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    Cosa succederebbe a un essere umano in un viaggio verso Marte?

    In diversi film di fantascienza ambientati su Marte, da Atto di forza del 1990 a The Martian del 2015, arriva sempre un momento in cui la tuta spaziale indossata da uno dei personaggi sul suolo marziano si rompe. In tutti i casi, indipendentemente dal livello di realismo degli effetti speciali, si capisce che non sarebbe un incidente di poco conto. Sebbene sia considerato per diversi aspetti il pianeta del sistema solare più simile alla Terra, Marte è infatti un ambiente estremamente ostile per gli esseri umani. E se è il più studiato in assoluto è perché negli anni è stato oggetto di diverse missioni robotiche: inviare un equipaggio umano sarebbe molto più complicato e costoso.I successi nei lanci sperimentali di Starship, l’astronave della società spaziale privata statunitense SpaceX, e le audaci affermazioni del suo capo Elon Musk hanno contribuito ad alimentare in anni recenti le aspettative e le fantasie di molte persone riguardo alla possibile colonizzazione futura di Marte. Ma senza arrivare a tanto, immaginare anche solo di spedire un equipaggio umano a decine di milioni di chilometri dalla Terra pone una quantità e un tipo di difficoltà che nessun’altra missione umana potrebbe porre.
    La distanza tra la Terra e Marte cambia molto durante le rispettive orbite dei due pianeti intorno al Sole: in media è 225 milioni di chilometri, ma quella minima è intorno a 56 milioni. Anche ragionando per assurdo, ammettendo cioè di trovare il modo di rendere il viaggio fattibile sul piano ingegneristico e aerospaziale, qualsiasi ipotesi realistica di viaggio da un pianeta all’altro e ritorno implicherebbe comunque una prolungata permanenza delle persone nello Spazio: oltre due anni, probabilmente. E i nostri corpi non sono fatti per lo Spazio, come dimostrano diversi studi sugli effetti della permanenza in ambienti a gravità quasi assente, come la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), sulla salute degli equipaggi.
    Nel 2024 oltre cento istituti e gruppi di ricerca di diversi paesi del mondo hanno lavorato insieme alla pubblicazione dello Space Omics and Medical Atlas (SOMA), una raccolta di studi, dati e altri documenti di medicina e biologia sugli effetti del volo spaziale sugli equipaggi umani. I più conosciuti tra quelli determinati dalle diverse condizioni di gravità sono la perdita di massa muscolare e la riduzione della densità delle ossa (in media dall’1 all’1,5 per cento al mese).
    Sono problemi risolvibili in parte facendo esercizi fisici e assumendo integratori come i bifosfonati, utilizzati per contrastare l’osteoporosi.
    L’astronauta giapponese Koichi Wakata, ingegnere di volo della spedizione 38, si allena a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, il 2 febbraio 2014 (NASA)
    Ma le condizioni poste dall’ambiente spaziale portano anche problemi alla vista, al sistema nervoso e a quello circolatorio, aumentando il rischio di trombosi. E sebbene non siano ancora stati oggetto di studi approfonditi, alcuni di questi problemi potrebbero persistere anche per anni dopo il ritorno sulla Terra.

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    Altri effetti studiati da tempo riguardano un fattore, se possibile, ancora più rilevante: l’impatto delle radiazioni spaziali. Sono radiazioni ad alta energia provenienti da fonti esterne al sistema solare, in genere esplosioni stellari come le supernove e altri fenomeni nello Spazio profondo. Sulla Terra il campo magnetico protegge la popolazione e in parte anche l’equipaggio dell’ISS impedendo alla maggior parte delle particelle che compongono le radiazioni spaziali, come anche delle particelle solari, di penetrare l’atmosfera. Ma nel caso di viaggi interplanetari la protezione per gli equipaggi deriverebbe soltanto dalla necessaria schermatura delle astronavi.
    Un equipaggio in viaggio verso Marte sarebbe verosimilmente esposto in modo continuo a una quantità di radiazioni paragonabile a quella di centinaia se non migliaia di radiografie del torace. I risultati di alcuni test di laboratorio suggeriscono che un’esposizione del genere potrebbe provocare diversi problemi al cervello, a cuore e arterie, alla vista, all’apparato digerente e ad altre parti del corpo. Per di più in un ipotetico viaggio verso Marte l’equipaggio avrebbe risorse mediche, diagnostiche e farmacologiche limitate, e nessuna possibilità di rifornimenti, a differenza degli equipaggi dell’ISS.

    – Leggi anche: Nello Spazio ti può girare il sangue al contrario

    Uno studio sui topi pubblicato a settembre sulla rivista Journal of Neurochemistry ha concluso che le radiazioni potrebbero influenzare anche le capacità cognitive a lungo termine. In un esperimento condotto nel Brookhaven National Laboratory a Upton, nello stato di New York, gli autori e le autrici dello studio hanno scoperto che l’esposizione a un fascio di radiazioni che simulava quelle spaziali comprometteva varie funzioni del sistema nervoso centrale dei topi. Rispetto al gruppo di controllo, i topi esposti al fascio mostravano problemi di memoria, di attenzione e di controllo motorio, che però diminuivano somministrando sostanze antiossidanti e antinfiammatorie.
    In un precedente studio sui topi, pubblicato a giugno sulla rivista Nature Communications, l’esposizione a una dose di radiazioni paragonabile a quella assorbita durante un eventuale viaggio di andata e ritorno verso Marte aveva provocato gravi danni ai reni. Le disfunzioni erano tali, in caso di assenza di protezione dalle radiazioni, da rendere realistica l’ipotesi di necessari trattamenti di dialisi per l’equipaggio durante il viaggio di ritorno.
    Da tempo la NASA sta sviluppando tecnologie, in collaborazione con altre aziende, che in un viaggio verso Marte fornirebbero agli astronauti e alle astronaute una parziale protezione dalle radiazioni spaziali. Tra ciò che viene utilizzato per costruire parti di veicoli e tute spaziali ci sono materiali sintetici come il kevlar e il polietilene, in grado di deflettere i fasci di particelle cariche fornendo una schermatura dalle radiazioni. Anche in questo caso, come per l’atrofia muscolare e per la riduzione ossea, alcuni effetti potrebbero inoltre essere mitigati assumendo particolari integratori, utilizzati anche sulla Terra sui pazienti oncologici durante la radioterapia.

