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    Lo scorso febbraio è stato il più caldo mai registrato, secondo il programma dell’Unione Europea sull’osservazione della Terra

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso febbraio è stato il più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 13,54 °C, 0,12 °C più alta del precedente febbraio più caldo mai registrato, quello del 2016. Febbraio del 2024 è il nono mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale.Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti. Carlo Buontempo, direttore del Climate Change Service di Copernicus, ha detto che la temperatura media del febbraio appena trascorso «non è davvero sorprendente, perché il continuo riscaldamento del sistema climatico porta inevitabilmente a nuovi estremi di temperatura». LEGGI TUTTO

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    L’impazienza aumenta quando l’attesa è quasi finita

    L’impazienza è uno stato d’animo che può manifestarsi in circostanze molto varie e creare, in alcuni casi, anche qualche disagio. Può accrescere il nervosismo prima dell’inizio di una gara, per esempio, o rendere insopportabile l’attesa di un mezzo pubblico.Una ricerca condotta da una coppia di ricercatrici della University of Texas e della University of Chicago ha analizzato come l’esperienza dell’impazienza evolva nel tempo prima di determinati eventi, notando che il disagio aumenta man mano che la fine reale o presunta dell’attesa si avvicina, indipendentemente dalla durata dell’attesa.
    Pubblicata a dicembre sulla rivista Social Psychological and Personality Science, la ricerca ha utilizzato tre studi longitudinali (quelli che effettuano ripetute osservazioni dello stesso fenomeno in un lungo periodo di tempo) basati su sondaggi rivolti a diversi campioni di popolazione statunitense, che descrivono la variazione dei livelli di impazienza riferiti dalle persone intervistate. Uno fu condotto nei tre giorni prima di conoscere i risultati delle elezioni presidenziali americane del 2020. Un altro nei mesi trascorsi tra l’annuncio del successo della sperimentazione del primo vaccino per il Covid-19 e la comunicazione della disponibilità del vaccino per la popolazione. Un terzo studio misurò infine un’impazienza di tipo completamente diverso: quella provata da diversi gruppi di pendolari in attesa di salire su un autobus a una fermata.
    Ai partecipanti degli studi sulle elezioni e sul vaccino fu chiesto in più momenti durante l’attesa di valutare quanto si sentissero impazienti. I risultati mostrarono che mediamente l’impazienza aumentava a ridosso del momento in cui era prevista la fine dell’attesa: l’annuncio dei risultati dell’elezione e la comunicazione della data prevista per ricevere il vaccino.
    Il terzo studio suggerì che l’impazienza aveva più a che fare con un senso di frustrazione tipico di quella fase dell’attesa, la fine, che non con la quantità di tempo atteso nel complesso. Le persone più impazienti erano infatti quelle che aspettavano l’arrivo dell’autobus da un momento all’altro, non necessariamente quelle che attendevano da molto tempo. I risultati del terzo studio, secondo le ricercatrici, potrebbero spiegare perché l’impazienza per la fine della pandemia misurata nel secondo studio è rimasta costante nel tempo ed è aumentata soltanto dopo che le persone, una volta appresa la data della disponibilità del vaccino, hanno intravisto concretamente la fine dell’attesa.
    In generale l’impazienza è un fenomeno molto studiato nella psicologia del marketing, l’insieme di ricerche che si occupano dell’analisi dei comportamenti dei consumatori. Questa ricerca è stata condotta da Ayelet Fishbach, professoressa di scienze comportamentali e marketing alla Booth School of Business della University of Chicago, e Annabelle Roberts, professoressa di marketing alla McCombs School of Business della University of Texas a Austin. Secondo entrambe uno dei fattori che contribuiscono ad accrescere l’impazienza man mano che ci avviciniamo alla fine dell’attesa è il nostro desiderio di concludere un’attività: il desiderio «di cancellarla dalla lista di cose da fare», ha detto Roberts alla rivista Psyche.

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    I risultati della ricerca sono in parte coerenti con l’“effetto gradiente della meta”, una teoria nota del comportamentismo (lo studio scientifico degli aspetti direttamente osservabili e misurabili del comportamento) formulata nel 1932 dallo psicologo statunitense Clark Hull. In base a questa ipotesi le persone investono più risorse nel raggiungere i propri obiettivi, e cioè sono più motivate, quanto più sono vicine a una ricompensa o a un qualche tipo di traguardo, e la loro velocità tende ad aumentare man mano che l’obiettivo è vicino.
    In un’altra ricerca condotta con Alex Imas, anche lui professore di scienze comportamentali della University of Chicago, Fishbach e Roberts hanno analizzato come il desiderio della conclusione influenzi anche i processi decisionali, condizionando per esempio la scelta di completare un’attività subito anziché in seguito.
    In una serie di esperimenti hanno scoperto che, a parità di ricompensa economica, le persone preferivano lavorare un po’ di più (il 15 per cento in più) ma prima, anziché lavorare un po’ di meno ma più tardi. Erano anche tendenzialmente disposte a rinunciare a una parte minima di profitto economico pur di completare in tempi più rapidi un’attività la cui mancata conclusione sarebbe altrimenti rimasta nei loro pensieri. E preferivano fare un’ora di straordinario non retribuito pur di finire un lavoro prima delle ferie, anziché essere pagati per finirlo dopo.

