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    La NASA ha perso contatto con la sonda Voyager 2 dopo aver inviato un comando errato

    La NASA ha comunicato di aver perso contatto con la sonda Voyager 2, attualmente lontana 19,9 miliardi di chilometri dalla Terra, nello Spazio interstellare. Il contatto è stato perso in seguito a un comando errato spedito dall’agenzia spaziale alla sonda, che ha provocato un malfunzionamento dell’antenna. Dal 21 luglio la sonda non è quindi in grado di ricevere comandi o di spedire dati alla NASA, ma sono in corso tentativi per inviarle il comando corretto. Voyager 2 è comunque programmata per resettare i suoi sistemi e recuperare il giusto orientamento verso la Terra più volte durante l’anno: la prossima è fissata il 15 ottobre, quando secondo la NASA dovrebbe tornare a stabilire un contatto e a comunicare. Mercoledì comunque la NASA ha fatto sapere di aver captato un segnale della presenza della sonda, che è ancora funzionante.Earth to Voyager… 📡 The Deep Space Network has picked up a carrier signal from @NASAVoyager 2 during its regular scan of the sky. A bit like hearing the spacecraft’s “heartbeat,” it confirms the spacecraft is still broadcasting, which engineers expected. https://t.co/tPcCyjMjJY— NASA JPL (@NASAJPL) August 1, 2023La sonda Voyager 2 è in viaggio dal 1977 e si trova all’esterno dell’eliosfera, la grande bolla magnetica prodotta dal Sole che contiene buona parte del Sistema solare: come Voyager 1 era stata progettata per esplorare Giove e Saturno, con missioni della durata massima di 5 anni. Entrambe sono invece nello Spazio da 41 anni e ci hanno permesso di scoprire molte cose sulle aree più remote del nostro sistema solare. (AP-Photo/HO) LEGGI TUTTO

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    Cosa succede al nostro corpo quando ci innamoriamo

    Nella canzone “Via con me” c’è un invito alla persona amata a non perdersi «per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di te». Quando Paolo Conte la scrisse all’inizio degli anni Ottanta pensava soprattutto alle grandi e talvolta assurde cose che si fanno per amore, ma a ben vedere durante l’innamoramento uno “spettacolo d’arte varia” si verifica anche all’interno del nostro organismo, ed è proprio questo a determinare in buona parte il modo in cui poi ci comportiamo e ciò che proviamo all’inizio di una relazione. Innamorarsi ha un profondo effetto sul nostro corpo, innesca una grande quantità di reazioni chimiche che ancora non conosciamo completamente e che potrebbero aiutarci a capire meglio alcuni meccanismi nella nostra mente oltre che nel nostro cuore.All’amore si possono dare infinite definizioni: filosofiche, psicologiche, letterarie e musicali, per la fortuna di chi scrive e compone canzoni come Paolo Conte. È invece più difficile dare una descrizione scientifica che colga tutte le sue sfumature e le sue dinamiche. Da un punto di vista puramente evolutivo, l’amore deriva probabilmente dalla necessità nella nostra specie di trovare una persona con cui stringere un forte legame, importante per la riproduzione e per la cura dei figli nei loro primi anni di vita. Non riguarda solamente gli esseri umani: in generale, nel regno animale più la prole ha necessità di essere seguita a lungo nei primi periodi di vita, più i genitori tendono ad avere relazioni durature per condividere la responsabilità (ovviamente ci sono tantissime specie e di conseguenza innumerevoli eccezioni).Ridurre l’amore alla sola riproduzione sarebbe però riduttivo, soprattutto per la nostra specie che grazie a una spiccata coscienza di sé e capacità di astrazione ha fatto proprio e ha elaborato il concetto di relazione amorosa (molto elaborato). Mentre in psicologia l’amore è considerato un fenomeno sociale e culturale, con sfumature e varianti, in biologia l’amore è visto come un impulso tipicamente animale e paragonabile a quello della fame o della sete. Per questo secondo modello, le sensazioni amorose sono influenzate dagli ormoni che contribuiscono a generare due pulsioni principali: quella sessuale e quella dell’attaccamento, cioè la creazione di un legame specifico tra due persone.Tutto ha inizio quando si conosce una persona e la si inizia a vedere in un modo diverso, a trovare qualcosa di speciale e unico che suscita curiosità e interesse. Questa prima fase dell’innamoramento è di solito alquanto caotica ed eccitante per l’organismo, perché è guidata per lo più dagli ormoni sessuali, gli estrogeni e il testosterone, che fanno prevalere il desiderio e l’attrazione fisica. Viene di solito identificata come la fase del desiderio, che precede le altre due successive: attrazione e attaccamento.Desiderio e attrazioneLa fase del desiderio viene ricondotta alla nostra necessità di riprodurci e alla prosecuzione della specie. È l’ipotalamo, una struttura alla base del nostro cervello, a stimolare la produzione degli ormoni sessuali. Questi influiscono a loro volta sul funzionamento del cervello e in particolare della corteccia prefrontale, che comprende il controllo dei comportamenti razionali.L’attrazione, la seconda fase, è strettamente legata a quella del desiderio, anche se in un certo senso indipendente: si può desiderare fisicamente una persona senza provare una particolare attrazione e viceversa. L’attrazione ha a che fare con i meccanismi del cervello che controllano i sistemi di ricompensa. È grazie a loro se i primi mesi di una nuova relazione vengono di solito vissuti con grande entusiasmo, voglia di fare e di essere il più possibile in contatto con la persona di cui si è innamorati.La dopamina è tra le sostanze più coinvolte nei processi di ricompensa. Questo neurotrasmettitore è prodotto in varie aree del cervello, che sono stimolate a rilasciarlo quando facciamo qualcosa che dà una certa sensazione di benessere come mangiare un alimento buono, dissetarsi, ascoltare particolari suoni o avere rapporti sessuali. Quest’ultimo è sicuramente uno dei principali stimoli per la produzione di dopamina all’inizio di una relazione, insieme alla possibilità di trascorrere del tempo insieme con l’altra persona.Un altro neurotrasmettitore importante nella fase dell’attrazione è la noradrenalina, che ha una funzione eccitante ed è responsabile di quel senso di euforia e di voglia di fare che si hanno durante l’innamoramento. La noradrenalina, insieme ad altre sostanze, è anche responsabile della mancanza di sonno e di fame, altra condizione che interessa quelle persone che dicono di essere talmente innamorate da non riuscire a dormire e a mangiare.È stato inoltre rilevato che in questa fase si hanno livelli più bassi di serotonina, un neuromodulatore e neurotrasmettitore coinvolto in numerosi processi che regolano l’umore, le capacità cognitive e la memoria. Non è chiaro come influisca sull’attrazione, ma una carenza di serotonina è stata riscontrata nelle persone che soffrono di disturbi ossessivo-compulsivi.AttaccamentoLe fasi del desiderio e dell’attrazione si incrociano più volte durante l’innamoramento, spesso concorrendo l’una all’altra, anche se come abbiamo visto sono generalmente guidate da sostanze diverse. Col passare del tempo, e se non ci sono stati imprevisti, si aggiunge l’attaccamento, che ha più a che vedere con la costruzione di relazioni durature e profonde. In questa fase gli ormoni più coinvolti secondo le ricerche sono l’ossitocina e la vasopressina.La produzione dell’ossitocina è stimolata da alcune attività come il sesso, il parto e l’allattamento. Sono evidentemente cose alquanto diverse tra loro, ma hanno in comune il fatto di essere esperienze che portano a un certo attaccamento. È stato osservato che i livelli di ossitocina tendono ad aumentare quando le persone hanno contatti fisici affettuosi, ma anche quando osservano immagini altamente evocative come una fotografia dei propri figli o del proprio partner.La vasopressina ha una struttura chimica molto simile a quella dell’ossitocina e si ritiene che abbia un ruolo nella formazione dei ricordi, sia a lungo sia a breve termine. Le conoscenze su questa sostanza sono ancora limitate e dibattute, ma nei test su animali è stato rilevato come la sua produzione, che viene facilitata durante l’attività sessuale, avvenga in concomitanza con il mantenimento di comportamenti che favoriscono la stabilità di coppia, con diversi esiti nelle specie monogame e in quelle promiscue.Da un punto di vista biologico, l’attività sessuale continua ad avere una certa importanza nel mantenere una relazione anche in questa fase, perché ha la capacità di fare da rinforzo all’attaccamento stimolando la produzione di ossitocina e vasopressina. Durante l’innamoramento, desiderio e attrazione favoriscono il successivo processo di attaccamento, ma non sempre la relazione prosegue stabilizzandosi e superando il periodo di transizione che porta a una relativa riduzione della parte più appassionata.Di solito gli alti livelli di intimità raggiunti, l’impegno reciproco e i ricordi delle esperienze avute insieme aiutano a sostenere la relazione nel lungo periodo, e anche in questo caso gli ormoni sembrano avere un ruolo importante nel rinnovare l’interesse per l’altro a beneficio della coppia. In questo l’ossitocina ha un ruolo importante, perché del resto è coinvolta in tutte le altre “forme” di amore, come quelle che riguardano gli affetti familiari, le amicizie e persino i rapporti con gli animali domestici. L’ormone sembra avere un ruolo nelle relazioni sociali e contribuire alla salute e alla longevità, almeno secondo alcune ricerche.Uno studio pubblicato nel 2019 ha segnalato come l’ossitocina sia associata a una migliore qualità della vita e a connessioni sociali più salutari tra le persone con o senza depressione, per esempio. Studi di questo tipo sono comunque difficili da organizzare per la grande quantità di variabili coinvolte, senza contare che ciascuno di noi è fatto diversamente e reagisce in modo diverso alle sostanze.Innamorarsi o provare amore per una persona è qualcosa di estremamente complicato, un misto di chimica ed esperienze difficile da dipanare. In un certo senso può essere considerato anche un vantaggio evolutivo: se ci fosse il modo di “spegnere” le fasi dell’innamoramento con grande efficacia, forse oggi non saremmo qui a ragionare e studiare l’amore e i suoi effetti sul nostro organismo. Come ha scritto il neurologo Parashkev Nachev:L’amore – come tutti i nostri pensieri, le emozioni e i comportamenti – si basa su processi fisici nel cervello, su una loro interazione molto complessa. Ma dire che l’amore è “solo” chimica del cervello sarebbe come dire che le opere di Shakespeare sono “solo” parole, o che la musica di Wagner è “solo” un insieme di note o che una scultura di Michelangelo è “solo” marmo: manca semplicemente il punto. Come l’arte, l’amore è molto di più della somma delle sue parti.Nonostante le crescenti conoscenze sugli ormoni, sui meccanismi che instaurano e sul modo in cui attivano parti del nostro sistema nervoso, moltissimi aspetti dell’amore continuano a sfuggire alla scienza a conferma di quante poche cose sappiamo ancora sul funzionamento del cervello umano. Intuiamo alcune caratteristiche dell’innamoramento osservando gli effetti che si producono sul nostro organismo, ma non riusciamo ancora a comprenderne in modo preciso le cause di uno spettacolo d’arte varia che ci accompagna da sempre. LEGGI TUTTO

