metodi con cui svolgono i loro test, con le adeguate autorizzazioni come avvenuto nel 2020 con Eli Lilly. La grande azienda farmaceutica Roche ha iniziato a utilizzare la versione alternativa in alcuni processi di produzione e ha detto di volere estendere i test in altri ambiti, in modo da ridurre la dipendenza dal sangue blu. Molte altre società del settore preferiscono invece proseguire con il vecchio metodo, come dimostrato anche dall’aumento dei limuli coinvolti nei prelievi degli ultimi anni.A differenza del nostro, il loro sangue non è rosso ma quasi trasparente e assume una colorazione azzurro-blu appena entra in contatto con l’aria. Il fenomeno è dovuto all’ossidazione del rame presente nel loro sangue (nel nostro c’è il ferro, da qui il colore diverso). Dopo il prelievo vengono effettuati alcuni trattamenti per estrarre il coagulogen vero e proprio, che sarà poi utilizzato per i test. Non è chiaro quanto sia traumatico il prelievo per questi animali, che sembrano comunque riprendersi del tutto a pochi giorni di distanza dalla procedura. Alcune ricerche hanno indicato però che i prelievi rendono meno reattivi i limuli con evidenti conseguenze sulle loro capacità di riprodursi.Il sistema circolatorio dei limuli ricorda molto quello dei ragni ed è quindi diverso dal nostro. I limuli hanno ampie cavità che mettono direttamente in contatto il sangue con i tessuti, varchi ideali per i batteri che si trovano nella sabbia e che sono alla ricerca di un ospite da colonizzare. Il coagulogen evita che questo possa avvenire, incapsulando immediatamente i batteri formando il coagulo. Questa condizione ha permesso ai granchi di crescere in ambienti ricchi di batteri senza particolari problemi e di esistere da circa mezzo miliardo di anni.(AP Photo/Kathy Willens)Ora le loro popolazioni lungo la costa orientale degli Stati Uniti rischiano di ridursi sensibilmente, a quanto sembra non tanto per la pratica in sé dei prelievi, ma per il modo in cui i limuli vengono catturati sulle spiagge o rigettati in mare. Secondo documenti e registrazioni raccolte da NPR che riguardano le aziende che se ne occupano, gli operatori prendono i limuli soprattutto dalla coda, perché è più pratico e rapido, ma è sconsigliato perché può causare danni. Se si feriscono alla coda, questi animali sono più a rischio di non riuscire a girarsi, nel caso in cui si ribaltino trovandosi con le zampe all’aria. Il ribaltamento è una circostanza che si può verificare soprattutto quando le femmine si spostano dal fondale per deporre le loro uova.Maneggiarli in modo scorretto fa quindi aumentare il rischio che i limuli si riproducano di meno, peggiorando ulteriormente la situazione. I regolamenti su come trattarli sono decisi a livello statale, di conseguenza cambiano molto a seconda dei luoghi di raccolta così come cambiano le eventuali sanzioni nei confronti di chi non li rispetta.La minore disponibilità di limuli ha inoltre effetti sulle popolazioni di altri animali, come il piovanello maggiore (Calidris canutus, un uccello migratore diffuso in molte aree del mondo, ma che negli Stati Uniti è stato indicato come specie minacciata). Circa il 94 per cento di questi uccelli è scomparso negli ultimi 40 anni, in parte anche a causa della mancanza di quantità sufficienti di uova dei limuli, una importante fonte di energia per le loro migrazioni verso l’Artico.In una fase storica in cui si parla molto di sostenibilità e di impatto ambientale delle attività industriali, secondo i naturalisti sarebbe opportuno stimolare il dibattito anche intorno ai limuli e alle conseguenze del prelievo del loro sangue blu. L’alternativa altrettanto efficace per i test dovrebbe essere promossa soprattutto dalle istituzioni, in modo da indurre un cambiamento in un settore essenziale legato alla salute di tutti. LEGGI TUTTO

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    In Cina stanno scavando un buco profondissimo

    Alla fine di maggio in Cina è iniziata la perforazione del suolo per scavare un buco che supererà gli 11mila metri di profondità, nell’ambito di un’iniziativa scientifica che potrebbe avere esiti anche per la ricerca di gas e petrolio. Lo scavo è stato avviato in una zona del deserto del Taklamakan, nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest del paese. Una volta completato, il pozzo sarà il più profondo mai realizzato in Cina e uno dei più profondi mai scavati in tutto il mondo, per quanto con un diametro di poche decine di centimetri.L’attività di perforazione è sotto la responsabilità della China National Petroleum Corporation (CNPC) di proprietà del governo cinese e coinvolge Sinopec, altro grande gruppo petrolifero e petrolchimico della Cina. Secondo i responsabili dell’iniziativa, gli 11.100 metri di profondità previsti saranno raggiunti entro la fine di agosto del 2024, con poco meno di 460 giorni di scavo. I tempi previsti sono molto brevi, considerato che per perforazioni analoghe, ma a minori profondità, sono stati necessari anni.Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, sulla quale il governo cinese esercita un forte controllo, con la perforazione si potrà raggiungere lo strato di rocce che era in superficie durante il Cretaceo, il periodo compreso tra 66 e 145 milioni di anni fa. Altri esperti ritengono che l’iniziativa potrebbe consentire di arrivare ancora più in profondità, fino al periodo Cambriano, risalente a oltre 500 milioni di anni fa.Le perforazioni a grande profondità di questo tipo rendono di solito possibile il prelievo di campioni di rocce altrimenti inaccessibili, che vengono poi analizzati e studiati per ricostruire informazioni in generale su ere geologiche molto remote e per comprendere meglio le caratteristiche geologiche di un certo territorio. Il deserto del Taklamakan si trova quasi interamente nel bacino del Tarim, che si formò per la confluenza di acque superficiali in assenza di grandi corsi d’acqua (“bacino endoreico”). La sua storia geologica è particolare e la trivellazione potrebbe fornire nuovi spunti per il suo studio.La perforazione avviata dalla Cina non avrà necessariamente soli scopi di ricerca, come intuibile dal coinvolgimento di alcune delle più grandi aziende di idrocarburi del paese. Uno dei fini è scoprire se in strati così profondi ci sia comunque una quantità significativa di petrolio e gas, come riscontrato altrove e a profondità minori. Nell’area del bacino del Tarim sono già stati scavati alcuni pozzi molto profondi sfruttati da Sinopec, che negli anni ha affinato tecnologie e sistemi per scavare a svariati chilometri nel sottosuolo. Uno dei principali complessi di pozzi della società raggiunge gli 8mila metri di profondità.Il presidente cinese Xi Jinping ha in più occasioni esortato la Cina a condurre esplorazioni e ricerche in vari ambiti, non solo a scopo scientifico, ma anche per trovare nuove fonti da cui attingere per le materie prime. Il governo cinese ha l’obiettivo di rendere la Cina il più indipendente possibile sia nel settore dei combustibili fossili, sia dei minerali rari sempre più richiesti per l’elettronica. Per questo motivo per Xi la “Terra profonda” è da qualche anno uno dei principali obiettivi nella strategia di espansione economica della Cina.– Leggi anche: L’irresistibile fascino di scavare bucheCon 11.100 metri il buco nel deserto del Taklamakan diventerà uno dei più profondi al mondo, ma non supererà comunque il primato del pozzo superprofondo di Kola nella Russia nord-occidentale quasi al confine con la Norvegia. Il progetto fu avviato dall’Unione Sovietica nel 1970 e proseguì per quasi venti anni, fino a quando fu interrotto nel 1989 una volta raggiunta la profondità di 12.262 metri. La sua realizzazione ha reso possibile lo studio di alcune caratteristiche del cosiddetto “scudo baltico”, la grande massa continentale che comprende buona parte dei paesi scandinavi.Nel 1957 anche gli Stati Uniti avevano avviato un’iniziativa simile: era il Project Mohole, che aveva l’obiettivo di perforare il fondale oceanico nel Pacifico al largo della costa del Messico. Il progetto fu abbandonato dopo qualche anno per la mancanza di fondi, ma fu comunque importante per sperimentare tecniche impiegate in seguito in altre attività di esplorazioni del fondale oceanico. In Germania a Windischeschenbach, in Baviera, tra il 1987 e il 1995 fu scavato un pozzo fino alla profondità di 9.101 metri. LEGGI TUTTO

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    Cosa succede ai Campi Flegrei

    Domenica 11 giugno, alle 8:44 del mattino, c’è stato un terremoto di magnitudo 3.6 che ha avuto origine a 3 chilometri di profondità sotto ai Campi Flegrei, la grande area vulcanica a nord-ovest della città di Napoli e del suo golfo. Non ci sono stati danni nei centri abitati vicini, a partire da Pozzuoli, ma è stato comunque un terremoto degno di nota perché insieme a un altro della stessa magnitudo registrato nel marzo del 2022 è stato il più forte nella zona dal biennio 1982-1984, quando in alcuni mesi ci furono più di 1.200 terremoti con magnitudo fino a 4.Come ha spiegato il progetto di divulgazione scientifica sui social Il Mondo dei Terremoti, il terremoto di domenica si è aggiunto a una serie che era iniziata nel 2005 ed è dovuta al progressivo sollevamento del suolo dell’intera area vulcanica. Negli ultimi mesi i terremoti sono stati particolarmente frequenti: ad aprile sono stati 675, a maggio 661. Per la maggior parte si è trattato di terremoti deboli e poco percettibili dalle persone, ma sono comunque un segno dell’attività geologica in corso.I Campi Flegrei non hanno un unico cono vulcanico principale, come il vicino Vesuvio, ma sono fatti di vari centri vulcanici che si trovano all’interno e attorno a una zona depressa chiamata caldera. La caldera si è creata in passato con il collasso del tetto di un grande serbatoio di magma, dopo che questo stesso magma era fuoriuscito nel corso di due eruzioni, 40mila e poi 15mila anni fa. Successivamente la zona è via via sprofondata. Negli ultimi 5.500 anni ci sono state più di 27 eruzioni: l’ultima fu nel 1538 e da allora l’attività vulcanica è proseguita solo con fumarole e acque termali. L’intera zona occupa un’area di circa 12 chilometri per 15, che comprende i comuni di Bacoli, Monte di Procida, Pozzuoli, Quarto e Giugliano, oltre a una parte di Napoli.I terremoti registrati nel mese di maggio 2023 nei Campi Flegrei (Osservatorio vesuviano dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia)Nel corso del Novecento il suolo della caldera ha subito in tre periodi un processo di