    – Leggi anche: Quanto siamo prevedibili

    Da questo punto di vista, secondo Roberts, l’impazienza può essere descritta come la frustrazione che proviamo in una circostanza in cui saremmo tendenzialmente portati a investire più risorse nel raggiungere un traguardo, ma non possiamo farlo perché raggiungerlo non dipende dai nostri sforzi. È possibile di solito avere un’idea approssimativa del tempo che è necessario attendere prima che arrivi l’autobus che stiamo aspettando, o che si liberi un tavolo al ristorante, per esempio. Ma non c’è niente che possiamo fare in questi casi per raggiungere l’obiettivo più velocemente.
    La ricerca di Fishbach e Roberts fornisce indicazioni potenzialmente utili anche a chi nel marketing si occupa di gestione delle esperienze di attesa. In una serie di studi supplementari l’impazienza riferita dai partecipanti che immaginavano di ricevere un pacco entro un certo numero di giorni (6) era più alta nel giorno previsto per la ricezione del pacco che nei giorni precedenti. L’impazienza riferita tendeva inoltre a variare anche in relazione alla distanza fisica dall’oggetto atteso: era maggiore quanto più il pacco era vicino.
    Sulla base dei risultati della ricerca, secondo le ricercatrici, sovrastimare i tempi di attesa al momento dell’invio di un pacco può essere utile a ridurre l’impazienza della persona destinataria. Ma può essere utile anche in altre circostanze, come per esempio quando serve far sapere a una persona che dobbiamo incontrare quanto tempo manca all’incontro.
    Sapere che l’impazienza è massima nel momento in cui presumiamo che una certa attesa debba finire può essere di aiuto anche nella gestione delle esperienze in cui prevediamo che l’impazienza possa crearci un eventuale disagio. Negli ultimi minuti prima di un certo evento su cui non abbiamo alcun controllo – la partenza di un treno, per esempio – può essere una buona idea, secondo Roberts, distrarsi con un’attività che non c’entra niente con l’evento: ascoltare un podcast, per esempio, anziché controllare compulsivamente l’orologio in attesa dell’orario di partenza.

    – Leggi anche: Perché gli orologi segnano le 10:10 nelle pubblicità LEGGI TUTTO

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    In Germania un uomo si è vaccinato 217 volte contro il coronavirus

    Caricamento playerIn Germania un uomo di 62 anni si è fatto vaccinare 217 volte contro il coronavirus che causa COVID-19, superando quindi abbondantemente la quantità di richiami consigliati per ridurre i rischi legati alle forme gravi della malattia. Secondo i medici che hanno analizzato il caso, l’uomo non ha avuto problemi di salute e conduce una vita normale.
    Kilian Schober, del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Erlangen-Norimberga, ha detto a BBC News di avere appreso del caso particolare da alcuni articoli di giornale e di essersi incuriosito. Insieme ad alcuni colleghi, Schober si era quindi messo in contatto con l’uomo proponendogli di partecipare ad alcuni esami per verificare il suo stato di salute. L’uomo aveva accettato e si era sottoposto a prelievi di sangue e saliva, che erano stati poi confrontati con alcuni suoi vecchi campioni di sangue conservati congelati dopo accertamenti clinici svolti in precedenza.
    Come spiegano Schober e colleghi sulla rivista medica Lancet Infectious Diseases, l’uomo aveva acquistato privatamente tutte le 217 dosi del vaccino e se le era fatte somministrare nel corso di 29 mesi. Lo studio si occupa degli aspetti clinici, di conseguenza non spiega perché lo abbia fatto e si limita a citare motivi privati: anche i giornali che hanno riportato la notizia non danno informazioni maggiori sulle sue ragioni. Tra un prelievo e l’altro svolto dal gruppo di ricerca, l’uomo si era fatto nuovamente vaccinare e ciò aveva permesso di effettuare analisi ancora più accurate sul modo in cui reagisce il sistema immunitario dopo la somministrazione di un vaccino a mRNA, il tipo più utilizzato in Occidente in questi anni contro il coronavirus.
    Il gruppo di ricerca aveva ipotizzato che la grande quantità di vaccini avesse in qualche modo messo sotto maggiore stress il sistema immunitario rispetto al normale, ma dai test non sono emersi problemi di salute. Altri esami su specifici anticorpi non hanno fatto rilevare segni di eventuali infezioni da coronavirus avvenute in questi anni.
    Seppure questo caso offra nuovi elementi sulla sicurezza dei vaccini a mRNA, lo studio ricorda che da un singolo caso non si possono naturalmente derivare conclusioni molto ampie e che difficilmente si troveranno altri casi simili per fare maggiori confronti. Il gruppo di ricerca sconsiglia comunque di sottoporsi a una quantità maggiore di somministrazioni rispetto a quelle consigliate in questi anni dalle autorità sanitarie, che hanno previsto due dosi iniziali a distanza di qualche mese e una dose di richiamo, da effettuare periodicamente per rinnovare la memoria immunitaria. LEGGI TUTTO