    – Leggi anche: Portare sulla Terra dei pezzetti di Marte è più costoso del previsto

    Un altro possibile problema per un eventuale equipaggio in viaggio verso Marte, che condividerebbe per lungo tempo uno spazio presumibilmente limitato, sarebbe il rischio di problemi psicologici: disturbi dell’umore e del sonno, irritabilità, incapacità di pensare lucidamente. A rendere ancora più angosciante la percezione dell’isolamento potrebbe peraltro contribuire il ritardo delle comunicazioni con la Terra: fino a 20 minuti, a seconda della distanza. Il che significa anche che l’equipaggio potrebbe verosimilmente dover risolvere eventuali problemi urgenti in completa autonomia, senza l’aiuto del controllo missione.
    La NASA segnala infine i rischi di alterazioni del sistema immunitario delle astronaute e degli astronauti, e quindi di malattie, in un ambiente chiuso in cui dopo un certo tempo microbi e microrganismi potrebbero cambiare caratteristiche in modo imprevedibile. Ricapitolando, per differenziare i tipi di rischi per il corpo umano associati ai lunghi viaggi spaziali, la NASA utilizza l’acronimo “RIDGE”: Radiazioni spaziali, Isolamento e cattività, Distanza dalla Terra, Gravità e hostile/closed Environments, cioè “ambienti chiusi/ostili”.
    Poi ci sarebbe tutta la parte di problemi da risolvere una volta sul suolo marziano. Per sopravvivere servirebbe prima di tutto ossigeno, uno dei diversi gas presenti nell’atmosfera terrestre. Il 21 per cento circa dell’aria che respiriamo ogni giorno è infatti composta da ossigeno, mentre il resto è quasi tutto azoto (il rapporto, più o meno costante, è di circa 15 atomi di azoto per quattro atomi di ossigeno). Su Marte l’ossigeno è presente solo con una concentrazione dello 0,13 per cento.
    L’atmosfera marziana è molto più rarefatta: circa cento volte più di quella terrestre, cosa che rende il pianeta peraltro più vulnerabile agli impatti con oggetti come meteoriti e asteroidi. Alla base delle varie differenze c’è quella fondamentale della grandezza tra i due pianeti: Marte è più o meno la metà della Terra. Non ha quindi una gravità tale da trattenere tutti i gas atmosferici, e l’equipaggio di un’eventuale missione dovrebbe gestire tutte le numerose conseguenze di questa condizione.
    Un’immagine che mette a confronto la Terra e Marte, ottenuta unendo immagini acquisite dalle sonde Galileo e Mars Global Surveyor della NASA (NASA)
    Sfortunatamente il gas più abbondante nell’atmosfera estremamente rarefatta di Marte è un gas per noi mortale oltre una certa concentrazione: l’anidride carbonica, di cui è composto lo 0,04 per cento dell’aria sulla Terra e circa il 96 per cento dell’atmosfera marziana. In pratica, considerando che sulla Terra un’esposizione di circa 15 minuti a una concentrazione di anidride carbonica dell’1,5 per cento sarebbe già mortale, provare a respirare su Marte senza un rifornimento di ossigeno provocherebbe la morte per asfissia in brevissimo tempo.
    L’alta concentrazione di anidride carbonica non sarebbe nemmeno il primo dei problemi su Marte. Le pressioni al suolo marziano sono simili a quelle che sulla Terra troveremmo intorno a 30 chilometri di quota, come ricorda l’astrofisico Amedeo Balbi nel recente libro Il cosmo in brevi lezioni. In pratica, senza adeguate attrezzature, un essere umano morirebbe in pochi secondi per insufficiente pressione esterna, che provocherebbe un’espansione istantanea e letale di tessuti, gas e liquidi presenti nel corpo.
    Sorvolando sulla mancanza di ossigeno e di pressione sufficiente, ostacoli non insormontabili e già gestiti nello Spazio in altri ambienti diversi da Marte, ci sarebbe comunque da gestire il problema delle temperature: quella media su Marte si aggira intorno ai -60 °C, ma la minima può arrivare a -150 °C. L’acqua, che sarebbe necessaria per creare ossigeno, coltivare cibo, produrre carburante e altre materie prime, c’è ma si trova in luoghi del pianeta e in condizioni che la rendono non facilmente accessibile.

    Resterebbe infine lo stesso problema di tutto il viaggio: le radiazioni, dal momento che Marte non ha un campo magnetico abbastanza intenso da deviare le particelle atomiche e subatomiche provenienti dal Sole, da supernove lontane e da altre fonti. Un particolare spettrometro della grandezza di un tostapane, il Radiation Assessment Detector, fu il primo strumento a essere acceso dal rover Curiosity durante la sua missione su Marte nel 2012, e da allora fornisce informazioni sul livello di radiazioni presenti sul pianeta.
    Sul lungo periodo un campo base come quello in cui sopravvive il protagonista del film The Martian probabilmente non offrirebbe una protezione sufficiente contro le radiazioni, né contro le violente tempeste solari e di polvere. Un’alternativa teoricamente più sicura, secondo l’ex biomedico della NASA Jim Logan, potrebbe essere vivere in rifugi sotterranei o in strutture con pareti di circa 2,5 metri edificate utilizzando materie presenti in superficie.
    Le caverne sotterranee sono soltanto una delle varie ipotesi, più o meno fantascientifiche, formulate nel corso degli ultimi anni per provare a immaginare una soluzione all’incompatibilità dell’ambiente marziano con la vita umana. Ma, come scrive Balbi, «è importante che la percezione pubblica di questi temi sia basata sulla realtà, e non sulle illusioni». Una cosa è stabilire un avamposto, un’altra è fondare una colonia. E del resto «non abbiamo mai costruito civiltà fiorenti in Antartide, sul fondo dei mari o in cima all’Everest», tutti luoghi ostili ma infinitamente più accoglienti in confronto a Marte.
    Indipendentemente dall’obiettivo di raggiungere Marte, ragionare sul modo in cui sarebbe possibile sostenere a lungo la salute e la fisiologia umana nello Spazio ha comunque numerosi benefici per la vita sulla Terra, scrisse nel 2023 sul sito The Conversation Rachael Seidler, insegnante di fisiologia applicata alla University of Florida. Le sostanze che proteggono gli equipaggi dalle radiazioni spaziali e contrastano i loro effetti nocivi sul corpo umano, per esempio, possono anche servire per la cura dei pazienti oncologici sottoposti a radioterapia. Capire come contrastare gli effetti della microgravità su ossa e muscoli può inoltre migliorare anche le terapie e le cure mediche per varie condizioni di fragilità associate all’invecchiamento.

    – Leggi anche: Non siamo fatti per lo Spazio LEGGI TUTTO

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    Non possiamo vivere più a lungo di così?