sollevamento, che ha riguardato in particolare Pozzuoli, dove si è alzato anche di 3 metri e mezzo. I due periodi di sollevamento furono tra il 1950 e il 1952, tra il 1969 e il 1972 e tra il 1982 e il 1984; successivamente c’è stato un nuovo graduale abbassamento, interrotto a partire dal 2004 con il sollevamento ancora in corso. In questi 18 anni il suolo si è sollevato anche più di un metro, ma in generale il processo è stato più lento e ha causato un minor numero di terremoti rispetto agli anni Settanta e Ottanta.Ci sono varie teorie sulle ragioni del sollevamento, che nel gergo degli scienziati che studiano i Campi Flegrei è detto “bradisismo”. Quella principale è che il magma che si trova in profondità starebbe rilasciando grandi quantità di vapor acqueo che a sua volta starebbe riscaldando le rocce che dividono lo stesso magma dal suolo, creando delle deformazioni del terreno, causando i terremoti e un’attività più intensa delle fumarole.Il 9 giugno un gruppo di scienziati internazionale di cui fanno parte anche dei membri dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) ha pubblicato uno studio sulla rivista Communications Earth and Environment a proposito della possibilità che i movimenti della caldera arrivino a una rottura della sua crosta, cioè dello strato più superficiale. Per quello che si sa non si può escludere del tutto che nel processo sia coinvolto del magma, ma per il momento non c’è di fatto nessuna ragione per pensare che ci sarà un’eruzione vulcanica per come la si intende generalmente, cioè con fuoriuscita di lava.Lo stato di allerta per la Protezione Civile è “giallo” per via dei terremoti, non perché si tema un’eruzione. LEGGI TUTTO

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    Una femmina di coccodrillo si è riprodotta da sola

    Una femmina di coccodrillo in uno zoo del Costa Rica si è riprodotta da sola, in un raro caso di partenogenesi in questa specie. Nel gennaio del 2018 l’animale aveva deposto 14 uova, nonostante fosse vissuto in isolamento per 16 anni senza avere contatti con altri simili. Sorpresi dalla circostanza, i responsabili dello zoo avevano selezionato sette uova e le avevano messe all’interno di una incubatrice. Dopo tre mesi le uova non si erano ancora schiuse e si era quindi deciso di analizzarle, scoprendo che all’interno di una c’era il feto di un coccodrillo completamente formato, ma non vitale. Servivano però ulteriori analisi per confermare che la femmina di coccodrillo si fosse riprodotta autonomamente.Come racconta uno studio sulla vicenda pubblicato sulla rivista scientifica Biology Letters, i test del DNA avevano rivelato che la madre e il feto erano sostanzialmente identici dal punto di vista del materiale genetico, fatta eccezione per le estremità dei cromosomi del feto. Possiamo immaginare i cromosomi come matasse a forma di X (fatta eccezione del cromosoma Y) per la trasmissione delle informazioni genetiche.Le differenze riscontrate con le analisi suggerivano che la cellula uovo prodotta dalla madre non si fosse unita con uno spermatozoo, come avviene normalmente nella fecondazione, ma con un “globulo polare”, una delle piccole sacche cellulari che si formano insieme alla cellula uovo vera e propria contenenti cromosomi molto simili a quelli materni. Di solito i globuli polari diventano materiale di scarto e non sono coinvolti direttamente nella riproduzione, ma in alcuni casi si possono fondere con la cellula uovo, completando il materiale genetico in assenza di uno spermatozoo e portando quindi alla partenogenesi.Il fenomeno è abbastanza comune in varie specie di uccelli, pesci, serpenti e lucertole, mentre non era mai stato osservato tra i Crocodylia, l’ordine di rettili che comprende i coccodrilli, gli alligatori e i caimani, per citarne alcuni. La femmina di coccodrillo nel Costa Rica era stata portata al Parque Reptilandia, un parco per i rettili, quando aveva due anni, nel 2002, e da allora non aveva avuto contatti con propri simili. Questa circostanza esclude la possibilità di un concepimento ritardato, dove uno o più spermatozoi riescono a sopravvivere a lungo (sono stati osservati casi di anni) nell’apparato riproduttivo della femmina prima di fecondare una cellula uovo.Non è ancora chiaro come mai alcuni animali riescano a riprodursi per partenogenesi. Un’ipotesi è che questa capacità possa rivelarsi utile nei periodi di prolungata assenza di maschi disponibili per la riproduzione, in modo da garantire comunque il proseguimento della specie. Una teoria simile contempla la possibilità che la partenogenesi avvenga con più probabilità nelle specie a rischio di estinzione. Altri ipotizzano che si tratti semplicemente di un fenomeno del tutto casuale e che non abbia una grande utilità per buona parte delle specie viventi odierne. Se la partenogenesi fosse molto comune, la varietà genetica degli esemplari sarebbe molto più bassa e indebolirebbe le specie.La maggiore disponibilità di sistemi per le analisi genetiche ha comunque reso evidente negli ultimi anni una quantità di partenogenesi superiore alle aspettative, come dimostra anche il caso della femmina di coccodrillo nel Costa Rica. La sua storia potrebbe aggiungere qualche elemento affascinante sui lontani parenti degli odierni coccodrilli come i dinosauri e gli pterosauri, che si sospetta da tempo avessero la capacità di riprodursi da soli in determinate circostanze. I fossili non permettono di recuperare il materiale genetico di quegli animali, quindi forse non sapremo mai se la partenogenesi fosse effettivamente comune tra alcune delle loro specie. LEGGI TUTTO

