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    Quanti sono i continenti?

    Il numero dei continenti è una delle prime nozioni di geografia che si imparano a scuola, e forse per questo una di quelle che vengono meno messe in discussione. Secondo il modello teorico più condiviso in Italia e in Europa sono sei: Africa, Asia, Europa, America, Oceania, Antartide. Ma basta poco per accorgersi di come la risposta possa variare a seconda di criteri più o meno arbitrari. I cerchi sulla bandiera olimpica, che secondo la Carta Olimpica «rappresentano l’unione dei continenti», sono cinque: perché sono presi in considerazione solo i continenti abitati, quindi non l’Antartide.Altri modelli, più diffusi nei paesi anglosassoni, prevedono che i continenti siano sette perché suddividono l’America in Sudamerica e Nordamerica. E altri modelli ancora, che includono questa stessa suddivisione, prevedono che i continenti siano però sei: accorpano infatti Europa e Asia in un unico continente, l’Eurasia, senza considerare rilevante il confine segnato dai monti Urali, una catena che attraversa più o meno tutta la Russia da nord a sud.
    La ragione fondamentale della variabilità dei modelli è che non dipendono soltanto dalla geografia e dalla geologia, ma anche da aspetti culturali, politici e storici. Generalmente la parola indica infatti un insieme di terre emerse con determinate connotazioni fisiche ma che condividono anche caratteristiche culturali. È per questo motivo che Europa e Asia sono perlopiù considerati due continenti distinti, pur facendo parte di una stessa massa continentale: perché i vari gruppi culturali in Asia hanno più in comune tra loro che con altri gruppi in Europa.
    Allo stesso modo le isole che si trovano vicino a un continente sono di solito considerate parte di quel continente in senso geografico, ma possono non esserlo in senso politico. È il caso della Groenlandia, che appartiene al continente nordamericano pur essendo un territorio danese autonomo, quindi parte dell’Europa.
    Se poi la definizione dei continenti dipendesse soltanto dai collegamenti tra territori in epoche geologicamente recenti, niente impedirebbe di considerare Europa, Asia e Nordamerica addirittura un unico continente. Durante la più recente era glaciale, il livello del mare era infatti sufficientemente basso da permettere a esseri umani e altri animali di attraversare la piattaforma del mare di Bering, che collega l’Asia settentrionale al Nordamerica.
    Per quanto apparentemente stabili possano essere sui libri di testo scolastici, libri peraltro diversi da cultura a cultura, i confini continentali sono continuamente ridiscussi e ridefiniti dai geologi che studiano la crosta continentale (la parte di crosta terrestre non coperta, o coperta solo in alcune parti, dalle acque). Uno degli aspetti problematici per la definizione di quei confini riguarda i cosiddetti plateau oceanici, regioni del fondale marino molto estese e relativamente piatte, meno profonde rispetto al fondale oceanico circostante.
    Negli ultimi decenni la struttura, la composizione e l’evoluzione dei plateau oceanici sono state oggetto di estesi dibattiti in ambito accademico, ha scritto in un articolo pubblicato a luglio sulla rivista Geology un gruppo di ricerca dell’università di Friburgo e di altre università del mondo, guidato dal geologo Valentin Rime.