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    Iniziamo a capire qualcosa di più sul mercurio nei tonni

    Un’ampia ricerca da poco pubblicata sull’inquinamento da mercurio nei mari ha segnalato che in alcuni pesci – in particolare il tonno – la concentrazione di questo metallo è rimasta pressoché invariata dagli anni Settanta nonostante varie iniziative e un trattato per ridurre la sua dispersione nell’ambiente. La presenza del mercurio nel pesce può costituire un rischio nella fase di sviluppo del feto durante la gravidanza, ma può avere anche effetti sulla salute delle persone adulte. Secondo la ricerca, anche applicando più rigidamente i regolamenti internazionali potrebbero essere necessari decenni prima di rilevare una riduzione della concentrazione di mercurio nel tonno, tra i pesci più consumati al mondo.Mercurio e metilmercurioQuello che viene definito comunemente “mercurio nei mari” è in realtà il metilmercurio (o per meglio dire catione monometilmercurio), un composto che contiene un legame metallo-carbonio ed è quindi “metallorganico” (il carbonio è centrale nella produzione di composti organici e per la vita). Come suggerisce il nome, questa sostanza si forma a partire dal metallo attraverso l’attività di alcuni batteri anaerobi, cioè che vivono in assenza di ossigeno, e di altri microrganismi presenti soprattutto in laghi, fiumi, mari e sedimenti nelle zone umide. Più il mercurio è presente nell’ambiente, maggiore è la probabilità che una sua parte significativa venga trasformata in metilmercurio.
    Il mercurio si accumula nell’ambiente sia per fenomeni naturali, come l’attività dei vulcani e gli incendi stagionali nelle foreste, sia a causa dell’attività umana in particolare tramite la combustione dei combustibili fossili e in alcuni processi industriali, per esempio per la preparazione dell’acetaldeide, impiegata in alcuni fertilizzanti, nei solventi e in numerosi altri prodotti chimici.
    Fu proprio la produzione di acetaldeide a portare a una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione sui rischi legati alle contaminazioni di mercurio, dopo il disastro ambientale scoperto a Minamata, una città nell’estremo occidente del Giappone. Tra gli anni Trenta e la fine degli anni Sessanta del secolo scorso un’industria chimica sversò nelle acque di scarico grandi quantità di metilmercurio che si accumulò in numerose specie marine, entrando poi nella catena alimentare e causando l’avvelenamento da mercurio di molte persone che abitavano nella zona. L’intossicazione fu tale da portare alla scoperta della cosiddetta “sindrome di Minamata”, una malattia che causa gravi problemi al sistema nervoso e che in alcuni casi può essere mortale.
    Il disastro di Minamata e alcuni altri casi simili portarono alla Convenzione di Minamata sul mercurio, un trattato internazionale adottato nel 2013 da circa 140 paesi per limitare le emissioni di mercurio e dei suoi composti nell’ambiente. La Convenzione è dedicata in particolare alla preservazione degli ambienti marini, dove soprattutto il metilmercurio tende a causare contaminazioni su larga scala all’interno della catena alimentare.
    Salute e alimentazioneIl metilmercurio ha un tempo di permanenza negli organismi relativamente lungo, di conseguenza attraversa buona parte della catena alimentare degli ambienti marini (“bioamplificazione”). Batteri e plancton contaminati diventano il cibo dei pesci più piccoli, che diventano quindi un pasto contaminato per i pesci più grandi e così via fino alle specie ittiche di maggiori dimensioni. Ciò determina un aumento della concentrazione di metilmercurio man mano che aumenta la stazza dei pesci, in particolare di quelli predatori. Molte specie ittiche vengono consumate da altri animali, come gli uccelli o gli esseri umani, che finiscono a loro volta con l’ingerire quella sostanza.
    Rappresentazione schematica della bioamplificazione del metilmercurio (Wikimedia)
    La concentrazione del metilmercurio nei pesci varia a seconda delle specie, della loro stazza, della loro età e naturalmente del luogo in cui sono cresciuti, che potrebbe essere più o meno contaminato. In una stessa specie, i pesci più anziani hanno in proporzione più metilmercurio di quelli più giovani, semplicemente perché sono stati esposti più a lungo a questa sostanza che impiega molto tempo per essere smaltita. Il metilmercurio ha infatti un’emivita intorno ai due mesi e mezzo nelle specie acquatiche: significa che la sua concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo 2,5 mesi è metà, dopo altri 2,5 mesi è metà della metà e così via). I pesci in cui sono solitamente riscontrate le maggiori concentrazioni sono i pesci spada, gli squali e i tonni di grandi dimensioni e più anziani.