    Il marcato aumento dell’aspettativa di vita nel corso del Novecento ha portato a ipotizzare un futuro in cui un numero crescente di persone vivrà più di 100 anni, specialmente tra i nati alla fine del secolo scorso e nei primi vent’anni di quello attuale. È un’ipotesi diffusa e discussa soprattutto in ambito accademico, dove si confrontano esperti di vari ambiti, da quelli sanitari a quelli della statistica e della demografia. Un recente studio si è da poco aggiunto al dibattito, segnalando un rallentamento dell’aumento dell’aspettativa di vita nei paesi più ricchi, che è stato interpretato come un indizio sui limiti di età raggiungibili dalla nostra specie.Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Aging e ha tenuto in considerazione le morti registrate in alcuni dei paesi del mondo noti per essere luoghi in cui si diventa mediamente molto vecchi, come il Giappone, la Corea del Sud, la Spagna, la Svezia e l’Italia. L’analisi ha tenuto in considerazione il periodo tra il 1990 e il 2019, in modo da evitare gli anni successivi alla pandemia da coronavirus, che avrebbero probabilmente distorto le stime.
    Dalla ricerca è emerso che il tasso di miglioramento nell’aspettativa di vita nel periodo 2010-2019 si è ridotto rispetto a quello osservato tra il 1990 e il 2000. Secondo il gruppo di ricerca i bambini nati a partire dal 2010 hanno una probabilità relativamente bassa di diventare centenari: dell’1,8 per cento per i maschi e del 5,1 per cento per le donne. La probabilità più alta è a Hong Kong dove per le donne si arriva al 12,8 per cento.
    Variazione media annuale dell’aspettativa di vita alla nascita (Nature Aging)
    S. Jay Olshansky, un epidemiologo dell’University of Illinois Chicago che ha lavorato alla nuova ricerca, ha detto al sito di Nature che: «Ci sono dei limiti oltre i quali non possiamo spingere la sopravvivenza umana». Olshansky è da tempo uno dei principali sostenitori della finitezza dell’aspettativa di vita per gli esseri umani. Nel 1990 pubblicò un primo studio condividendo questa ipotesi e da allora ha raccolto circa 30 anni di dati per trovare conferme alla propria teoria.
    Nel Novecento i miglioramenti legati alla salute pubblica e allo sviluppo di nuove cure e terapie hanno permesso di fare aumentare in modo significativo l’aspettativa di vita, per lo meno nei paesi più ricchi. In media si sono aggiunti tre anni di vita ogni decennio, facendo ipotizzare che quell’andamento potesse proseguire ancora portando a una popolazione di centenari tra i nati nel nuovo millennio. Per quanto affascinante, questa ipotesi è però difficile da confermare, visto che gli eventuali centenari saranno tali alla fine di questo secolo o nei primi decenni del prossimo.
    Olshansky e colleghi ritengono che non sia comunque questo il caso e che il rallentamento osservato nell’aumento dell’aspettativa di vita sia un indizio sui limiti fisiologici che impediscono al nostro organismo di invecchiare più di tanto. Gli studi sui processi di invecchiamento hanno segnalato l’esistenza di alcuni di questi limiti, ma da tempo si discutono e si indagano le possibilità di intervenire sui meccanismi che portano le cellule a morire e a non rinnovare i tessuti.
    Alcuni dei paesi analizzati nello studio hanno mostrato una riduzione più marcata dell’aspettativa di vita rispetto ad altri. Negli Stati Uniti, per esempio, la diminuzione è diventata evidente a partire dal 2010 ed è paragonabile agli andamenti riscontrati in particolari momenti della storia del Novecento, come i periodi di guerra. La riduzione sembra essere collegata a un maggior numero di morti precoci a causa di problemi di salute come diabete e malattie cardiache nella fascia di età compresa tra i 40 e i 60 anni. Gli Stati Uniti sono uno dei paesi dove si è riscontrato un maggiore aumento delle persone fortemente sovrappeso e obese negli ultimi decenni.
    La ricerca di Olshansky e colleghi ha portato nuovi elementi al lungo dibattito sull’invecchiamento e la possibilità per molti di superare i cento anni di vita nei prossimi decenni. Lo studio è stato accompagnato da un commento, pubblicato sempre su Nature Aging, che prova a mettere le conclusioni in un contesto più ampio interrogandosi sull’effettiva possibilità di fare ancora aumentare l’aspettativa di vita.
    Secondo il commento, la ricerca è troppo pessimistica sui potenziali progressi che potrebbero essere raggiunti nei prossimi anni in ambito medico, ricordando che solo un secolo fa in pochi ritenevano che si potesse perfino ridurre la mortalità infantile. I vaccini e pratiche di salute pubblica migliori fecero invece la differenza portando il tasso di mortalità infantile dal 20 per cento degli anni Cinquanta al 4 per cento dei giorni nostri. Maggiori politiche di prevenzione, nuove cure e terapie per rallentare l’invecchiamento potrebbero avere un sensibile impatto sull’aspettativa di vita difficile da prevedere oggi. LEGGI TUTTO

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    Il Nobel per la Fisica a John J. Hopfield e Geoffrey E. Hinton

    Il Premio Nobel per la Fisica del 2024 è stato assegnato a John J. Hopfield e Geoffrey E. Hinton «per le scoperte e le invenzioni fondamentali che consentono l’apprendimento automatico con reti neurali artificiali».Hopfield e Hinton hanno preso in prestito sistemi e strumenti dalla fisica per sviluppare i sistemi di apprendimento automatico (“machine learning”) che oggi fanno funzionare alcuni dei più famosi sistemi di intelligenza artificiale. I loro studi hanno permesso di sviluppare soluzioni per trovare andamenti e modelli nei dati, derivando da questi le informazioni. Il lavoro di Hopfield e Hinton è stato quindi fondamentale per sviluppare le tecnologie che fanno funzionare le reti neurali, cioè i sistemi che provano a imitare le nostre capacità di apprendimento e della memoria.
    Nei primi tempi dell’informatica, gli algoritmi erano scritti dalle persone e la loro principale utilità era di indicare al sistema che cosa fare nel caso di una determinata circostanza, una indicazione piuttosto semplice riassumibile in: “Se si verifica questo allora fai quello”. Algoritmi, codice e altre variabili determinano il funzionamento di un software, cioè di un programma informatico, come il browser sul quale si è caricata la pagina che state leggendo in questo momento. Un algoritmo può essere definito come una sequenza finita di istruzioni per risolvere un determinato insieme di richieste o per calcolare un risultato.
    Ci sono molti ambiti in cui i dati e i “se questo allora quello” da considerare sono tantissimi, una quantità tale da non poter essere gestita con istruzioni scritte a mano: più dati e più variabili portano a più eccezioni da prevedere e indicare al software per dire come comportarsi, ma se le eccezioni sono miliardi il compito non può essere assolto da dieci, cento o mille programmatori.
    Questa difficoltà è stata superata con il machine learning (ML), cioè l’attività di apprendimento dei computer tramite i dati. Mette insieme l’informatica con la statistica, con algoritmi che man mano che analizzano i dati trovando andamenti e ripetizioni, sulla base dei quali possono fare previsioni. L’apprendimento può essere supervisionato, cioè basato su una serie di esempi ideali, oppure non supervisionato, in cui è il sistema a trovare i modi in cui organizzare i dati, senza avere specifici obiettivi.
    Messa in altri termini: per fare una torta il software tradizionale segue una ricetta con l’elenco degli ingredienti e le istruzioni passo passo, mentre un software basato sul ML impara attraverso degli esempi osservando una grande quantità di torte, sbagliando e riprovando fino a quando non ottiene un risultato in linea con la richiesta iniziale. Per farlo ha bisogno di una rete neurale artificiale, un modello di elaborazione dei dati che si ispira al funzionamento delle reti neurali biologiche, come quelle nel nostro cervello.
    Le reti neurali artificiali hanno richiesto decenni per essere sviluppate e perfezionate, con grandi difficoltà legate soprattutto alle ridotte capacità di elaborazione dei computer per buona parte del Novecento. Le cose iniziarono a cambiare nei primi anni Ottanta quando il fisico John Hopfield fissò in un modello matematico i principi per realizzare una rete neurale che simula la nostra capacità di ricordare e di ricostruire le immagini nella nostra mente. Hopfield aveva sviluppato il modello attingendo dalle proprie conoscenze in fisica e in particolare dalle proprietà magnetiche di alcuni materiali che condizionano il comportamento dei loro atomi.
    Una rete di Hopfield funziona memorizzando dei modelli, come immagini e schemi, e poi richiamandoli quando riceve un input parziale oppure distorto come un’immagine incompleta o poco definita. Il sistema prova a minimizzare l’energia complessiva, cioè cerca di raggiungere uno stato stabile riducendo il disordine che rende instabile lo stato di partenza della rete. In pratica, quando la rete riceve un’immagine incompleta o rumorosa, “esplora” varie possibili configurazioni per ridurre l’energia complessiva, finché non trova una configurazione che corrisponde a un modello memorizzato, cioè a un’immagine “stabile” e riconoscibile. In questo modo può dire che una certa immagine mai analizzata prima assomiglia a una delle immagini che ha già in memoria.

