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    Lo scorso marzo è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso mese è stato il marzo più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 14,14 °C, 0,10 °C più alta del precedente mese di marzo più caldo mai registrato, quello del 2016. Il Climate Change Service sottolinea inoltre come marzo del 2024 sia il decimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti.– Leggi anche: Cosa è stato fatto finora per contrastare la siccità LEGGI TUTTO

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    Le foto dell’eclissi totale di Sole

    Caricamento playerIn un’ampia area del Nord America lunedì è stata visibile un’eclissi totale di Sole: l’evento non è di per sé insolito – c’è un’eclissi all’incirca ogni anno e mezzo – ma ha attirato grandi attenzioni perché ha interessato un’area fortemente popolata e facilmente accessibile per le osservazioni. I media statunitensi da giorni si occupano dell’eclissi e moltissime persone si sono organizzate per osservare il fenomeno nelle aree in cui era visibile, anche spostandosi da altre regioni degli Stati Uniti. LEGGI TUTTO

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    In Brasile e Colombia si è ridotta la distruzione delle foreste tropicali

    Caricamento playerNel 2023 sono stati abbattuti o bruciati circa 37mila chilometri quadrati di foreste tropicali, una superficie pari a quella di Toscana e Campania messe insieme, con una grave perdita per gli ecosistemi e in generale per il pianeta nel contrastare l’effetto serra. Secondo Global Forest Watch, l’iniziativa che ha diffuso i dati, il disboscamento continua a essere uno dei problemi ambientali più seri, ma ci sono stati comunque alcuni progressi, con una riduzione del 9 per cento del fenomeno tra il 2022 e il 2023, in particolare grazie ad alcune nuove politiche per la tutela delle foreste tropicali avviate in Sudamerica.
    Global Forest Watch offre una piattaforma online per tenere sotto controllo lo stato delle foreste del mondo e, insieme all’istituto di ricerca ambientale World Resources Institute, realizza periodicamente rapporti per confrontare negli anni la perdita di foresta pluviale primaria (cioè di foresta ancora incontaminata e non raggiunta dalle attività umane). Le analisi vengono fatte mettendo a confronto immagini satellitari di diversi periodi, in modo da verificare quali aree abbiano subìto attività di disboscamento anche in pochi mesi. Il sistema consente di verificare soprattutto le perdite dovute agli incendi, ma sono talvolta necessarie analisi successive per distinguere tra eventi naturali e fuochi appiccati intenzionalmente per guadagnare nuovo terreno per le coltivazioni.
    In Sudamerica si distruggono ogni anno grandi porzioni di foreste tropicali primarie per la costruzione di nuove strade e infrastrutture, oppure per rendere coltivabili i terreni. Il rapporto di Global Forest Watch segnala che nel 2023 sono stati distrutti circa 2mila chilometri quadrati di foreste tropicali in quella parte di mondo, un’area paragonabile a circa metà quella del Molise. La perdita è stata rilevante, ma inferiore del 24 per cento rispetto all’anno precedente, soprattutto grazie ai progressi raggiunti dai governi di Brasile e Colombia per limitare la distruzione delle foreste.
    Confronto tra 2022 e 2023 della perdita di foresta tropicale primaria nei dieci paesi del mondo in cui il fenomeno è più diffuso (Global Forest Watch)
    Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, rieletto nel 2022, si è impegnato a fermare completamente la deforestazione entro il 2030, un obiettivo molto ambizioso che non potrà essere raggiunto solamente attraverso l’intensificazione dei controlli. Lula ha revocato buona parte delle leggi che aveva fatto approvare il suo predecessore, Jair Bolsonaro, che di fatto avevano reso più semplice la deforestazione a scopi di sviluppo e commerciali, e ha riorganizzato l’agenzia governativa per la protezione per l’ambiente. Il presidente brasiliano intende inoltre aumentare le aree definite territorio per le popolazioni native, in modo da renderle protette e quindi rendere più difficile il disboscamento. In circa un anno sono già stati aggiunti otto nuovi territori, arrivando quasi a 500: l’intenzione è di riconoscerne altri 200 nel corso dei prossimi anni.
    In Colombia il presidente Gustavo Petro, eletto nel 2023, ha annunciato una nuova serie di politiche per ridurre la deforestazione comprese alcune campagne con contributi economici per le popolazioni locali in modo da disincentivare l’abbattimento degli alberi.
    Altri progressi sembra siano stati raggiunti in seguito ad alcune iniziative di Estado Mayor Central (EMC), il più importante gruppo dissidente delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (FARC). Il gruppo di guerriglieri controlla un’area importante dell’Amazzonia e dal 2022 impone multe dell’equivalente di svariate centinaia di euro a chi abbatte illegalmente gli alberi. Il gruppo sostiene di farlo per motivi ambientalisti, ma secondo gli osservatori l’iniziativa è uno dei modi per avere maggiori possibilità di contrattare con il governo colombiano la fine delle ostilità (nel 2016 l’EMC non aveva accettato gli accordi di pace tra governo e FARC). Stando ai dati forniti da Global Forest Watch, in Colombia nel 2023 la perdita di foresta tropicale è stata inferiore del 49 per cento rispetto al 2022.
    I progressi raggiunti in Colombia e Brasile si inseriscono comunque in un contesto ancora negativo legato alla deforestazione, se si considera che dal 2001 al 2023 in Sudamerica è andato distrutto quasi un terzo delle foreste tropicali. La perdita non implica solamente una riduzione nella capacità del pianeta di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, uno dei principali gas serra. La riduzione delle foreste porta a una marcata riduzione della biodiversità, cioè della varietà di specie che popolano un certo ambiente, con un ulteriore impoverimento di alcuni dei territori altrimenti più floridi del pianeta sia dal punto di vista della flora sia della fauna. LEGGI TUTTO

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    E se l’energia oscura stesse diminuendo?

