More stories

  • in

    Robert Oppenheimer, il “padre dell’atomica”

    Caricamento playerIn una lettera inviata al fratello Frank nell’ottobre del 1929, Julius Robert Oppenheimer ammise di avere talvolta «bisogno della fisica più che degli amici», una frase che descrive meglio di molte altre citazioni più famose il “padre della bomba atomica”. All’epoca Oppenheimer aveva 25 anni, una laurea in chimica e un dottorato, studiava meccanica quantistica e fisica nucleare. Le ambizioni non gli mancavano, ma difficilmente avrebbe immaginato che una quindicina di anni più tardi avrebbe diretto uno dei più importanti progetti scientifici mai organizzati, per costruire e testare le prime armi nucleari. Una tecnologia che nel bene e nel male avrebbe segnato per sempre la vita del suo inventore.La vita di Oppenheimer e le vicende intorno alla creazione dell’atomica sono al centro dell’atteso film Oppenheimer scritto e diretto dal regista statunitense Christopher Nolan, che sarà distribuito negli Stati Uniti e in altre parti del mondo dal prossimo 21 luglio, mentre in Italia dovremo attendere il 23 agosto. Il film ha riportato l’attenzione su uno degli scienziati più famosi e complessi del Novecento, su ciò che fu in grado di realizzare in pochi anni alla fine della Seconda guerra mondiale, sui dilemmi etici e personali nell’avere creato una delle armi più potenti e distruttive nella storia dell’umanità.J. Robert Oppenheimer era nato il 22 aprile del 1904 a New York in una famiglia di origini ebraiche: la madre faceva la pittrice, mentre il padre era un importatore di tessuti emigrato negli Stati Uniti dal Regno di Prussia alla fine del diciannovesimo secolo. A scuola Oppenheimer aveva mostrato da subito un certo interesse per le materie scientifiche e in particolare per la chimica, disciplina in cui si laureò nel 1925 ad Harvard. Dopo un breve periodo a Cambridge, nel Regno Unito, si trasferì in Germania per studiare all’Università Georg-August di Gottinga dove insegnava Max Born, uno dei più importanti fisici dell’epoca e tra i principali teorici della meccanica quantistica.Alto e molto magro, al punto da apparire talvolta emaciato, Oppenheimer fumava sigarette in continuazione e saltava spesso i pasti, soprattutto nei periodi di studio più intensi. Era molto solitario e alternava periodi di giovialità ad altri di profonda depressione, nei quali non cercava la compagnia di nessuno. Sembrava effettivamente che preferisse la fisica agli amici, anche se in Germania aveva fatto conoscenza e avviato buoni rapporti con alcuni dei fisici più importanti di inizio Novecento come Werner Heisenberg, Enrico Fermi, Paul Dirac e Wolfgang Pauli.Oppenheimer partecipava con grande interesse alle lezioni: fin troppo, a detta dei suoi colleghi, e mostrava una grande passione per lo sviluppo e l’analisi delle teorie in ambiti della fisica all’epoca ancora poco esplorati. In quel periodo fu autore di varie ricerche scientifiche e, dopo avere conseguito il dottorato sotto Born nel 1927, tornò negli Stati Uniti per lavorare al California Institute of Technology e ad Harvard: promettente e capace era molto conteso, di conseguenza i due istituti avevano dovuto trovare un compromesso per averlo entrambi. Fu poi il turno della University of California, Berkeley, dove insegnò e divenne poi docente di ruolo nel 1936.In quella decina di anni si occupò di astronomia teorica, fisica nucleare, meccanica quantistica e naturalmente di relatività, argomento molto dibattuto all’epoca. Fu tra i primi a ipotizzare l’esistenza del positrone, l’antiparticella dell’elettrone, due anni prima della sua scoperta. Si dedicò allo studio delle stelle di neutroni, l’ultimo stadio di vita delle stelle con una massa molto grande, anche in questo caso teorizzando cose e oggetti che si sarebbero scoperti molti anni dopo, compresi quelli che oggi chiamiamo buchi neri.A detta dei colleghi e degli studenti che lavoravano con lui, c’era poco in grado di distogliere Oppenheimer dal suo grande interesse per la fisica. Le cose iniziarono a cambiare dopo l’ascesa del nazismo in Germania, cui Oppenheimer guardava con preoccupazione, come molti altri membri della comunità scientifica negli Stati Uniti. A metà anni Trenta aveva iniziato a fare donazioni per aiutare i fisici tedeschi a lasciare la Germania nazista e si avvicinò ai movimenti progressisti e a quelli comunisti. I finanziamenti e le frequentazioni di quei gruppi gli sarebbero costati cari negli anni Cinquanta, quando Oppenheimer finì sotto inchiesta nel periodo del maccartismo e della “caccia ai comunisti”.Fu con quelle frequentazioni che conobbe prima Jean Tatlock, che faceva parte del partito comunista statunitense, con cui ebbe una breve e travagliata relazione, e in seguito Katherine Puening con la quale si sposò nel 1940. L’anno seguente ebbero il primo figlio, Peter, e tre anni dopo Katherine. Oppenheimer aveva però riallacciato i rapporti con Tatlock, circostanza che in seguito avrebbe attirato ulteriori sospetti da parte di chi riteneva fosse un comunista. Tra indagini e sospetti, sembrava altamente improbabile se non impossibile che Oppenheimer potesse essere messo a capo di un progetto segreto per far finire il prima possibile la Seconda guerra mondiale.Nell’autunno del 1941, prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra, il governo statunitense aveva approvato il finanziamento di un programma per sviluppare un nuovo tipo di arma, mai sperimentata prima: una bomba atomica, che sfruttasse le conoscenze e le scoperte fatte negli ultimi anni sull’energia, la materia e il suo funzionamento. Non c’era tempo da perdere perché il primo che avesse disposto di una tecnologia di quel tipo avrebbe sicuramente vinto la guerra, e gli statunitensi e i loro alleati temevano che i nazisti o i sovietici potessero arrivarci prima di loro.La bomba atomica sarebbe stato il frutto di una enorme mobilitazione di scienziati, ingegneri e tecnici, che avrebbe coinvolto le migliori menti soprattutto nel campo della fisica. Lo sapeva bene James B. Conant, tra i membri del Comitato nazionale della ricerca per la difesa, istituzione che aveva proprio il compito di condurre ricerche scientifiche e sperimentazioni per lo sviluppo di nuovi sistemi di guerra. Conant conosceva Oppenheimer dai tempi di Harvard e nella primavera del 1942 gli propose di iniziare a lavorare allo studio dei neutroni veloci, che si producono nella fissione nucleare in processi altamente energetici. Oppenheimer accettò e iniziò a coinvolgere studenti e altri ricercatori a Berkeley, compresi Edward Teller e Hans Bethe.A settembre dello stesso anno, intanto, il programma per l’atomica si era strutturato meglio ed era nato il Progetto Manhattan, sotto la guida di Leslie R. Groves Jr. delle forze armate statunitensi. Il progetto avrebbe coinvolto centri di ricerca e basi militari in varie zone degli Stati Uniti, ma avrebbe avuto un laboratorio di ricerca principale per studiare e sviluppare l’atomica.Julius Robert Oppenheimer a sinistra e Leslie Groves a Los Alamos, New Mexico (Keystone/Getty Images)Groves scelse Oppenheimer come direttore del laboratorio, sorprendendo molti colleghi considerate le molte voci circolate sui suoi orientamenti politici. Oppenheimer aveva 38 anni e una specchiata carriera accademica, certo, ma non aveva mai coordinato il lavoro di tante persone in progetti di grandi dimensioni. Groves era però persuaso che fosse la persona più adatta: riflessivo e taciturno, dava l’idea di qualcuno che avrebbe svolto il difficile compito che gli era stato assegnato senza interferire con le scelte e le decisioni dei militari, principali responsabili del progetto.Le esigenze di segretezza resero necessaria l’identificazione di un luogo remoto e fuori da sguardi indiscreti dove condurre le ricerche, il più velocemente possibile. Oppenheimer conosceva alcune zone nel New Mexico dove aveva un ranch e alla fine fu scelto un pianoro, non troppo distante da Santa Fe, dove sorgeva una scuola, il cui edificio fu riadattato per costruire le prime strutture di quello che sarebbe poi diventato famoso come il laboratorio di ricerca e sviluppo di Los Alamos.Parte dell’area tecnica di Los Alamos, New Mexico (Wikimedia)La quantità di persone necessaria per sviluppare l’atomica e per gestire il laboratorio fu ampiamente sottostimata. Inizialmente Oppenheimer riteneva che qualche centinaio di persone sarebbe stato più che sufficiente per l’impresa: un paio di anni dopo a Los Alamos erano circa in 6mila. Tra questi c’erano molti militari, ma anche alcuni dei più famosi o promettenti fisici dell’epoca, che lavoravano senza sosta al Progetto Manhattan. Si erano trasferiti nel deserto del New Mexico con le loro famiglie e Los Alamos era diventato via via una piccola città, molto controllata per ovvi motivi di sicurezza e segretezza.Oppenheimer dirigeva il lavoro dei gruppi di ricerca, sia dei fisici teorici sia di quelli sperimentali, non sempre facili da mettere d’accordo. Dopo la guerra, molti ricercatori di Los Alamos avrebbero raccontato che Oppenheimer non offriva molte idee o suggerimenti, ma era sempre presente in una sala riunioni o in un laboratorio quando stava per succedere qualcosa di importante. Era una presenza rassicurante e che aiutava i gruppi a lavorare, condividere le scoperte ed elaborare i passi successivi per raggiungere il loro obiettivo, spesso muovendosi in territori ancora poco esplorati della fisica nucleare.Le sperimentazioni erano dedicate alle reazioni di fissione scoperte nel 1938, dove i nuclei di atomi pesanti – come gli isotopi plutonio 239 e uranio 235 – vengono indotti a spezzarsi liberando una grande quantità di energia termica. Passare dalla teoria alla pratica non era però semplice, sia per quanto riguardava l’approvvigionamento degli isotopi, sia nello sviluppare un sistema che fosse stabile e sicuro, fino al momento della detonazione. Il plutonio veniva prodotto altrove in reattori