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    A che punto sono i lavori per il trattato sulla plastica

    Caricamento playerLa scorsa settimana a Parigi si è conclusa la seconda riunione del comitato intergovernativo delle Nazioni Unite che ha il compito di gestire i negoziati del trattato per ridurre la presenza della plastica nell’ambiente, uno dei più grandi problemi di inquinamento a livello globale. Le trattative non hanno però portato a molti progressi e hanno mostrato quanto siano ancora forti le divisioni tra i paesi, con i principali produttori di petrolio poco interessati a cambiare le cose e le forti pressioni che arrivano dalle aziende del settore. Dopo giorni di discussioni si è comunque trovato un accordo per proseguire verso la scrittura del trattato, che le Nazioni Unite vorrebbero fare approvare entro la fine del prossimo anno.La plastica è tra i materiali più diffusi e utilizzati al mondo, ha aperto grandi opportunità nella ricerca, nello sviluppo di nuovi materiali in moltissimi ambiti e ha migliorato la qualità della vita di milioni di persone. Gli enormi benefici hanno però avuto costi altissimi e il più grande di tutti riguarda l’ambiente: la plastica è talmente diffusa e utilizzata da essere presente praticamente in qualsiasi ecosistema, dalle profondità oceaniche alle vette alpine, diventando un problema sempre più grande e urgente da affrontare, specialmente per il suo corretto smaltimento.Il trattato cui stanno lavorando i paesi del mondo è visto da molti osservatori come la prima vera occasione per cambiare le cose, regolamentando meglio un settore che si è espanso molto velocemente nell’ultimo secolo, spesso senza un adeguato coordinamento tra le nazioni per lo smaltimento dei rifiuti plastici. Nel marzo dello scorso anno 175 paesi avevano sottoscritto a Nairobi, in Kenya, un impegno per l’adozione di un documento internazionale sulla plastica. Era poi seguito un primo incontro del comitato intergovernativo in Uruguay a novembre, con lavori preparatori per affrontare la seconda sessione da poco terminata a Parigi.Manila, Filippine, 18 aprile 2018 (Jes Aznar/Getty Images)Nei cinque giorni della conferenza si sarebbero dovuti affrontare numerosi problemi legati al modo in cui viene prodotta e smaltita la plastica, ma per i primi tre giorni è stato pressoché impossibile parlare di contenuti. Il dibattito si è mantenuto quasi esclusivamente sulle procedure di voto da utilizzare nella preparazione e nell’approvazione finale del trattato, con una certa insistenza da parte dei paesi che estraggono più petrolio come Brasile e Arabia Saudita, insieme ad alcuni dei principali utilizzatori di plastica come Cina e India. La loro proposta era di introdurre un meccanismo che consentisse ai paesi di avere capacità di veto nelle votazioni, mentre altri paesi proponevano di avere un sistema di approvazione basato su una maggioranza di due terzi.La contrapposizione è diventata alquanto evidente tra i paesi produttori di petrolio e quelli che fanno parte della “High Ambition Coalition” (HAC), una coalizione internazionale che ha l’ambizioso obiettivo di mettere fine all’inquinamento causato dalla plastica. La coalizione comprende l’Unione Europea, il Canada, l’Australia, il Cile e il Messico, ma non conta tra i propri partecipanti alcuni dei paesi che impiegano più plastica, come Russia, Cina, India e Stati Uniti.Le trattative sulle modalità di votazione hanno portato a uno stallo, secondo i più critici voluto espressamente dai paesi in cui sono attive le grandi aziende del settore petrolchimico per ostacolare l’avanzamento dei lavori, impedendo progressi nella realizzazione del trattato. Dopo i primi tre giorni, alcuni paesi avevano iniziato a protestare chiedendo che si arrivasse agli argomenti veri e propri, senza impegnare altro tempo sulla decisione delle procedure. Dopo alcune sessioni tese, si era infine deciso di non decidere, arrivando a un compromesso che di fatto lascia irrisolto l’argomento comunque importante di come saranno votate le decisioni.I ritardi hanno infine lasciato poco tempo per occuparsi dei numerosi argomenti intorno alle strategie da adottare per ridurre la proliferazione della plastica. Si è parlato della necessità di gestire l’inquinamento derivante dalle microplastiche, le componenti molto piccole in cui degradano diverse tipologie di plastica e che possono finire ovunque, nelle acque degli oceani e di conseguenza nelle specie ittiche, ma anche nel nostro organismo con effetti ancora non chiariti. È stata inoltre espressa la volontà di regolamentare in modo più uniforme e coerente tra i paesi le migliaia di sostanze chimiche che vengono utilizzate per realizzare i vari tipi di plastica, alcune delle quali estremamente dannose per l’ambiente per via della loro lunga durata.Nel corso delle trattative, la maggior parte dei 180 paesi partecipanti alla sessione di Parigi ha concordato sull’importanza di non produrre più o mettere al bando i PFAS, cioè