    Una nuova dettagliatissima mappa di milioni di galassie sta facendo molto discutere i cosmologi, cioè chi si occupa di studiare l’evoluzione dell’Universo nel suo insieme, e potrebbe portare a una profonda revisione delle teorie finora formulate per spiegare il funzionamento del cosmo. “Potrebbe” è la parola chiave, perché i dati sono ancora preliminari e serviranno molte altre misurazioni, ma i primi indizi hanno comunque sorpreso gli esperti e soprattutto chi studia la cosiddetta “energia oscura”, che secondo le teorie più condivise ha un ruolo fondamentale nel fare espandere sempre più velocemente l’Universo. Gli indizi sembrano suggerire che questa misteriosa energia stia lentamente diminuendo e non sia quindi costante.La mappa è stata presentata questa settimana dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI), una importante collaborazione scientifica per misurare l’effetto dell’energia oscura sull’espansione dell’universo. Contiene un’enorme quantità di dati e dal confronto di diverse osservazioni sembra confermare che l’energia oscura sia diminuita nel corso di miliardi di anni. I gruppi di ricerca coinvolti nel progetto hanno chiarito che al momento non ci sono dati tali da affermare di avere effettuato una nuova scoperta, ma che ci sono comunque indizi a tratti sorprendenti da approfondire.
    Materia oscura ed energia oscuraPer capire le implicazioni di un eventuale ripensamento dell’energia oscura è necessario fare qualche passo indietro e ripartire dalla materia, cioè ciò di cui siamo fatti e che ci circonda: proprio perché è ciò che siamo, la vediamo di continuo al punto da non farci quasi caso. Nel nostro percepito la materia è tantissima, ma in termini cosmologici è relativamente poca: si stima che costituisca meno del 5 per cento dell’Universo conosciuto. Tutto il resto, secondo le teorie più discusse, è formato per il 25 per cento circa di materia oscura e per il 70 per cento di energia oscura.

    – Leggi anche: Che cos’è l’energia

    Come suggerisce il nome, entrambe sono completamente invisibili sia ai nostri occhi sia agli strumenti, al punto da non sapere nemmeno di preciso che cosa siano né come funzionino. Siamo però abbastanza certi che esistano, perché in loro assenza non si potrebbero spiegare alcuni dei fenomeni che invece riusciamo a osservare e che conosciamo ormai piuttosto bene. Detta in altre parole: le teorie per spiegare come funziona l’Universo hanno bisogno sia della materia oscura sia dell’energia oscura per stare in piedi.
    Rappresentazione schematica di che cosa si intende per “materia” in rapporto alle altre forme “oscure” ipotizzate (ESA)
    Quando nel Novecento si iniziarono a calcolare le caratteristiche dell’Universo e ad applicare modelli teorici per spiegarne le peculiarità, infatti, divenne evidente che la quantità di materia che ci è visibile non era sufficiente per spiegare il modo in cui è strutturato e rimane insieme l’Universo.
    Per esempio, la quantità di materia osservabile di una galassia (cioè un grande insieme di stelle, pianeti e materiale interstellare soprattutto sotto forma di gas e polveri) è relativamente poca e non è sufficiente per far sì che le stelle che ne fanno parte restino insieme senza sparpagliarsi per l’Universo (c’è una stretta relazione tra massa e interazioni gravitazionali che tengono vicini i corpi). Uno dei modi per spiegare questa stranezza è ipotizzare che ci sia qualcos’altro dentro e intorno alle galassie che ne favorisce la coesione, qualcosa che non emette o riflette luce e che non si fa rivelare, ma che comunque esiste e aggiunge ulteriore massa: la materia oscura.
    La sua esistenza aiuta a spiegare molto, ma non tutto. Circa un secolo fa si scoprì che l’Universo si sta espandendo e circa 70 anni dopo fu anche scoperto che l’Universo è in una fase di espansione accelerata, cioè che la velocità a cui si sta espandendo aumenta nel tempo. Fu una scoperta rivoluzionaria e inattesa, perché contraddiceva alcune parti del modello teorizzato fino ad allora per descrivere l’Universo, secondo il quale la gravità avrebbe via via portato l’espansione a rallentare.
    A un quarto di secolo di distanza da quella importante scoperta, non sappiamo che cosa determini l’accelerazione, ma ci sono comunque diverse teorie. Una delle più condivise ipotizza l’esistenza dell’energia oscura, cioè di un particolare tipo di energia che contrasta in qualche modo la gravità e fa sì che l’Universo acceleri nella propria espansione. È una forma di energia ipotetica che sarebbe distribuita omogeneamente nello spazio e che come nel caso della materia oscura non riusciamo a rilevare direttamente.
    ΛLa presenza dell’energia oscura è prevista nel modello Lambda-CDM, considerato il “modello standard” della cosmologia, cioè quello attualmente più adatto e semplice per provare a spiegare il funzionamento su grande scala dell’Universo nella sua espansione accelerata. Il nome deriva dalla costante cosmologica, indicata con la lettera Λ (lambda) dell’alfabeto greco, e inizialmente inserita da Albert Einstein nelle proprie equazioni per la teoria della relatività generale ipotizzando un universo statico. Oggi la costante cosmologica ha un ruolo diverso ed è usata per provare a spiegare l’accelerazione dell’espansione dell’Universo.
    Rappresentazione schematica delle principali fasi di evoluzione dell’Universo (NASA)
    Più questo si espande, più la materia e l’energia che riusciamo a osservare diventano meno dense perché si “spalmano” in uno spazio sempre più grande. Questa riduzione della loro densità dovrebbe essere accompagnata da un rallentamento nell’espansione dell’Universo e non da una sua accelerazione, come è stato invece osservato.
    C’è però una cosa che non si diluisce con l’espansione dello spazio e questa è lo spazio stesso: se una stanza inizia a espandersi, tutto al suo interno sembra allontanarsi e quindi diluirsi, a parte lo spazio all’interno della stanza stessa. Ipotizzando che il vuoto che costituisce lo spazio abbia una propria energia, all’aumentare del vuoto aumenta l’energia e di conseguenza l’accelerazione nell’espansione. Questa energia del vuoto su scala cosmologica può fornire una spiegazione dell’energia oscura.