    Quando si mangia pesce contenente metilmercurio, questo viene assorbito dal sistema digerente e passa nella circolazione sanguigna, attraverso la quale si distribuisce in buona parte dell’organismo, compreso il sistema nervoso. La sua emivita nel sangue è di 50 giorni, ma è raro che con una normale alimentazione si raggiungano livelli da grave intossicazione, come avvenne per esempio a Minamata dove le concentrazioni erano molto alte.
    Le caratteristiche organiche del metilmercurio fanno sì che riesca a legarsi fortemente alle proteine, rendendo quindi più difficile la sua eliminazione da parte dell’organismo. Durante la gravidanza può avvenire il trasferimento al feto del metilmercurio assunto con l’alimentazione e sopra una certa soglia possono esserci rischi, legati per esempio a un minore sviluppo del sistema nervoso centrale; nelle persone adulte possono esserci maggiori rischi di sviluppare disturbi cardiovascolari.
    Stabilire limiti per il metilmercurio non è semplice e ancora oggi le soglie da stabilire sono piuttosto discusse tra gli esperti. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha indicato una «dose tollerabile di assunzione» di 1,3 microgrammi per chilogrammo di massa corporea. È un indicazione che può apparire un poco criptica, considerato che nel momento in cui si consuma un piatto di pesce non si può sapere quale sia l’effettiva concentrazione (per il comparto alimentare ci sono comunque livelli massimi indicati nel regolamento dell’Unione Europea 2023/915). Per questo l’EFSA ha fornito indicazioni un poco più approssimative, ma utili nella vita di tutti i giorni.
    Il consiglio dell’EFSA, in linea con quelli di altre autorità ambientali e sanitarie in giro per il mondo, è di consumare pesce tra le due e le tre volte alla settimana, cercando di variare il più possibile i tipi di pesce e limitando il consumo di quelli di taglia medio-grande, che potrebbero avere un maggior contenuto di metilmercurio come pesci spada, naselli e tonni. Maggiori attenzioni dovrebbero essere mantenute per i bambini e dalle donne nel periodo della gravidanza, ma in generale l’EFSA invita comunque a mangiare pesce perché i suoi nutrienti sono comunque importanti nella fase della crescita e in età adulta. Come per molte altre cose che riguardano l’alimentazione, la questione di fondo è trovare un equilibrio tollerabile tra i rischi e i benefici portati dal consumo di un certo alimento.
    Emissioni e concentrazioneLe maggiori attenzioni portate dalla Convenzione di Minamata hanno contribuito negli ultimi decenni a ridurre la presenza di nuovo mercurio e nuovo metilmercurio negli ambienti marini, ma le analisi indicano che c’è comunque un certo accumulo che richiederà del tempo per essere smaltito. Lo studio, da poco pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Science & Technology Letters, ha riguardato ricerche pubblicate nei decenni scorsi e nuovi dati che insieme hanno permesso di avere a disposizione analisi su quasi 3mila campioni di tonni, raccolti tra gli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano negli ultimi 50 anni, con particolare attenzione ai tipi di tonno più pescati e consumati (tonno pinne gialle, tonno obeso e tonno skipjack).
    Dalle analisi è emerso che nonostante una riduzione nelle emissioni di mercurio a partire dagli anni Settanta, i livelli di metilmercurio nel tonno sono rimasti sostanzialmente invariati. Secondo la ricerca, la causa è probabilmente il modo in cui gli accumuli di metilmercurio si sono distribuiti nelle acque oceaniche. Il moto ondoso e la differenza di temperatura nell’acqua fa sì che in alcune circostanze questa sostanza raggiunga profondità meno basse, dove vivono i pesci che diventano poi prede dei tonni. Il processo non è però completamente chiaro, ma evidenzia una certa inerzia del sistema legata alle grandi quantità di mercurio accumulate nei secoli passati sia naturalmente sia in seguito alle emissioni derivanti dalle attività umane.
    Anche se i livelli di metilmercurio non sono diminuiti (nel caso del tonno skipjack c’è stato un lieve aumento, probabilmente dovuto alle maggiori emissioni di mercurio in Asia), c’è comunque una notizia incoraggiante: nessuno dei campioni analizzati ha fatto registrare concentrazioni superiori ai limiti per il consumo del tonno. Lo studio segnala comunque che le emissioni di mercurio dovranno essere ridotte molto di più per vedere una riduzione nella concentrazione di mercurio negli oceani nei prossimi 10-25 anni. A quel punto, per rilevare una riduzione nella concentrazione di metilmercurio nella carne del tonno e di altri pesci predatori potrebbero essere necessari diversi altri decenni. LEGGI TUTTO