sperimentali, ma divenne evidente che le sue caratteristiche non si conciliavano con un primo modello di bomba (metodo di innesco “balistico”) che era stato esplorato nei primi tempi di Los Alamos.Davanti a queste difficoltà, nell’estate del 1944 Oppenheimer decise di riorganizzare buona parte del lavoro dei laboratorio, per concentrarsi su un sistema a implosione che, sfruttando l’esplosione di varie cariche intorno al nocciolo della bomba, comprimeva il materiale fissile fino a innescare la reazione nucleare. Lo sviluppo dell’altro tipo di bomba fu portato avanti da un gruppo più piccolo e utilizzando l’uranio per evitare i problemi incontrati con il plutonio.Alla fine i gruppi di lavoro di Los Alamos impiegarono appena due anni per superare le grandi difficoltà nello sviluppo dell’atomica. La mattina del 16 luglio 1945 nel deserto della Jornada del Muerto, sempre nel New Mexico, fu sperimentata la prima detonazione di un’arma nucleare della storia. Un grande bagliore accompagnato dalla produzione di un’alta nube incandescente confermò il successo dell’esperimento, per nulla scontato. Fino a pochi istanti prima, tutte le persone coinvolte compreso Oppenheimer avevano forti dubbi sul fatto che quella prima bomba atomica potesse funzionare.Oppenheimer assistette con soddisfazione da un bunker di osservazione e in seguito raccontò di avere pensato ai versi di uno dei testi sacri dell’induismo, del quale era un profondo e appassionato conoscitore: «Sono diventato Morte, il distruttore di mondi». Quella frase sarebbe diventata la più celebre e citata di Oppenheimer, anche se non fu pronunciata in quel momento, stando alle testimonianze delle persone che erano con lui.Appena tre settimane dopo quell’esperimento, “Little Boy”, la bomba atomica all’uranio, fu sganciata su Hiroshima in Giappone, e tre giorni dopo l’ordigno al plutonio “Fat Man” sulla città giapponese di Nagasaki. Le due gigantesche esplosioni causarono la morte di circa duecentomila persone (le stime variano molto) in uno dei più terribili eccidi della storia, e sono convenzionalmente considerate ciò che portò alla fine della Seconda guerra mondiale, una guerra che però aveva già i propri vincitori da diverso tempo.A Los Alamos il successo del bombardamento di Hiroshima fu accolto con un misto di sollievo e compiacimento, per avere portato a termine qualcosa che appena due anni prima appariva impossibile, ma anche di orrore per l’enorme numero di persone uccise. Le opinioni, comprese quelle di Oppenheimer, furono più nette e critiche per il successivo bombardamento di Nagasaki, ritenuto strategicamente non necessario dal punto di vista militare.In quell’estate del 1945 Robert Oppenheimer era diventato per tutti il “padre della bomba atomica”, una paternità difficile da sostenere man mano che diventavano evidenti non solo gli effetti immediati dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, ma anche quelli successivi legati alle alte dosi di radiazioni, che causarono sofferenze a migliaia e migliaia di persone giapponesi e lutti che segnarono le generazioni successive. In un colloquio organizzato nell’autunno di quell’anno con Harry Truman, l’allora presidente degli Stati Uniti, Oppenheimer confessò di «sentirmi le mani sporche di sangue». Truman rimase colpito e offeso da quell’affermazione, tanto da interrompere all’istante l’incontro e da dire in seguito a un proprio assistente: «Non voglio mai più vedere quel figlio di puttana in quest’ufficio».Insieme ai gruppi di ricerca di Los Alamos, Oppenheimer aveva portato a termine un’impresa scientifica e tecnica con pochi precedenti, aprendo nuove conoscenze e opportunità legate alle tecnologie nucleari. Al tempo stesso, però, aveva reso possibile la costruzione dell’arma più potente e mortale mai realizzata con il potenziale di distruggere l’intera umanità. Dopo i bombardamenti sul Giappone, Oppenheimer avrebbe convissuto per sempre con questo dilemma difficile da risolvere, e probabilmente proprio per questo divenne uno dei più convinti sostenitori della necessità di istituire regole comuni e internazionali per tenere sotto controllo la proliferazione delle armi nucleari.Oppenheimer durante un’audizione a Washington, DC, dopo la fine della Seconda guerra mondiale (AP Photo,File)Oppenheimer divenne uno dei membri più importanti della Commissione per l’energia atomica (AEC), istituita nel 1946 dal governo statunitense per sostenere lo sviluppo e il controllo delle tecnologie nucleari. In incontri, lezioni e conferenze illustrò quali potessero essere gli usi pacifici della fissione nucleare per esempio per produrre energia elettrica, insistendo sulla necessità di costituire un’organizzazione internazionale sul nucleare. Ipotizzò che ogni paese rinunciasse a parte della propria sovranità nel settore, in modo da avere un sistema condiviso per l’uso pacifico delle tecnologie nucleari. Segnalò anche i pericoli della cosiddetta “corsa agli armamenti”, che avrebbe portato a una proliferazione di testate nucleari, visto che altri paesi a cominciare dall’Unione Sovietica avevano sviluppato programmi per la ricerca e la produzione di bombe atomiche. I suoi appelli rimasero in buona parte inascoltati.Nel 1949 Oppenheimer si oppose inoltre allo sviluppo di una bomba a idrogeno, basata sulla fusione nucleare, il processo che fa funzionare il Sole e che sarebbe stata molto più potente delle bombe a fissione. Il governo degli Stati Uniti decise però diversamente e nel 1952 fu condotto il primo test su grande scala di una bomba H, fatta esplodere nelle Isole Marshall nell’oceano Pacifico. Oppenheimer partecipò alla stesura di un approfondito rapporto dopo il test, nel quale si segnalava che né gli Stati Uniti né l’Unione Sovietica avrebbero potuto mai raggiungere una superiorità nucleare, portando quindi a molti rischi e allo sviluppo di bombe sempre più potenti.L’insediamento di Dwight D. Eisenhower a presidente degli Stati Uniti nel gennaio del 1953 portò Oppenheimer a essere più ascoltato, specialmente nei suoi inviti al governo di mantenere un approccio più aperto e trasparente sui propri piani nucleari, visto come una via per ridurre le tensioni con l’Unione Sovietica. Oppenheimer divenne molto influente, ma al tempo stesso osteggiato da politici e militari che teorizzavano approcci più aggressivi nell’impiego degli arsenali nucleari per fare deterrenza.Nell’autunno del 1953 al potentissimo capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, arrivò una segnalazione da parte di William Liscum Borden, già capo del Comitato sull’energia atomica del Congresso e fervente sostenitore dello sviluppo di arsenali nucleari. Il messaggio diceva che molto probabilmente Oppenheimer era una spia sovietica, rispolverando le informazioni sulle sue vecchie frequentazioni con comunisti prima della guerra. In poche settimane, a Oppenheimer fu prospettato di perdere l’accesso a buona parte delle informazioni riservate dell’AEC sul nucleare e gli fu proposto di dimettersi, evitando un’inchiesta vera e propria sul suo conto. Ritenendo di non avere nulla da nascondere, Oppenheimer rifiutò la proposta e l’anno seguente fu più volte interrogato sulle sue vecchie amicizie, i suoi orientamenti politici e la sua opposizione alla bomba a idrogeno.L’inchiesta avvenne nel pieno del maccartismo, dal nome del senatore Joseph McCarthy a capo della principale commissione per la repressione delle attività ritenute antiamericane. In quel periodo negli Stati Uniti si assistette a una ricerca spasmodica e ossessiva di persone che mostrassero comportamenti ritenuti sovversivi perché filo-comunisti, con l’obiettivo di fermarle e di impedire loro di avere un qualsiasi ruolo nella società. Moltissime persone furono accusate ingiustamente, perdendo il lavoro e la propria reputazione.Oppenheimer nel suo studio a Princeton nel 1954 (AP Photo)Durante le audizioni Oppenheimer faticò a fornire testimonianze coerenti e mostrò in più occasioni la propria insofferenza per l’inchiesta, che riteneva assurda e con accuse infondate. In realtà, è ormai opinione diffusa tra i suoi biografi che per un certo periodo fosse stato un convinto sostenitore del partito comunista, e che ne avesse finanziato le attività. Nel 1954 Oppenheimer perse ufficialmente le proprie autorizzazioni di sicurezza e qualsiasi influenza diretta sulle decisioni del governo statunitense sul nucleare.Oppenheimer continuò comunque a tenere discorsi e conferenze concentrandosi sul ruolo della scienza nella società, sulle implicazioni di ciò che era stato ottenuto a Los Alamos e sull’importanza di mantenere un dialogo aperto tra le nazioni per tenere sotto controllo il rischio posto dagli arsenali nucleari. Nel 1963 ricevette il premio Enrico Fermi dal governo degli Stati Uniti, segno di un parziale processo di riabilitazione nei suoi confronti. Non avendo comunque più i permessi di sicurezza continuò ad avere un ruolo marginale nelle decisioni politiche.A sessant’anni continuava a essere solitario e a preferire soprattutto la compagnia della fisica e delle sue sigarette: era un fumatore incallito e ne accendeva una dopo l’altra. Nel 1965 gli fu diagnosticato un cancro alla gola e né la chemioterapia né un trattamento con le radiazioni si rivelarono efficaci per fermare o per lo meno rallentare la malattia. Morì il 15 aprile del 1967 nella propria casa di Princeton (New Jersey), fu cremato e le sue ceneri furono disperse in mare. Sette giorni dopo il “padre dell’atomica” avrebbe compiuto 63 anni.Il 16 dicembre 2022 il governo degli Stati Uniti annullò la decisione con cui Oppenheimer era stato privato delle proprie autorizzazioni di sicurezza, riconoscendo la gestione fallace della vicenda nel 1954: «Col passare del tempo, sempre più prove sono emerse sui pregiudizi e sulle ingiustizie del processo a cui il dottor Oppenheimer fu sottoposto, mentre le prove della sua lealtà e del suo amore per il paese sono solo state ulteriormente confermate». LEGGI TUTTO

