More stories

  • in

    La missione spaziale cinese Chang’e 6 ha portato sulla Terra alcuni campioni di suolo lunare

    Poco dopo le 8 del mattino di martedì 25 giugno la missione lunare cinese senza equipaggio Chang’e 6 è tornata sulla Terra, portando con sé alcuni frammenti di suolo della Luna raccolti dal suo emisfero nascosto. La capsula contenente i campioni è atterrata nella Mongolia Interna, una regione autonoma della Cina, rallentata nella sua discesa da un paracadute. I campioni saranno ora recuperati e analizzati per verificare le caratteristiche del suolo lunare in un’area raramente esplorata. È la prima volta che del suolo della faccia nascosta della Luna viene trasportato sulla Terra.Operazioni di recupero della capsula spaziale contenente i campioni di suolo lunare (CNSA)
    Chang’e 6 è la sesta missione del Programma cinese per l’esplorazione lunare iniziato nel 2007 con Chang’e 1, la prima iniziativa per raggiungere l’orbita lunare. Chang’e è il nome della dea della Luna in diverse mitologie cinesi e, missione dopo missione, l’iniziativa ha permesso alla Cina di compiere grandi progressi nelle complicate attività per raggiungere il suolo lunare. L’obiettivo fu raggiunto una prima volta da Chang’e 3 nel 2013, rendendo la Cina il terzo paese nella storia a compiere un allunaggio controllato dopo gli Stati Uniti e la Russia ai tempi dell’Unione Sovietica. LEGGI TUTTO

  • in

    Cercasi pianta femmina per pianta maschio in via di estinzione

    Caricamento playerAnche le specie vegetali possono estinguersi e anche delle specie vegetali può succedere che sia rimasto un unico individuo sul pianeta. È il caso della cicas di Wood, un albero originario del Sudafrica, che è stato soprannominato “la pianta più sola nel mondo”. Ce ne sono circa 110 all’interno di giardini botanici di vari paesi, ma geneticamente si tratta della stessa pianta, che è stata propagata staccando steli dall’unica cicas di Wood trovata in natura finora. C’è però chi sta cercando di trovarne un’altra, e così evitare l’estinzione della specie, usando droni in volo sopra una foresta e un algoritmo per il riconoscimento delle immagini.
    La cicas di Wood dei Kew Gardens di Londra, nel Regno Unito, nel 2019; venne propagata dall’individuo trovato in Sudafrica nel 1899 (il Post)
    La cicas di Wood è, come suggerisce il nome, un tipo di cicas, un gruppo di specie di piante diverse. Apparentemente le cicas sono simili alle palme, ma in realtà sono molto distanti a livello evolutivo, e sono molto più antiche – esistevano già 270 milioni di anni fa, nel Mesozoico, detto anche “era delle cicas”. Sono piante dioiche, di cui cioè esistono individui femminili e individui maschili. La cicas di Wood di cui siamo a conoscenza è un individuo maschile, per questa ragione per preservare la specie non basterebbe trovare una cicas di Wood qualsiasi, ma un individuo femminile.
    Il nome scientifico della cicas di Wood è Encephalartos woodii: la specie deve il suo nome a John Medley Wood, un botanico sudafricano vissuto tra il 1827 e il 1915. Nel 1895 Wood trovò l’individuo di cicas a noi noto nella foresta di Ngoye, un’area boscosa nell’est del Sudafrica che attualmente ha un’estensione di 40 chilometri quadrati. Dal 1916 quell’albero si trova a Pretoria, in un’area recintata e protetta, dove è stato portato perché il dipartimento forestale del Sudafrica temeva che potesse essere distrutto.
    Dopo il 1895 vari esploratori hanno cercato altre cicas di Wood nella foresta di Ngoye, ma senza successo. La foresta però non è mai stata esplorata del tutto. Ispirato dalla “solitudine” della cicas di Wood maschio C-LAB, un collettivo di ricerca artistica che impiega metodi scientifici per i propri progetti, ha deciso di provare a cercare una femmina usando tecnologie contemporanee, a cominciare da droni e algoritmi.
    La cicas di Wood trovata da John Medley Wood nella foresta di Ngoye nel 1907 (James Wylie)
    Laura Cinti, ricercatrice dell’Università di Southampton e una dei fondatori di C-LAB, spiega che per il collettivo l’arte e la scienza sono «discipline interconnesse che possono ispirarsi a vicenda». «Nella nostra attività usiamo metodi sofisticati e materiali intricati, e lavoriamo a stretto contatto con scienziati ed esperti. Questa combinazione offre prospettive uniche sul modo con cui vediamo, capiamo e sperimentiamo il mondo», dice.
    Per provare a trovare la cicas di Wood femmina, all’inizio del 2024 C-LAB ha fatto volare dei droni su una piccola porzione della foresta di Ngoye, meno di un chilometro quadrato, raccogliendo più di 15mila fotografie. Tutte insieme le immagini formano una mappa molto dettagliata della porzione di foresta esaminata.
    Mosaico di immagini di cicas usate per addestrare l’algoritmo di C-LAB (Laura Cinti & Howard Boland © C-LAB)
    La mappa è poi stata fatta analizzare a un algoritmo per il riconoscimento delle immagini precedentemente “addestrato” a riconoscere le cicas usando sia fotografie reali di diverse cicas, sia immagini di diverse cicas di Wood prodotte con un software di intelligenza artificiale. L’idea è di ottenere un sistema informatico in grado di individuare altre cicas di Wood nella foresta di Ngoye grazie alle fotografie fatte dall’alto coi droni.
    Per ora non sono state trovate altre cicas, ma resta da esaminare ancora la stragrande maggioranza della foresta, e col procedere delle ricerche l’algoritmo di C-LAB dovrebbe migliorare le proprie prestazioni. Intanto il collettivo artistico sta avviando un’ulteriore ricerca per capire se utilizzando degli stimoli chimici o fisici si potrebbe far cambiare sesso a una delle cicas di Wood presenti nei giardini botanici. Infatti secondo alcuni studi è già successo che individui di altre specie di cicas abbiamo cambiato sesso in seguito a cambiamenti nel loro ambiente.