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    Il luglio del 2023 sarà il mese più caldo mai registrato sulla Terra

    Mancano ancora quattro giorni alla fine di luglio, ma si può già dire che questo sarà il mese più caldo mai registrato dal 1979, anno in cui le tecnologie satellitari resero possibili misurazioni accurate della temperatura superficiale di tutto il pianeta (non sarà solo il luglio più caldo di sempre, ma proprio il mese). È stato stimato dal Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, e confermato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO).«Per grandi parti del Nord America, dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa questa è un’estate atroce, ma per il pianeta intero è un disastro», ha commentato il segretario generale dell’ONU António Guterres, «e per gli scienziati non ci sono dubbi: la colpa è degli esseri umani».Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati: le misure dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare, e le stime dei satelliti. Questi rilevano la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e oceanica e ne calcolano la temperatura.Le tre settimane più calde mai registrate sono state proprio le prime tre di luglio: durante la prima e la terza la temperatura globale ha superato la soglia di 1,5 °C in più rispetto alle temperature medie preindustriali, cioè rispetto all’epoca in cui le emissioni di gas serra dovute alle attività umane non avevano ancora cominciato a influenzare il clima terrestre (tra il 1850 e il 1900). La soglia di 1,5 °C è quella che fu stabilita con gli accordi di Parigi del 2015. Il fatto che sia stata superata per tre settimane non significa comunque che l’obiettivo di Parigi si possa definire fallito, per quanto sia ormai improbabile che sarà rispettato: la WMO ha chiarito che l’obiettivo si potrà considerare sfumato solo se la temperatura media globale annuale sarà superiore di 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale per almeno vent’anni.Ultimamente si stanno registrando nuovi record di temperatura non solo nell’aria vicina al suolo, ma anche negli oceani e nei mari. Il 24 luglio una boa nella Baia dei Lamantini, circa 65 chilometri a sud di Miami, in Florida, ha registrato 38,4 °C: potrebbe essere la più alta temperatura marina mai rilevata, se la misura sarà confermata. E sempre il 24 luglio la temperatura superficiale media del mar Mediterraneo ha raggiunto 28,4 °C: anche in questo caso si tratta di un record, perché finora la media più alta del bacino erano stati i 28,25 °C dell’agosto del 2003.Secondo i dati di Copernicus, per quanto riguarda la temperatura media globale il precedente luglio più caldo mai registrato, nonché mese più caldo mai registrato, era stato quello del 2019. LEGGI TUTTO