  • in

    La missione spaziale indiana Chandrayaan-3 è partita verso la Luna

    Intorno alle 11 di venerdì mattina è partita verso la Luna la missione spaziale indiana Chandrayaan-3, il cui scopo è portare un rover (un robot automatico) per esplorare il polo sud lunare. La regione finora è stata poco esplorata, ma è considerata interessante per la presenza di acqua, sotto forma di ghiaccio, che in futuro potrebbe essere sfruttata per il mantenimento di una base con esseri umani.Se Chandrayaan-3 riuscisse a compiere un atterraggio controllato, l’India diventerebbe la quarta nazione nella storia a essere riuscita a raggiungere la Luna, dopo gli Stati Uniti (gli unici ad averlo fatto con esseri umani), la Cina e la Russia. L’allunaggio è previsto tra il 22 e il 23 agosto e il rover condurrà vari esperimenti e rilevazioni nel corso di un paio di settimane. ISRO, l’Agenzia spaziale indiana, ha detto che l’obiettivo generale della missione è sviluppare e testare nuove tecnologie necessarie per ulteriori missioni, anche interplanetarie. Oltre agli scopi scientifici, il governo indiano spera che l’iniziativa aumenti il prestigio internazionale del paese in ambito scientifico, e che sostenga il settore delle imprese spaziali private.È la seconda missione lanciata dall’India per arrivare sulla Luna. La prima, chiamata Chandrayaan-2, partì nel 2019. Arrivò con successo nell’orbita lunare, ma il lander, la parte di razzo che doveva atterrare sulla superficie, si schiantò. (AP Photo/Aijaz Rahi) LEGGI TUTTO