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    Una delle dune del Sahara ha più di 12mila anni

    Caricamento playerDue scienziati britannici hanno stimato per la prima volta l’età di una grande duna del deserto del Sahara, concludendo che abbia iniziato a formarsi più di 12mila anni fa. La duna si chiama Lala Lallia e si trova nell’est del Marocco, nella zona di Erg Chebbi, vicino al confine con l’Algeria. È alta cento metri e larga circa 700, e contiene più o meno 5,5 milioni di tonnellate di sabbia. Secondo i geologi Charles Bristow dell’Università Birkbeck e Geoff Duller dell’Università di Aberystwyth, la cui stima è stata pubblicata su Scientific Reports, capire la storia geologica di dune come questa può aiutare a comprendere meglio il clima che c’era migliaia di anni fa.
    Lala Lallia è una duna a stella, o duna piramidale: non tutte le dune hanno la stessa forma, questo tipo deve il suo nome al fatto di avere tre o più creste che partono dal punto più alto e si allungano in direzioni diverse. Si formano in luoghi in cui soffiano venti di direzioni diverse, a cui si deve appunto la loro forma peculiare, e sono il tipo di dune più alto. La più alta sulla Terra si trova nel deserto Badain Jaran, in Cina, e raggiunge 300 metri. Ce ne sono altre in molte zone desertiche in Africa, Arabia e Nord America, oltre che su altri corpi celesti del sistema solare, come Marte e Titano, una delle lune di Saturno.
    Sebbene le dune a stella siano tra le più grandi e spettacolari presenti sulla Terra, finora non ne era mai stata datata una. Facendolo è possibile ricostruire come sia avvenuta la loro formazione nel tempo. Sapere queste cose permette anche di riconoscere le tracce di antiche dune di forma simile negli strati di roccia che si studiano per capire la storia geologica del pianeta, dicono Bristow e Duller.
    Bristow e Duller hanno usato un georadar per capire la struttura interna di Lala Lallia, mentre per stimarne l’età hanno usato la datazione a luminescenza, una tecnica che permette di determinare l’ultima volta che delle rocce furono esposte alla luce solare. La datazione dipende dalla quantità di materiale radioattivo contenuto nelle rocce, che si accumula con il tempo trascorso sepolte. I geologi hanno prelevato dei campioni di sabbia da Lala Lallia durante le ore notturne e poi li hanno analizzati in un laboratorio illuminato con luce infrarossa. In queste condizioni i grani di sabbia diffondono l’energia accumulata sotto forma di luce e così gli scienziati possono calcolare da quanto tempo facessero parte della duna: maggiore è la luce, più antichi sono i grani di sabbia.
    La regione del Marocco in cui si trova la duna Lala Lailla, vicino alla città di Hassilabied (Joshua Stevens, NASA Earth Observatory)
    I campioni più antichi prelevati alla base della duna hanno un’età compresa tra 12.750 e 14mila anni. L’analisi della sabbia meno profonda ha fatto concludere agli scienziati che dopo la sua formazione iniziale la duna abbia smesso di crescere per circa ottomila anni, per poi aumentare molto di dimensioni negli ultimi millenni e in particolare negli ultimi mille anni: la maggior parte dei 100 metri di altezza attuali della duna si è accumulata negli ultimi 900 anni. Attualmente si sposta a una velocità di 50 centimetri all’anno verso ovest.
    Bristow e Duller hanno fatto varie ipotesi sulle ragioni per cui per circa ottomila anni la duna non è cresciuta: potrebbe avere a che fare con la storia dei venti nella regione in cui si trova, a sua volta legata a più ampi fenomeni climatici dipendenti dall’oceano Atlantico. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Il salto di una balena grigia nel golfo di California, fotografata nei giorni scorsi, è la scusa per parlare brevemente del loro canto: di recente un gruppo di ricerca internazionale dice di avere scoperto qualcosa di più sul modo in cui alcune balene lo producono, suggerendo che riescano a emettere buona parte dei suoni attraverso la particolare conformazione della laringe, come spiegato più estesamente qui. Tra gli altri animali fotografati nei giorni scorsi ci sono poi la coda di una volpe a caccia di topi (e lo sapete come noi umani abbiamo perso la coda?), la smorfia di un leone, un agnello di pochi giorni con un impermeabile e tacchini selvatici in una zona bruciata dagli incendi in Texas. LEGGI TUTTO