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    Anche nei mari si raggiungono nuovi record di temperatura

    Ultimamente si stanno registrando nuovi record di temperatura non solo nell’aria vicina al suolo, ma anche negli oceani e nei mari. Il 24 luglio una boa nella Baia dei Lamantini, circa 65 chilometri a sud di Miami, in Florida, ha registrato 38,4 °C, che potrebbe essere la più alta temperatura marina mai rilevata, se la misura sarà confermata. Il record precedente risaliva all’estate del 2020, quando nel Golfo Persico, vicino al Kuwait, erano stati registrati 37,6 °C. E sempre il 24 luglio la temperatura superficiale media del mar Mediterraneo ha raggiunto 28,4 °C: anche in questo caso si tratta di un record, finora la media più alta erano i 28,25 °C dell’agosto del 2003.L’innalzamento delle temperature marine è una parte del riscaldamento globale causato dalle attività umane che si percepisce poco nella vita quotidiana, ma preoccupa da tempo la comunità scientifica che si occupa di clima e quest’anno ha attirato l’attenzione in modo particolare. Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile infatti la media globale della temperatura marina superficiale aveva raggiunto il valore più alto mai registrato (21,05 °C) secondo i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia. In particolare si erano registrati valori di temperatura molto alti rispetto alla media nel nord dell’oceano Atlantico. Poi a maggio e a giugno i valori delle temperature medie delle superfici marine sono stati i più alti mai registrati per quei mesi, superando anche di 0,5 °C i record precedenti.Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, a causa delle temperature particolarmente alte raggiunte nel nord dell’Atlantico ci troviamo in un «territorio sconosciuto» per quanto riguarda il contesto meteorologico.Secondo le prime valutazioni dei climatologi questi record sono stati dovuti al più generale riscaldamento globale in combinazione con altri fattori che ancora non sono stati definiti con precisione. A giugno Albert Klein Tank, direttore dello Hadley Centre del Met Office, l’ufficio meteorologico nazionale del Regno Unito, aveva ipotizzato che c’entrasse l’indebolimento di alcuni venti che normalmente portano sabbia del deserto del Sahara al di sopra dell’Atlantico settentrionale e ne abbassano le temperature, perché la sabbia riflette la luce solare.Negli ultimi sette anni, ogni anno, le temperature medie degli oceani sono aumentate rispetto al precedente e nel 2022 hanno raggiunto i valori massimi dagli anni Cinquanta, quando si cominciarono a registrare con sistematicità. Il riscaldamento dei mari è un problema per varie ragioni: causa morie di animali e piante marine, contribuisce all’innalzamento del livello del mare (perché maggiore è la temperatura dell’acqua minore è la sua densità, e quindi maggiore il volume che occupa) e favorisce i fenomeni meteorologici estremi come gli uragani negli oceani e i grossi temporali nel bacino del Mediterraneo. Infatti tanto più sono caldi gli strati superficiali dell’acqua, maggiore è l’evaporazione dell’acqua e dunque l’umidità nell’aria che può intensificare le precipitazioni.#ImageOfTheDayThe marine heatwave sweeping across the Mediterranean Sea is hitting record highs, particularly in the central basinAccording to @CMEMS_EU, sea temperature anomalies have spiked to +5.5°C along the coasts of Italy, Greece and North Africa ♨️ pic.twitter.com/NcHpboKP60— 🇪🇺 DG DEFIS #StrongerTogether (@defis_eu) July 27, 2023Finora le temperature marine sono aumentate meno rispetto a quelle atmosferiche: in media di circa 0,9 °C rispetto ai livelli pre-industriali, mentre quella media dell’aria vicina al suolo è aumentata di 1,5 °C rispetto allo stesso periodo, cioè rispetto a prima che i paesi più ricchi cominciassero a diffondere grandi quantità di gas serra nell’atmosfera. Si stima che circa il 90 per cento del calore ceduto all’atmosfera dalle attività umane sia stato assorbito dagli oceani, che però hanno potuto assorbirne molto senza grosse ripercussioni per decenni.L’anomalia di temperatura, cioè la differenza rispetto alla temperatura media della superficie marina nel periodo 1971-2000, per la giornata del 24 luglio 2023 secondo i dati preliminari della NOAA; nell’Atlantico settentrionale e nel Mediterraneo si sono registrate temperature medie di 5 o anche 6 °C superiori alla media storica– Leggi anche: In Italia le grandinate sono aumentate LEGGI TUTTO

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    Che cosa sono i “downburst”