  • in

    Cosa ha detto davvero l’OMS su aspartame e cancro

    L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha consigliato di moderare il consumo di aspartame, un dolcificante ampiamente utilizzato nelle bibite “zero” o “light”, perché potrebbe essere una possibile causa di cancro. Il rischio è però molto basso per i normali consumatori di questa sostanza e ci sono ancora pareri discordanti sulle conclusioni della nuova valutazione, arrivata al termine di due distinti lavori di analisi che possono apparire in contraddizione tra loro. Secondo vari esperti, la confusione derivante dall’annuncio rischia di portare a incertezze non solo intorno all’aspartame, ma in generale al lavoro che viene svolto dalle autorità sanitarie per stimare la pericolosità delle sostanze con cui siamo di frequente in contatto.– Ascolta anche: La decisione dell’OMS su aspartame e cancro, senza allarmismiIl primo rapporto citato dall’OMS è stato diffuso dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) che ha inserito l’aspartame nel “Gruppo 2B”, che comprende le sostanze “possibilmente cancerogene”. Fanno parte di questa classe circa 300 sostanze per le quali i risultati delle ricerche sono limitati negli esseri umani e meno che sufficienti negli animali. È un gruppo relativamente ampio e che comprende molti prodotti compresi i sottaceti, per esempio. Per lo IARC le sostanze certamente cancerogene finiscono invece nel “Gruppo 1”, dove sono disponibili dati più che sufficienti e solidi per dimostrare che una certa sostanza faccia aumentare inequivocabilmente l’insorgenza di un tumore. In questo gruppo sono compresi l’alcol (vino, birra e simili), gli insaccati, il fumo e l’amianto.Gli scienziati che fanno parte della IARC non effettuano studi, ma analizzano tutte le ricerche esistenti condotte in giro per il mondo, da quelle realizzate sugli esseri umani esposti a una determinata sostanza a quelle sugli animali, ai quali vengono per esempio somministrate le sostanze per vedere che effetto fanno. Le ricerche vengono confrontate, i dati contenuti analizzati con metodi statistici e infine viene emesso un parere per la classificazione della sostanza.La classificazione IARC, che prevede appunto vari gruppi, non indica quali sostanze sono “più” o “meno” cancerogene, ma semplicemente esprime quanto si è sicuri che una sostanza sia davvero cancerogena. Per le sostanze nel “Gruppo 1”, quello dell’alcol, la certezza è ormai consolidata, per quelle comprese nel “Gruppo 2A” il livello di certezza è minore, ancora meno per quelle nel “Gruppo 2B” come l’aspartame da poco inserito, e così via. Man mano che si accumulano nuovi studi e conoscenze le cose possono cambiare, con lo spostamento di alcune sostanze da un gruppo all’altro (difficilmente quelle comprese nel “Gruppo 1” saranno riclassificate, considerato il livello di certezza sui loro effetti).Il secondo rapporto utilizzato dall’OMS è stato invece diffuso dal Comitato congiunto FAO/OMS di esperti sugli additivi alimentari (JECFA), che ha confermato quanto era già stato deciso in precedenza circa il consumo generalmente sicuro dell’aspartame a patto che non ne siano assunte quantità molto grandi. Questo secondo rapporto sembra essere in contraddizione con il primo, ma in realtà le differenze derivano dal fatto che le due istituzioni hanno diverse competenze.Come abbiamo visto la IARC si occupa di valutare se una sostanza possa causare qualche danno, mentre il JECFA fa una valutazione del rischio sull’insorgenza del cancro in seguito all’assunzione di una determinata sostanza. La cancerogenicità è una caratteristica intrinseca: qualcosa è cancerogeno o non lo è. Al tempo stesso, non tutto ciò che è cancerogeno ha gli stessi effetti sul nostro organismo. Ogni sostanza cancerogena fa aumentare in una certa misura il rischio individuale di avere un certo tipo di tumore: alcune lo fanno aumentare di molto, altre di poco. Per esempio, nel caso delle bevande alcoliche non c’è un consumo minimo sicuro, ma gli effetti negativi possono essere di diversa entità: l’alcol è sicuramente pericoloso, ma se bevi un solo bicchiere di vino in tutta la vita, il rischio sarà irrilevante nello sviluppo di un tumore.I responsabili dell’OMS che si sono occupati della nuova valutazione hanno chiarito che il consumo occasionale di aspartame, per esempio da parte di chi ogni tanto si beve una lattina di una bibita “zero”, non costituisce particolari preoccupazioni. Francesco Branca, direttore del Dipartimento per la nutrizione e la sicurezza alimentare dell’OMS, ha detto: «Non stiamo consigliando alle aziende di ritirare i loro prodotti né stiamo dicendo alle persone di interrompere il consumo e basta, stiamo solo consigliando un minimo di moderazione».Per numerose sostanze è possibile calcolare le dosi giornaliere di sicurezza, mentre per altre no, a prescindere dalla loro cancerogenicità. IARC non dà mai indicazioni sulle quantità, mentre JECFA ha confermato la precedente valutazione sulla dose massima giornaliera di 40 milligrammi di questa sostanza per ogni chilogrammo di massa corporea. Una persona che pesa 75 chilogrammi, per esempio, dovrebbe consumare circa 15 lattine di una bevanda “zero” o “light” per superare la dose massima. Qualche preoccupazione in più c’è per i bambini, considerata la loro minore massa corporea, ma anche in questo caso il consumo dovrebbe essere comunque di 4-5 lattine prima di superare la soglia.È difficile stabilire quante persone consumino così tante bevande “zero” o altri alimenti che contengono aspartame nel corso di una giornata. È improbabile che il limite massimo sia raggiunto non solo con un consumo moderato di prodotti a base di aspartame, ma anche con uno più intenso. Quindici lattine equivalgono a quasi 5 litri di una bevanda con aspartame; inoltre, varie bibite contengono diversi altri dolcificanti, con dosi minime di aspartame quando presente.La IARC ha basato le proprie conclusioni soprattutto su tre grandi studi osservazionali, effettuati cioè valutando comportamenti e reazioni di grandi gruppi di persone, che avevano indagato in passato la correlazione tra tumore al fegato e consumo di aspartame. Per quanto piuttosto estesi, quegli studi non avevano rilevato alcun nesso di causalità e per stessa ammissione dell’OMS quelle ricerche presentavano comunque vari problemi che rendevano poco affidabili le loro conclusioni.A oggi non è nemmeno disponibile il lavoro finale della IARC sull’aspartame, che sarà pubblicato nei prossimi mesi. L’OMS ritiene che i nuovi sviluppi possano essere un’importante opportunità per effettuare nuovi studi e ricerche sull’aspartame e sui sostituti dello zucchero in generale, con nuove e più approfondite valutazioni sui loro eventuali rischi. La scelta di presentare i risultati parziali in questo modo ha però suscitato qualche perplessità tra gli addetti ai lavori, specialmente per la difficoltà nel comunicare il giusto messaggio sulle effettive conoscenze legate all’aspartame e al suo consumo entro i limiti consigliati, che di fatto già avviene per la maggior parte delle persone. LEGGI TUTTO

  • in

    L’Italia ha eliminato la rosolia, ha annunciato l’Organizzazione mondiale della sanità

    La rosolia non è più endemica in Italia, ha annunciato la Commissione di verifica regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per l’eliminazione del morbillo e della rosolia in Europa: è la terza malattia prevenibile a essere eliminata dal paese grazie alle vaccinazioni dopo il vaiolo, che fu eradicato dal mondo nel 1980, e la poliomielite, dichiarata eliminata dall’Europa nel 2022. Non è una malattia pericolosa nella grande maggioranza dei casi, i sintomi principali sono febbre non molto alta e pustole sulla pelle, ma se contratta in gravidanza può avere conseguenze gravi: può causare aborti spontanei o gravi anomalie congenite nei feti, tra cui sordità e disabilità intellettive.L’OMS parla di “eliminazione” di un virus in un paese o in una più ampia area geografica quando non ci sono trasmissioni endemiche, cioè locali, della malattia in questione per almeno 12 mesi. Ma perché l’eliminazione sia ufficiale è necessario che un paese fornisca una documentazione che certifichi che non ci sono state trasmissioni endemiche per almeno 36 mesi. Oltre che in Italia, la rosolia è stata dichiarata eliminata in altri 47 paesi dell’Europa. Resta comunque la possibilità che il virus venga trasmesso da persone che ne sono state infettate in altri paesi: per questo fino all’eradicazione della malattia, cioè finché non sarà eliminata in tutti i paesi del mondo, continueranno le campagne vaccinali. In particolare è importante che le donne intenzionate ad avere figli sappiano se sono immuni dal virus prima di iniziare una gravidanza e che si vaccinino in caso contrario.La rosolia è una malattia causata da un virus del genere Rubivirus e si trasmette nell’aria attraverso gli starnuti e i colpi di tosse delle persone infette. È la principale causa di difetti congeniti prevenibili nel mondo ma in Italia è dal 2019 che non ci sono casi di sindrome da rosolia congenita.Il principale vaccino usato contro la rosolia è il cosiddetto “trivalente”, perché copre anche dal virus del morbillo e da quello della parotite e si indica con l’acronimo MPR. (Diana Bagnoli/Getty Images) LEGGI TUTTO