    Negli anni seguenti alla pubblicazione del modello di Hopfield, Geoffrey Hinton lavorò a un sistema che aggiungeva alcuni principi di fisica statistica, cioè quella parte della fisica che utilizza metodi statistici per risolvere problemi. Elaborò la “macchina di Boltzmann”, basata sulla distribuzione che porta il nome del fisico austriaco Ludwig Boltzmann.
    La macchina di Boltzmann è un tipo di rete neurale usato per riconoscere particolari schemi nei dati. Per farlo utilizza due tipi di nodi: i nodi visibili, che ricevono l’informazione, e i nodi nascosti, che aiutano a elaborare queste informazioni senza essere visibili direttamente. Questi nodi interagiscono tra loro e influenzano l’energia complessiva della rete.
    La rete funziona aggiornando uno alla volta i valori dei nodi, fino a raggiungere uno stato stabile, in cui il comportamento complessivo della rete non cambia più. Ogni possibile configurazione della rete ha una probabilità, determinata dall’energia della rete stessa. In questo modo, la macchina può generare nuovi modelli partendo da ciò che ha imparato. La macchina impara dagli esempi durante il suo allenamento: i valori delle connessioni tra i nodi vengono aggiornati in modo che i modelli presentati abbiano la probabilità più alta di essere ricreati, quindi più un modello viene ripetuto, più aumenta la probabilità che la rete lo ricordi.

    Con i loro lavori ispirati alla fisica, Hopfield e Hinton hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo del machine learning, soprattutto negli ultimi 15 anni grazie all’aumentata capacità di calcolo dei processori. A distanza di anni, i grandi progressi partiti dalla fisica potrebbero avere importanti ricadute per la fisica stessa con l’elaborazione di nuovi modelli per effettuare misurazioni più accurate, per esempio escludendo il rumore di fondo nello studio delle onde gravitazionali. Le possibilità di impiego dei sistemi di intelligenza artificiale sono comunque sterminate e toccano praticamente qualsiasi ambito della ricerca.
    John J. Hopfield è nato nel 1933 a Chicago, negli Stati Uniti, ed è docente alla Princeton University.Geoffrey E. Hinton è nato nel 1947 a Londra, nel Regno Unito, ed è docente presso l’Università di Toronto in Canada. È stato ricercatore e dirigente di Google, incarico che ha lasciato lo scorso anno sollevando alcune perplessità e preoccupazioni sulla rapida evoluzione di alcuni sistemi di intelligenza artificiale. LEGGI TUTTO

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    È iniziato il viaggio di Hera verso gli asteroidi