    – Leggi anche: Cosa fai tutto il giorno quando la tua specie si è estinta LEGGI TUTTO

  • in

    La NASA è responsabile dei danni causati dai detriti dei suoi satelliti?

    Caricamento playerA marzo un oggetto bizzarro, caduto dal cielo, ha squarciato il tetto di un’abitazione della città di Naples, in Florida, negli Stati Uniti. Non ha causato feriti, ma per gli abitanti della casa è stato causa di un grosso spavento: il proprietario, Alejandro Otero, ha raccontato al Washington Post di aver ricevuto una chiamata dal figlio «in preda al panico», e di essere tornato rapidamente a casa per capire cosa fosse successo, trovando «un buco nel tetto e nel pavimento del secondo piano» e «un insolito proiettile – un pezzo denso e cilindrico di metallo carbonizzato, poco più piccolo di una lattina di zuppa – conficcato in un muro». Otero ha detto di essersi reso subito conto che non si trattava di un oggetto qualunque, ma che era una cosa che «veniva dallo Spazio».
    La NASA – acronimo che sta per National Aeronautics and Space Administration, ovvero l’agenzia aerospaziale statunitense – ha poi confermato che l’oggetto cilindrico faceva parte di un carico di vecchie batterie, partito dalla Stazione spaziale internazionale nel marzo del 2021. L’oggetto, che fa parte della più ampia categoria di “spazzatura spaziale”, sarebbe normalmente dovuto bruciare e quindi scomparire nel momento del rientro nell’atmosfera terrestre, ma è invece rimasto abbastanza intatto da perforare il tetto degli Otero, che ora hanno chiesto un risarcimento per danni, principalmente per motivi psicologici, alla NASA stessa.
    La NASA ha sei mesi per decidere se rimborsare la famiglia o se aprire un caso legale al riguardo: in ogni caso si tratta di una decisione che creerebbe un precedente, dato che non è mai successo prima che un oggetto lanciato in orbita dagli Stati Uniti e poi caduto dallo Spazio abbia causato qualche tipo di danno a cittadini statunitensi.
    La distinzione del paese di lancio dell’oggetto e della nazionalità delle persone coinvolte è importante perché in realtà esiste un accordo internazionale che regolamenta quel che succede in questi casi (il Trattato sullo Spazio extratmosferico del 1967), ma si applica soltanto nei casi in cui un oggetto lanciato nello Spazio da un paese caschi nel territorio di un altro stato. In quel caso, lo stato di lancio è responsabile di qualsiasi compensazione finanziaria che potrebbe derivare dai costi di danneggiamento o di bonifica.
    In questo caso, invece, è una questione interna agli Stati Uniti – è un oggetto statunitense che danneggia proprietà statunitensi – che viene però osservata con attenzione dagli esperti. Il forte aumento di rifiuti nello Spazio negli ultimi anni, infatti, ha fatto aumentare le preoccupazioni attorno al fatto che questi casi in futuro possano diventare un po’ più frequenti. Già nel 2021 la professoressa Timiebi Aganaba, che si occupa del rapporto tra Spazio e società all’Università dell’Arizona, scriveva che «l’attuale legge spaziale ha funzionato finora perché i casi erano pochi e rari, e sono stati affrontati in modo diplomatico. Man mano che un numero crescente di oggetti viene mandato in orbita, però, i rischi aumenteranno inevitabilmente».
    Tecnicamente, tutti gli oggetti che si trovano nell’orbita terrestre stanno sempre cadendo verso la Terra. I satelliti attivi hanno dei sistemi che permettono loro di rimanere nell’orbita prevista, e quindi di rimanere sostanzialmente in equilibrio, mentre i satelliti inattivi (quelli che smettono di funzionare o vengono disabilitati per qualche motivo) non hanno più modo di opporsi alla gravità, e cadono fino a rientrare nell’atmosfera terrestre. Nel 2023 i satelliti attivi in orbita attorno alla Terra erano oltre 7.700, e quelli inattivi circa 3.300.
    Ci sono principalmente due cose che si possono fare per gestire un satellite inattivo. La prima è spostarli in un’orbita più alta, la cosiddetta “orbita cimitero”, abbastanza lontana dalla Terra che l’oggetto ci metterà centinaia di anni a raggiungere l’atmosfera. La seconda è orientare il satellite in modo che bruci del tutto nell’atmosfera o possa comunque causare danni minimi nell’impatto con il suolo.
    Può capitare però che alcuni rifiuti spaziali rientrino in modo incontrollato nell’atmosfera terrestre: anche in questo caso, raramente sopravvivono alle altissime temperature raggiunte prima di arrivare al suolo. È successo per esempio nel 1979, quando i detriti dello Skylab, la prima stazione spaziale statunitense, precipitarono nell’Australia occidentale senza però causare danni. Nel 1978, invece, i resti del satellite sovietico a propulsione nucleare Cosmos 954 caddero sul Canada settentrionale, diffondendo detriti radioattivi: è l’unico caso in cui un paese (il Canada) ha chiesto di essere rimborsato da un altro (l’Unione Sovietica) in base al Trattato sullo Spazio extratmosferico.
    «Se l’incidente fosse avvenuto all’estero e qualcuno in un altro paese fosse stato danneggiato dagli stessi detriti spaziali che hanno colpito gli Otero, gli Stati Uniti sarebbero assolutamente stati tenuti a rimborsarlo per i danni», ha detto l’avvocata della famiglia Mica Nguyen Worthy. «Peraltro, se i detriti fossero caduti qualche metro più in là avrebbero potuto esserci lesioni gravi o mortali». La famiglia ha chiesto un indennizzo che comprende i danni materiali causati dal buco nel tetto, i costi per l’assistenza di terzi e i danni causati dall’angoscia emotiva e mentale provocata da un evento così imprevisto. LEGGI TUTTO