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    Generalmente, per essere considerata un continente sotto l’aspetto geologico, è necessario che una parte del pianeta rispetti quattro condizioni. Prima di tutto deve trovarsi in una posizione più elevata rispetto al fondale oceanico. Deve poi includere una certa quantità di rocce magmatiche, sedimentarie e metamorfiche, composte da minerali ricchi di silice (SiO2). Inoltre deve avere una crosta più spessa rispetto alla crosta oceanica circostante. E infine deve avere limiti ben definiti in un’area abbastanza grande: la condizione più ambigua e problematica tra tutte, ha scritto il New York Times.
    Diversi punti della Terra hanno una struttura geologica che rende molto complicato individuare confini continentali stabili e definire in base a questi quali parti di terre emerse facciano parte di un continente e quali di un altro. La dorsale oceanica medio-atlantica, per esempio, è la più conosciuta e studiata congiuntura tra placche di crosta terrestre divergenti e in allontanamento l’una dall’altra: la nordamericana e l’euroasiatica. Divide quasi tutto l’oceano Atlantico, da nord a sud, e per la maggior parte è in profondità sotto il livello del mare: ma non in Islanda, che si trova esattamente lungo la linea di congiunzione delle placche.
    Una mappa dell’Islanda attraversata dalla dorsale medio-atlantica, con alcuni vulcani attivi segnalati da un triangolo rosso (U.S. Geological Survey/usgs.gov)
    Un discorso simile vale anche per la costa orientale dell’Africa, separata dall’Asia da una dorsale medio-oceanica: il rift (spaccatura) del mar Rosso. È una divergenza tra placche che si allontanano l’una dall’altra alla velocità notevole di circa 17-20 millimetri all’anno (più o meno la velocità con cui crescono le unghie). È abbastanza lineare per il suo tratto più lungo, ma si complica molto nel punto in cui il mar Rosso incontra il golfo di Aden: lì si interseca con la dorsale di Aden e il rift dell’Africa orientale, formando una tripla giunzione geologica.
    In quell’area del pianeta, anziché assottigliarsi in un punto in cui si forma una frattura, la crosta continentale tra Africa e Asia si sta frammentando in centinaia di pezzi. In un certo senso è come se si stesse allungando senza spezzarsi, ha detto Rime al New York Times, e di conseguenza non è chiaro quale sia il punto in cui finisce l’Africa e comincia l’Asia. Secondo lui e gli altri autori e autrici dell’articolo pubblicato su Geology una frammentazione della crosta continentale in parte simile a quella dell’Africa orientale si trova anche nei mari che circondano l’Islanda. E quindi anche in quel caso non è facile capire esattamente dove finisca il Nordamerica e dove cominci l’Europa.
    Una mappa delle placche dell’Africa orientale, con alcuni vulcani attivi segnalati da un triangolo rosso (U.S. Geological Survey/usgs.gov)
    In anni recenti anche la definizione del continente oceanico è stata messa in discussione, da alcuni studiosi che hanno proposto di considerare la Nuova Zelanda un continente a sé stante, la Zealandia, anziché raggrupparla con l’Australia. Oltre le coste dell’isola si estende infatti un’enorme piattaforma continentale poco profonda, composta da rocce magmatiche, sedimentarie e metamorfiche ricche di silice: come vale per ogni altro continente.
    L’obiezione a questa proposta è che la crosta della Zealandia, tra 10 e 30 chilometri, non è spessa quanto quella di altri continenti, in genere tra 30 e 46 chilometri. Inoltre la piattaforma non sarebbe abbastanza grande da rientrare nella definizione di continente: si estende per 4,9 milioni di chilometri quadrati, cioè molto meno dell’Australia, che si estende per 7,7 milioni di chilometri quadrati. Ma soprattutto la Zealandia è in larghissima parte sommersa dall’acqua: condizione in contrasto con la tendenza comune a considerare continenti le terre emerse.
    Le continue scoperte dei geologi nell’ambito degli studi sulla crosta continentale e su quella oceanica rendono l’enumerazione e la definizione dei confini dei continenti un argomento meno semplice e chiaro di quanto si pensi comunemente, da reminiscenze scolastiche. I continenti possono infatti separarsi in più modi possibili, e spesso non lo fanno in modo netto, ma parziale e incompleto.
    A seconda dei criteri presi in considerazione, secondo Rime, è persino possibile immaginare un modello estremo a due soli continenti: l’Antartide e tutto il resto. Perché il Sudamerica è collegato al Nordamerica attraverso Panama, il Nordamerica all’Asia attraverso lo stretto di Bering, e l’Asia all’Europa, all’Africa e all’Australia rispettivamente attraverso gli Urali, il Sinai e l’Indonesia.

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    In Indonesia è nato un elefante di Sumatra, ed è un evento

    Caricamento playerLunedì in Indonesia è nata una femmina di elefante di Sumatra, una sottospecie dell’elefante asiatico considerata a grave rischio di estinzione. Il WWF stima che oggi ce ne siano solo fra i 2.400 e i 2.800 individui, tutti sull’omonima isola. La cucciola di elefante non ha ancora ricevuto un nome: pesa 104 chili, è in buona salute e cerca attivamente la madre per essere allattata.
    La nascita è avvenuta nel parco naturale turistico di Buluh Cina, nel nord ovest di Sumatra, ed è stata annunciata martedì da Genman Suhefti Hasibuan, capo dell’agenzia locale per la tutela della natura. Hasibuan ha definito la nascita una buona notizia per gli sforzi per la conservazione degli elefanti.
    Gli elefanti di Sumatra (Elephas maximus sumatranus) sono la più piccola delle tre sottospecie dell’elefante asiatico: le altre sono l’elefante indiano, diffuso in buona parte dell’Asia meridionale, e quello dello Sri Lanka, la sottospecie più presente. Le principali minacce per gli elefanti di Sumatra sono la perdita di habitat e la caccia.
    Un elefante di Sumatra in uno zoo indonesiano nel 2022 (AP Photo/Firdia Lisnawati)
    Negli ultimi decenni Sumatra e altre zone dell’Indonesia hanno subìto un’intensa deforestazione, nella maggior parte dei casi legata all’espansione dell’agricoltura umana, principalmente piantagioni di palma da olio. Gli elefanti hanno bisogno di grandi spazi contigui privi di interferenze umane per sopravvivere al meglio: la distruzione del loro habitat naturale li ha anche portati ad avvicinarsi più di frequente alle zone antropizzate, aumentando il rischio di conflitti con gli umani.
    Anche la caccia è un grosso problema per gli elefanti di Sumatra. L’avorio delle zanne dei maschi è molto ricercato, e nonostante il suo commercio sia illegale ci sono molti casi di bracconaggio. Per ora nonostante gli sforzi l’Indonesia non è riuscita a eliminare il problema, come molti altri paesi in cui vivono gli elefanti, e ci sono ancora molti casi di animali avvelenati per prelevare il loro avorio.

    – Leggi anche: Anche gli elefanti si salutano LEGGI TUTTO

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    Gli animali si riconoscono allo specchio?