    Alle 16:52 di oggi (ora italiana) è partita da Cape Canaveral in Florida la missione Hera dell’Agenzia spaziale europea, per verificare le condizioni di Dimorphos, l’asteroide deviato dalla sonda DART della NASA nell’autunno del 2022. Il lancio è stato reso possibile da un razzo Falcon 9 dell’azienda spaziale privata SpaceX, partito nonostante le difficili condizioni meteorologiche a causa della stagione degli uragani. La sonda Hera viaggerà per circa due anni, raggiungendo il proprio obiettivo quando si troverà a circa 195 milioni di chilometri di distanza dalla Terra.La storia di Hera è strettamente legata a quella di DART (Double Asteroid Redirection Test), la missione organizzata negli scorsi anni dalla NASA per deviare un asteroide per noi del tutto innocuo e verificare la possibilità di evitare in futuro collisioni disastrose nel caso di corpi celesti sulla stessa traiettoria del nostro pianeta. Il test era stato effettuato facendo schiantare una sonda su Dimorphos, che ha una larghezza massima di 151 metri e orbita intorno a un asteroide più grande, Didymos, con un diametro massimo di 780 metri. L’impatto aveva effettivamente modificato il periodo orbitale di Dimorphos, cioè il tempo che il piccolo asteroide impiega per compiere un giro completo intorno a Didymos, a conferma dell’avvicinamento dei due asteroidi.
    La modifica era superiore alle aspettative ed era stata misurata da vari telescopi, ma per raccogliere maggiori informazioni sarebbe stata necessaria un’osservazione più da vicino, considerato quanto è remoto il sistema dei due asteroidi dalla Terra. Lo scopo di Hera è di compiere osservazioni e misurazioni nelle vicinanze dei due asteroidi, offrendo nuovi dettagli non solo sugli effetti dell’impatto di due anni fa, ma anche sulle caratteristiche di quei corpi celesti.
    (NASA)
    Raggiunti Dimorphos e Didymos nell’ottobre del 2026, Hera utilizzerà i propri strumenti per determinare forma, massa e il modo in cui si muovono mantenendosi a una distanza di circa 20-30 chilometri dalla loro superficie. In una seconda fase la distanza verrà ridotta a 8-10 chilometri in modo da poter misurare nel dettaglio le caratteristiche della superficie dei due asteroidi. Nella fase finale, la sonda sarà impiegata per passaggi ancora più ravvicinati per provare a rilevare il punto di impatto di DART e infine per tentare un atterraggio su Didymos. Quest’ultima parte della missione è sperimentale e potrebbe quindi mancare il proprio obiettivo: Didymos è del resto il più piccolo asteroide mai visitato da una sonda spaziale.
    Hera ha una massa di circa una tonnellata, ha una forma pressoché cubica (1,6 x 1,6 x 1,7 metri) ed è alimentata grazie ai suoi pannelli solari, che una volta aperti hanno un’area di 13 metri quadrati. Insieme alla sonda principale ci sono anche due “CubeSat”, piccoli satelliti grandi più o meno come una scatola da scarpe che effettueranno misurazioni aggiuntive e permetteranno di effettuare test su nuovi sistemi di comunicazione con la sonda.
    Hera e i CubeSat “Juventas” e “Milani” con gli asteroidi Dimorphos e Didymos, in un’elaborazione grafica (ESA)
    Il CubeSat “Juventas” è stato progettato per effettuare misurazioni sulle caratteristiche della gravità esercitata dagli asteroidi, mentre “Milani” è stato costruito per raccogliere dati sulla composizione superficiale degli asteroidi e per verificare la presenza di polveri nelle loro vicinanze, frutto dell’impatto di due anni fa con DART.
    Questo secondo CubeSat è stato sviluppato e realizzato in Italia, e in parte in Finlandia: si chiama Milani in ricordo di Andrea Milani Comparetti, astronomo e matematico che diede un fondamentale contributo nello studio delle comete e degli asteroidi, in particolare dei NEO, cioè dei corpi celesti a maggior rischio di avvicinarsi e scontrarsi con la Terra. Al termine della missione, Juventas e Milani tenteranno di posarsi su Dimorphos e di trasmettere i dati raccolti dai loro strumenti a Hera. Il sistema di comunicazione tra i due satelliti e la sonda sarà essenziale per svolgere queste attività.
    L’intera missione ha un costo intorno ai 350 milioni di euro e ha coinvolto i 18 stati membri dell’ESA e oltre 100 aziende europee, che hanno contribuito alla realizzazione dei componenti impiegati sulla sonda e sui due CubeSat. Per l’Italia tra le società coinvolte ci sono Avio, Leonardo, Tyvak International e TSD-Space.
    Intorno al Sole ci sono miliardi di asteroidi e loro frammenti. L’ipotesi più condivisa è che siano ciò che è rimasto del “disco protoplanetario”, l’esteso ammasso di polveri e gas in orbita intorno al Sole miliardi di anni fa dal quale si formarono i pianeti e i satelliti naturali del sistema solare che vediamo oggi. Quasi tutti gli asteroidi si trovano nella “fascia principale”, un grande anello di detriti che gira intorno al Sole, tra le orbite di Marte e di Giove a debita distanza da noi.
    L’asteroide Dimorphos visto dalla sonda DART 11 secondi prima dell’impatto (NASA/Johns Hopkins APL)
    Collisioni e altri eventi possono turbare le orbite di alcuni di questi asteroidi, portandoli ad avvicinarsi al nostro pianeta, e sono proprio questi a essere tenuti sotto controllo. I sistemi di rilevazione e tracciamento degli asteroidi più vicini hanno permesso nel tempo di catalogarne quasi diecimila con diametro di almeno 140 metri, che nel caso di un impatto potrebbero causare grandi devastazioni su scala regionale. Nessun asteroide conosciuto sembra costituire un pericolo diretto per la Terra per il prossimo secolo, ma è comunque importante non farsi trovare impreparati.
    Vari gruppi di ricerca hanno lavorato ad alcune soluzioni sperimentali per “deflettere” gli asteroidi, cioè per far cambiare loro orbita. La tecnica più esplorata e promettente, l’impattatore cinetico, consiste nell’urtare con una sonda l’asteroide quando è ancora molto lontano dalla Terra, in modo che il suo nuovo percorso non incroci più quello del nostro pianeta. DART ha dimostrato la fattibilità, per lo meno su piccola scala, di questa tecnica con un esperimento dal vero, più affidabile rispetto alle simulazioni al computer e Hera consentirà di comprendere meglio gli esiti di quell’impatto, avvenuto a milioni di chilometri da noi. LEGGI TUTTO

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    Il Premio Nobel per la Medicina, in diretta

    Il Premio Nobel per la Medicina 2024 è stato assegnato a Victor Ambros e Gary Ruvkun «per la loro scoperta del microRNA e del suo ruolo nella maturazione dell’mRNA».Grazie alle loro ricerche su come si sviluppano tipi diversi di cellule, Ambros e Ruvkun hanno scoperto il microRNA, cioè piccole molecole di RNA che hanno un ruolo centrale nella regolazione dei geni. Queste molecole sono fondamentali per come si sviluppano e funzionano gli organismi multicellulari, compresi gli esseri umani. Per comprendere la portata della loro scoperta è però necessario un rapido ripasso delle cose che si studiano a scuola sul materiale genetico.
    Le informazioni per far sviluppare e funzionare il nostro organismo, come quello di moltissimi altri esseri viventi, sono contenute nei cromosomi, una specie di manuale di istruzioni per le cellule. I cromosomi sono contenuti nel nucleo di ogni cellula, quindi ciascuna di loro contiene la medesima serie di geni e di conseguenza di istruzioni. Eppure ogni cellula ha un ruolo specifico: utilizza alcune istruzioni e ne ignora altre. Riesce a farlo grazie alla regolazione genica, un processo in cui esprime un certo numero di geni (che contengono le istruzioni) e al contempo silenzia tutti gli altri.
    Capire come funzionasse la regolazione genica non fu semplice e richiese decenni di studi. L’informazione genetica viene trascritta dal DNA all’RNA messaggero (mRNA) e infine alle strutture della cellula che si occupano materialmente di usare quelle istruzioni per produrre le proteine. Grazie alla regolazione genica, le cellule dell’intestino, del cervello o dei muscoli producono solo le proteine necessarie per svolgere le loro funzioni, lasciando perdere tutte le altre. La regolazione genica è inoltre importante per consentire alle cellule di “tenersi aggiornate”, producendo per esempio alcuni tipi di proteine solo in condizioni di emergenza o quando cambia il contesto in cui sono attive.
    Rappresentazione schematica dei processi di trascrizione e di costruzione delle proteine (Nobel Prize)
    Negli anni Sessanta si capì che alcune specifiche proteine (“fattori di trascrizione”) hanno un ruolo nel controllo dell’informazione genetica, perché possono condizionare la produzione di specifici segmenti di mRNA. Le successive scoperte di migliaia di fattori di trascrizione fecero ipotizzare che fossero questi i principali responsabili della regolazione genica. Le cose sarebbero però cambiate tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, quando Ambros e Ruvkun fecero conoscenza con un particolare verme cilindrico (nematode).
    I due ricercatori avevano studiato alcune caratteristiche del nematode C. elegans, lungo appena un millimetro, ma dotato di cellule specializzate per molti compiti diversi: ideale da studiare per capire il funzionamento di organismi più complessi. Ambros e Ruvkun studiavano C. elegans per comprendere il ruolo di alcuni geni che controllano le fasi di attivazione di altri geni, in modo che le cellule nell’organismo si sviluppino al momento giusto per svolgere le loro funzioni. Si erano concentrati su lin-4, un gene che regola proprio i tempi di sviluppo delle larve di C. elegans, isolandolo e notando che invece di produrre un RNA messaggero (che porta le istruzioni alle strutture della cellula per costruire le proteine), questo portava alla produzione di minuscoli filamenti di RNA che non contenevano però istruzioni per la costruzione delle proteine.
    Il confronto con altri geni, permise a Ambros e Ruvkun di scoprire che quei minuscoli filamenti, poi chiamati microRNA, hanno un ruolo centrale nella regolazione genica. Hanno infatti la capacità di legarsi a specifiche sezioni dell’mRNA e di annullare parte delle sue istruzioni, in modo che non vengano seguite dalla cellula nella produzione di alcuni tipi di proteine. Erano i primi anni Novanta e Ambros e Ruvkun avevano scoperto un nuovo meccanismo nella regolazione genica grazie a un tipo di RNA non conosciuto fino ad allora: il microRNA.
    I risultati dei loro studi furono pubblicati in due articoli sulla rivista scientifica Cell nel 1993, ma furono necessari diversi anni prima che venisse accettata la loro ipotesi. Inizialmente si pensava infatti che quel meccanismo fosse tipico di C. elegans, ma non necessariamente di altri organismi. Nel 2000 il gruppo di ricerca di Ruvkun pubblicò un nuovo studio dove mostrava come lo stesso fenomeno si applicasse a un particolare gene, che ricorre in un’ampia varietà di specie animali. Negli anni seguenti furono scoperte migliaia di geni che regolano il microRNA, facendo arrivare alla conclusione che questo sia presente in tutti gli organismi pluricellulari. Si sarebbe poi scoperto che il microRNA ha diverse altre funzioni, sempre legate a coordinare e determinare l’attivazione di moltissimi geni.
    Il lavoro di Ambros e Ruvkun è stato fondamentale per comprendere un meccanismo che funziona da centinaia di milioni di anni, alla base dell’evoluzione di organismi sempre più complessi. I loro studi hanno anche permesso di scoprire che senza microRNA le cellule non si sviluppano normalmente e che in mancanza di un suo normale funzionamento si possono avere mutazioni, molte delle quali responsabili di alcune malattie compresi i tumori.
    Victor Ambros è nato nel 1953 ad Hanover nel New Hampshire, negli Stati Uniti, ed è docente di scienze naturali presso l’University of Massachusetts Medical School di Worcester.Gary Ruvkun è nato a Berkeley in California nel 1952 ed è docente di genetica presso l’Harvard Medical School. LEGGI TUTTO