    – Leggi anche: Niente, un articolo sul vuoto

    Ovviamente studiare qualcosa che non è direttamente misurabile è molto difficile, ma si possono effettuare analisi indirette raccogliendo dati estremamente precisi su ciò che invece possiamo osservare e misurare, confrontandolo poi con ciò che ci si aspetta sulla base dei modelli teorici. Negli ultimi anni i sistemi di misurazione sono migliorati enormemente e questo ha permesso di avere dati molto più precisi di un tempo.
    DESITra i migliori oggi disponibili ci sono quelli delle osservazioni effettuate da DESI con il telescopio Mayall di Kitt Peak in Arizona (Stati Uniti). Il telescopio è stato attrezzato con un sistema di acquisizione basato su 5mila sensori a fibra ottica, ciascuno dei quali tiene traccia di specifiche galassie lontanissime, talmente lontane da potere osservare come si presentavano miliardi di anni fa, perché la loro luce impiega moltissimo tempo per raggiungerci. In un certo senso DESI vede quindi nel passato e soprattutto consente di confrontare lo spostamento relativo delle galassie dalle loro vicine e da noi in base all’epoca in cui effettivamente si trovano (più sono distanti più sono epoche antiche), permettendo in questo modo di calcolare come e quanto si stia espandendo l’Universo. Catalogarle in base a determinate epoche è essenziale, altrimenti si confronterebbero gli spostamenti tra galassie di epoche diverse.

    Grazie alle osservazioni compiute da DESI tra la primavera del 2021 e quella del 2022 è stato possibile mappare con grande precisione la posizione di 6mila galassie per come apparivano tra i 2 e i 12 miliardi di anni fa, sui circa 13,8 miliardi di età stimata dell’Universo. Sono state suddivise in sette grandi epoche e i gruppi di ricerca sono poi andati a vedere se ci fosse una corrispondenza tra quanto osservato e quanto previsto da Lambda-CDM, confrontando i risultati anche con quelli ottenuti da altri esperimenti.
    I confronti hanno portato a sospettare che l’energia oscura non sia costante nel tempo, ma subisca oscillazioni e che stia diminuendo. I risultati hanno però una rilevanza statistica ancora relativamente poco affidabile, a indicazione del fatto che potrebbero esserci minuscoli errori di misurazione che portano a interpretare in modo scorretto alcuni risultati. Per questo motivo i gruppi di ricerca di DESI hanno raccolto molti altri dati ancora da analizzare, che potranno poi essere confrontati con quelli raccolti da altri esperimenti che si occupano di energia oscura, come la sonda Euclid dell’Agenzia spaziale europea.
    È quindi presto per arrivare a qualche conclusione, ma l’ipotesi che l’energia oscura si stia indebolendo è affascinante perché implicherebbe che non può essere considerata una costante cosmologica. Se diminuisse a sufficienza, l’accelerazione cosmica si interromperebbe e sotto l’effetto della gravità l’espansione si trasformerebbe in una lenta contrazione: in questo caso l’Universo tornerebbe quindi a contrarsi dopo essersi espanso, come postulato da alcune teorie sulla sua ciclicità.
    Saranno necessarie molte altre misurazioni per avere qualche conferma o smentita, ma il grande fermento intorno ai primi risultati di DESI ricordano ancora una volta come siano proprio le grandi incertezze a portare a nuovi progressi nella scienza, rimettendo se necessario in discussione tutto, quando ci sono buoni dati per farlo. LEGGI TUTTO