    In seguito ai forti temporali che negli ultimi giorni hanno interessato varie zone del Nord Italia si è parlato molto dei “downburst”, fenomeni meteorologici che portano in pochi minuti venti molto forti accompagnati da una grande quantità di pioggia. Come spesso avviene in questi casi, con grandi attenzioni da parte della popolazione e dei giornali, il termine è diventato ricorrente ed è stato impiegato anche in contesti molto diversi tra loro, generando una certa confusione su cosa sia effettivamente un downburst e da che cosa sia causato.In generale, il processo di formazione di un temporale inizia con la presenza di correnti ascensionali, cioè di masse di aria calda che si spostano dal basso verso l’alto. Questo spostamento è dovuto al calore che il suolo scaldato dal Sole cede all’ambiente circostante e all’evaporazione dell’acqua che si trova nel terreno, nelle piante e nelle masse d’acqua. L’aria calda è meno densa di quella fredda, di conseguenza sale verso gli strati più alti dell’atmosfera portando con sé il vapore acqueo.La fase di accumulo può durare a lungo e porta le nuvole a svilupparsi verticalmente, con la loro sommità che può arrivare fino a 12mila metri di altitudine. Con queste dimensioni la nuvola diventa un sistema via via più complesso, poiché tra il suo punto più alto e quello più basso ci sono svariati chilometri, con condizioni di pressione e di temperatura anche molto diverse.Le tre principali fasi di evoluzione delle perturbazioni temporalesche (Wikimedia)Mentre in basso le correnti ascensionali più calde che arrivano dal suolo continuano ad alimentare la nuvola con altra aria umida e instabile, nella parte più alta le minuscole gocce d’acqua iniziano a unirsi tra loro e a diventare sempre più grandi e in parte a congelare, formando blocchi di ghiaccio che potranno dare origine alla grandine. Se le correnti ascensionali non sono particolarmente intense, l’aria più fredda e densa nella nuvola inizia a cadere verso il basso insieme alle gocce d’acqua e al suolo piove, con intensità relativamente moderata: un comune acquazzone per intenderci. Se invece le correnti di aria calda dal basso sono molto intense, le cose cambiano.Dopo un prolungato periodo di alte temperature – come per esempio durante un’ondata di caldo simile a quella che abbiamo avuto nei giorni scorsi – il suolo dissipa calore per più tempo e questo produce correnti ascensionali più forti e persistenti. Queste riescono a risalire fino agli strati più alti della nuvola e a fare in modo che al suo interno restino sospese le gocce di acqua e i blocchi di ghiaccio, che quando raggiungono gli strati più bassi della nuvola vengono nuovamente spinti verso l’alto. Il processo porta a un grande accumulo di energia, che verrà dissipata dalla nuvola nel momento in cui le correnti ascensionali non saranno più così intense. È come se pioggia e ghiaccio fossero tenute sospese e libere di crescere da un enorme ventilatore messo a terra e puntato verso l’alto, che a un certo punto si spegne lasciando che cadano.(US National Weather Service)L’improvvisa mancanza delle correnti ascensionali fa sì che che le gocce di pioggia e i blocchi di ghiaccio inizino a precipitare velocemente, raggiungendo infine il suolo. Con la loro caduta una grande quantità di aria viene trascinata verso il basso: man mano che questa si raffredda diventa più densa e fluisce verso il suolo velocemente. Il fenomeno è ulteriormente acuito nel caso in cui lo strato d’aria tra la parte inferiore della nuvola e il suolo sia meno umido (relativamente): l’evaporazione dell’acqua in caduta aumenta e si abbassa ulteriormente la temperatura, rendendo l’aria ancora più densa.Il downburst è ormai in corso e sta per avere i propri effetti. La grande colonna d’aria in caduta raggiunge il suolo verticalmente e si diffonde rapidamente in ogni direzione, un po’ come fa l’acqua che esce da un rubinetto quando colpisce il fondo del lavello. Si generano venti che soffiano pressoché orizzontalmente a una velocità che in molti casi può superare abbondantemente i 100 chilometri orari. Il rapido spostamento d’aria fa sì che la pioggia viaggi per lunghi tratti quasi parallelamente al suolo prima di raggiungerlo.(National Oceanic and Atmospheric Administration)Un downburst può durare diversi minuti perché genera effetti che si ripercuotono su buona parte del sistema temporalesco, portando a un rapido abbassamento della temperatura al suolo, alla ulteriore riduzione delle correnti ascensionali e quindi a ulteriori precipitazioni. Se il fenomeno si verifica in un’area relativamente circoscritta, di solito fino a un raggio di 4 chilometri, si parla di “microburst”, mentre per fenomeni più estesi si utilizza il termine “macroburst”.Per quanto altamente energetici e spesso distruttivi, i downburst non devono essere confusi con i tornado meno frequenti in Italia (nel nostro paese vengono spesso chiamati “trombe d’aria”, ma sono concettualmente la stessa cosa). Un tornado produce una corrente d’aria vorticosa con la caratteristica nube a forma di imbuto: è relativamente più localizzato di un downburst e si sposta diventando meno distruttivo man mano che dissipa la propria energia. Un tornado interessa una striscia non molto ampia di territorio, mentre un downburst può riguardare un’area più estesa, come si è visto negli ultimi giorni nel Nord Italia.Danni causati dal tornado che ha interessato l’area di Washington, Illinois (Stati Uniti) il 17 novembre 2013 (Tasos Katopodis/Getty Images)I downburst a volte vengono scambiati per tornado perché a distanza il fenomeno appare con una forma simile a quella di un imbuto/incudine, anche se ha un diametro molto più grande e soprattutto le correnti non sono vorticose, ma come abbiamo visto dirette verso l’esterno rispetto al punto di impatto della colonna di aria fredda e pioggia. La differenza è evidente anche negli effetti: nel caso dei downburst le cose abbattute, come per esempio gli alberi, sono tutte orientate verso la stessa direzione, mentre nel caso dei tornado l’orientamento è più disordinato. In Italia i tornado su terra sono del resto poco comuni e riguardano aree circoscritte e ben conosciute.Alberi abbattuti da un downburst (Wikimedia)Ormai da diversi anni il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite segnala nei propri rapporti come il riscaldamento globale, causato in buona parte dalle attività umane, abbia reso più frequenti gli eventi meteorologici estremi, compresi downburst molto energetici. LEGGI TUTTO

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    In Italia le grandinate sono aumentate