    La capacità degli animali non umani di riconoscere la propria immagine riflessa allo specchio è oggetto di grande curiosità sia tra i proprietari di animali domestici, occasionalmente, sia nella ricerca scientifica. Da decenni gli etologi utilizzano gli specchi in esperimenti con diverse specie, per provare a capire quali siano dotate di questa capacità. Ed è generalmente condivisa, sebbene ancora discussa, l’idea che scimpanzé, elefanti, delfini e corvi siano tra i pochi animali non umani conosciuti ad averla.A settembre un gruppo di etologi dell’Università di Osaka, in Giappone, ha pubblicato in uno studio i risultati di alcuni esperimenti con i pesci pulitori (Labroides dimidiatus), diffusi negli oceani Indiano e Pacifico. Sulla base degli esperimenti il gruppo ha concluso che questa specie non solo è in grado di riconoscersi allo specchio – ipotesi peraltro già sostenuta in un precedente studio – ma è dotata di una sofisticata forma di autocoscienza finora riscontrata soltanto negli esseri umani.
    L’obiettivo dello studio era capire se i pesci pulitori, dopo essersi guardati allo specchio, fossero in grado di formare un’immagine mentale del loro corpo e prendere decisioni basate su quella rappresentazione mentale. Per scoprirlo il gruppo di ricerca ha selezionato 15 individui, sette dei quali avevano accesso a uno specchio nell’acquario (gli altri otto sono stati utilizzati come gruppo di controllo). Ha quindi osservato i loro comportamenti dopo aver mostrato nell’acquario a ciascun individuo una serie di fotografie di un pesce di un altro gruppo, ridimensionate in modo da farlo apparire in alcune foto il 10 per cento più grande e in altre il 10 per cento più piccolo rispetto all’individuo sottoposto all’esperimento.
    Il gruppo di ricerca ha scoperto che i pesci che potevano osservarsi allo specchio, inserito in un punto dell’acquario, erano meno aggressivi verso i pesci più grandi o uguali a loro nelle foto, ed erano più ostili verso i pesci più piccoli. Inoltre, quando i pesci osservati nelle foto erano più grandi di loro, gli individui passavano più volte davanti allo specchio.
    Un esempio delle fotografie mostrate ai pesci pulitori durante gli esperimenti (Scientific Reports/CC BY 4.0)
    Gli autori dello studio hanno descritto i comportamenti dei pesci pulitori come la prima volta che un animale non umano dimostra in un esperimento di avere una rappresentazione mentale del proprio corpo, un’intenzione, un obiettivo e altri stati mentali ritenuti fondamentali per avere un’autocoscienza. Secondo l’interpretazione del gruppo di ricerca, è plausibile che i pesci abbiano controllato le dimensioni del proprio corpo guardandosi allo specchio per confrontarle con quelle degli altri, e sulla base di questo confronto decidere se attaccarli o no.
    «I risultati secondo cui i pesci sono in grado di usare lo specchio come strumento possono aiutare a chiarire le somiglianze tra l’autocoscienza umana e quella degli animali non umani, e fornire indizi importanti per chiarire come si è evoluta l’autocoscienza», ha detto in un comunicato stampa diffuso dall’università il ricercatore Taiga Kobayashi, uno degli autori dello studio.
    Conclusioni come quelle tratte dal gruppo di ricerca sono generalmente commentate con molta cautela, tra gli studiosi impegnati in questo particolare ambito dell’etologia. Prima di tutto perché non è detto che riconoscersi allo specchio sia di per sé una prova di autocoscienza: una parola problematica nelle scienze sociali, ma che implica generalmente forme di intelligenza piuttosto complesse. E non è nemmeno una prova di intelligenza, che nel regno animale ammette varie e molteplici declinazioni, non necessariamente subordinate rispetto alla capacità di riconoscersi di fronte a uno specchio.

    – Leggi anche: Capiremo mai come ragionano gli animali?

    Inoltre capire se un animale non umano sia capace di riconoscersi allo specchio non è semplice: è necessario prima di tutto ideare esperimenti in grado di ridurre l’ambiguità dei risultati. Uno dei più conosciuti con gli scimpanzé, sviluppato nei primi anni Settanta dallo psicologo statunitense Gordon Gallup Jr., prevede di lasciare lo specchio a disposizione degli animali per un certo periodo di tempo, osservando e studiando le loro reazioni. Dopodiché sulla fronte o su un’altra parte del corpo dell’individuo viene disegnato un segno colorato. L’eventuale tentativo dello scimpanzé di rimuovere il segno dal suo corpo, guardandosi allo specchio, è generalmente interpretato come una prova della sua capacità di riconoscere la propria immagine riflessa.
    Secondo uno studio di Gallup molto citato, gli scimpanzé mostrano di avere questa capacità, dopo una prolungata esposizione alle loro immagini riflesse. Se hanno familiarità con l’oggetto, indipendentemente dalla loro reazione all’esperimento del segno colorato, molti scimpanzé si avvicinano agli specchi con curiosità, li usano per pulirsi i denti o il naso, o per controllare altre parti del corpo. Mostrano insomma comportamenti diversi rispetto agli individui di altre specie che di fronte allo specchio reagiscono in modo aggressivo anche molto tempo dopo la prima volta che ne vedono uno.

    Nel corso degli ultimi decenni individui di diverse altre specie animali sono stati sottoposti all’esperimento dello specchio, dalle formiche ai pappagalli cenerini, e a parte gli scimpanzé in pochi hanno dimostrato di essere capaci di riconoscere sé stessi. La maggior parte degli animali ha mostrato o comportamenti inconcludenti o altri che permettevano di escludere che avessero questa capacità: risultato che ha messo in discussione l’utilità stessa del test come misura di una capacità significativa negli animali non umani.
    Per dire che un animale ha superato il test serve che ispezioni allo specchio il segno che ha sul corpo senza alcun addestramento o ricompensa precedenti, in modo del tutto spontaneo, ha spiegato al sito Live Science Frans de Waal, un primatologo della Emory University di Atlanta, Georgia. E ha aggiunto che la maggior parte degli esperimenti di questo tipo nella letteratura scientifica non rispetta questa condizione.
    Tra le altre specie di scimmie che hanno superato il test ci sono gli oranghi e i bonobo, mentre i risultati con i gorilla sono stati meno chiari. Anche a molti individui di specie animali che in teoria si riconoscono allo specchio capita però di fallire nel test, specialmente nel caso di individui molto giovani o anziani. Alcuni studiosi hanno inoltre ipotizzato che la presenza degli sperimentatori possa aver inibito o comunque condizionato il comportamento dei gorilla e di altri primati sottoposti al test.