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    Come abbiamo perso la coda

    Da bambino Bo Xia si era chiesto qualche volta come mai non avesse la coda come altri animali, ma non avrebbe mai immaginato che da adulto avrebbe dedicato buona parte del proprio dottorato in biologia a questo argomento. Non lo pensava nemmeno mentre studiava alla New York University, ma le cose cambiarono dopo che ebbe un piccolo infortunio al coccige, la parte finale della colonna vertebrale, l’ultima testimonianza della coda che milioni di anni fa possedevano gli antenati degli umani moderni. Quell’incidente portò Xia a interessarsi nuovamente alla coda e a pubblicare, dopo una lunga e difficile ricerca, uno studio che aiuta a spiegare i meccanismi genetici che ci portarono a perderla.Tra i vertebrati la coda è un elemento estremamente comune e tutti i mammiferi ne sviluppano una durante lo sviluppo embrionale, anche se questa non necessariamente è poi presente alla nascita. Nel caso degli esseri umani, per esempio, la coda scompare all’incirca all’ottava settimana di gravidanza e ne rimangono solo alcune piccole tracce che formano il coccige (le sue dimensioni variano molto a seconda delle persone).
    La maggior parte delle scimmie ha la coda, ma fanno eccezione gli ominoidi (Hominoidea), cioè gli esseri umani e quelle che vengono spesso definite “scimmie antropomorfe” (oranghi, gibboni, gorilla, scimpanzé). Questa netta distinzione ha fatto ipotizzare da tempo che la perdita della coda fosse coincisa con la fase in cui gli ominoidi si differenziarono dall’antenato in comune con le scimmie circa 25 milioni di anni fa.
    Circa tre anni fa, quando era ancora convalescente dall’incidente al coccige, Xia iniziò ad approfondire le proprie conoscenze sui geni sospettati di essere coinvolti nello sviluppo della coda. Si interessò agli studi della scienziata ucraina Nadine Dobrovolskaya-Zavadskaya, che alla fine degli anni Venti del secolo scorso aveva analizzato alcuni topi dalla coda insolitamente corta, arrivando alla conclusione che la loro condizione fosse determinata da una particolare mutazione in un gene chiamato T. Negli anni seguenti altre ricerche avrebbero portato a identificare un gene simile anche negli esseri umani, oggi noto come gene TBXT e molto conosciuto dai genetisti e da chi si occupa di evoluzione umana.
    Xia si mise a confrontare il gene TBXT degli esseri umani con il suo equivalente in altri ominoidi e notò che avevano in comune un pezzetto di DNA (una “sequenza alu”), assente invece nelle specie di primati con la coda. Insieme ad alcuni colleghi, Xia approfondì la questione e preparò una ricerca, che fu pubblicata nel settembre del 2021 in una forma preliminare, quindi senza avere ancora ricevuto una revisione da parte di studiosi che non avevano partecipato alla ricerca (il processo che viene chiamato di “peer review”).
    Nel loro studio, Xia e colleghi spiegavano che quel pezzetto di DNA poteva far sì che il gene TBXT portasse talvolta alla produzione di una proteina lievemente diversa rispetto a quella che si produce normalmente. Secondo il gruppo di ricerca ciò avveniva nella fase di trascrizione del materiale genetico necessaria per produrre la proteina e a sostegno di questa ipotesi portava alcuni esperimenti condotti sui topi. Modificando le caratteristiche del gene, Xia era infatti riuscito a ottenere topi con code più corte del solito o completamente assenti, oppure con code lunghe e attorcigliate.