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    Che cos’è la progeria

    La morte di Sammy Basso avvenuta sabato ha suscitato nuovo interesse intorno alla progeria, la malattia genetica estremamente rara che causa un invecchiamento precoce riducendo le aspettative di vita di chi ne è affetto. Basso avrebbe compiuto 29 anni a dicembre ed è morto il 5 ottobre, dopo avere dedicato una parte importante della propria vita a far conoscere la sua malattia, e a divulgarne gli effetti e le ricerche per trattarla più efficacemente.La progeria, o più precisamente malattia di Hutchinson-Gilford (HGPS), interessa pochissime persone al mondo, al punto da essere difficile quantificare quanto di frequente si presenti nella popolazione. Si stima che ci sia un caso ogni 20 milioni di nascite e nel 2024 la Progeria Research Foundation, una delle principali organizzazioni che si occupano della malattia, ha rilevato 151 casi in 48 paesi. La malattia è nota da quasi un secolo e mezzo e da allora sono state segnalate centinaia di casi, anche se non sempre è possibile diagnosticarla con certezza e in tempo utile per avviare una terapia per alleviare i sintomi.
    L’invecchiamento precoce causato dalla progeria è dovuto alla mutazione di un gene (LMNA o Laminina A), che contiene al proprio interno le informazioni per mettere in condizione l’organismo di produrre la lamina A, una proteina che ha un ruolo molto importante per mantenere integro e stabile il nucleo delle cellule. La mutazione fa sì che venga prodotta una lamina A difettosa, chiamata progerina, che rende instabile il nucleo cellulare dove sono contenute le informazioni genetiche fondamentali per la moltiplicazione cellulare. Le cellule non riescono a dividersi o lo fanno in modo scorretto, con errori e mutazioni nel materiale genetico, portando a un processo di invecchiamento precoce che si riflette sulla salute.
    Non è ancora chiaro quali siano le cause della mutazione nel gene LMNA che porta alla progeria, ma si ritiene che sia un evento casuale che si verifica nelle prime fasi del concepimento. Per quanto il numero di casi sia molto limitato, a oggi non ci sono chiari indizi per ritenere che uno dei genitori sia portatore della mutazione genetica e che quindi questa sia ereditaria. La mutazione sembra infatti manifestarsi spontaneamente e non derivare direttamente dai genitori. È comunque un aspetto ancora dibattuto, anche perché in passato è stata segnalata per alcuni casi di progeria una ricorrenza tra fratelli.
    Un bambino con progeria solitamente non mostra alcun sintomo alla nascita, con i segni della sindrome che iniziano a diventare evidenti nel corso del primo anno di vita. I genitori o il personale medico se ne accorgono notando una scarsa crescita del bambino e una anomala perdita di capelli. Trattandosi di una malattia estremamente rara la diagnosi può richiedere diverso tempo e non sempre la malattia viene identificata da subito, proprio per la sua scarsa diffusione e le poche conoscenze intorno ad alcune sue caratteristiche.
    A oggi non esiste una terapia vera e propria contro la progeria e l’attività medica si concentra soprattutto nel ridurne gli effetti, che riguardano in primo luogo il sistema cardiovascolare. L’invecchiamento precoce comporta soprattutto una maggiore rigidità e un ispessimento dei vasi sanguigni, con la comparsa di malattie tipiche della terza età come l’aterosclerosi, ma in bambini e adolescenti. Il flusso di sangue verso gli organi vitali si riduce e questo favorisce ulteriormente i processi di invecchiamento e di deperimento.
    La maggior parte delle persone con progeria muore per complicazioni dovute all’aterosclerosi come l’insufficienza cardiaca, l’infarto e l’ictus cerebrale. Per questo a chi ha la malattia viene di solito prescritta l’assunzione di farmaci come l’aspirina a basso dosaggio per prevenire gli attacchi di cuore, oppure il ricorso ad anticoagulanti per ridurre il rischio che si formino coaguli di sangue o ancora statine, per abbassare i livelli di colesterolo.
    Stimare l’aspettativa di vita media per una persona affetta da progeria non è semplice, sia per lo scarso numero di casi diagnosticati ogni anno, sia per la grande variabilità degli esiti della condizione su ogni paziente. In generale l’aspettativa media è di circa 13 anni, ma ci possono essere diversi casi in cui una persona riesce a vivere più a lungo. Sammy Basso è morto a quasi 29 anni, diventando una delle persone più longeve tra i casi di progeria.
    La sindrome ha la caratteristica di non intaccare in modo significativo le capacità mentali, così come non causa altri disturbi tipicamente legati all’invecchiamento. Di rado la malattia causa artrite, problemi di vista o un aumentato rischio di cancro, anche se molto dipende dai singoli pazienti e dall’età che raggiungono.
    Benché sia una malattia estremamente rara, la progeria è studiata con attenzione perché potrebbe offrire nuovi elementi per comprendere i meccanismi dell’invecchiamento nella popolazione in generale. Le ricerche si sono concentrate soprattutto sul gene LMNA per provare a comprendere che cosa inneschi la mutazione che porta poi alla malattia. Sono stati avviati anche studi clinici sull’impiego di alcuni farmaci sviluppati per la cura di forme di tumore, che hanno mostrato qualche esito positivo nell’impiego con persone con progeria. Oltre a quella indotta dalla mutazione del gene, ci sono alcune malattie che si manifestano con disturbi simili alla HGPS, come la sindrome progeroide atipica e quella congenita, ancora oggetto di studio. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Nel Dartmoor, un altopiano nella contea inglese del Devon, è stato liberato nei boschi un gruppo di martore euroasiatiche, mammiferi imparentati con donnole e lontre, che mancavano da quei territori da 150 anni. Sono state trasportate dalla Scozia, fatte ambientare per tre giorni in recinti in cui venivano nutrite dai volontari locali e infine sono state liberate nella natura: sono otto femmine e sette maschi, con radiocollari per tracciarne gli spostamenti, e dovrebbero riportare l’equilibro naturale della fauna selvatica nel sud-ovest dell’Inghilterra. Una di loro fa parte della nostra raccolta settimanale insieme a cavalli sull’isola di Pasqua (con le grosse statue riconoscibili per le loro caratteristiche faccione a fare da sfondo), pellicani che aspettano diligentemente in fila che venga loro lanciato del pesce e la femmina di ippopotamo Fiona che sembra sorridere mentre una persona mostra su uno smartphone la fotografia della ormai celebre Moo Deng. Per finire con un dromedario e una lumaca, fotografati da molto vicino. LEGGI TUTTO