    I nubifragi, le trombe d’aria e le grandinate che negli ultimi giorni hanno colpito il Nord Italia, dal Friuli Venezia Giulia alla Lombardia, sono stati dovuti allo spostamento verso sud dell’anticiclone responsabile della precedente ondata di calore: l’incontro tra correnti d’aria fredda provenienti da nord con l’aria calda e umida sopra la Pianura Padana ha causato una serie di temporali molto intensi. È un fenomeno tipico della stagione estiva e che tuttavia secondo studi recenti è diventato più frequente negli ultimi anni, probabilmente per via del cambiamento climatico.«Dal 1999 al 2021 nel bacino del Mediterraneo le grandinate sono aumentate», spiega Sante Laviola, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR) ed esperto dell’uso dei satelliti per la meteorologia: «In particolare nell’ultimo decennio sono aumentate del 30 per cento, lo abbiamo misurato grazie ai satelliti». Laviola è uno degli autori di alcuni studi che hanno permesso di capire delle cose in più sulla grandine, un fenomeno meteorologico ancora relativamente poco compreso a causa della storica difficoltà di raccogliere dati al riguardo.Le grandinate possono verificarsi in qualunque punto del pianeta ma avvengono con frequenza molto maggiore in alcune regioni per via della morfologia del loro territorio: c’è più probabilità che si generino dove ci sono alte montagne che influiscono sulla circolazione delle masse d’aria nell’atmosfera. Ad esempio grandina con particolare frequenza nella grande pianura al centro degli Stati Uniti, tra gli Appalachi e le Montagne Rocciose, che è anche detta “Tornado Alley”, “corridoio delle trombe d’aria” (le trombe d’aria sono spesso associate alla grandine). Anche l’Italia, avendo due estese catene montuose, è molto soggetta a grandinate, specialmente nella Pianura Padana e ancora più in particolare in Friuli Venezia Giulia, le cui aree pianeggianti sono quasi completamente circondate dalle montagne.Non è comunque solo la forma del territorio a influire sulla probabilità che avvenga una grandinata, ma anche le condizioni atmosferiche, e per questo ci sono stagioni dell’anno in cui grandina più di frequente. In Italia la stagione delle grandinate è storicamente compresa tra aprile e ottobre, anche se in anni recenti sembra essersi estesa fino a novembre.È più probabile che grandini d’estate perché questo fenomeno si crea all’interno delle cosiddette nubi convettive, che sono dovute alla presenza di masse d’aria calda e umida nell’atmosfera e si possono riconoscere perché si sviluppano molto in verticale. Quando la superficie terrestre è particolarmente calda e lo è per molte ore al giorno, l’aria più vicina a terra sale verso l’alto portandosi dietro l’acqua evaporata dal suolo e dagli specchi d’acqua. Se salendo in quota le masse d’aria calda e umida incontrano aria più fredda, il vapore acqueo condensa, formando una nube: è detta convettiva perché in fisica si definisce “moto convettivo” quel fenomeno per cui un fluido riscaldato si muove verso l’alto, mentre quello più freddo e denso va verso il basso.«All’interno delle nubi convettive», spiega Laviola, «le correnti ascendenti e discendenti sollevano ingenti quantità di masse d’acqua sotto forma di goccioline. Nel percorso verso l’alto si accrescono, si raffreddano fino a superare un livello di temperatura che si chiama “zero termico”, cioè dove c’è il passaggio di stato dal liquido al solido: quindi l’acqua ghiaccia. Ai cristalli d’acqua ghiacciata si avvicinano altre goccioline che ghiacciano attorno al nucleo principale, che è l’embrione del chicco di grandine, e lo rendono più grande: immaginiamo nuclei di ghiaccio che si muovono in un mare di piccole goccioline, salendo e scendendo». A volte succede anche che chicchi diversi si uniscano, creando grandine di grosse dimensioni.Legnano poco fa … pic.twitter.com/m6beddy2DG— Roberto Luraghi (@LuraghiRoberto) July 24, 2023A un certo punto le masse di ghiaccio diventano così grandi che la forza di gravità vince la spinta verso l’alto delle correnti ascensionali e quindi inizia a grandinare.È ciò che è successo negli ultimi giorni nel Nord Italia: l’aria vicina al suolo era molto calda per l’ondata di calore causata dall’anticiclone, una zona di alta pressione in cui l’aria tende a spostarsi dall’alto verso il basso. Quando l’anticiclone si è spostato verso sud, l’aria vicina alla superficie ha cominciato a salire, arrivando poi a formare nubi convettive.Fino a qualche decennio fa la grandine poteva essere studiata con molti limiti perché essendo un fenomeno fugace e molto localizzato, cioè che si verifica per poco tempo, di solito mezz’ora al massimo, su aree circoscritte, c’è poco tempo per rilevarla e non è detto che si abbiano gli strumenti adeguati per studiarla: le dimensioni dei chicchi di grandine infatti si misurano a terra coi grelimetri, pannelli orizzontali con una superficie di circa 20 centimetri per 40 che si deforma all’impatto con i chicchi di grandine. In Italia sono sufficientemente diffusi solo in Friuli Venezia Giulia, una regione storicamente molto interessata dalla grandine.Nell’ultima ventina d’anni però le osservazioni dirette coi grelimetri e coi radar meteorologici hanno potuto essere ampliate grazie ai satelliti dotati di strumenti di radiometria a microonde, che permettono di rilevare la presenza di chicchi di grandine all’interno delle nubi, e di farlo per un ampio territorio contemporaneamente. Dato che non misurano i chicchi caduti a terra, restituiscono la probabilità di una grandinata e delle dimensioni dei suoi chicchi, ma grazie a dei modelli matematici possono comunque fornire dati utili agli scienziati per capire quanto spesso grandina in una regione. Permettono inoltre di studiare anche le grandinate che avvengono in mare.Laviola e i suoi colleghi hanno appunto sviluppato un modo per sfruttare i dati dei satelliti a questo scopo e così hanno scoperto che dal 1999 al 2021 la frequenza delle grandinate nel bacino del Mediterraneo è aumentata. Vale sia per le grandinate con chicchi con diametro compreso tra i 2 e i 10 centimetri, che danneggiano sempre le coltivazioni e anche altre cose progressivamente al crescere delle dimensioni, sia per le cosiddette supergrandinate o grandinate estreme, quelle con chicchi dal diametro superiore ai 10 centimetri, che sono distruttive per qualunque cosa.In una delle recenti grandinate in Friuli è stato peraltro battuto il record europeo per chicco di grandine col diametro maggiore: 19 centimetri.Can confirm 19 cm based on the cloth pic.twitter.com/7OGda2s932— Federico Pavan (@PavanFederico00) July 25, 2023Il gruppo di ricerca di cui fa parte Laviola ha anche cercato di capire se il recente aumento delle grandinate possa essere legato al cambiamento climatico. Il problema è che 22 anni di dati non sarebbero sufficienti per dirlo, dato che «tutto quello che accade a una scala inferiore a cinquant’anni non è climatologia». Per questo i ricercatori hanno indagato sui cinquant’anni precedenti utilizzando altri tipi di dati: non sulla grandine, dato che non ce ne sono, ma su altre variabili atmosferiche che però hanno una forte influenza sulla probabilità di grandinate e su cui invece sono disponibili dati storici europei per il bacino del Mediterraneo a partire dal 1949.Una di queste variabili è la temperatura superficiale del Mediterraneo, che influenza la probabilità di grandinate perché più è alta più evaporazione genera: e questa è in aumento da decenni a causa del cambiamento climatico. Le altre sono un indice che dice quanta energia potenziale c’è nell’atmosfera che può generare moti convettivi, la temperatura media alla quota in cui si genera la convezione e l’altezza dello zero termico, cioè la quota in cui l’acqua liquida diventa ghiaccio: tutte queste variabili sono aumentate dal 1949 a oggi, anche per via del cambiamento climatico. E indirettamente hanno permesso di ricostruire che in questi decenni le condizioni favorevoli alle grandinate sono state sempre più frequenti.«Se gli ultimi settant’anni hanno dimostrato un trend in crescita, è abbastanza inverosimile che la tendenza cambi in futuro», conclude Laviola, «ma per il futuro abbiamo degli scenari, non previsioni. Aumenteranno le grandinate? Probabilmente sì, ma non sicuramente sì». LEGGI TUTTO

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    La tecnica per far piovere di più