le sostanze perfluoroalchiliche: una classe di migliaia di sostanze diverse usate storicamente nella produzione di moltissimi materiali – dalle vernici agli imballaggi, passando per gli impermeabilizzanti – con grandi problemi di inquinamento ambientale (in Italia il problema riguarda in particolare una zona del Veneto).Atene, Grecia, 26 giugno 2018 (Milos Bicanski/Getty Images)Gli effetti sulla salute dei PFAS sono difficili da indagare e, trattandosi di migliaia di sostanze diverse, anche difficili da catalogare. Alcuni non provocano danni rilevabili, per esempio, ma altri portano a un accumulo negli esseri viventi, con rischi per la riproduzione e danni allo sviluppo. Altri PFAS sono cancerogeni e c’è il sospetto che alcuni interferiscano con il sistema endocrino umano. Per questi motivi sono sotto stretta osservazione da parte degli organismi di controllo dell’Unione Europea e in diversi altri paesi.Altre proposte hanno riguardato la riduzione della produzione della plastica in generale, un intervento visto sempre più come necessario per intervenire alla base dell’inquinamento. E si è parlato dell’importanza di adottare sistemi più affidabili per tracciare e tenere sotto controllo la diffusione della plastica su scala globale, un punto su cui insistono da tempo numerosi gruppi di ricerca.Nella maggior parte dei paesi del mondo, chi produce plastica deve osservare vincoli nel momento della produzione, mentre non ha poi particolari responsabilità una volta che i suoi prodotti vengono venduti. Per la plastica usa e getta le responsabilità ricadono sui singoli consumatori, per esempio, ma non c’è modo di tracciare completamente il percorso che fa un involucro dalle materie prime con cui è stato realizzato alla discarica. Le Nazioni Unite vogliono favorire un processo di armonizzazione di regole e procedure, coinvolgendo università e centri di ricerca, in modo da utilizzare il tracciamento per ridurre le sostanze inquinanti nell’ambiente e stimare meglio le responsabilità dei singoli paesi.Per organizzare sistemi di questo tipo devono essere coinvolte anche le aziende produttrici, ma nel caso della riunione di Parigi ci si è chiesto se la presenza dei loro rappresentanti non fosse eccessiva. La testata francese Mediapart ha stimato che alle trattative fossero presenti quasi 200 rappresentanti dell’industria petrolchimica, spesso con una presenza maggiore rispetto a quella delle delegazioni dai paesi in cui il problema dell’inquinamento da plastica è più sentito, come alcuni stati insulari del Pacifico. Negli incontri si è quindi parlato degli approcci che l’industria preferirebbe, come utilizzare procedimenti per trasformare la plastica utilizzata in combustibili, attraverso un processo che riduce la quantità di materiali plastici in circolazione ma che ha un forte impatto per quanto riguarda la produzione di emissioni di anidride carbonica.Nei primi mesi del 2018 centinaia di grandi aziende avevano sottoscritto il Global Commitment, un’iniziativa legata al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente che aveva lo scopo di ridurre l’inquinamento da plastica. Tra i sottoscrittori c’erano società molto ricche e che controllano una enorme quantità di marchi come Nestlé, Mars, L’Oréal, SC Johnson, Coca-Cola e PepsiCo. Si erano impegnate a ridurre l’impiego di plastica vergine (quindi non derivante dal riciclo) e a concentrarsi nello sviluppo di confezioni e involucri riciclabili o compostabili, in modo da ridurre la plastica in circolazione.L’impegno non ha portato ai risultati sperati, almeno secondo il rapporto dello scorso anno sull’andamento del Global Commitment. Coca-Cola si era impegnata a ridurre del 20 per cento l’impiego di plastica non riciclata nel 2021 rispetto al 2019, ma ne ha usata il 3 per cento in più; Mars aveva promesso una riduzione del 25 per cento nell’impiego in generale di plastica, ma ne ha utilizzato l’11 per cento in più sempre negli stessi periodi di riferimento. Nel 2018 il 49 per cento degli involucri impiegati da Nestlé era riciclabile, riutilizzabile o compostabile, mentre nel 2021 la percentuale è scesa al 45 per cento.Le stime sulla produzione globale di plastica variano molto, ma secondo quelle dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico negli ultimi anni ne abbiamo prodotta circa 400 milioni di tonnellate all’anno. E sempre annualmente si stima che negli oceani finiscano circa 14 milioni di tonnellate di plastica, trasportata dai fiumi o dispersa direttamente nei mari.Al di là delle difficoltà sulle procedure, la seconda riunione del comitato intergovernativo ha confermato la volontà dei paesi di affrontare il problema della plastica e di proseguire verso la stesura del trattato. La riunione si è conclusa con un accordo per avviare la scrittura di una prima bozza, che sarà analizzata durante la prossima sessione prevista per novembre in Kenya. È ancora presto per dire se la scadenza ultima di fine 2024 sarà mantenuta per l’accordo finale sul trattato della plastica, ma il senso di urgenza dato dai tempi insolitamente stretti per questo genere di iniziative potrebbe favorire i lavori e appianare i principali contrasti. LEGGI TUTTO

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    Anche altri ominidi seppellivano i propri morti?