    – Leggi anche: Capiamo alcune scimmie meglio di quanto pensassimo

    L’elefante asiatico è un’altra specie solitamente considerata capace di riconoscersi allo specchio, sulla base dei risultati di uno studio dei primi anni Duemila condotto su tre femmine dello zoo del Bronx, a New York. Le elefantesse mostrarono diverse reazioni, vedendo la loro immagine riflessa allo specchio, ma soltanto una di loro superò il test.

    Secondo gli autori dello studio, tra cui lo stesso de Waal, il test dello specchio potrebbe non essere adatto allo stesso modo per tutte le specie, perché presuppone che tutti gli animali siano interessati a qualcosa di insolito che osservano sul loro corpo. E non è sempre così: a differenza dei primati, che sono irriducibili “toelettatori”, gli elefanti sono animali enormi abituati molto di più a spargersi cose sul corpo che a cercare di scrollarsele di dosso.
    Gli esperimenti con il test dello specchio indicano che anche i delfini sono capaci di riconoscersi allo specchio. È un oggetto di fronte al quale mostrano in generale molto interesse e comportamenti per alcuni aspetti simili a quelli dei primati (aprire la bocca, tirare fuori la lingua, eseguire particolari movimenti).

    Un’altra specie che ha superato il test è la gazza, che nel 2008 fu la prima specie non compresa nei mammiferi a riuscirci. Quando gli sperimentatori applicavano adesivi colorati sulle piume delle gazze, osservandosi allo specchio le gazze cercavano di rimuovere l’adesivo: comportamento che non avevano quando invece gli adesivi erano trasparenti. Lo studio smentì un’ipotesi all’epoca abbastanza condivisa, secondo cui la capacità di riconoscersi allo specchio derivasse dalla neocorteccia, una parte del cervello presente soltanto nei mammiferi.
    Non è chiaro se la capacità di superare il test dello specchio implichi una forma di autocoscienza, o viceversa, ha detto a Live Science Ellen O’Donoghue, psicologa cognitiva della Cardiff University. In diversi studi specie considerate peraltro molto intelligenti, tra cui i pappagalli cenerini, non hanno mostrato questa capacità. Superare il test potrebbe indicare la presenza di un aspetto dell’autocoscienza, ma non altri: «C’è una tendenza a considerare la consapevolezza di sé come tutto o niente. Probabilmente non è vero. Probabilmente è più uno spettro», ha concluso O’Donoghue. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    La cima del Monte Fuji, l’iconico vulcano giapponese, quest’anno è ancora senza neve. Le temperature insolitamente elevate dell’autunno ne hanno ritardato l’arrivo, in genere previsto per l’inizio di ottobre. In una fotografia della nostra raccolta settimanale troviamo tre cigni proprio davanti al monte Fuji senza neve, che nuotano in un lago. Poi ci sono ancora diversi animali alle prese con le zucche di Halloween allestite negli zoo, una taricha granulosa, un cucciolo di bongo e un capibara al guinzaglio. Per finire con una femmina di giaguaro che morde un alligatore. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo caso di bambine scambiate alla nascita scoperto coi test del DNA da fare a casa