  • in

    Come mai pene e clitoride sono così sensibili agli stimoli fisici

    Caricamento playerUn gruppo di ricerca negli Stati Uniti ha studiato nel dettaglio per la prima volta alcune minuscole terminazioni nervose sul pene e sul clitoride, che sembrano avere un ruolo centrale nella stimolazione sessuale e nella produzione di effetti come le erezioni, fondamentali per la riproduzione. Lo studio è stato da poco pubblicato sulla rivista scientifica Nature ed è stato realizzato sui topi, ma il gruppo di ricerca ritiene che possano esserci meccanismi analoghi negli esseri umani considerato che sono dotati di un tipo simile di terminazioni nervose. Ulteriori ricerche potrebbero offrire nuovi sistemi per trattare le disfunzioni erettili e le paralisi dovute a eventi traumatici.
    Lo studio è nato dalla curiosità di David Ginty, un neurobiologo dell’Harvard Medical School di Boston che negli anni scorsi si era interessato ai “corpuscoli di Krause”, piccole terminazioni nervose della pelle osservate per la prima volta dall’anatomista tedesco Wilhelm Krause circa un secolo e mezzo fa. Per diverso tempo si era pensato che queste terminazioni, fatte a forma di piccoli bulbi, avessero per lo più il compito di far percepire alla pelle variazioni di temperatura, ma la loro funzione era rimasta a lungo un mistero perché troppo piccole per essere studiate approfonditamente.
    I corpuscoli avevano incuriosito negli anni i gruppi di ricerca, infatti, ma fino a una ventina di anni fa non c’erano sistemi affidabili per attivarli a livello molecolare e studiarli. I recenti progressi in alcune tecniche di tracciamento hanno reso possibili nuovi tipi di test, che sono stati sfruttati da Ginty per realizzare alcuni esperimenti.