    Il cloud seeding, in italiano qualcosa come “inseminazione delle nuvole”, è una tecnica di stimolazione artificiale delle piogge basata sulla diffusione di getti di ioduro d’argento o di ghiaccio secco (anidride carbonica allo stato solido) all’interno di determinate nuvole, da aerei appositi o tramite cannoni da terra. È nota in meteorologia fin dagli anni Cinquanta, ma esistono da tempo dubbi e perplessità sulla sua efficacia e sulla sua concreta utilità. Per questo motivo, nel corso dei decenni, il suo utilizzo è sostanzialmente rimasto un fenomeno di nicchia.Da qualche tempo, anche a causa dell’intensificazione dei fenomeni associati al cambiamento climatico, il cloud seeding è tuttavia considerato da un crescente numero di agenzie governative, agricoltori e imprenditori un modo relativamente abbordabile di mitigare alcuni effetti a breve termine dei prolungati periodi di siccità. Ad aziende che offrono servizi di questo tipo ricorre da tempo il governo degli Emirati Arabi Uniti, un paese molto poco piovoso. Ma ultimamente la richiesta è aumentata anche negli Stati Uniti occidentali e in Messico, dove il cloud seeding è visto come un’alternativa più economica a tecnologie più impegnative come la desalinizzazione dell’acqua pompata nell’entroterra dall’Oceano Pacifico o dal Golfo del Messico.In Italia, dove esperimenti di stimolazione artificiale della pioggia furono condotti per alcuni anni in Puglia, Sicilia, Sardegna e Basilicata, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, il cloud seeding è generalmente tradotto come “inseminazione delle nuvole”. La sperimentazione diede buoni risultati soltanto nel primo anno, in Puglia: una media del 30 per cento in più di precipitazioni rispetto alla media cinquantennale nell’area di intervento. Dopo il primo anno una prolungata siccità condizionò i risultati dell’esperimento, riducendo drasticamente la presenza di sistemi nuvolosi adatti a stimolare le precipitazioni e mostrando uno dei principali limiti di questa tecnica.In sostanza ogni attività di cloud seeding richiede prima di tutto l’individuazione di nuvole sufficientemente cariche di umidità e adatte anche per altre caratteristiche, in cui iniettare le sostanze in grado di favorire la condensazione del vapore e aumentare le precipitazioni. «È come prendere una spugna gocciolante e strizzarla», ha spiegato al Wall Street Journal Jonathan Jennings, meteorologo della West Texas Weather Modification Association, un’associazione che su autorizzazione dello stato del Texas si occupa fin dagli anni Novanta di un progetto di induzione delle piogge in sei contee occidentali.Secondo dati condivisi dall’associazione il cloud seeding è in grado di aumentare del 15 per cento le piogge annuali in una determinata area, rispetto ai livelli normali. E questo aumento si traduce in circa 50 mm di precipitazioni in più all’anno: acqua che può essere utilizzata per irrigare le coltivazioni durante i periodi di siccità e in generale per ricaricare le falde acquifere sotterranee, a cui attingono agricoltori, allevatori e residenti nelle zone rurali del Texas occidentale. Altri utilizzi del cloud seeding – meno comuni ma in alcuni casi di lunghissima durata, come in Colorado – riguardano l’induzione di nevicate più abbondanti nelle stazioni sciistiche.(DooFi/Wikimedia)L’idea del cloud seeding risale alla fine della Seconda guerra mondiale: nel novembre 1946 il chimico e meteorologo statunitense Vincent Schaefer, dopo aver condotto diversi studi ed esperimenti sulla formazione del ghiaccio in alta quota, riuscì a stimolare la formazione di cristalli di ghiaccio tramite la dispersione di ghiaccio secco all’interno di una nube nelle montagne del Berkshire, in Massachusets. Schaefer lavorava da anni nell’impianto di ricerca industriale della General Electric, a Schenectady, nello stato di New York, e lì aveva avuto l’opportunità di collaborare stabilmente con il fisico e chimico statunitense Irving Langmuir, che nel 1932 aveva vinto il premio Nobel per le sue ricerche nell’ambito della chimica delle superfici.– Leggi anche: Le inusuali piogge artificiali negli Emirati Arabi UnitiOgni nube è formata da miliardi di goccioline d’acqua, che evapora da oceani, mari, corsi d’acqua, suolo e vegetazione. Perché si formi la pioggia è necessario che il vapore acqueo portato verso l’alto dalle correnti ascensionali e contenuto nell’atmosfera terrestre si condensi intorno ai nuclei di condensazione: minuscole particelle igroscopiche – cioè in grado di assorbire molecole d’acqua – che permettono alle goccioline di cui è composta la nube di aumentare di volume. Questo fa sì che la forza di gravità esercitata sulle goccioline diventi a un certo punto maggiore delle forze ascensionali che agiscono all’interno della nube, determinando l’effettiva caduta della pioggia (o della neve, a seconda della temperatura in quota).In pratica Schaefer scoprì, un po’ per caso e dopo vari tentativi, che il ghiaccio secco poteva fungere da nucleo di condensazione e favorire la formazione di cristalli di ghiaccio all’interno della nube. Anche un altro suo collega alla General Electric, lo statunitense Bernard Vonnegut, peraltro fratello maggiore dello scrittore Kurt, lavorò alla ricerca sul cloud seeding. E scoprì che lo ioduro d’argento, un composto dalla struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio, poteva essere utilizzato al posto del ghiaccio secco e ancora più efficacemente per produrre pioggia e neve.Il direttore delle operazioni di volo della Weather Modification Inc., una società di cloud seeding del North Dakota, sistema su un aereo i contenitori di sostanze da disperdere in volo prima di un intervento, fuori dalla sede della compagnia a Fargo, il 20 settembre 2017 (Foto AP/Dave Kolpack)Nonostante la scoperta fosse stata accolta con entusiasmo da Schaefer, Langmuir e Vonnegut, e nonostante la tecnica fosse anche relativamente economica, il cloud seeding non attirò un esteso interesse da parte di governi e agenzie. O perlomeno non quello che ci si aspetterebbe che si sviluppi intorno a una scoperta potenzialmente in grado di modificare il clima. Negli Stati Uniti, come raccontato nel 2010 dallo Smithsonian, un fatto avvenuto nel 1947 in Florida condizionò in parte la percezione pubblica della scoperta.In uno dei suoi numerosi esperimenti con il ghiaccio