    Caricamento playerAll’inizio del 2022, nella contea inglese delle West Midlands, un uomo si sottopose a uno di quei test del DNA venduti per ottenere informazioni sul proprio albero genealogico. Mandando un campione di saliva alle aziende che li producono si possono trovare dei lontani parenti tra le altre persone che si sono sottoposte a questi stessi test in giro per il mondo. L’uomo non era interessato a scoprire qualcosa di particolare, il test gli era stato regalato per Natale e lo fece per noia, ma i risultati hanno avuto un grosso impatto sulla sua famiglia. Gli hanno fatto scoprire di avere una sorella biologica che non aveva mai conosciuto, una donna che poco dopo la nascita, nel 1967, era stata scambiata per errore con un’altra neonata in ospedale: quella che l’uomo fino a quel momento pensava essere la sua sorella naturale.
    La vicenda è raccontata nella nuova stagione di The Gift, un podcast prodotto da BBC e dedicato a storie legate all’uso delle analisi del DNA, ed è il primo caso di scambio di neonati avvenuto in un ospedale pubblico britannico che sia mai stato scoperto. Non è però l’unico nel mondo a essere stato scoperto grazie a un test del DNA da fare in casa. Negli ultimi anni i giornali hanno riferito varie storie simili, soprattutto dagli Stati Uniti, dove questi test sono più usati.
    Nel podcast The Gift le vere identità delle persone coinvolte sono state nascoste usando nomi di fantasia: “Tony” per l’uomo, “Joan” per sua madre, “Claire” per la sua sorella biologica e “Jessica” per l’altra sorella, quella cresciuta con lui. Dopo aver visto che l’azienda produttrice del test a cui si era sottoposto gli attribuiva una sorella a lui ignota, Tony contattò la donna, Claire, che aveva fatto un test del DNA della stessa azienda due anni prima. I due si scambiarono un po’ di messaggi e capirono cosa poteva essere successo quando si resero conto che Claire e Jessica erano nate nello stesso ospedale, una un giorno dopo l’altra. Claire ha raccontato a BBC che per lei questa scoperta spiegò il fatto che non avesse nessuna somiglianza con i propri genitori, tanto che da bambina aveva pensato di essere stata adottata.
    D’accordo con Claire, che desiderava conoscere la propria famiglia biologica, Tony decise di raccontare tutto a sua madre (vedova da qualche anno) e poi, insieme a lei, a sua sorella, quella che aveva sempre considerato tale. Le reazioni di Claire e Jessica alla scoperta di essere state scambiate alla nascita sono state molto diverse, si intuisce dal racconto di The Gift.
    Claire, i cui genitori si separarono pochi anni dopo la sua nascita ed ebbe un’infanzia poco serena a causa di grosse difficoltà economiche, è stata felice di conoscere la sua famiglia biologica e oggi ha un rapporto stretto con Joan, di cui ha parlato nel podcast.
    Jessica invece si è rifiutata di intervenire nel podcast e, stando al racconto di Joan, non si rivolge più a lei chiamandola “mamma”. «Per me non ha alcuna importanza che Jessica non sia la mia figlia biologica», ha detto Joan a The Gift: «È ancora mia figlia e lo sarà sempre».
    Claire ha anche raccontato che la cosa più difficile per lei è stata dire alla propria madre di non essere sua figlia dal punto di vista biologico, ma di aver rassicurato entrambi i genitori con cui è cresciuta che nulla sarebbe cambiato nella loro relazione; la madre di Claire è morta quest’anno.
    Due anni e mezzo dopo aver ricevuto un reclamo da parte di Tony e Joan la divisione del Servizio sanitario nazionale britannico (NHS) che gestisce l’ospedale in cui nacquero Claire e Jessica ha ammesso la propria responsabilità. L’ufficio dell’NHS che si occupa delle controversie legali ha detto a BBC che lo scambio di neonate fu un errore «terribile» di cui il Servizio sanitario riconosce la responsabilità legale: data l’eccezionalità del caso tuttavia non ha ancora deciso quale compensazione economica offrire alle famiglie coinvolte.
    Le storie di scambi di neonati, usate spesso nei romanzi e nei film come espedienti narrativi, hanno avuto origine a partire dal Novecento: prima la maggior parte dei bambini nasceva in casa. Per alcuni decenni peraltro è stata comune l’usanza di tenere i bambini appena nati in una stanza comune, separati dalle madri, per permettere alle puerpere di riposare subito dopo il parto: gli scambi di cui siamo a conoscenza, comunque molto rari, si possono in gran parte ricondurre a questa pratica.
    Tra gli altri scambi di neonati scoperti grazie ai test del DNA da fare in casa ce ne sono uno avvenuto in Pennsylvania nel 1942, uno in West Virginia nello stesso anno, uno in Minnesota nel 1945, uno in Canada nel 1956 e uno in Texas nel 1969.
    In Italia un noto caso di scambio di neonate fu scoperto nel 2001, quando le bambine interessate avevano tre anni: in quel caso non grazie a un test del DNA ma alla somiglianza tra una delle madri coinvolte e una delle bambine, notata da una maestra. La vicenda, avvenuta a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, ha ispirato il film televisivo Sorelle per sempre del 2021. Le due bambine scambiate tornarono alle proprie famiglie di origine ma furono cresciute mantenendo un forte legame con quelle in cui avevano passato i primi anni.

    – Leggi anche: Ci si può fidare dei test per l’analisi del DNA che si comprano su internet? LEGGI TUTTO

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    I denti del giudizio spiegano molto sull’evoluzione della specie

    Caricamento playerLo sviluppo di alcune parti del corpo umano normali ma apparentemente inutili è uno spunto di conversazioni frequenti, per esempio sui capezzoli maschili o sul coccige. Una parte non necessaria e anzi spesso problematica al punto da richiedere di essere rimossa sono i denti del giudizio, ossia i terzi molari. Spuntano di solito tra i 17 e i 24 anni, a volte anche dopo, che è il motivo del loro nome. Altre volte non si sviluppano affatto: circa il 22 per cento della popolazione mondiale è privo di almeno un dente del giudizio su quattro.
    Quando si sviluppano, i denti del giudizio lo fanno comunque più tardi rispetto agli altri denti, e in molti casi in un modo che provoca dolore e altri problemi di salute. L’inclusione del dente del giudizio, una condizione in cui il dente si sviluppa ma non riesce a emergere dalle gengive con l’angolazione corretta, e che interessa circa il 24 per cento della popolazione mondiale, mostra il problema fondamentale dei denti del giudizio: mascella e mandibola negli esseri umani sono il più delle volte troppo strette per ospitarli. Il che rende sensato e abbastanza comune chiedersi sia quando sia perché si sviluppino, e se le due risposte siano correlate.
    Come ogni altro dente, anche quelli del giudizio si sviluppano all’interno della mascella e della mandibola, sebbene molto più tardi. I secondi molari cominciano a svilupparsi nelle gengive intorno ai tre anni, mentre i terzi molari generalmente non prima dei nove anni. Il periodo di sviluppo è comunque molto variabile: da 5 a 15 anni.
    La principale ragione per cui i terzi molari non spuntano durante l’infanzia come gli altri denti, secondo uno studio pubblicato nel 2021 sulla rivista Science Advances, è che nella bocca non c’è ancora abbastanza spazio. Man mano che l’individuo cresce, crescono anche la sua mascella e la sua mandibola. Un’altra ragione per cui spuntano durante la giovane età adulta è che di solito non sono necessari prima di allora. In passato, quando era più frequente perdere uno o più molari, i denti del giudizio trovavano più spazio per emergere e funzionavano come una sorta di molari di riserva, spiegò nel 2022 il chirurgo Steven Kupferman al sito Live Science.
    La presenza dei denti del giudizio dipende sia da fattori relativi all’evoluzione della specie che da altri legati allo sviluppo individuale. Una delle ipotesi condivise in passato faceva riferimento soprattutto a processi di selezione. Secondo questa ipotesi, semplificando, prima che le estrazioni diventassero una pratica comune le persone con terzi molari problematici morivano a causa delle complicazioni, e quelle prive di terzi molari trasmettevano i loro geni alle generazioni future. Permettendo di sopravvivere alle persone con denti inclusi, le estrazioni avrebbero quindi contribuito nel tempo a estendere il pool genetico.
    Ricerche successive hanno messo in discussione questa ipotesi, suggerendo che molte proprietà della specie siano influenzate oltre che da fattori genetici da interazioni nell’ecosistema. È un discorso che vale evidentemente anche per i denti dei mammiferi, le cui numerose caratteristiche riflettono ciò che ciascuna specie mangia. Diversi studiosi sostengono da tempo che i problemi dei denti del giudizio derivino indirettamente dalla consistenza dei cibi resi possibili dall’agricoltura e dall’industrializzazione.