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    Forse stiamo sottovalutando i danni dei colpi di testa nel calcio

    Martedì il quotidiano sportivo francese L’Équipe ha intervistato il difensore del Manchester United Raphaël Varane, 30 anni, anche lui francese. Era però un’intervista diversa dal solito, perché focalizzata interamente sul tema delle commozioni cerebrali nel calcio, sui cui rischi (soprattutto a lungo termine) si è cominciato a discutere solo di recente. In questi anni sono usciti diversi studi che hanno provato ad analizzare le conseguenze dei colpi di testa sulla salute dei calciatori, sia quelli che danno abitualmente al pallone durante le partite che i colpi alla testa subiti in scontri di gioco. Ultimamente alcune federazioni, per ora poche, hanno deciso di limitare o sconsigliare la ripetizione di questo gesto a livello giovanile.L’intervista di Varane è importante perché è una delle prime volte che parla del tema un calciatore di così alto livello (Varane è uno dei giocatori più vincenti della sua generazione, campione del mondo con la Francia nel 2018 e quattro volte vincitore della Champions League con il Real Madrid). All’Équipe ha raccontato di aver subìto diverse commozioni cerebrali nella sua carriera, alcune dovute a traumi specifici alla testa (per esempio scontri con altri giocatori), altre che ipotizza essere legate alle tantissime volte in cui ha colpito il pallone con la testa, in allenamento e in partita.
    Nel calcio il colpo di testa è un gesto tecnico abbastanza comune, viene fatto sia in attacco, per cercare di fare gol quando arriva un pallone alto vicino alla porta avversaria, sia soprattutto in difesa, per allontanare i palloni alti dall’area di rigore; ma anche a centrocampo, quando spesso i calciatori vanno a contrasto tra loro, come si dice, per colpire di testa sui lanci lunghi. «Anche se non provocano traumi immediati, sappiamo che, a lungo termine, i ripetuti colpi di testa rischiano di avere effetti dannosi. Personalmente non so se vivrò fino a cent’anni, ma so di aver danneggiato il mio corpo», ha detto Varane.
    (AP Photo/Alastair Grant)
    I danni di cui parla Varane sono stati in parte documentati da alcuni studi, che però non hanno prodotto risultati definitivi, perché si sono tutti scontrati con limiti quali lo scarso numero di partecipanti, l’assenza di controlli periodici dopo i primi risultati e soprattutto la difficoltà nello stabilire in maniera netta il rapporto tra causa ed effetto. Pur con questi limiti, comunque, diverse ricerche hanno fornito indizi sul fatto che i calciatori abbiano maggiori possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative, malattie cioè del sistema nervoso centrale che portano a una perdita o al malfunzionamento di neuroni (le cellule che costituiscono il nostro sistema nervoso) e che possono comportare problemi come deficit cognitivi e demenza.
    Nel 2021 uno studio uscito su JAMA Neurology ha analizzato l’incidenza di queste patologie in un campione di 7.676 ex calciatori scozzesi, nati tra il 1900 e il 1977, confrontandola con quella di 23.028 persone comuni. I risultati hanno mostrato che i calciatori avevano, mediamente, il quadruplo delle possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative rispetto al campione di controllo, cioè alle persone comuni. Tra i calciatori, i rischi erano più bassi per gli ex portieri (che colpiscono raramente il pallone di testa), mentre erano più alti per i difensori, lo stesso ruolo di Varane, il più esposto ai colpi di testa. Sempre secondo questo studio, inoltre, chi aveva avuto una carriera più lunga aveva maggiori possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative rispetto a chi aveva giocato per meno tempo.
    Un altro studio, uscito sulla rivista scientifica The Lancet Public Health nel 2023 e basato su 6.007 calciatori con almeno una presenza nel massimo campionato svedese e 56.168 persone comuni, ha dato risultati simili: i calciatori hanno più possibilità di avere, negli anni, malattie come l’Alzheimer, un tipo di demenza progressiva che provoca problemi con la memoria, il pensiero e il comportamento.