    Per quel che sappiamo i neanderthal (Homo neanderthalensis) furono l’unica altra specie animale oltre alla nostra (Homo sapiens) che seppelliva i propri morti, una pratica le cui testimonianze più antiche risalgono a 78mila anni fa. C’è però un gruppo di paleoantropologi che ha ipotizzato lo facessero anche gli Homo naledi, una specie estinta di ominini che è stata scoperta in Sudafrica solo nel 2013 e aveva cervelli grandi un terzo di quelli umani. Se confermata, questa teoria cambierebbe profondamente l’attuale conoscenza sull’evoluzione umana.A ipotizzare che l’Homo naledi seppellisse i propri morti è il gruppo di ricerca che lo studia fin dalla sua scoperta: è guidato da Lee Berger, paleoantropologo sudafricano dell’Università del Witwatersrand a Johannesburg, ed è finanziato dall’organizzazione scientifica statunitense National Geographic Society. Il 5 giugno Berger ha parlato pubblicamente per la prima volta dei ritrovamenti archeologici che giustificherebbero l’ipotesi e la rivista del National Geographic le ha dedicato un lungo articolo. Tuttavia gli studi del gruppo di Berger non hanno ancora completato il processo di revisione tra pari (peer review), che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, e finora hanno suscitato molto scetticismo tra gli esperti.I resti dell’Homo naledi furono scoperti nel 2013 da due speleologi sudafricani all’interno della grotta Dinaledi, che si trova poco lontano dalla cosiddetta “Culla dell’umanità”, un importante sito paleoantropologico a 50 chilometri da Johannesburg, ed è fatta di un complicato sistema di cunicoli che si estendono per centinaia di metri sottoterra. Nella grotta nel tempo sono stati trovati più di 1.800 frammenti di ossa appartenenti ad almeno 27 individui che hanno permesso di ricostruire che gli H. naledi erano alti in media circa 1 metro e 40 centimetri, avevano lunghe braccia e un cervello grande un terzo di quello di H. sapiens.I naledi erano ominini, cioè facevano parte della sottofamiglia di specie che comprende oltre all’essere umano moderno (Homo sapiens) le specie che gli sono più vicine come bonobo e scimpanzé (con la parola “ominidi” si intende invece un gruppo più ampio, di cui fanno parte anche gli oranghi e i gorilla). Si pensa che vissero tra 500mila e 240mila anni fa e che per almeno 50mila anni condivisero il proprio territorio nel sud dell’Africa con la nostra specie. Dovremmo discendere da un antenato comune: è stato stimato che i due rami evolutivi si separarono due milioni di anni fa.Lee Berger tiene una ricostruzione di un cranio di Homo naledi insieme al presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa, il 10 settembre 2015  (EPA/THAPELO MOREBUDI, ANSA)Berger e i suoi colleghi ritengono che gli Homo naledi seppellissero i propri morti per via del luogo in cui sono state trovate le loro ossa e della posizione di alcune in particolare.La camera della grotta Dinaledi in cui sono state rinvenute è la più profonda del complesso ed è collegata al resto attraverso un cunicolo verticale largo solo una ventina di centimetri: fin dai primi tempi dopo la scoperta, la squadra di ricercatori pensò che fosse improbabile che le ossa fossero arrivate nel fondo della grotta trascinate dall’acqua, data la ridottissima ampiezza del cunicolo e l’assenza di altri sedimenti, e ipotizzò che i resti degli ominini vi fossero stati portati intenzionalmente. Si considerarono anche le possibilità che a portarli nella grotta fossero stati dei predatori oppure degli Homo sapiens: la prima ipotesi fu esclusa perché sulle ossa non sono presenti segni di morsi, la seconda perché nella grotta non ci sono segni della presenza di umani.Un’ulteriore possibile spiegazione, che in passato l’accesso alla grotta fosse diverso e più facile, e che fosse diventato più ostico solo in seguito al crollo di una parete, fu scartata per assenza di riscontri.Invece secondo Berger e la sua squadra ci sarebbe una prova a sostegno dell’ipotesi della sepoltura: due scheletri quasi completi sono stati trovati all’interno di depressioni ovali nel terreno che per la loro forma sembrano scavate. I bordi infatti sono netti e ricoperti di fango.L’altra ragione per cui il paleoantropologo pensa che Dinaledi fosse un luogo di sepoltura è la presenza di altre cose all’interno della grotta: frammenti di carbone, ossa di tartaruga e coniglio bruciate e fuliggine sulle pareti apparentemente usata per tracciare dei segni. L’ipotesi di Berger è che gli ominini usassero dei tizzoni ardenti per farsi luce all’interno della grotta e portassero con sé legna o altri materiali per accendere dei fuochi.Sia la rivista del National Geographic che il New York Times, che ha dedicato a sua volta un articolo all’ipotesi