  • in

    Luci e sirene delle ambulanze servono raramente

    Caricamento playerIl fenomeno degli accessi impropri in pronto soccorso, cioè quelli che non richiedono un intervento medico immediato, è uno dei fattori che contribuiscono ad aumentare i tempi di attesa in ospedale, intasare i reparti e peggiorare la qualità dei servizi sanitari. Vale per l’Italia, ma anche per altri paesi europei e per gli Stati Uniti, dove è in corso da qualche anno un dibattito più specifico, relativo all’eccessivo utilizzo dei fari e delle sirene di emergenza da parte delle autoambulanze.Un recente articolo sul sito d’informazione medica STAT, riprendendo un’ampia letteratura scientifica sul tema, ha descritto l’utilizzo improprio di luci e sirene delle ambulanze come una pratica molto diffusa e causa di un aumento significativo dei pericoli sulla strada. In sostanza, suggerisce STAT, sulla base dei dati disponibili è probabile che allo stato attuale luci e sirene portino più danni che benefici.Oltre tre quarti degli interventi di pronto soccorso richiesti tramite 911 – il numero telefonico per le emergenze negli Stati Uniti – determina un trasporto a sirene spiegate e fari accesi verso le strutture mediche. Ma meno del 5 per cento dei pazienti che ricevono poi le cure nelle strutture trae benefici clinici concreti da quel tipo di trasporto d’emergenza. L’utilizzo congiunto di luci e sirene permette di risparmiare in media tra 42 secondi e 3,8 minuti di viaggio, e triplica la possibilità di incidente con un paziente a bordo.– Leggi anche: Troppa gente va al pronto soccorsoIn teoria luci e sirene servono a salvare vite umane perché permettono alle autoambulanze di trasportare i pazienti in pericolo di vita il più velocemente possibile. Anche pochi minuti possono infatti essere fondamentali in diverse circostanze cliniche: arresti cardiaci, ostruzioni delle vie respiratorie, traumi gravi, ictus, emorragie ed emergenze ostetriche o di altro tipo, che hanno tempi di intervento molto ristretti e non possono essere risolte dagli operatori intervenuti sul luogo della richiesta di soccorso. Non tutte le persone che chiedono aiuto telefonando al numero delle emergenze presentano però problemi di questo tipo e hanno bisogno di un trasporto di emergenza verso l’ospedale (“in ritorno”, come sono chiamati i trasporti con il paziente a bordo, per distinguerli da quelli “in andata”).In uno studio pubblicato nel 2019 sulla rivista Annals of Emergency Medicine un gruppo di ricercatori della scuola di medicina della University of Texas segnalò la necessità di condurre maggiori ricerche per trovare un migliore compromesso tra il rischio di incidenti e qualsiasi beneficio clinico di un trasporto più veloce. Aggiunse che la maggior parte dei fornitori di servizi medici di emergenza negli Stati Uniti è consapevole di quel rischio e cerca di limitare l’uso di luci e sirene, per quanto possibile, ma l’attivazione o meno di questi segnali dipende da molteplici fattori.La tendenza a utilizzare luci e sirene più spesso del dovuto nelle fasi di trasporto “in andata” riflette in molti casi l’incertezza di chi telefona al numero delle emergenze e non è in grado di descrivere con precisione la situazione per cui richiede un intervento. I ricercatori aggiunsero che una futura, auspicabile inversione della tendenza all’utilizzo eccessivo e improprio di luci e sirene potrebbe richiedere in alcuni casi e contesti anche una certa capacità umana di gestire le aspettative del pubblico. Le persone tendono infatti a considerare il proprio caso un’emergenza ma il più delle volte non sono nelle condizioni di poter soppesare il rischio di incidenti rispetto all’eventuale beneficio determinato dall’uso di luci e sirene.In Italia le telefonate verso il numero unico per le emergenze – 112, attivo in diverse regioni – vengono gestite dalle centrali operative: raccolgono le prime informazioni sull’emergenza segnalata e agiscono da filtro smistando le richieste valide verso i servizi di competenza (soccorso sanitario, vigili del fuoco, polizia o carabinieri). In caso di richiesta di soccorso sanitario la centrale del 118 con competenza territoriale invia i mezzi idonei all’emergenza e stabilisce il livello di priorità dell’intervento, sulla base di quanto appreso nella telefonata.Ogni intervento ha un codice di gravità che può variare nelle diverse fasi del soccorso a seconda dell’evoluzione delle condizioni cliniche del paziente, delle valutazioni del personale intervenuto sul luogo del soccorso e di altre variabili. Soltanto nel caso di interventi indifferibili-urgenti (codice giallo) o di emergenza (codice rosso) è ammesso l’utilizzo delle sirene e delle luci lampeggianti. E solo in questo caso, in base all’articolo 177 del codice della strada, i conducenti dei mezzi di soccorso «non sono tenuti a osservare gli obblighi, i divieti e le limitazioni relativi alla circolazione», né la segnaletica stradale, pur «nel rispetto comunque delle regole di comune prudenza e diligenza».La gestione dei servizi di soccorso sanitario può essere di competenza regionale, e in alcuni casi provinciale o locale. E le autoambulanze possono essere di proprietà dei servizi di soccorso di emergenza ma anche di ospedali, cliniche e associazioni di pubblica assistenza o volontaristiche riconosciute. È quindi difficile avere dati omogenei su quanti eventuali utilizzi impropri delle luci e delle sirene si verifichino sul piano nazionale nei trasporti “in ritorno”, quelli con il paziente a bordo.I dati relativi agli accessi nei pronto soccorso – che però includono sia quelli in ambulanza che su mezzi privati, e non indicano il livello di priorità dell’intervento al momento dell’arrivo in pronto soccorso – sono raccolti e pubblicati dall’Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. E indicano che nel 2021, prendendo in considerazione il dato cumulativo di tutti gli ospedali italiani, nel 51,7 per cento dei casi di accesso al pronto soccorso nella fascia oraria dalle 8 alle 20 dei giorni feriali sono stati assegnati codici verdi o bianchi (oltre 2,6 milioni). Nelle ore notturne e nei giorni festivi quella percentuale è stata invece del 38 per cento.