    Nell’intervista all’Équipe, Varane ha raccontato anche di aver giocato due delle sue peggiori partite in carriera (i quarti di finale tra Francia e Germania ai Mondiali 2014, e gli ottavi di finale di Champions League tra Real Madrid e Manchester City nel 2020, quando giocava per il Real) pochi giorni dopo aver avuto un trauma cranico, e che probabilmente se tornasse indietro chiederebbe allo staff medico di non giocarle.
    I calciatori, ha detto il difensore francese, parlano ancora troppo poco dei rischi legati a colpire continuamente la palla di testa e in generale dei colpi che subiscono, anche perché una commozione cerebrale è meno evidente di altri infortuni e non sempre è facile da diagnosticare. Secondo Varane, dire di non voler giocare perché ci si sente affaticati o si ha mal di testa (due sintomi tipici della commozione cerebrale) potrebbe essere visto come una scusa in un ambiente molto competitivo come il calcio professionistico, dove si è cominciato solo da poco a discutere di commozioni cerebrali. In altri sport più traumatici, come il football americano e il rugby, è un tema dibattuto già da anni.
    Varane ai tempi del Real Madrid, con Cristiano Ronaldo (Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images)
    Varane ha detto di aver sentito parlare di questi temi per la prima volta in questa stagione, quando alcuni specialisti hanno incontrato la sua squadra, il Manchester United, per parlare di traumi cerebrali. «Ci hanno consigliato di non fare più di dieci colpi di testa ad allenamento». Limitare il numero dei tiri di testa, o vietarli del tutto, è una soluzione già adottata da alcune federazioni a livello giovanile: l’anno scorso la FA, la federazione calcistica del Regno Unito, ha avviato una sperimentazione in cui sono stati vietati i colpi di testa nelle partite under 12 (questo divieto, dal 2024-2025, potrebbe essere reso permanente).
    Prima ancora, nel 2015, la US Soccer Federation aveva vietato i colpi di testa per le bambine e i bambini sotto i 10 anni e li aveva limitati per quelli tra gli 11 e i 13, dopo una causa intentata da un gruppo di genitori. Nel settembre del 2021, sempre nel Regno Unito, per sensibilizzare sulle malattie neurodegenerative associate allo sport, fu organizzata una partita amichevole tra ex giocatori in cui non si poteva colpire la palla di testa. In Italia, invece, per il momento non esistono regole sul tema.
    Varane ha detto di essere favorevole a colpire meno la palla di testa in allenamento, mentre farlo in partita, secondo lui, rientra nei rischi del mestiere, come quelli che corre un pilota di Formula 1 in una gara. Già oggi, in ogni caso, il numero di colpi e di gol di testa all’interno di una partita è in continua diminuzione: non tanto per i rischi alla salute, ma anche per lo sviluppo tecnico e tattico che ha avuto il calcio negli ultimi anni, sempre più legato a giocare con la palla per terra e meno con i lanci lunghi e i palloni alti, che comportano più colpi di testa.
    Difficilmente si arriverà a un calcio senza colpi di testa, ma soprattutto con i più giovani si sta andando verso una sempre maggiore limitazione del gesto tecnico: «Quando ero piccolo, facevo interi allenamenti sui colpi di testa: non è normale. A mio figlio di 7 anni, che gioca a calcio, ho consigliato di non colpire mai la palla di testa», ha detto Varane.
    Una soluzione che aiuterebbe quantomeno a ridurre i rischi di commozioni cerebrali potrebbe essere quella di far indossare a tutti i calciatori dei caschetti o delle fasce protettive. Oggi protezioni simili sono abbastanza diffuse nel rugby, mentre nel calcio le usano solamente i calciatori che hanno subìto traumi specifici e particolarmente gravi.
    Il difensore rumeno Cristian Chivu con la maglia dell’Inter nella stagione 2010-2011 (Claudio Villa/Getty Images)
    Sono molto rari, e infatti gli appassionati se li ricordano. C’erano per esempio il portiere ceco ex delle squadre inglesi Chelsea e Arsenal Petr Čech, che cominciò a indossare il caschetto dopo essersi fratturato il cranio a causa di una ginocchiata di un attaccante avversario, o il difensore rumeno Cristian Chivu, che ha giocato in Italia nella Roma e nell’Inter e nel 2010 subì un infortunio simile a quello di Čech in uno scontro aereo con un avversario. LEGGI TUTTO