di Berger, hanno intervistato vari paleoantropologi non coinvolti negli studi sugli Homo naledi per avere dei pareri terzi in merito. Maxime Aubert, archeologo dell’australiana Griffith University, è uno dei più scettici: ha detto al New York Times che per ora sembra «che la storia che si sta raccontando sia più importante dei fatti». Tutte le prove a sostegno della tesi potrebbero avere altre spiegazioni, in particolare il carbone e i segni fatti con la fuliggine potrebbero essere dovuti al passaggio di Homo sapiens dopo l’estinzione dei naledi.María Martinón-Torres, direttrice del Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana (CENIEH) in Spagna, ha definito l’ipotesi di Berger prematura e ritiene in particolare che non ci siano gli elementi per parlare di sepoltura. Paul Pettitt, archeologo dell’inglese Durham University, non è convinto che si possa davvero escludere che sia stato un flusso d’acqua a spingere le ossa nella grotta Dinaledi.Per avere conferme bisognerebbe stimare l’età dei pezzi di carbone e della fuliggine, cosa che finora non è stata fatta anche perché richiede molto tempo. John Hawks dell’Università del Wisconsin, che fa parte della squadra di Berger, ha detto che in futuro sarà fatto ma che nel frattempo lui e gli altri studiosi dei naledi volevano condividere le proprie scoperte con il resto della comunità scientifica per via delle possibili conseguenze straordinarie che avrebbe la loro teoria, se fosse confermata.Finora si è sempre pensato che i comportamenti più complessi della nostra specie e dei neanderthal, come la coscienza della morte e i riti funebri, siano diventati possibili grazie alle dimensioni del cervello molto maggiori di quelle degli altri ominini. Se però anche i naledi erano in grado di scavare tombe e tracciare segni significherebbe che a essere essenziale per il pensiero complesso non sarebbe la dimensione del cervello, ma qualche altra caratteristica. LEGGI TUTTO

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    Come mai bere alcol di giorno sembra dare un effetto diverso

    Con l’inizio della stagione calda aumentano le probabilità di bere bevande alcoliche nelle ore centrali della giornata, tra un aperitivo anticipato e una birra per rinfrescarsi a pranzo o a metà pomeriggio. Chi lo fa segnala spesso di avere una sensazione diversa da quella del consumo di alcolici la sera, come se bere nelle ore diurne sortisse maggiori effetti e lasciasse più inebriati, se non proprio brilli. Non ci sono molte ricerche scientifiche per confermare o smentire questa impressione, ma ci sono comunque alcuni indizi che riguardano sia le nostre abitudini quando beviamo sia il modo in cui smaltiamo l’alcol, comunque dannoso per il nostro organismo.Che cosa ci fa l’alcolIn generale, l’ubriachezza deriva dall’effetto tossico dell’alcol (etanolo), per questo si parla spesso di “intossicazione da alcol” o “avvelenamento da alcol” per i casi gravi, nei quali la concentrazione di questa sostanza nel sangue diventa molto alta. Quando beviamo un bicchiere di vino, un cocktail o una birra, l’alcol contenuto nella bevanda viene rapidamente assorbito dallo stomaco e in seguito dall’intestino tenue, finendo con il distribuirsi nell’organismo. Il compito di smaltirlo spetta soprattutto al fegato che trasforma l’etanolo in acetaldeide e successivamente in acido acetico.È un lavoro molto intenso e il fegato riesce a smaltirne solo una certa quantità in un intervallo di tempo, pari a circa 8 grammi all’ora per una persona adulta di medio peso (intorno ai 70 chilogrammi). In un bicchiere di vino di media gradazione – quindi 12° – ci sono circa 10-12 grammi di etanolo, di conseguenza il tempo per smaltirlo nel nostro esempio è di poco più di un’ora, ma se si bevono più bicchieri o bevande con una gradazione alcolica più alta il tempo per smaltire l’etanolo aumenta molto.Oltre a far lavorare di più il fegato, circostanza che se si ripete spesso può portare a infiammazioni e malattie dell’organo come la cirrosi, l’alcol in generale fa aumentare il rischio di cancro. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti e solidi per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Nel medesimo gruppo ci sono anche l’amianto, il fumo e gli insaccati, per esempio.