– Leggi anche: Il numero unico 112 funziona male?Negli ultimi anni negli Stati Uniti e in altri paesi, scrive STAT, è emersa un’inclinazione a chiedere al personale che gestisce le richieste di soccorso sanitario di autorizzare l’utilizzo di luci e sirene sulla base delle reali necessità del paziente e con la stessa attenzione con cui viene prescritto qualsiasi trattamento medico. Da marzo scorso nella contea di Mecklenburg in North Carolina è in vigore un nuovo piano che limita l’utilizzo di luci e sirene soltanto a ferite da arma da fuoco al petto, emorragie massicce e pazienti incoscienti: riguarda casi del genere circa una chiamata su cinque. Per tutti gli altri casi il personale alla guida dell’ambulanza guida come farebbe con qualsiasi altro mezzo.I provvedimenti presi in alcuni stati riflettono in parte le preoccupazioni emerse in molti contesti locali in seguito a incidenti stradali, anche mortali, in cui sono state coinvolte ambulanze, la cui necessità di utilizzare luci e fari e quindi non rispettare la segnaletica stradale durante il trasporto del paziente in ospedale è stata in alcuni casi contestata.Un’ambulanza nel quartiere Borough Park, a New York, il 28 settembre 2020 (Spencer Platt/Getty Images)Nei primi anni di istituzione dei servizi di emergenza sanitaria l’utilizzo di luci e sirene replicava l’utilizzo che di quei segnalatori già facevano i vigili del fuoco. Come si pensava che un incendio potesse propagarsi molto rapidamente, per cui prima arrivavano i vigili del fuoco, maggiori erano le probabilità di salvare vite e proprietà, allo stesso modo si pensava che più velocemente un paziente poteva essere trasportato in ospedale, maggiore era la probabilità di salvarlo. I primi autisti di ambulanze non seguivano quindi alcuna formazione specifica, come invece succede oggi, ed erano autisti con gli stessi requisiti richiesti loro per altri servizi: essere bravi e veloci alla guida.Ancora oggi, in molti casi, le agenzie che forniscono servizi medici di emergenza negli Stati Uniti sottoscrivono contratti di prestazione con le città o le contee in cui è esplicitamente richiesto che le ambulanze arrivino sul luogo della richiesta di soccorso entro un limite di tempo prestabilito (di solito otto minuti o anche meno). Come ha spiegato a STAT Douglas Kupas, direttore dell’associazione nazionale dei tecnici di medicina di emergenza (Emergency medical technician, EMT, il personale in servizio sulle ambulanze), molti di quei tempi prestabiliti sono ancora basati sui risultati di uno studio del 1979 secondo cui i pazienti con arresto cardiaco avevano bisogno di rianimazione cardio-polmonare (RCP) entro quattro minuti e cure stabili entro dieci minuti.– Leggi anche: Il volto più baciato del mondoSecondo Kupas sono requisiti perlopiù anacronistici, perché lo studio risale a un’epoca in cui non c’era l’attuale disponibilità di defibrillatori automatici. E perché c’erano molte meno persone di quante ce ne siano oggi in grado di praticare una rianimazione cardio-polmonare in attesa dell’arrivo di un’ambulanza. «Trasportarti velocemente in ospedale non è più il valore della medicina di emergenza», ha detto Kupas. Spesso, come vale anche in Italia per il personale medico a bordo delle ambulanze, i medici di emergenza hanno le attrezzature e la preparazione per curare i pazienti o stabilizzare le loro condizioni sul luogo dell’intervento. E questo primo intervento può anche rendere il trasporto in ospedale meno urgente di quanto inizialmente stabilito dagli operatori al telefono.In molti casi negli Stati Uniti i medici nell’ambulanza possono applicare lacci emostatici alle ferite, curare gravi reazioni allergiche e overdose tramite iniezione di farmaci e anche intubare pazienti che non sono in grado di respirare autonomamente. Soltanto una chiamata su 14 riguarda questo tipo di interventi, secondo un’analisi nazionale condotta nel 2018 su circa 9 milioni di telefonate al 911. E altri studi suggeriscono che le emergenze mediche per cui il tempo è un fattore di vitale importanza costituiscono tra il 4,5 e il 5,3 per cento di tutto il volume delle chiamate.Secondo Rick Ferron, responsabile dei servizi di medicina di emergenza nella municipalità canadese di Niagara, nell’Ontario, dare troppa enfasi alla velocità dei servizi «è un po’ come cercare di determinare chi ha vinto una partita di calcio tenendo d’occhio la velocità della corsa dei giocatori anziché il risultato», scrive STAT. «Ci chiamiamo servizi medici di emergenza ma è un termine un po’ improprio, non possiamo trattare tutto come se fosse un’emergenza», ha detto Ferron, che ha segnalato che nella municipalità di Niagara luci e sirene sono ora utilizzate soltanto nel 5-10 per cento delle chiamate.Nello studio del 2019 pubblicato su Annals of Emergency Medicine il gruppo di ricercatori della University of Texas rilevò che su circa 20 milioni di trasporti in ambulanza verso le strutture sanitarie i tassi di incidenti erano più che raddoppiati quando luci e sirene erano accese. Oltre che mettere in pericolo la vita delle persone coinvolte, gli incidenti hanno ripercussioni anche quando non provocano morti: rallentano il soccorso al paziente, impegnano ulteriore personale medico chiamato a intervenire e, in caso di ferite e infortuni, costringono i servizi di emergenza a rimanere senza uno o più medici per settimane o mesi. Senza considerare l’aumento dei costi legati alla sostituzione o riparazione dei veicoli, o all’aumento dei premi assicurativi.Sebbene difficile da rilevare e quantificare con precisione, è inoltre noto il fenomeno del cosiddetto «effetto scia» dei mezzi di soccorso, espressione utilizzata per definire gli incidenti stradali che si verificano in seguito al passaggio di un’ambulanza ma che non coinvolgono né sono causati direttamente dalle ambulanze. Sono generalmente incidenti dovuti al comportamento imprevedibile e atipico degli altri conducenti sulla strada, che per esempio frenano bruscamente a un incrocio o sterzano improvvisamente per permettere il passaggio dell’ambulanza.– Leggi anche: Perché collaboriamoL’eccessivo utilizzo di luci e sirene, ha detto a STAT un medico di emergenza della Pennsylvania, può anche interferire con il lavoro a bordo dell’ambulanza e rendere più complicato il genere di valutazione che invece serve proprio a determinare la priorità del trasporto verso l’ospedale. «È più complicato per me valutare e curare il paziente lungo il tragitto se non riesco ad alzarmi, ad auscultare i polmoni né a comunicare con un collega, a causa delle sirene spiegate» e della velocità di viaggio, ha detto.La corsa verso l’ospedale può anche provocare ulteriore stress fisiologico a un paziente in condizioni critiche, aumentando la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca in situazioni in cui l’ossigeno è invece una preziosa riserva. Le sirene possono essere causa di rischi per la salute anche per il pubblico in generale e fonte di pericoli nel caso di persone con deficit visivi, uditivi o altri deficit percettivi.Una delle principali difficoltà nel cercare di porre limiti condivisi e nazionali all’utilizzo improprio di luci e sirene, secondo STAT, è che il settore dei servizi di emergenza è gestito a livello di città e contee da differenti organi, agenzie e strutture, pubbliche e private, ciascuna con un proprio regolamento o un proprio insieme di prassi e abitudini. Alcune agenzie utilizzano volontari qualificati, altre impiegano professionisti a tempo pieno; alcune sono senza scopo di lucro, altre sono servizi privati a pagamento.Nel 2022 la National EMS Quality Alliance, un’organizzazione impegnata nel miglioramento degli standard dei servizi medici di emergenza, ha avviato con 50 agenzie che forniscono questo tipo di servizi un programma per ridurre l’utilizzo di luci e sirene, e collaborare allo sviluppo di linee guida nazionali. Oltre che approvare la riduzione dell’utilizzo di luci e sirene, un gruppo di 14 associazioni che rappresentano le agenzie ha inoltre reso noto un documento condiviso in cui, tra le altre misure, richiede che sia garantita una formazione migliore per i conducenti delle ambulanze e un miglioramento del triage telefonico, cioè la procedura con cui gli operatori danno informazioni e consigli a chi è incaricato di soccorrere la persona che ha bisogno dell’ambulanza. LEGGI TUTTO