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    Dopo due anni, quest’inverno non c’è stata carenza di neve in Italia

    Grazie alle nevicate di febbraio e marzo la quantità d’acqua che si è accumulata sulle montagne italiane sotto forma di neve nell’inverno appena concluso è superiore alla mediana degli ultimi 12 anni. Significa che dopo due inverni in cui c’era stata una grossa carenza di neve sulle montagne, che aveva molto contribuito alla grave siccità del Nord Italia durata dall’inizio del 2022 all’estate del 2023, attualmente ce n’è un surplus, che sarà un’importante fonte d’acqua per i mesi estivi. Tuttavia se il bilancio è positivo per le Alpi, non lo è per gli Appennini, dove c’è ancora una situazione di scarsità d’acqua.A dirlo è l’ultima analisi della Fondazione CIMA, Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, un ente di ricerca nelle scienze ambientali che è stato fondato e collabora con il dipartimento di Protezione civile. Da quattro anni la Fondazione CIMA raccoglie dei dati sul territorio e dai satelliti per stimare un parametro chiamato snow water equivalent (in italiano “equivalente idrico nivale”) e indicato con la sigla “SWE”, che indica la quantità d’acqua contenuta nella neve.
    Il parametro SWE può essere calcolato a livello nazionale, ma anche per singoli bacini fluviali, perché le montagne del paese possono essere suddivise in base al fiume principale che riforniscono d’acqua quando tra la primavera e l’estate la neve si scioglie.