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” su vino e rischio tumoriIl senso di ebbrezza che si ha dopo una bevuta dipende soprattutto dagli effetti dell’alcol sul sistema nervoso centrale. La sua presenza comporta una depressione di alcune attività dei neuroni e ha un effetto rilassante e ansiolitico, accompagnato da una disinibizione del comportamento. Ci sono effetti a carico del sistema cardiocircolatorio, con un aumento del flusso sanguigno, una maggiore perdita di calore (si ha l’impressione di avere più caldo, ma in realtà la termoregolazione diventa meno efficiente, quindi d’inverno una grappa non “scalda”) e una maggiore attività cardiaca, a volte accompagnata da aritmie e pressione sanguigna più alta. Nel caso dei bevitori cronici, tutti questi effetti possono avere gravi conseguenze a lungo termine, determinando un forte peggioramento della salute.Cibo e alcolCome abbiamo visto, l’assorbimento dell’alcol avviene in particolare a livello dello stomaco. Se beviamo qualcosa di alcolico a stomaco vuoto, il senso di ebbrezza potrà arrivare prima perché il passaggio dell’etanolo attraverso le pareti dello stomaco e dell’intestino tenue sarà pressoché immediato. Le cose di solito cambiano nel caso in cui si abbia lo stomaco pieno: l’assorbimento dell’alcol avverrà comunque, ma richiederà più tempo perché questo viene diluito nel cibo che è stato ingerito e ridotto in poltiglia con la masticazione. L’ebbrezza arriverà più gradualmente e se ne noteranno meno gli effetti, almeno all’inizio e a seconda di cosa e quanto si sta bevendo.Molto dipende anche dal cibo ingerito: alcuni alimenti come i carboidrati facilitano questo rallentamento rispetto ad altri. L’effetto è inoltre altamente soggettivo, perché siamo fatti tutti diversamente e ci sono componenti congenite e legate alle abitudini che determinano quanto ciascuno di noi regge il consumo di alcol (che dà comunque assuefazione).Sera e giornoDi sera è più probabile che si beva a stomaco pieno, per esempio perché si sta cenando o si è da poco finito di mangiare. In questo caso il senso di ebbrezza si manifesta più lentamente e ci si sente di avere più controllo di sé di quanto avviene per una birra bevuta in giornata a varie ore di distanza dall’ultimo pasto.L’effetto arriva prima e tendiamo a notarlo di più perché di solito di giorno dobbiamo svolgere più attività che richiedono concentrazione, rispetto a quanto avviene quando si esce a bere nelle ore serali e notturne dove il principale obiettivo è trovare la via da percorrere a piedi per tornare a casa o un taxi (mettersi alla guida dopo avere bevuto è rischioso per sé e per gli altri, oltre a essere vietato sopra una certa concentrazione di alcol nel sangue).Inoltre di giorno nella stagione calda si suda e ci si disidrata velocemente. Sopra un certo livello di disidratazione, l’effetto dell’intossicazione da alcol è più forte e ha maggiori conseguenze sul sistema nervoso centrale. È anche per questo motivo che dopo avere bevuto qualche bicchiere quando fa caldo il senso di ebbrezza è maggiore ed è spesso accompagnato da sensazioni poco gradevoli, come stordimento, capogiri e una generale sensazione di affaticamento. La minore quantità di acqua fa sì che siano in circolazione pochi minerali con ulteriori conseguenze sulle normali funzioni dell’organismo. L’alcol ha un effetto diuretico che porta a perdere ancora più velocemente i fluidi.Al di là di queste variabili, non ci sono molti elementi scientifici per sostenere che il nostro organismo gestisca diversamente l’alcol tra il giorno e la notte. Se dopo avere bevuto qualche bicchiere di giorno si iniziano ad avere i segni tipici del dopo sbornia (hangover), come mal di testa e di stomaco che di solito emergono il mattino dopo la bevuta, è semplicemente perché si è iniziato a bere prima del solito e l’organismo ha già smaltito una parte dell’alcol con tutte le conseguenze del caso.Quando si beve molto la sera, il successivo senso di malessere viene in parte stemperato dal fatto di andare a dormire. Il distaccamento dalla coscienza e dalla volontà dura svariate ore nelle quali l’organismo continua a smaltire l’alcol senza che ce ne rendiamo conto, ma al risveglio faremo comunque i conti con le conseguenze della disidratazione e dello scarso riposo. Interferendo con le attività del sistema nervoso centrale, l’alcol modifica le fasi del sonno, causa una maggiore quantità di microrisvegli e rende più difficile il recupero che ci consente al mattino di non sentire più la stanchezza.Tra l’ultimo bicchiere e il momento in cui si va a dormire viene di solito consigliato di attendere tra le tre e le quattro ore, ricordandosi di bere molta acqua nel frattempo o di fare un pasto. Il consiglio di bere acqua vale anche nel corso della giornata, evitando di provare a togliersi la sete con le bevande alcoliche.***Il Telefono Verde Alcol (TVAl) 800 632000 è un servizio nazionale di ascolto per il contrasto al consumo rischioso e dannoso di bevande alcoliche, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 16. Il servizio è anonimo e gratuito sotto la responsabilità del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità. LEGGI TUTTO