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    Che droga è la ketamina

    La ketamina, una sostanza con effetti anestetici e psicoattivi tradizionalmente usata come farmaco, è consumata come droga ricreativa da alcuni decenni, ma negli ultimi anni, e in particolare dopo la pandemia, si è diffusa velocemente e specialmente tra i più giovani, anche in Italia. Si presenta normalmente come una polvere bianca simile alla cocaina, ed è in circolazione specialmente alle serate techno, nei club e nei rave party, ma ormai anche in altri contesti più trasversali. Nell’ultimo anno se ne è parlato sui media anche per via delle notizie sulla morte di Matthew Perry, il celebre attore della serie tv Friends, e delle successive indagini.Nell’ultimo World Drug Report delle Nazioni Unite la ketamina è una delle sostanze a cui è data maggiore attenzione, sebbene non sia ancora usata quanto la cocaina, per esempio. È assunta anche tra gli adolescenti e ci sono casi di persone che ne abusano, rischiando di sviluppare danni significativi per la salute. Secondo il più recente studio del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) sul consumo di alcol, tabacco e droghe illegali tra gli adolescenti italiani, nel 2023 il 28 per cento degli studenti tra i 15 e i 19 anni disse di aver usato almeno una volta una sostanza illegale e l’1,3 per cento di aver assunto ketamina.
    Lo scorso anno il consumo dichiarato di questa sostanza è stato il più alto mai registrato tra i giovani italiani. E al contempo è stato notato un aumento della sostanza nelle acque reflue di Milano, dove da circa 10 anni la presenza di ketamina è rilevata insieme a quella di altre droghe illegali dall’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”. Milano è insieme a Bristol, Barcellona, Zurigo, Anversa e Rotterdam una delle città europee nelle cui acque reflue sono state trovate le maggiori quantità di ketamina nel 2023, su 88 in cui sono state effettuate le analisi.
    Ad aver notato un aumento dell’uso di ketamina è anche chi lavora nei servizi di assistenza per le dipendenze e chi si occupa di “riduzione del danno”, cioè di tutte quelle attività per diminuire gli effetti negativi delle droghe tra le persone che non vogliono smettere di assumerle, o non riescono. È il caso di Neutravel, un progetto associato all’azienda sanitaria locale di Cirié, Chivasso e Ivrea (provincia di Torino) e attivo in tutto il Piemonte.
    «Se intorno al 2010 la ketamina era usata soprattutto nei free party [quelli comunemente chiamati rave, ndr]», spiega Elisa Fornero, assistente sociale responsabile del progetto, «in anni più recenti e soprattutto dopo la pandemia c’è stata una diffusione più trasversale». Riguarda tutta la fascia d’età compresa tra i 18 e i 30 anni, ma anche persone più vecchie. Tra le altre cose Neutravel offre un servizio gratuito di drug checking, ovvero di analisi chimica delle sostanze illegali per verificare che siano davvero quelle dichiarate da chi le vende, e così evitare effetti indesiderati e potenzialmente più rischiosi: si sono rivolte al progetto per testare dosi di ketamina anche persone di più di 30 anni che hanno dichiarato di essersi avvicinate a questa sostanza senza avere particolari esperienze pregresse con l’uso di droghe, fatta eccezione per l’alcol e per un consumo di marijuana non problematico.
    «In generale l’accessibilità delle sostanze illegali è aumentata con i lockdown», aggiunge Diletta Polleri, sempre di Neutravel, «perché il mercato illegale ha trovato nuovi modi per arrivare alle persone. Capita che anche le app di incontri siano sfruttate per lo smercio di sostanze». Per questo, sia per gli adolescenti che per le persone che fino a qualche tempo fa avrebbero avuto meno dimestichezza con l’acquisto di sostanze illegali, comprarle è diventato più facile.
    La ketamina è definita “anestetico dissociativo” perché ha effetti sedativi ma anche la capacità di indurre una sensazione di separazione della mente dal corpo. Riduce la percezione del dolore senza causare una riduzione della frequenza di respirazione, come invece fanno le sostanze oppioidi (come la morfina), per questo è considerata più sicura di molti altri anestetici. Inoltre agisce rapidamente. È molto usata in ambito veterinario, e specialmente in contesti di emergenza, per pazienti con traumi o in condizioni critiche, quando un sovradosaggio di anestetico potrebbe interrompere la respirazione. Inoltre produrla è economico e per questo il suo uso medico è particolarmente diffuso nei paesi meno ricchi. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) la include nella propria “lista dei farmaci essenziali” che tutti gli ospedali dovrebbero avere.
    Nei contesti medici la ketamina si usa in forma liquida, da iniettare, e si presenta incolore e insapore, indistinguibile dall’acqua. Chi la assume a scopo ricreativo invece la sniffa sotto forma di polvere, in modo analogo a come si fa con la cocaina, anche se tra le persone che hanno sviluppato forme di abuso della sostanza si sta diffondendo anche l’uso delle siringhe per l’iniezione intramuscolo – una modalità di assunzione in generale poco praticata per lo stigma associato all’eroina, oltre che per il maggiore impegno richiesto.
    Per quanto riguarda il consumo cosiddetto ricreativo, la ketamina può essere assunta per ragioni diverse. Nel contesto dei free party, i cui frequentatori hanno generalmente una propria cultura sull’uso delle sostanze psicoattive associato all’ascolto di musica e al ballo, può essere ricercato proprio l’effetto dissociativo, che per certi versi è simile alle sensazioni che si provano con gli psichedelici, senza le allucinazioni visive. Ad alti dosaggi (100 milligrammi o più) la ketamina provoca una sensazione di depersonalizzazione e netto distacco della mente dal corpo, chiamata “k-hole”, che si potrebbe tradurre come “tunnel della ketamina”. È una condizione in cui ci si può “vedere da fuori” e che viene spesso associata alle esperienze di pre-morte (near death experience), quelle sensazioni di vario tipo riferite da alcune persone che sopravvivono a una condizione di morte clinica reversibile, tipicamente l’arresto cardiaco. Per qualcuno lo stato di k-hole è simile a quello del sogno, ma è un’esperienza molto intensa e potenzialmente traumatica per il malessere che può provocare.