    L’attuale abbondanza di neve avrà un effetto positivo soprattutto per i fiumi del Nord Italia e in particolare il Po, il più lungo fiume italiano. La Fondazione CIMA ha stimato che secondo i dati aggiornati al primo aprile il bacino idrografico del Po può contare su una quantità d’acqua dovuta alla neve che è superiore del 29 per cento rispetto alla mediana (il valore centrale, non la media) del periodo 2011-2022. Per quanto riguarda l’Adige, un altro importante fiume del Nord Italia e il secondo più lungo del paese, il valore dello SWE è inferiore alla mediana (del 4 per cento) ma è comunque doppio rispetto a quello di inizio aprile dello scorso anno.
    La situazione è molto diversa per il Centro e il Sud Italia. Sugli Appennini si sono registrate temperature parecchio alte quest’inverno (a marzo anche superiori di 2,5 °C rispetto ai valori mediani dello scorso decennio) e per questo anche la neve che c’era si è fusa. Per quanto riguarda il bacino del Tevere, il terzo fiume italiano per lunghezza, che scorre in Toscana, Umbria e Lazio, la Fondazione CIMA ha stimato un deficit dell’80 per cento rispetto alla mediana di riferimento al primo aprile.
    Anche al Nord comunque ci sono dei rischi per le risorse d’acqua dei prossimi mesi, molto importanti sia per la produzione agricola che per le centrali elettriche. «Se e quanto l’acqua ora finalmente presente nel bacino del Po sotto forma di neve potrà sostenere i mesi primaverili ed estivi, però, dipende dalle temperature», ha spiegato Francesco Avanzi, idrologo di Fondazione CIMA: «Le temperature elevate possono ancora causare, anche sulle Alpi, fusioni precoci: perché sia davvero utile nei periodi in cui l’acqua ci è più necessaria, la neve deve restare tale ancora per alcune settimane».
    In ogni caso per questa stagione le nevicate dovrebbero essere finite. Generalmente in Italia il picco della quantità di neve sulle montagne si registra a marzo e da aprile inizia il periodo di fusione. LEGGI TUTTO

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    Dobbiamo decidere che ora è sulla Luna

    Una delle cose che bisogna fare per procedere con il programma spaziale Artemis, pensato per riportare gli esseri umani sulla Luna, è stabilire che ora è sul nostro satellite naturale. È una questione più complicata di quanto possa sembrare e la NASA, l’Agenzia spaziale europea (ESA) e altre agenzie spaziali internazionali ci stanno lavorando da tempo. Sui giornali se ne riparla in questi giorni perché il 2 aprile il governo statunitense ha diffuso una circolare che riassume le ragioni per cui serve decidere un orario lunare standard entro la fine del 2026, indirizzata alla NASA stessa e a tutte le altre agenzie federali coinvolte.Sulla Luna la forza di gravità è inferiore a quella della Terra perché la Luna ha una massa inferiore a quella del nostro pianeta. La Teoria generale della relatività, formulata da Albert Einstein nel 1915, mette in relazione gravità, spazio e tempo, e comporta che il tempo misurato da due orologi scorre diversamente se sperimentano una attrazione gravitazionale diversa come quella della Terra e della Luna. Per un osservatore sul nostro pianeta, un orologio lunare va più veloce per via della differenza di gravità.
    Più specificamente un orologio sulla Luna inizialmente sincronizzato con uno sulla Terra sarebbe avanti di circa 56 microsecondi (cioè di 56 milionesimi di secondo) dopo 24 ore, di 112 dopo 48 ore e così via. Per la vita quotidiana sulla Terra durate nell’ordine dei microsecondi sono piuttosto trascurabili, ma si tratta di differenze che possono dare problemi quando bisogna programmare lanci di astronavi, allunaggi e orbite satellitari tra agenzie spaziali di 36 paesi diversi e aziende private. Sono tutte attività che necessitano estrema precisione.
    Per le missioni Apollo, che portarono esseri umani sulla Luna tra il 1969 e il 1972, la NASA utilizzò come indicazione temporale il fuso orario centrale degli Stati Uniti, perché l’agenzia spaziale aveva il proprio centro di controllo a Houston, in Texas. Ma si servì contemporaneamente anche del tempo trascorso dal lancio (mission elapsed time, abbreviato con MET) per evitare fraintendimenti con gli astronauti.
    Il programma Artemis però ha ambizioni maggiori rispetto alle missioni Apollo, tra cui la realizzazione di Gateway, una piccola base orbitale che sarà assemblata intorno alla Luna, e quella di un’eventuale base sul suolo lunare, e, sul lungo periodo, le basi per future missioni verso Marte. La misura del tempo serve per trasmettere informazioni sulle localizzazioni di oggetti in movimento, che nel caso di Artemis coinvolgeranno altre agenzie spaziali e aziende oltre alla NASA, e per tutte queste ragioni è necessario fissare un orario lunare standard di cui si tenga conto nelle comunicazioni tra Terra, satelliti, basi lunari e astronauti.
    Per stabilire questo orario, il “tempo coordinato lunare” (LTC), ci sono vari aspetti da tenere in considerazione, menzionati anche nella circolare del governo statunitense.
    Uno è che l’orario lunare dovrà essere riconducibile al tempo coordinato universale (UTC), il fuso orario usato come riferimento globale per la Terra, quello che fa da punto di partenza per calcolare tutti gli altri – ad esempio attualmente in Italia siamo nel fuso orario formalmente indicato come UTC+2, due ore avanti rispetto allo UTC. A certificare l’ora esatta nello UTC è l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU), una delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, grazie a una rete di orologi atomici, dispositivi estremamente precisi che sfruttano i livelli di energia (orbitali) degli elettroni all’interno degli atomi per calcolare il tempo con un margine di errore molto basso.
    Per decidere il tempo coordinato lunare la NASA, l’ESA e le altre agenzie spaziali coinvolte nel programma Artemis stanno considerando l’ipotesi di installare degli orologi atomici in punti diversi della Luna. Ne servirebbero almeno tre per ottenere una misura del tempo precisa che tenga conto di tutti gli effetti relativistici, dovuti principalmente alla gravitazione.
    Attualmente l’ora esatta dello UTC viene periodicamente trasmessa dalla Terra ai satelliti e alle sonde nello Spazio, in modo che siano sincronizzati con il fuso orario di riferimento. Avere degli strumenti che misurino il tempo in maniera affidabile e in autonomia direttamente sulla Luna ridurrebbe sensibilmente la necessità di sincronizzare di continuo l’orario dalla Terra, un’attività che richiede antenne terrestri potenti e un costante lavoro di aggiornamento, dunque un grande dispendio di energia per la trasmissione dei dati.
    Secondo i piani della NASA più aggiornati il primo allunaggio umano di Artemis avverrà nel settembre del 2026, mentre nel settembre del 2025 partirà una missione che porterà in orbita attorno alla Luna e poi di nuovo sulla Terra senza mettere piede sul satellite quattro astronauti. Anche la Cina progetta di portare delle persone sulla Luna: entro il 2030. L’India vorrebbe farlo entro il 2040.
    Come dice la recente circolare del governo statunitense, per definire il tempo coordinato lunare serviranno degli accordi internazionali tra i paesi coinvolti all’interno di Artemis (la Cina, così come la Russia, non lo è), e gli enti che già oggi si occupano degli standard di misura.