secco e le nubi, Langmuir volle verificare l’ipotesi che il cloud seeding possa servire a disperdere l’energia degli uragani prima che si abbattano a terra, “prosciugando” le nuvole prima che si spostino verso i centri abitati. La mattina del 13 ottobre 1947, due giorni dopo che un uragano aveva colpito Miami per poi perdere potenza e spostarsi verso Jacksonville, Langmuir fece spargere un’ottantina di chilogrammi di ghiaccio secco da un Boeing B-17 dell’aeronautica statunitense mentre l’aereo, decollato da una base militare a Tampa, volava circa 150 metri sopra la tempesta. Una volta conclusa l’operazione il B-17 tornò alla base.La tempesta, che fino a quel momento si era spostata verso nord-est e aveva perso potenza, riprese slancio e si diresse verso la costa atlantica per poi abbattersi a terra vicino a Savannah, in Georgia. L’uragano causò danni per decine di milioni di dollari e provocò la morte di alcune persone. Nel giro di qualche giorno cominciarono a circolare sui giornali locali informazioni e racconti sull’operazione del B-17. I militari non condivisero dettagli sul volo, ma negarono che l’esperimento avesse potuto in alcun modo deviare la tempesta. Pur in mancanza di dati su cui basare una correlazione tra la forza e la direzione dell’uragano e il volo del B-17, l’esperimento di Langmuir influenzò l’opinione pubblica riguardo a quei primi tentativi di modificare artificialmente il clima.Un’altra ragione dello scetticismo che da sempre circola intorno al cloud seeding riguarda il fatto che non sia possibile avere alcuna prova definitiva della sua efficacia: come ha detto a The Hustle una persona che lavora nel settore, «non è che stai creando fiocchi di neve di colore diverso». In altre parole, dal momento che il tempo è imprevedibile, non è possibile avere alcuna certezza che nell’area in cui ghiaccio secco o ioduro d’argento sono stati diffusi nelle nuvole non avrebbe piovuto o nevicato comunque, anche senza cloud seeding.Lo scetticismo non ha tuttavia impedito che nel corso degli anni nascessero diverse società che si occupano di cloud seeding, tra cui la Seeding Operations and Atmospheric Research (SOAR), che lavora da oltre un decennio nel programma di induzione delle piogge nelle contee aderenti del Texas occidentale, con contratti da 300mila dollari all’anno.Secondo un dipendente della SOAR sentito da The Hustle l’intera industria statunitense del cloud seeding non supera i 10 milioni di dollari all’anno, il che lo rende in ogni caso un settore ancora abbastanza di nicchia. Altre società lavorano sia negli Stati Uniti che all’estero. La Weather Modification Inc., con sede nel North Dakota, è considerata la più grossa nel settore e ha contratti multimilionari in tutto il mondo, incluso un accordo a lungo termine con l’Arabia Saudita.Società come la SOAR e la Weather Modification Inc. utilizzano principalmente ioduro d’argento (ma anche ioduro di potassio o ghiaccio secco), che viene disperso in volo da aeroplani di piccole e medie dimensioni. Sono guidati da piloti abili a muoversi tra nuvole cariche di umidità e che di solito nei voli normali, sia per comodità che per sicurezza, si cerca perlopiù di evitare.Un’altra tecnica di cloud seeding è quella che utilizza le stesse sostanze ma erogandole da terra, in alcuni casi tramite mezzi di artiglieria. Nel 2008, in occasione dei Giochi olimpici a Pechino, circolarono a lungo le immagini di dipendenti pubblici impegnati a utilizzare cannoni antiaerei e lanciarazzi caricati a ioduro d’argento per indurre le piogge nelle periferie e disperdere nuvole che avrebbero potuto raggiungere il centro e disturbare la cerimonia di apertura. La Cina è uno dei paesi che investe di più nel cloud seeding: in totale circa 40mila persone per 500mila operazioni meteorologiche condotte tra il 2002 e il 2012.Un funzionario del programma di modifica del tempo nella contea cinese dello Xiangshan mostra un cannone utilizzato in operazioni di cloud seeding a Pechino, in Cina, il 19 luglio 2007 (China Photos/Getty Images)In uno studio del 2017 tre ricercatori del dipartimento di Scienze dell’atmosfera e geografia dell’Università Nazionale di Taiwan (NTU) associarono i regimi autoritari a un maggiore utilizzo del cloud seeding. Notarono in generale nei paesi non democratici una maggiore ambizione dei governi a modificare il clima, un minore dissenso nell’opinione pubblica riguardo a queste tecniche e una minore capacità di verificare e controllare i risultati delle operazioni meteorologiche.– Leggi anche: Come la Cina vuole controllare il meteoL’efficacia del cloud seeding nel produrre un aumento statisticamente significativo delle precipitazioni continua a essere oggetto di dibattito accademico, con risultati di volta in volta contrastanti a seconda dello studio e degli esperti presi in considerazione. Nel 2018, dopo aver esaminato i diversi programmi di cloud seeding attivi nel mondo, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) definì il cloud seeding una tecnologia promettente ma affermò che la variabilità naturale in ogni sistema di nubi rende difficile quantificare quanto sia efficace.Uno studio molto citato del 2014, condotto da diversi enti di ricerca per lo stato del Wyoming, stimò che le operazioni di cloud seeding erano riuscite a incrementare il livello delle precipitazioni del 5-15 per cento, ma il valore più alto riguardava soltanto i casi in cui erano comunque presenti condizioni ideali di partenza. E in ogni caso, come sintetizzato da The Hustle, «alcuni centimetri in più in una stagione non mettono fine a una siccità, né trasformano Phoenix in una palude».Rispetto ad altri interventi molto costosi e impegnativi, come per esempio la costruzione di impianti di desalinizzazione o la deviazione del corso dei fiumi, il cloud seeding rimane una tecnica sicuramente più economica: che è anche una delle ragioni principali per cui la ricerca in materia continua in molti stati e paesi a essere finanziata. Ma anche i sostenitori più autorevoli concordano nel considerarla, nella migliore delle ipotesi, una tecnica con un impatto molto limitato sulle precipitazioni e praticamente nullo sugli effetti a lungo termine del cambiamento climatico. «Non facciamo piovere. Possiamo soltanto ottenere più pioggia dalle nuvole che Dio ci manda», ha detto un dipendente della SOAR. LEGGI TUTTO