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    L’idea alla base di questa ipotesi è che, rispetto agli alimenti consumati dai nostri antenati cacciatori-raccoglitori, i cibi successivi alla transizione agricola e poi a quella industriale siano più mollicci. La masticazione di alimenti più duri durante l’infanzia potrebbe contribuire a stimolare la crescita dell’osso mandibolare e mascellare, abbastanza da creare nella bocca lo spazio sufficiente per una serie di tre molari anziché due per ogni semiarcata. Il problema del sovraffollamento dei denti non sarebbe quindi determinato interamente dai geni ereditari, ma in una parte significativa anche dallo sviluppo e dalle abitudini alimentari durante l’infanzia.
    «La natura ha selezionato la lunghezza delle nostre mascelle e mandibole sulla base di ciò che si aspetta che facciamo durante il periodo di crescita della mascella», disse all’Atlantic nel 2017 Peter Ungar, paleoantropologo e biologo evoluzionista della University of Arkansas, autore del libro Evolution’s Bite: A Story of Teeth, Diet, and Human Origins. In altre parole, più spesso si esercita forza sulla mascella, più a lungo cresce. E i cibi morbidi, secondo questa teoria, non richiederebbero un allenamento di masticazione sufficiente a massimizzare la crescita potenziale di mascella e mandibola.
    Una serie di esperimenti sui topi condotti tra il 2019 e il 2022 da Elsa Van Ankum, una ricercatrice in antropologia evolutiva della University of Saskatchewan, mostrò che gli individui cresciuti con una dieta a base di cibi morbidi tendevano ad avere mascelle sottosviluppate e di forma diversa. La dieta era anche povera di vitamina D, una vitamina la cui carenza è stata associata ai cambiamenti degli stili di vita successivi alla Rivoluzione industriale, e le cui numerose funzioni riguardano anche la formazione e la crescita dei denti, oltre alla salute delle ossa e al funzionamento del sistema immunitario.

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    I primati degli ominini che si ritiene condividano la stessa linea evolutiva degli esseri umani avevano denti posteriori molto grandi. Gli Australopithecus afarensis, una specie vissuta tra 2 e 4 milioni di anni fa, avevano molari la cui superficie masticatoria – quella che va in contatto con i denti dell’arcata opposta – era circa il doppio rispetto a quella dei molari degli esseri umani attuali. E questo nonostante il fatto che fossero molto più bassi e con un volume del cranio inferiore a un terzo di quello degli Homo sapiens.
    Nella linea evolutiva umana le dimensioni dei denti sono in diminuzione da milioni di anni: si stima che la superficie dei molari nell’Homo erectus, circa 2 milioni di anni fa, fosse più estesa del 50 per cento. E sembra esserci una correlazione tra i cambiamenti dei denti durante l’evoluzione umana e i cambiamenti nell’alimentazione e nelle tecniche di preparazione del cibo, già molto tempo prima della diffusione dell’agricoltura e poi dell’industrializzazione. Gli utensili in pietra risalenti all’epoca dell’Homo erectus, per esempio, erano utili anche a pestare e ammorbidire i cibi, semplificando la masticazione di quelli più duri.
    L’ipotesi che la progressiva riduzione della masticazione abbia un’influenza evolutiva sullo sviluppo del corpo umano è sostenuta da alcuni studi che hanno analizzato lo sviluppo dei denti del giudizio e le dimensioni della mandibola in società diverse. Uno studio del 2011 su crani di sei gruppi di agricoltori e cinque di raccoglitori, conservati nei musei, scoprì che i primi avevano mandibole più corte, quindi meno spazio per lo sviluppo dei terzi molari. Una ricerca del 2017 dello stesso tipo, condotta con metodi statistici più affidabili, arrivò a conclusioni simili.