    La ricerca era promettente, ma non dimostrava che qualcosa di simile avvenisse anche con il gene TBXT vero e proprio. Il problema fu segnalato da chi era incaricato di effettuare il processo di peer review, con la richiesta a Xia e colleghi di approfondire lo studio e portare nuove dimostrazioni. Gli esperimenti di laboratorio, in parte già avviati, avrebbero alla fine richiesto più di due anni per essere realizzati e rivisti. Dopo 900 giorni, lo studio è stato infine pubblicato sulla rivista scientifica Nature questa settimana.
    Come spiegano Xia e colleghi, gli esperimenti aggiuntivi effettuati trasferendo il pezzo di DNA di TBXT nel gene equivalente dei topi non hanno portato a cambiamenti significativi nella caratteristica della proteina, di conseguenza i topi avevano code con lunghezza nella media. In un’altra serie di esperimenti, invece, il gruppo di ricerca è riuscito a simulare nei topi ciò che avviene negli esseri umani, portando alla nascita di topi con una coda corta o completamente assente.
    Lo studio di Xia e colleghi è stato accolto con grande interesse, non solo per i nuovi elementi che porta su un punto importante dell’evoluzione umana, ma anche per le difficoltà che il gruppo di ricerca ha dovuto affrontare nel realizzare una grande quantità di modelli in laboratorio. I 900 giorni di lavoro successivi alla presentazione della ricerca preliminare hanno reso più solida e affidabile la ricerca, dimostrando come alcuni elementi mobili del DNA possono influire in modi talvolta inattesi nei processi evolutivi.
    La ricerca aiuta a capire come gli ominoidi persero la coda, ma non spiega completamente perché, una questione del resto molto più complessa e che forse non avrà mai risposta. Una delle ipotesi più condivise è che perdere la coda avesse costituito a un certo punto un vantaggio evolutivo, favorendo l’andatura eretta. Studi su specie molto antiche di primati ora estinte ipotizzano che la capacità di utilizzare prevalentemente i due arti inferiori per muoversi iniziò a svilupparsi nei nostri antenati che vivevano ancora tra le fronde degli alberi, diventando poi un elemento centrale per il bipedismo al suolo.
    Non tutti sono però convinti da questa spiegazione, semplicemente perché ci sono elementi per ritenere che la coda non impedisca di sviluppare il bipedismo. Ancora oggi ci sono alcune specie di primati come il cebo barbuto (Sapajus libidinosus) che utilizzano principalmente gli arti inferiori per muoversi, ma che all’occorrenza sfruttano la coda per mantenersi meglio in equilibrio.
    Un’altra ipotesi è che, nei grandi cambiamenti di territorio e clima che si verificarono 25 milioni di anni fa nei territori che più o meno oggi corrispondono all’Africa orientale, alcune popolazioni di ominoidi rimasero a lungo isolate e nei processi casuali di trascrizione del materiale genetico di generazione in generazione (deriva genetica) si produssero le alterazioni nel gene TBXT. Seguendo questa ipotesi, fu in un certo senso l’isolamento di alcune popolazioni con un numero ridotto di individui a far sì che si avviasse il processo di perdita della coda.
    Il gene TBXT è studiato da tempo ed è probabile che il lavoro di Xia e colleghi porti altri gruppi di ricerca ad approfondire la storia della nostra coda, che non c’è più. LEGGI TUTTO