    – Leggi anche: La sconcertante varietà di peni nel regno animale

    Come spiega nello studio, il gruppo di ricerca è riuscito ad attivare i corpuscoli in topi maschi e femmine utilizzando stimoli meccanici ed elettrici. In particolare, i neuroni hanno mostrato di rispondere a vibrazioni a bassa frequenza (tra i 40 e gli 80 hertz), simili a quelle già utilizzate in alcuni sex toy per la stimolazione sessuale negli esseri umani. Ginty ipotizza che per prove ed errori i produttori siano arrivati a trovare le giuste frequenze, anche senza essere a conoscenza dei corpuscoli e delle loro caratteristiche, vista la somiglianza tra le terminazioni nervose nei topi e nel corpo umano.
    Nel clitoride (a sinistra) i corpuscoli di Krause sono distribuiti più densamente rispetto al pene (a destra), nei topi esaminati (Nature)
    Il gruppo di ricerca ha inoltre notato che nei genitali maschili e femminili dei topi la quantità di corpuscoli è più o meno la stessa e rimane invariata: nel corso dello sviluppo, all’aumentare delle dimensioni degli organi, questi si distribuiscono diventando relativamente meno concentrati nei tessuti. Il pene e il clitoride hanno dimensioni diverse negli individui adulti, di conseguenza il clitoride ha una maggiore concentrazione di corpuscoli e questo secondo il gruppo di ricerca potrebbe spiegare perché sia molto sensibile agli stimoli esterni.
    Parte della ricerca è consistita nel modificare geneticamente alcuni topi in modo che i corpuscoli si attivassero quando venivano esposti a un lampo di luce. Alcuni topi sono poi stati anestetizzati e si è notato che l’erezione del pene nei maschi e le contrazioni vaginali si verificavano anche in questa condizione, un indizio sulla loro importanza e autonomia nei meccanismi sessuali. I topi privati geneticamente dei corpuscoli non erano invece in grado di accoppiarsi, a dimostrazione dell’importanza di queste strutture per avere rapporti sessuali.
    Lo studio spiega inoltre di avere tracciato i segnali prodotti dai corpuscoli fino a una specifica area del midollo spinale. Il gruppo di ricerca ha quindi provato a stimolare direttamente quell’area, notando che gli stimoli inducevano le erezioni del pene e le contrazioni vaginali, anche nel caso in cui venissero interrotti i segnali dal midollo spinale al cervello. Questa circostanza potrebbe indicare che i riflessi sessuali indotti dai corpuscoli sono autonomi e non mediati dall’attività cerebrale.
    I corpuscoli potrebbero comunque avere un ruolo nella trasmissione del piacere e nella sua elaborazione da parte del cervello, per questo il gruppo di ricerca di Ginty sta effettuando ulteriori studi sulle loro caratteristiche. Conoscere il modo in cui contribuiscono agli stimoli sessuali, soprattutto legati alla possibilità di avere rapporti, potrebbe portare a nuovi ambiti di studio per analizzare alcune condizioni come la disfunzione erettile e trovare nuovi trattamenti. Altri studi saranno invece dedicati a capire se la sensibilità dei corpuscoli rimanga inalterata o meno con l’avanzare dell’età, un fattore che insieme a quelli ormonali potrebbe incidere sulla vita sessuale nelle persone anziane. LEGGI TUTTO

  • in

    È iniziata l’estate

    Caricamento playerAlle 22:51 di giovedì c’è stato il solstizio d’estate, l’evento che segna dal punto di vista astronomico l’inizio dell’estate nel nostro emisfero, quello settentrionale. Il solstizio è un momento specifico, non un intero giorno, e questo momento varia di anno in anno di circa 6 ore (precisamente 5 ore, 48 minuti e 46 secondi): è proprio per evitare eccessivi sfasamenti e recuperare questa differenza che ogni quattro anni il nostro calendario aggiunge un anno bisestile. In questo modo anche l’oscillazione del solstizio è limitata a un paio di giorni: in Italia il solstizio d’estate avviene il 20 o il 21 giugno, quest’anno il 20.