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    L’ameba mangia-cervello, parliamone

    Caricamento playerA inizio luglio nello stato indiano del Kerala un quindicenne è morto a causa di una meningoencefalite amebica primaria (PAM), una infezione causata da Naegleria fowleri soprannominata spesso “ameba mangia-cervello”. Il quindicenne era stato ricoverato per una sospetta encefalite a fine giugno e in seguito i medici avevano scoperto la causa del malessere, non riuscendo però a trattarlo. La PAM è una condizione estremamente rara, ma con un tasso molto alto di letalità, superiore al 95 per cento. È nota da circa 60 anni ed è studiata da tempo non solo per il particolare comportamento dell’ameba e del nostro sistema immunitario per provare a distruggerla, ma anche per il modo in cui si contrae l’infezione: di solito inizia tutto con un banale spruzzo d’acqua.Anche se viene chiamata ameba mangia-cervello, N. fowleri non è tecnicamente un’ameba vera e propria, ma alterna forme flagellate ad ameboidi: in sostanza ci assomiglia molto in alcuni stadi del suo ciclo vitale. Come altri suoi simili, N. fowleri è ghiotta di batteri dei quali va a caccia per spezzarli e nutrirsene. In natura vive solamente in acqua dolce e prolifera negli stagni, nei laghi, nelle fonti termali e talvolta in tratti di fiumi e torrenti dove la corrente è tranquilla. Può però essere trovata anche nelle tubature degli acquedotti, nelle fontane e nelle piscine, in particolare se l’acqua non è trattata adeguatamente per essere resa potabile attraverso l’aggiunta di cloro.N. fowleri prolifera soprattutto al caldo e per questo tende a essere più presente nell’acqua tra la fine della primavera e l’estate. Il periodo coincide con quello in cui si frequentano le piscine o si va a nuotare al lago, di conseguenza le infezioni avvengono con maggiore frequenza nella stagione calda. Si stima infatti che ogni anno milioni di persone vengano in contatto con l’ameba senza particolari problemi: se si beve accidentalmente un po’ d’acqua contaminata gli acidi dello stomaco provvedono a distruggere l’ospite indesiderata e non ci sono problemi. Se invece si inala qualche goccia d’acqua la storia cambia.In piscina o al lago ci si tuffa e si nuota, ma soprattutto si producono molti spruzzi d’acqua all’interno dei quali ci sono milioni di virus, batteri e in qualche raro caso N. fowleri. Basta inalare un po’ d’acqua perché l’ameba si ritrovi nel naso e inizi a esplorarne l’interno alla ricerca di batteri di cui nutrirsi. La mucosa nasale, che contiene sostanze che favoriscono la neutralizzazione di molti agenti esterni, non interagisce in modo significativo con N. fowleri e così nemmeno le prime difese del sistema immunitario. L’ameba passa inosservata e nella maggior parte dei casi dopo qualche tempo muore, salvo non riesca a intercettare qualcosa che l’attira moltissimo più in profondità nella cavità nasale: le cellule nervose dell’olfatto.(Wikimedia)Le cellule olfattive utilizzano diversi segnali chimici per trasmettere le informazioni che poi il nostro cervello provvederà a trasformare in sensazioni, come riconoscere il profumo di una brioche appena sfornata o quello di un gelsomino fiorito. Una delle sostanze impiegate per queste comunicazioni è l’acetilcolina, una molecola molto importante per la trasmissione nervosa e che N. fowleri è attrezzata per riconoscere. Non è ancora oggi molto chiaro come mai l’ameba abbia sviluppato questa capacità, che è poi alla base del modo in cui riesce a infettare il nostro organismo.Lo scambio di acetilcolina tra le cellule olfattive e il cervello è molto frequente e viene seguito da N. fowleri, che in questo modo riesce ad aprirsi la strada verso il cervello. Le amebe non dovrebbero esserci tra le terminazioni delle cellule olfattive e per questo la loro presenza viene notata dal sistema immunitario, che tenta un primo attacco con i granulociti neutrofili, cellule poco specializzate che mettono in atto sistemi alquanto rudimentali per distruggere gli agenti esterni. Utilizzano sostanze chimiche per provare a fare a pezzi e dissolvere le amebe, ma è una lotta impari che raramente termina con la distruzione di tutti gli invasori.N. fowleri prosegue il proprio viaggio lungo le terminazioni delle cellule olfattive e, di solito entro una decina di giorni da quando era stata inalata, riesce infine a raggiungere il cervello dove la sua attività viene ulteriormente stimolata dalla grande disponibilità di acetilcolina. Qui l’ameba produce particolari molecole che fanno a pezzi i neuroni, in modo che se ne possa nutrire. Inizia a moltiplicarsi e a trasformarsi, sviluppando minuscole ventose che si attaccano e distruggono le membrane delle cellule, nutrendosi di parte del loro contenuto.Stadi del ciclo vitale di N. fowleri, da sinistra: cisti, trofozoide e forma flagellata (Wikimedia)In questa fase il sistema immunitario tenta un nuovo attacco, sempre attraverso i granulociti neutrofili cui si aggiungono altre cellule immunitarie come quelle della microglia, responsabili della difesa immunitaria nel sistema nervoso centrale. Anche in questo caso è un attacco di prima difesa non specializzato, una sorta di bombardamento a tappeto che provoca ulteriori danni alla materia cerebrale e che ha però scarso effetto sulle amebe, che riescono a difendersi e a neutralizzare le cellule immunitarie. Il sistema immunitario non riesce nemmeno a organizzare una difesa più specifica attraverso gli anticorpi, che dovrebbero segnalare alle cellule immunitarie specializzate gli obiettivi da colpire. La risposta immunitaria porta a un’infiammazione e alla febbre, che di solito è utile per rallentare virus e batteri, ma che in questo caso può poco contro un’ameba che prolifera soprattutto al caldo.Nell’area dell’infezione iniziano ad accumularsi liquidi che comportano un aumento della pressione intracranica. È di solito in questa fase che compaiono i primi sintomi come febbre, mal di testa e nausea: sono quasi sempre lievi e tali da non suscitare grandi preoccupazioni o da spingere a cercare l’aiuto di un medico. In pochi giorni i sintomi peggiorano con la comparsa di allucinazioni, stati confusionali e una grande stanchezza. L’infiammazione prosegue con il cervello sempre più gonfio e compresso nella scatola cranica.È di solito in questa fase che un paziente arriva in ospedale, in condizioni precarie e con una diagnosi difficile da fare. L’infezione da N. fowleri è molto rara e non sempre conosciuta, di conseguenza le prime analisi sono dirette verso malattie e condizioni più comuni, come forme di meningite e di encefalite. Il tempo è un fattore importante, ma anche nel caso di una diagnosi precoce le possibilità di sopravvivenza sono molto basse. Non c’è una cura e i trattamenti sperimentati in questi anni si sono rivelati nella maggior parte dei casi inefficaci.I casi di PAM da N. fowleri vengono solitamente trattati con l’amfotericina B, un antimicotico che porta alla rottura della membrana cellulare dell’ameba e alla sua morte. Il trattamento non è però particolarmente efficace e la quasi totalità dei pazienti muore ugualmente. Negli ultimi tempi è stato anche sperimentato l’impiego della miltefosina, un antiparassitario che interviene sui processi di comunicazione cellulari, ma anche in questo caso i risultati non sono stati molto promettenti.Per quanto possa apparire spaventosa, un’infezione da N. fowleri è estremamente rara, e questo è bene ricordarlo sempre. Da quando fu scoperta negli anni Sessanta ne sono stati identificati circa 450 casi in tutto il mondo e solo sette persone sono sopravvissute. In generale, è molto più probabile morire per annegamento in acque contaminate dall’ameba che per via della sua inalazione. Anche se ogni anno qualcuno deve fare i conti con un’infezione probabilmente mortale, l’ameba non costituisce un’emergenza sanitaria.Dagli studi condotti finora sembra che N. fowleri proliferi soprattutto quando non deve competere con altri organismi che si nutrono delle sue stesse cose a cominciare dai batteri. In assenza di competizione, la concentrazione dell’ameba aumenta sensibilmente e sembra che anche in questo abbiano un ruolo le attività umane. Lo sversamento di acqua calda a valle dei processi industriali, per esempio, causa la morte di numerosi microrganismi e favorisce invece quelli che prosperano soprattutto a temperature più alte.L’interesse intorno a N. fowleri è comunque grande non solo per la ricerca di una cura davvero efficace, ma per le caratteristiche stesse dell’”ameba mangia-cervello”. Molti aspetti della sua storia evolutiva non sono ancora chiari, né sappiamo quali eventi l’abbiano resa così agguerrita e avida di cellule del nostro cervello. LEGGI TUTTO