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    Il clima di un pezzo di Africa cambierà grazie alla “Grande muraglia verde”?

    Caricamento playerDal 2007 undici paesi stanno portando avanti un progetto molto ambizioso per influenzare il clima (e quindi l’abitabilità) e lo sviluppo economico di un grosso pezzo di Africa: la realizzazione di una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri tra Dakar, in Senegal, sulla costa occidentale del continente, e Gibuti, la capitale del paese omonimo, sulla costa orientale. Il progetto si chiama “Grande muraglia verde”, e i risultati di una simulazione da poco pubblicati sulla rivista scientifica One Earth dicono che porterà un aumento delle precipitazioni medie e una diminuzione della durata dei periodi di siccità.

    Nell’idea iniziale, che risale agli anni Ottanta e a Thomas Sankara, leader carismatico e primo presidente del Burkina Faso, la Grande muraglia verde doveva essere davvero una specie di lunga barriera di alberi. Si riteneva che avrebbe potuto arginare un processo che avrebbe reso il Sahel, l’arida regione a sud del Sahara, più simile al deserto vero e proprio. Poi il progetto venne corretto tenendo conto di analisi scientifiche aggiornate e dei vantaggi socio-economici di foreste, praterie e terre coltivate per la popolazione locale. Nella forma attuale il progetto prevede di realizzare un “mosaico” di terreni coperti da vari tipi di vegetazione che dovrebbe occupare 1 milione di chilometri quadrati, più o meno la stessa superficie di Francia e Germania messe insieme, entro il 2030. In parte saranno riforestati piantando nuovi alberi, in parte coltivati.
    I principali paesi coinvolti sono, da est a ovest, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Sudan, Ciad, Niger, Nigeria, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Senegal, e il progetto è stato approvato dall’Unione Africana, l’organizzazione internazionale di paesi africani che ha per modello l’Unione Europea.
    Una zona forestata nel Sahel senegalese, l’11 luglio 2021 (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Lo studio uscito su One Earth è stato fatto da Roberto Ingrosso e Francesco Pausata, due climatologi italiani che lavorano all’Università del Québec, in Canada, ed è il primo ad aver valutato i possibili impatti sul clima del Sahel della versione più aggiornata della Grande muraglia verde. È basato su modelli di simulazione climatica con una risoluzione spaziale di circa 13 chilometri: mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici su superfici minime di 169 chilometri quadrati, cioè con un buon approfondimento tenendo conto dell’ampiezza complessiva del territorio interessato.
    Le simulazioni sono state fatte tenendo conto di diverse densità di vegetazione che si potrebbero ottenere con la Grande muraglia verde. E sono stati considerati due diversi scenari di cambiamento climatico globale: quello in cui grazie alle politiche di contrasto alle emissioni di gas serra si raggiungono gli obiettivi più ambiziosi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, e quello in cui invece le emissioni continuano ad aumentare e l’atmosfera del pianeta a riscaldarsi. Per entrambi gli scenari, nel caso di un aumento significativo della densità di vegetazione, Ingrosso e Pausata hanno previsto un aumento delle precipitazioni in alcune zone del Sahel, una diminuzione dei periodi di siccità e delle temperature estive.
    Al tempo stesso però i modelli indicano che in relazione alla Grande muraglia verde ci sarà un maggior numero di giorni dell’anno con temperature estremamente alte, in particolare prima della stagione delle piogge. «Questi risultati sottolineano gli effetti contrastanti della Grande muraglia verde», spiega lo studio, «e dunque la necessità di fare valutazioni complessive nel decidere politiche future». Gli effetti saranno diversi a livello locale e se complessivamente la regione sarà meno arida – posto che effettivamente si riesca a ottenere una buona densità di vegetazione con il progetto – in alcune zone aumenteranno i giorni con temperature molto alte, cosa che può avere effetti rilevanti per la popolazione.
    Illustrazione dallo studio di Roberto Ingrosso e Francesco Pausata: in verde l’area interessata dalla Grande muraglia verde, in azzurro quella in cui è stato previsto un potenziale aumento delle precipitazioni. Le nuvole indicano le zone in cui potrebbero diminuire i periodi di siccità, i termometri quelle in cui potrebbero registrarsi temperature massime più alte
    Nel Sahel così come nel Sahara le precipitazioni sono legate all’intensità del monsone dell’Africa occidentale, quel sistema periodico di perturbazioni che interessa la regione tra giugno e ottobre e a cui si deve la sopravvivenza di milioni di persone. Dagli anni Settanta in poi però questa parte dell’Africa è diventata meno ospitale a causa di intense siccità, molto probabilmente legate all’aumento della temperatura superficiale dell’oceano Atlantico, oltre che al modo in cui il territorio è stato sfruttato. L’idea di usare la vegetazione per contrastare questi effetti nasce dal fatto che le piante contribuiscono a conservare l’acqua nel suolo e con i loro processi biologici influenzano anche la quantità di umidità nell’aria.
    È inoltre possibile che l’aumento del suolo coperto da foreste riduca la forza dei venti sulla regione, dice lo studio di Ingrosso e Pausata, e per questo contribuisca a un aumento di precipitazioni.
    Un rapporto del 2020 della Convenzione contro la desertificazione delle Nazioni Unite (UNCCD) ha cercato di stimare in quale misura l’obiettivo fissato per il 2030 sia già stato raggiunto: non è chiarissimo perché i confini dei territori coinvolti non sono stati fissati in modo inequivocabile, quindi si è parlato di una percentuale compresa tra il 4 e il 18 per cento, sulla base delle informazioni fornite dai paesi coinvolti. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno promesso un consistente finanziamento del progetto per accelerarlo: sono stati annunciati 14,3 miliardi di dollari di finanziamento entro il 2025, di cui 2,5 sono stati consegnati tra il 2021 e il 2023.
    I lavori per la creazione di un giardino che fa parte della Grande muraglia verde a Boki Diawe, in Senegal, il 10 luglio 2021: questo genere di giardini prevede di piantare piante adatte a condizioni climatiche aride all’interno di buche circolari che permettono di sfruttare al meglio le risorse idriche (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Al di là delle risorse economiche necessarie per portarla avanti, la Grande muraglia verde ha altri ostacoli, di natura politica e di sicurezza. Infatti nel Sahel sono attivi molti gruppi terroristici, come il nigeriano Boko Haram, e in alcune zone ritenute particolarmente pericolose sia le organizzazioni che si stanno occupando di riforestazione che gli abitanti locali sono restii a portare avanti i progetti legati alla Grande muraglia verde.

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