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    Altri studi di comparazione hanno riscontrato una correlazione tra problemi dei denti del giudizio e disponibilità di cibi lavorati in diverse popolazioni. Uno studio del 2012 raccolse i casi di inclusione del terzo molare in un campione di 900 abitanti di zone rurali e urbane nel distretto del Karnataka, nel sud dell’India. I casi erano diffusi in circa il 15 per cento della popolazione rurale e in circa il 30 per cento di quella urbana. Una ricerca precedente, condotta in Nigeria su 2.400 persone, aveva scoperto che i denti del giudizio inclusi erano sette volte più diffusi nella popolazione urbana rispetto a quella rurale.
    Sia i risultati degli studi comparativi che i risultati degli esperimenti sugli animali – oltre che sui topi, sono stati condotti sulle scimmie scoiattolo, sui babbuini e su altre specie – sono compatibili con l’ipotesi che le abitudini alimentari influenzino lo sviluppo delle mascelle, e di conseguenza dei denti del giudizio. Non spiegano tuttavia perché alcune persone ne siano prive.
    In alcuni casi l’assenza dei denti del giudizio potrebbe effettivamente essere un esempio di «micro-evoluzione anatomica» recente, come sostenuto per esempio da un gruppo di scienziati della Flinders University ad Adelaide. La loro ipotesi è che la ragione principale di questa evoluzione siano i cambiamenti nella selezione naturale. Man mano che le abitudini alimentari cambiavano, le persone prive di denti del giudizio non avevano svantaggi nella masticazione. LEGGI TUTTO

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    Perché è piovuto così tanto nel Sud della Spagna

    Caricamento playerSu molti giornali il fenomeno meteorologico che ha causato le devastanti alluvioni nel Sud della Spagna è stato definito DANA, acronimo che sta per depresión aislada en niveles altos, “depressione isolata nei livelli alti” dell’atmosfera. È un fenomeno noto, che però in questa occasione ha causato precipitazioni molto abbondanti e prolungate. È successo per ragioni analoghe a quelle che a settembre avevano reso molto intensa la tempesta Boris sull’Europa centrale: le alte temperature delle settimane precedenti, che avevano contribuito a una maggiore evaporazione e dunque a una elevata umidità dell’aria, e la presenza di robuste zone anticicloniche attorno a quella ciclonica, che l’avevano bloccata a lungo sullo stesso territorio.
    La creazione di una DANA è dovuta in origine allo spostamento di una massa di aria fredda proveniente dalle correnti a getto, i forti venti d’alta quota che si possono immaginare come grandi fiumi che attraversano l’atmosfera. Una DANA si forma se da un’ansa di uno di questi fiumi d’aria, una “saccatura”, si separa una specie di isola di aria fredda. Se alle quote più basse ci sono temperature significativamente più alte, l’aria fredda in alta quota, più pesante, inizia a scendere e si crea un moto convettivo, cioè un’instabilità atmosferica che genera i temporali. Il vapor acqueo presente nell’aria calda che sale si trasforma in precipitazioni.
    In autunno è normale che sulla penisola iberica si creino le DANA, ma il fenomeno di questi giorni ha causato precipitazioni molto intense perché prima c’era stata una forte evaporazione dal mar Mediterraneo, e perché la depressione è rimasta bloccata a lungo sulla stessa zona, cosa che ha concentrato le piogge. In meteorologia si parla di “vortice stazionario”, o cut-off: la DANA era circondata da zone di alta pressione (anticicloniche) molto stabili che hanno impedito alle correnti a getto di spostare la zona ciclonica.

    A Chiva, poco fuori Valencia, sono stati misurati 491 millimetri di altezza pluviometrica in sole otto ore: «In pratica quello che normalmente piove in un anno intero», ha spiegato l’Agenzia statale di meteorologia (AEMET) spagnola. I confronti tra misure di precipitazione diverse vanno fatti tenendo conto dello storico della regione in questione, ma solo per avere un’idea di massima: nell’alluvione che ha interessato la città di Bologna il 19 e il 20 ottobre è stato misurato un massimo di 175 millimetri in sei ore.
    Giulio Betti, meteorologo e climatologo del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e del Consorzio LaMMA, ha accostato l’evento a cui sono dovute le alluvioni in Spagna alla tempesta Boris in una serie di post su X: entrambi sono stati causati «da una delle peggiori configurazioni possibili in termini di rischio» perché i vortici isolati «evolvono lentamente». Normalmente una zona ciclonica si indebolisce, cioè perde la capacità di causare precipitazioni, quando dei moti d’aria fredda provenienti dalle aree circostanti riducono i moti convettivi verticali, ma sia in questi giorni in Spagna che a settembre con Boris questo fenomeno non c’è stato per la stabilità delle zone anticicloniche.
    «Anche l’intensità di questi “blocchi anticiclonici” è “drogata” dall’eccesso di calore», ha spiegato Betti, perché le temperature particolarmente alte ad alta quota rendono tutta la colonna d’aria più stabile. Generalmente l’aria più calda che c’è vicino a terra si sposta verso l’alto, ma se l’aria negli strati superiori è già molto calda si ha un movimento discendente che blocca la zona anticiclonica.