  • in

    Oggi il Sole illuminerà quasi tutti nello stesso momento

    Sabato 8 luglio la quasi totalità della popolazione umana sulla Terra sarà esposta a qualche raggio solare nello stesso momento, grazie alla particolare posizione del nostro pianeta in questo periodo dell’anno rispetto al Sole. È un fenomeno che si verifica ogni anno e che riguarda in misura di poco minore anche altre settimane dell’anno: non è quindi particolarmente insolito o speciale, ma è comunque poco conosciuto. Intorno alle 13 di oggi (ora italiana) il 99 per cento delle persone riceverà la luce solare, anche se non tutti gli 8 miliardi degli abitanti della Terra saranno illuminati allo stesso modo.Nei paesi molto a oriente come il Giappone ci sarà solamente una luce molto debole dopo il tramonto, mentre molto più a ovest come in California lo stesso fenomeno si verificherà con il bagliore nelle ore intorno all’alba. Per tutto ciò che rimane nel mezzo, come il resto delle Americhe, l’Europa, l’Africa e una parte importante dell’Asia, ci sarà piena luce. Le uniche terre emerse che rimarranno al buio saranno la Nuova Zelanda, l’Australia e le altre isole dell’oceano Pacifico.Il fenomeno di oggi non è comunque raro, anzi. Qualcosa di simile si verifica in buona parte del periodo compreso tra maggio e luglio, con circa il 98 per cento della popolazione mondiale che riceve un poco di luce solare allo stesso momento. La circostanza ha ottenuto un certo interesse negli ultimi anni soprattutto in seguito a una mappa che era stata condivisa tre anni fa su Reddit, nella quale era evidente l’esposizione al Sole di buona parte dei continenti nel medesimo momento.Da allora, la mappa è tornata a circolare sui social network ogni estate, suscitando nuove curiosità e discussioni sulla sua accuratezza. Nel 2022 il sito Time and Date aveva fatto alcune verifiche, concludendo che la descrizione fosse accurata, per quanto con qualche riserva. Una effettiva esposizione al Sole (quando ci si trova tra alba e tramonto) nel momento di picco riguarda l’83 per cento della popolazione mondiale, mentre il restante 16 per cento può osservare un debole chiarore in cielo non sempre percepibile, per esempio se ci si trova in luoghi con inquinamento luminoso come le grandi città.La parte del pianeta che rimane di più al buio nel momento di picco del fenomeno è quella occupata dall’oceano Pacifico, un’area molto ampia e che copre quasi un terzo dell’intera superficie terrestre. Le aree illuminate dal Sole sono invece quelle in cui si concentra la maggior parte della popolazione mondiale.La grande area occupata dall’oceano Pacifico (Google Earth)Il momento in cui più persone ricevono contemporaneamente la luce solare, con tutte le eccezioni del caso che abbiamo visto, non va confuso con il solstizio d’estate nel nostro emisfero, cioè con il giorno in cui la quantità di ore di luce è massima (relativamente al luogo in cui ci si trova). Dopo il solstizio, che quest’anno si è verificato il 21 giugno, la durata del dì nel nostro emisfero ha iniziato a ridursi, ma la posizione che ha raggiunto la Terra rispetto al Sole ha fatto sì che più persone siano esposte a maggiori quantità di luce più verso sud rispetto a prima. LEGGI TUTTO

  • in

    A cosa servono le zanzare?