    – Approfondisci: Che ora è sulla Luna? LEGGI TUTTO

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    Il caso di influenza aviaria in un umano contagiato da un bovino

    A inizio settimana negli Stati Uniti è stato segnalato il primo caso di influenza aviaria in un essere umano trasmessa da un bovino, che probabilmente era stato in precedenza contagiato da pollame infetto o da un uccello. Il contagio è avvenuto in Texas e la persona interessata non ha sviluppato particolari sintomi fatta eccezione per un lieve arrossamento degli occhi (congiuntivite), ma la notizia ha comunque portato ad alcuni titoli e articoli allarmati sulla vicenda che si inserisce nell’ampio filone delle notizie intorno all’epidemia da influenza aviaria in corso in molti paesi da quasi cinque anni.Il probabile doppio salto di specie conferma la capacità dei virus aviari di evolvere molto rapidamente, ma per ora non indica che ci siano maggiori rischi rispetto a quelli già indicati dalle autorità sanitarie negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e in altre aree del mondo. I rischi per la popolazione generale legati all’influenza aviaria sono ancora molto bassi, per quanto ci sia grande attenzione sulla diffusione della malattia soprattutto negli allevamenti, dove un focolaio può causare gravi danni economici e qualche rischio di contagio in più tra chi ci lavora.
    Con “influenza aviaria” viene indicata una malattia che interessa principalmente gli uccelli e che viene causata da un’ampia varietà di virus, per quanto imparentati tra loro. Quello che suscita maggiore interesse da qualche anno è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta. Più in generale, i virus aviari sono comuni e interessano da moltissimo tempo gli uccelli selvatici. Le versioni meno aggressive vengono definite LPAI (dall’inglese “low-pathogenic avian influenza”, cioè “influenza aviaria a bassa patogenicità”) e non sono solitamente rischiose per gli animali.
    In alcuni casi, però, un virus LPAI riesce a passare dagli uccelli selvatici agli allevamenti di pollame, finendo in un contesto in cui ci sono migliaia di animali che vivono a stretto contatto e dove sono molto più probabili i contagi. In poco tempo il virus si replica producendo nuove generazioni che contengono mutazioni, dovute per lo più a errori del tutto casuali nella trasmissione del suo materiale genetico, tali da renderlo più letale per gli animali. Questo passaggio fa sì che il virus diventi più contagioso e rischioso e per questo viene definito HPAI, per indicare una forma ad alta patogenicità.
    Gli HPAI possono causare in poco tempo grandi focolai negli allevamenti di pollame, rendendo necessario l’abbattimento di migliaia (in alcuni casi di milioni) di polli per evitare che il contagio prosegua e che generazione dopo generazione i virus coinvolti acquisiscano nuove capacità diventando per esempio ancora più contagiosi. L’attuale forma di aviaria è particolare e osservata con attenzione perché, oltre a causare molti contagi tra gli uccelli e il pollame, mostra una spiccata capacità di trasmettersi anche a specie molto diverse come alcuni mammiferi.
    In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.
    In questi due anni sono stati segnalati passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno del 2022 era inoltre emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.
    Il 2022 era stato un anno particolarmente complesso soprattutto per gli allevamenti di pollame negli Stati Uniti, dove vengono allevate insieme grandi quantità di polli a stretto contatto e di conseguenza con un alto rischio di contagi. Si era reso necessario l’abbattimento di decine di milioni di tacchini e galline da uova, con conseguenze sulla disponibilità e i prezzi di queste ultime in molte aree degli Stati Uniti. La situazione era migliorata nel corso del 2023 negli allevamenti, ma i virus aviari avevano continuato comunque a diffondersi non solo tra gli uccelli, ma anche tra i mammiferi.
    (Jamie McDonald/Getty Images)
    Nell’ultimo anno sono stati confermati casi di aviaria nel bestiame e in particolare negli allevamenti di bovini in Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho e Texas. È probabile che i bovini abbiano contratto il virus da specie selvatiche di uccelli o dal pollame allevato nelle loro vicinanze, ma al momento non ci sono molti elementi concreti per avere qualche certezza in più. Le autorità di controllo negli Stati Uniti non escludono inoltre che i contagi nel bestiame siano molto più diffusi di quanto emerso finora, ma che i casi passino inosservati perché raramente gli animali si ammalano.
    È in questo contesto che è avvenuto il contagio in Texas da bovino a essere umano. Stando alle informazioni fornite dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) degli Stati Uniti, la persona sarebbe stata contagiata mentre lavorava in un allevamento per la produzione del latte e di prodotti caseari (il latte pastorizzato può essere consumato senza correre rischi). Era risultato positivo all’aviaria dopo alcuni controlli dovuti alla congiuntivite che aveva sviluppato, unico sintomo evidente della malattia. Oltre a essere stato messo sotto controllo, il paziente ha iniziato una terapia con farmaci antivirali per ridurre la capacità del virus di continuare a replicarsi nell’organismo, in modo da favorire la guarigione.
    È il primo caso di un passaggio da bovino a essere umano a essere segnalato negli Stati Uniti, ma in precedenza c’era già stato un caso di contagio che aveva invece riguardato un passaggio dal pollame a un operatore che lavorava in un allevamento. Anche in quella circostanza la persona interessata non aveva sviluppato particolari sintomi e si era ripresa dopo qualche giorno.
    Nel corso dell’attuale epidemia alcune decine di persone, in particolare in Asia, sono risultate positive ai virus aviari più diffusi dopo essere state a stretto contatto con animali che avevano l’infezione. Nella maggior parte dei casi non sono stati segnalati sintomi preoccupanti, ma ci possono essere casi in cui si sviluppano complicazioni che in rari casi portano alla morte.
    Un’infezione virale da un certo tipo di H5N1 in una persona non implica comunque che questa sia contagiosa, anzi: è altamente improbabile che in un singolo passaggio il virus acquisisca la capacità di diventare contagioso tra esseri umani. È inoltre probabile che i casi pollame-umani si siano verificati in seguito all’esposizione ad alte quantità del virus nell’ambiente in cui lavoravano. Alcuni virus hanno comunque mostrato una certa capacità nell’effettuare sporadicamente salti di specie e non è un particolare da trascurare.
    I virus influenzali mutano velocemente e spesso in modi poco prevedibili, per esempio se nell’organismo che infettano incontrano altre tipologie di virus dai quali possono prendere in prestito parti di materiale genetico. Un virus che passa da un uccello a un mammifero, come un bovino, potrebbe in questo modo sviluppare la capacità di replicarsi più facilmente nel nuovo ospite e di diventare anche più contagioso. Mutazioni del tutto casuali potrebbero poi far sì che qualcosa di analogo avvenga nel caso di contagio in un essere umano, portando infine a un virus che riesce a circolare con maggiore facilità nella nostra specie.
    Il rischio che ciò avvenga è attualmente considerato basso, ma ci sono studi e ricerche in corso sulle caratteristiche degli HPAI e sui fattori che potrebbero renderli più pericolosi. Il contenimento delle infezioni, per esempio con l’abbattimento del pollame infetto, serve proprio a evitare che ci siano ulteriori contagi che potrebbero fare aumentare la probabilità di nuove mutazioni e salti di specie. Più si riducono i casi di passaggio da specie aviarie a mammiferi, minori sono i rischi anche per gli esseri umani.
    Nel suo ultimo rapporto sull’influenza aviaria, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che tra dicembre 2023 e marzo 2024 i casi di HPAI rilevati negli uccelli sono stati inferiori rispetto ai periodi precedenti. In Europa non sono stati inoltre segnalati finora casi di passaggio dei virus coinvolti negli esseri umani, anche grazie alle pratiche di contenimento effettuate negli allevamenti. Le principali cause di contagio del pollame derivano comunque dal passaggio di uccelli selvatici contagiosi, che entrando in contatto con gli animali negli allevamenti causano poi la diffusione dei virus. Per l’ECDC anche in Europa «il rischio di infezione rimane basso per la popolazione in generale». LEGGI TUTTO