    Il cambiamento climatico dovuto all’immissione nell’atmosfera di grandi quantità in eccesso di gas serra da parte dell’umanità non renderà le alluvioni più frequenti in tutto il pianeta: in alcune regioni sì, in altre no. Per quanto riguarda fenomeni simili a quelli degli ultimi mesi in Europa (quindi come questa DANA e come la tempesta Boris, entrambi vortici stazionari), con il riscaldamento globale in atto ci sono ragioni per temere che porteranno più spesso precipitazioni molto intense, proprio perché dipendenti da temperature più alte.
    Giovedì 31 ottobre le precipitazioni si sono spostate verso ovest e per venerdì c’è un’allerta rossa per la città di Huelva, che si trova nell’Andalusia meridionale, verso il confine col Portogallo. Ma anche nella zona di Valencia, più a est, potrebbe continuare a piovere fino a domenica per la creazione di una nuova perturbazione. LEGGI TUTTO

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    Non abbiamo ancora trovato tutte le città maya perdute

    Caricamento playerUn gruppo di archeologi ha scoperto che in una foresta della penisola dello Yucatán, in Messico, ci sono i resti di una grande città dei maya che finora non era conosciuta. Secondo le stime del gruppo di ricerca copriva complessivamente una superficie pari a quella di Edimburgo, la capitale della Scozia, ma le sue rovine sono nascoste dalla vegetazione. E infatti è stato possibile localizzarla solo a distanza, grazie a una tecnologia di telerilevamento, il LIDAR, che permette di individuare strutture solide dall’alto misurando la distanza di oggetti e superfici attraverso impulsi laser. In pratica consente di vedere se sotto le chiome degli alberi ci sono muri e pavimentazioni.
    Nell’ultimo decennio l’uso del LIDAR ha reso possibile una grossa accelerazione negli studi archeologici sui maya, e ha cambiato anche molte interpretazioni sul funzionamento della loro società. In passato si riteneva che gli insediamenti maya fossero separati gli uni dagli altri da enormi distanze, e che fossero tutto sommato isolati: questo lasciava pensare che la loro società fosse composta da città-stato autonome, mentre le scoperte più recenti indicano invece che erano molto più connesse di quanto credessimo, attraverso strade e altre infrastrutture.
    I maya sono la popolazione a cui riconduciamo una delle principali civiltà precolombiane della cosiddetta Mesoamerica, cioè quell’ampio territorio che include il Messico e i paesi dell’America centrale. Questa civiltà si sviluppò a partire dal 2.000 a.C. e cominciò a entrare in crisi un po’ prima dell’anno 1.000 d.C. Quando i colonizzatori europei arrivarono nelle Americhe esistevano ancora delle città maya, ma molte altre erano già state abbandonate. Per questo e per il fatto che per cercare nuovi siti archeologici bisognava farsi largo nella foresta tropicale «a colpi di machete», come ha detto Luke Auld-Thomas, della Northern Arizona University, primo autore dello studio sulla nuova scoperta, la conoscenza della civiltà maya ha tuttora molte lacune.
    Rovine di un’antica città Maya nel parco nazionale di Tikal, Guatemala, 25 gennaio 2022 (Edwin Remsberg/VW Pics via ZUMA/Ansa)
    Quasi tutte le grandi città maya, dopo il loro abbandono, furono ricoperte dalla fitta foresta tropicale, a volte a livelli tali che anche le note piramidi che le caratterizzano sono irriconoscibili.
    Una vista aerea dell’antica città Maya di Calakmul, situata nello stato di Campeche in Messico, in una fotografia fornita dall’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH) (EPA/INAH/Ansa)
    Auld-Thomas e i suoi colleghi, che hanno scritto un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Antiquity, hanno rintracciato i resti di un gran numero di insediamenti umani, alcuni rurali e quindi isolati e di ridotte dimensioni, altri chiaramente urbani: complessivamente hanno trovato le tracce di 6.764 diverse strutture. Tutti gli insediamenti individuati si trovano in un’area forestata di circa 122 chilometri quadrati nello stato messicano di Campeche. Quello più grande è stato chiamato “Valeriana” dal nome di una vicina laguna. Tra le strutture individuate ci sono delle piramidi, degli anfiteatri e una diga.
    Immagine che mostra alcune delle strutture che facevano parte dell’antica città chiamata Valeriana come sono state viste grazie al LIDAR (da “Running out of empty space: environmental lidar and the crowded ancient landscape of Campeche, Mexico” di Luke Auld-Thomas et al., Antiquity, Cambridge University Press)
    Le immagini prodotte con il LIDAR grazie a cui è stata scoperta Valeriana non erano state realizzate per compiere studi di archeologia. L’uso del LIDAR prevede di utilizzare degli aerei ed è tuttora molto costoso: la ricerca archeologica generalmente non se lo può permettere, anche perché non ci sono garanzie sul fatto che in un territorio esaminato con questo strumento si troveranno davvero dei siti di interesse. Esistono però delle mappature di vari territori eseguite con questa tecnologia, ad esempio per verificare l’effettiva estensione delle foreste tropicali per i progetti che hanno l’obiettivo di conservarle in virtù del loro contributo all’assorbimento di gas serra. È questo il caso delle immagini utilizzate da Auld-Thomas e dai suoi colleghi.
    Il ricercatore statunitense ha avuto l’idea di analizzare delle mappe già esistenti di un’area su cui si avevano pochissime informazioni e così ha trovato la città finora sconosciuta e gli altri insediamenti. Secondo le stime del suo gruppo Valeriana è la seconda città maya più grande mai individuata dopo Calakmul, che si trova sempre nello stato di Campeche.

    Secondo Auld-Thomas questa scoperta suggerisce che «ci sia ancora molto da imparare» sulla civiltà maya. Le prossime ricerche prevederanno delle indagini sul campo intorno ai nuovi siti individuati e potrebbero permetterci di ottenere nuove informazioni sulle città dei maya e sul loro funzionamento. LEGGI TUTTO