    – Leggi anche: Cosa sono davvero i rave

    Per via di questo tipo di effetto in passato l’uso della ketamina era stigmatizzato in alcuni contesti di free party, specialmente in alcuni paesi come la Francia, dice Fornero, «perché era accusata di “uccidere” il party». Più di recente però alla ricerca dell’effetto dissociativo si è aggiunto anche un altro tipo di utilizzo, che invece si è molto più normalizzato diffondendosi anche in altri contesti, dalle serate in discoteca alle feste in casa. Infatti in dosi limitate (ad esempio 10-35 milligrammi, anche se la quantità dipende dalla tolleranza sviluppata nei confronti della sostanza) la ketamina provoca sensazioni di euforia, diverse sia da quelle causate dall’alcol che da quelle dovute alla cocaina, anche se spesso viene usata in combinazione con queste altre droghe.
    Nel contesto del clubbing, cioè della cultura attorno alla techno e alle serate di musica elettronica nei club, contestualmente all’affermazione della ketamina si è sviluppata anche una diffusa diffidenza, specialmente tra le persone meno giovani. Il motivo è che provoca effetti diversi dall’MDMA, l’altra sostanza da sempre legata alle discoteche e alle serate techno, che però oltre all’euforia provoca anche un aumento dell’empatia e della voglia di condivisione, incrementando anche la connessione e il trasporto per la musica. La ketamina invece induce di più all’isolamento e all’introspezione, cosa che secondo molti ha peggiorato molto l’atmosfera dei dancefloor dove se ne fa uso. In molti club, peraltro, è cambiata anche la musica che viene suonata, per assecondare le preferenze di chi fa uso di ketamina.
    Per il momento non si conoscono in modo approfondito le motivazioni di chi assume ketamina perché è una droga che si è diffusa di recente. Secondo Polleri ce ne sono sicuramente diverse, per qualcuno può essere sperimentata per ottenere un senso di disconnessione dalla realtà, ma per molte altre persone è una forma di divertimento che viene cercata senza grandi riflessioni pregresse, anche per sentirsi parte di un gruppo: «Il fatto che sia apprezzata e si sia diffusa in questo periodo però dovrebbe farci interrogare sulla fase storica ed economica che stiamo vivendo».
    Ha un’opinione simile anche Raimondo Maria Pavarin, epidemiologo sociale e professore dell’Università di Bologna che fa ricerca sul consumo delle sostanze illegali: «La ketamina è interessante anche perché non la usano persone svantaggiate dal punto di vista economico e sociale, ma persone integrate che controllano l’uso della sostanza in vari modi e prendono precauzioni».
    Molte delle persone che si sono avvicinate alla ketamina negli ultimi anni hanno avuto un «profilo di rischio abbastanza basso» perché l’assunzione in genere avviene nei momenti dedicati al divertimento, occasionalmente, ma Neutravel entra in contatto sempre più spesso con casi di uso problematico e abuso. Nell’ultima indagine del progetto sull’uso delle sostanze, relativa ai primi sei mesi del 2024, è emerso che ci sono persone che fanno un uso di ketamina quotidiano. Inoltre, sempre di recente, Neutravel è entrata in contatto con persone per cui la ketamina è la prima delle droghe utilizzate, mentre in passato di solito ne dichiaravano l’uso persone che principalmente usavano sostanze più comuni come la cocaina.

    – Leggi anche: Una sostanza simile alla ketamina è stata da poco approvata come antidepressivo

    I rischi legati alla ketamina, così come ad altre sostanze psicoattive, dipendono dal contesto e dalle modalità di assunzione.
    Quando era usata soprattutto per cercare la dissociazione nel contesto dei free party il problema principale era legato alle condizioni di k-hole, che per alcune persone possono essere molto spiacevoli, causare incapacità di muoversi e una condizione simile al coma etilico, per cui spesso è necessario il ricorso al pronto soccorso. Uno studio del 2019 basato sui dati dei servizi di pronto soccorso di Bologna a cui aveva lavorato Pavarin individuò come profilo tipico delle persone che sviluppavano questi sintomi per l’assunzione di ketamina un uomo di circa 25 anni, che usava la sostanza nelle ore notturne o di primo mattino nei weekend.
    I k-hole spiacevoli si vedono tuttora (e in genere non hanno gravi ripercussioni, a meno che una persona non si faccia male mentre non ha il controllo del proprio corpo), ma Neutravel osserva sempre di più altri problemi legati alla ketamina. Sono sviluppati da chi, attraverso l’uso ripetuto, sviluppa una tolleranza agli effetti della sostanza e quindi ne aumenta le dosi e la frequenza di assunzione, fino ad arrivare a una forma di dipendenza. Queste persone possono avere gravi problemi all’apparato urinario e in particolare alla vescica e ai reni, che inizialmente si manifestano con la presenza di sangue nella pipì e possono arrivare alla necessità di asportare la vescica.
    Ma la ketamina può anche danneggiare lo stomaco e causare gravi lesioni alle mucose del naso e del palato dato che viene sniffata, in modo simile alla cocaina. Questo perché una volta che si è diventati tolleranti si tende ad assumerla molto di frequente, dato che la durata degli effetti è di circa un’ora. «Possono essere danni per cui è necessario un intervento di chirurgia maxillofacciale», precisa Polleri, «che non tutti possono permettersi. E se qualcuno arriva ai servizi per le dipendenze con questi danni significa che c’è anche un profondo senso di vergogna nel chiedere aiuto, dovuto al fatto che l’uso di questa sostanza è percepito come normale: è più difficile riconoscere di avere un problema».

    – Approfondisci con: Il numero di Cose spiegate bene su Le droghe, in sostanza LEGGI TUTTO