    Caricamento playerIl nostro rapporto con le zanzare ha picchi periodici di conflittualità, di solito in corrispondenza della stagione calda quando questi insetti sono più presenti e interessati al nostro sangue per potersi riprodurre. Si sente spesso dire che “le zanzare sono inutili” e che il loro unico scopo sia dare fastidio agli esseri umani, specialmente nel cuore della notte quando ci ronzano nelle orecchie. Le zanzare non hanno una buona fama anche per via delle numerose malattie che possono trasmettere, come la malaria, eppure svolgono un ruolo importante – e spesso poco conosciuto – negli ambienti in cui vivono.Chiedersi in generale perché esistano le zanzare è un po’ come chiedersi perché esistano gli elefanti, o qualsiasi altro essere vivente che popola il nostro pianeta. Che scopo ha un elefante oltre a quello di sopravvivere e riprodursi? Che cosa giustifica e che cosa dà senso alla sua esistenza? Sono ottime domande per le speculazioni filosofiche, ma difficilmente nel quotidiano viene da chiedersi qualcosa del genere sugli elefanti o buona parte degli altri animali. Con le zanzare è diverso perché nel nostro percepito la loro esistenza è strettamente legata a procurare grandi fastidi e in alcuni casi seri pericoli per la salute. È una percezione che si rinnova ogni estate e da qualche anno anche in parte della stagione fredda, a causa dell’arrivo di specie esotiche che si sono adattate al nostro clima.A oggi sono state censite circa 3.500 specie di zanzara, moltissime delle quali non hanno nulla a che fare con gli esseri umani o buona parte degli altri animali. Per la maggior parte della loro breve vita (circa un mese, ma la durata può variare molto) le zanzare si nutrono degli zuccheri che riescono a ottenere dalle piante, per lo più sotto forma di nettare. I maschi di zanzara si nutrono esclusivamente di queste sostanze zuccherine, mentre le femmine passano al sangue quando hanno bisogno di più energie e proteine per riprodursi: è in questa fase che vanno alla ricerca di un animale, Homo sapiens compresi, per ottenere il sangue di cui hanno bisogno.Posandosi sulle piante e sui fiori, le zanzare contribuiscono all’impollinazione, cioè al trasferimento dei pollini che per molte specie vegetali è essenziale per produrre i frutti e potersi riprodurre. È ancora dibattuto quale sia l’effettivo contributo delle zanzare all’impollinazione, ma esistono studi e osservazioni a proposito da circa un secolo e mezzo. La difficoltà nel determinare il loro ruolo in questo processo è dovuta soprattutto al fatto che molte specie di zanzare sono più attive nelle ore intorno all’alba e al tramonto. Le osservazioni devono quindi essere effettuate in scarse condizioni di luce e con grandi cautele, considerato che appena vengono disturbate le zanzare preferiscono allontanarsi, a differenza di altre specie di insetti che hanno un grande ruolo nell’impollinazione come le api.– Ascolta anche: La puntata speciale di “Ci vuole una scienza” sulle zanzareLe zanzare sono tra gli insetti volanti più antichi che esistano e sembra che una parte importante della loro evoluzione abbia avuto a che fare con i fiori. Alcuni studi genetici hanno per esempio segnalato come le zanzare iniziarono a differenziarsi in numerose specie nella fase in cui iniziarono a comparire le prime angiosperme, le piante che hanno un fiore e successivamente producono un seme protetto da un frutto. Alcune tracce della loro presenza sono state trovate in alcuni fossili di fiori risalenti a 79-145 milioni di anni fa.È stato osservato che le zanzare vanno alla ricerca dei fiori utilizzando non solo il proprio apparato visivo, ma anche l’olfatto. Alcune delle molecole che rendono odorosi certi tipi di fiori sono uguali a quelle prodotte dagli esseri umani con la sudorazione e in generale la traspirazione. Si ipotizza quindi che la particolare preferenza delle zanzare per alcune di queste molecole abbia anche favorito il loro rapporto con la nostra specie e in particolare con il nostro sangue.(Jon Cherry/Getty Images)Le zanzare utilizzano comunque vari sistemi per scoprire la presenza delle loro prede, facendo soprattutto affidamento sull’anidride carbonica che emettono e che riescono a rilevare a decine di metri di distanza. L’insistenza con cui provano a pungere deriva dalla necessità di ottenere a tutti i costi qualche goccia di sangue, essenziale per le femmine per avere energie per sopravvivere nella fase della riproduzione. In un certo senso, per molte specie ottenere del sangue è una questione di vita o di morte.L’impollinazione ha una grande importanza nel mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità, come è diventato evidente negli ultimi anni anche a causa della grave moria di api in molte aree del mondo. La perdita di grandi quantità di insetti mette a rischio questo processo e di conseguenza la preservazione degli ecosistemi con la loro grande varietà di specie viventi. Ma per le zanzare non ci sono solo fiori e nettare.Le zanzare sono anche ghiotte di melata, la sostanza zuccherina che emettono vari insetti che si nutrono della linfa delle piante, come gli afidi. Procurarsi la melata non è sempre semplice, per questo alcune specie di formiche hanno strette frequentazioni con gli afidi e hanno anche un modo particolare di condividere le loro secrezioni. Se una formica ha raccolto molta melata, una sua simile può indurla a rigurgitarne una parte strofinandole le antenne, in modo da potersene nutrire. Alcune specie di zanzara hanno fatto proprio il trucco e lo utilizzano per prelevare la melata dalle formiche inducendole a rigurgitarla.Ma le zanzare hanno anche un ruolo importante nella preservazione di particolari ecosistemi. In alcune aree del mondo può accadere di incappare in enormi sciami con decine di migliaia di esemplari, in alcuni casi in grado di uccidere animali di piccola-media taglia. Lo sanno bene le renne che vivono nella tundra e nelle regioni subartiche e che nei mesi estivi sono un bersaglio costante delle zanzare, al punto da dover cambiare le loro abitudini. Le renne provano a disfarsene correndo nel vento, di conseguenza privilegiano le aree di territorio più ventose. La loro permanenza nelle zone con aria stagnante e più umida si riduce molto d’estate e questo permette alle piante di crescere senza essere distrutte dai loro zoccoli o di essere masticate. Alcuni gruppi di ricerca ipotizzano che in assenza delle zanzare le renne sarebbero molto più libere di muoversi sul territorio, distruggendo le piante nelle zone più umide e delicate, riducendo di conseguenza la biodiversità.Le zanzare sono del resto molto presenti nelle zone umide e con acqua stagnante, le loro larve si nutrono soprattutto dei prodotti della decomposizione di alghe e altre sostanze nelle pozze d’acqua. In pochi litri d’acqua possono essercene migliaia, che diventano una fonte di cibo per pesci, anfibi e uccelli. Le larve che sopravvivono e terminano lo sviluppo diventano le zanzare per come siamo abituati a vederle, spiccano il volo e iniziano a costituire una risorse diversa per gli ecosistemi. Si spostano tra pianta e pianta favorendo l’impollinazione, le femmine scelgono le loro prede per succhiare il sangue e diventano a loro volta prede di altri animali.(CDC)Si nutrono di zanzare adulte gli uccelli, le rane, i pipistrelli, i ragni e vari insetti. Quelle che non finiscono nella bocca di qualche altro animale o spiaccicate contro il muro con una pantofola arrivano alla fine del loro ciclo vitale, cadono al suolo, si decompongono e diventano sostanze nutrienti per le piante. Può sembrare poca cosa, viste le dimensioni di una zanzara, ma ogni giorno in tutto il mondo muoiono miliardi di questi insetti. Si stima che solo in Alaska, dove sono molto presenti nei mesi estivi, le zanzare raggiungano un peso complessivo (o per meglio dire una biomassa) di oltre 43mila tonnellate.La loro presenza a latitudini come quelle delle zone subartiche aiuta a sfatare almeno in parte il mito secondo il quale le zanzare proliferano quando fa molto caldo. Lo pensano in molti perché se si pensa a questi insetti vengono soprattutto in mente le zone tropicali o molto calde come quelle del sud-est asiatico, ma in realtà anche in quei luoghi le zanzare sono presenti per lo più negli ambienti umidi e freschi, per esempio nelle acque stagnanti protette dall’ombra delle fronde degli alberi. È assai raro trovare zanzare in luoghi completamente esposti alla luce solare e questo spiega perché molte specie si fanno vedere solo all’alba o al tramonto.Molto dipende comunque dalle specie, ci sono zanzare con abitudini diverse tra loro compresi gli orari della giornata in cui sono più attive. Alle nostre latitudini accade sempre più spesso di essere morsi da una zanzara anche in pieno giorno a causa della presenza di alcune specie invasive come la zanzara tigre (Aedes albopictus), originaria dell’Asia orientale e da una trentina di anni presente in Italia. Arrivò a causa dei commerci internazionali, trasportata in alcune merci, e la sua presenza sempre più massiccia insieme a quella di altre specie deriva dal modo in cui viene gestito il territorio e dagli effetti del cambiamento climatico, con una stagione calda sempre più lunga che favorisce lo sviluppo e la riproduzione di questi insetti.Soprattutto in Africa, dove le zanzare sono tra le principali cause di morte per via della trasmissione del parassita che causa la malaria, si utilizzano repellenti, insetticidi e barriere fisiche come zanzariere per tenerle a debita distanza. Queste soluzioni non sono però sufficienti e gli insetticidi causano inoltre gravi problemi negli ecosistemi, uccidendo diverse altre specie importanti per l’impollinazione e che costituiscono le prede di altri animali. Negli ultimi anni è iniziata la sperimentazione di sistemi per rendere sterili le zanzare, in modo da ridurre le loro popolazioni intorno alle aree abitate, dove il rischio di trasmissione della malaria e di altre malattie è maggiore.Bambini riposano protetti da una zanzariera a Prey Mong ko, Cambogia (Paula Bronstein/Getty Images)La modifica genetica delle zanzare per renderle meno prolifiche è molto dibattuta, non solo dal punto di vista etico, ma anche perché non tutti sono convinti dell’efficacia del sistema e ci si interroga su quali conseguenze potrebbero esserci per specifici ecosistemi. Queste tecniche hanno portato qualche concretezza in più alla domanda che si fanno in molti, soprattutto dopo essere stati disturbati da una zanzara: “Che cosa accadrebbe se eliminassimo tutte le zanzare?”. Trovare una risposta non è semplice, anche perché è molto difficile fare simulazioni sul cambiamento di interi ecosistemi nel momento in cui si interviene per modificarli, eliminando o introducendo nuove specie.Interventi di questo tipo portano quasi sempre a risultati imprevisti, con la proliferazione di altre specie o una riduzione della biodiversità, che influisce poi sulla tenuta degli ecosistemi specialmente quando questi vengono messi sotto forti stress per esempio a causa di importanti cambiamenti climatici, come quelli che stiamo vivendo in questi anni. I più ottimisti dicono che se scomparissero le zanzare ci sarebbero semplicemente altri insetti che prenderebbero il loro spazio, riconfigurando gli equilibri all’interno degli ecosistemi. I più scettici ritengono che invece si avrebbe un impoverimento, difficile da prevedere, ma comunque tangibile, della biodiversità e la perdita ulteriore di insetti molto importanti per numerose altre specie non solo animali, ma anche vegetali. LEGGI TUTTO

  • in

    L’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha dato un parere positivo a rinnovare l’autorizzazione all’utilizzo del glifosato

    L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha detto di non aver individuato problemi per la salute umana riguardo all’utilizzo del glifosato, una sostanza chimica largamente utilizzata in numerosi insetticidi: tra questi uno dei più noti è il Roundup, prodotto dal grande gruppo farmaceutico Bayer, il cui uso è approvato in 130 paesi compresi quelli dell’Unione Europea. Negli Stati Uniti sono state intentate numerose cause contro Bayer nel corso dell’ultimo decennio, per via dei presunti effetti cancerogeni del prodotto.L’autorizzazione concessa dall’Unione Europea per l’utilizzo del glifosato scadrà a dicembre di quest’anno: la Commissione Europea dovrà ora decidere se proporre il rinnovo dell’autorizzazione, basandosi proprio sul parere dell’EFSA e degli stati membri.La decisione dell’Autorità è stata criticata da numerose ONG ambientaliste. Nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) inserì il glifosato nella lista delle sostanze “probabilmente cancerogene”. La decisione arrivò in seguito a uno studio dell’Agenzia Internazionale per la ricerca contro il cancro (IARC) secondo cui sarebbe probabile che il glifosato sia cancerogeno, ma non ci sarebbero sufficienti prove per stabilirlo con certezza. Nel 2017 anche l’Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA) aveva deciso di non classificare il glifosato come sostanza cancerogena, ritenendo che non ci fossero abbastanza prove per sostenerlo. (Photo by Sean Gallup/Getty Images) LEGGI TUTTO