    – Leggi anche: Perché si alternano le stagioni

    Estate e inverno iniziano nel giorno dei solstizi, in cui le ore di luce sono al loro massimo o al loro minimo. Gli equinozi, invece, determinano l’inizio dell’autunno e della primavera, e in quel caso il giorno e la notte hanno la stessa durata (anche se in realtà non è esattamente così, a causa di alcune interazioni della luce con l’atmosfera terrestre). Equinozi e solstizi sono tra gli eventi astronomici più semplici da notare sulla Terra, e probabilmente anche per questo motivo sono entrati nella tradizione di moltissime culture, dove sono utilizzati per determinare, un poco a spanne, il cambiamento delle stagioni.
    Le stagioni meteorologiche sono invece sfasate, di una ventina di giorni circa, rispetto all’effettivo momento degli equinozi e dei solstizi. L’estate, da un punto di vista meteorologico, era quindi già iniziata da alcuni giorni.
    Quindi cos’è il solstizio?Per capire chiaramente cosa sono i solstizi e gli equinozi bisogna cominciare da alcuni semplici concetti di astronomia. Il Sole sta fermo (si muove anche lui alla lunga, a voler essere precisi), e la Terra gli gira intorno e intanto ruota su se stessa. Questa condizione fa sì che sulla Terra vediamo ogni mattina il Sole alzarsi all’orizzonte (alba), attraversare la porzione di cielo visibile sopra la nostra testa e poi toccare nuovamente la linea dell’orizzonte verso sera (tramonto). Visto che lo spostamento del Sole nel cielo in realtà è determinato dal movimento della Terra, viene definito “moto apparente”.
    Ricapitolando: l’alternarsi del giorno e della notte viene determinato dal moto di rotazione della Terra sul suo asse. L’alternarsi delle stagioni con i solstizi e gli equinozi, invece, viene determinato dal moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole. L’equinozio corrisponde al momento in cui il piano dell’equatore celeste (cioè la proiezione dell’equatore terrestre sulla sfera celeste) e quello dell’eclittica (il percorso apparente del sole nel cielo) si intersecano. Durante i solstizi, piano dell’equatore celeste ed eclittica sono invece alla loro distanza massima, e il Sole a mezzogiorno è alla massima o minima altezza rispetto all’orizzonte.
    La circonferenza rossa è il piano dell’equatore celeste (INAF) LEGGI TUTTO

  • in

    8 persone su 10 vorrebbero che i loro governi facessero di più contro la crisi climatica

    Caricamento playerIl Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) ha pubblicato i risultati del Peoples’ Climate Vote 2024, il più grande sondaggio mai condotto dall’ONU sul tema del cambiamento climatico: sono state intervistate più di 75mila persone provenienti da 77 paesi che parlano 87 lingue diverse.
    Secondo i risultati aggregati globali la stragrande maggioranza di loro è insoddisfatta del modo in cui i governi stanno gestendo la crisi climatica: l’80 per cento delle persone intervistate, che dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione globale, vorrebbe che i loro governi facessero di più per affrontare la crisi climatica, e l’86 per cento ritiene che sarebbe necessario mettere da parte le rivalità nazionali per lavorare a una soluzione comune. In Italia questi valori sono ancora più alti: il 93 per cento delle 900 persone italiane intervistate è d’accordo con entrambe le dichiarazioni.
    Altri risultati interessanti riguardano la cosiddetta “ansia climatica” e la transizione da combustibili fossili a energia rinnovabile. Il 56 per cento degli intervistati ha detto di pensare al cambiamento climatico quotidianamente o settimanalmente, un risultato a cui l’Italia si allinea, e il 53 per cento di essere più preoccupato rispetto all’anno scorso per questo tema: in Italia a rispondere positivamente a questa domanda è stato il 65 per cento degli intervistati. Questi risultati arrivano però fino al 71 per cento nei nove Piccoli Stati insulari in via di sviluppo (SIDS) in cui sono state condotte le interviste: sono quegli stati che rischiano di finire presto sotto il livello del mare e le cui popolazioni si stanno già parzialmente trasferendo in altri paesi. In generale, più persone che vivono in paesi meno sviluppati hanno detto che il cambiamento climatico sta già influenzando alcune importanti scelte di vita, come il luogo dove abitare o lavorare.

    – Leggi anche: Per quanto tempo esisterà ancora Tuvalu?

    Il 72 per cento degli intervistati si è poi detto a favore di una rapida transizione dai combustibili fossili a fonti di energia meno inquinanti. Risultati molto alti si sono registrati in alcuni paesi che sono fra i principali produttori o consumatori di combustibili fossili: in Nigeria era d’accordo l’89 per cento delle persone intervistate (lo stesso risultato dell’Italia e della Turchia); in Brasile era l’81 per cento; in Cina l’80; in Iran il 79 per cento e in Germania, Regno Unito e Arabia Saudita, il 76. Risultati molto bassi in questa categoria sono stati invece registrati in Russia, dove solo il 16 per cento degli intervistati si è detto d’accordo con questa dichiarazione.
    È stato inoltre notato come le donne si siano dimostrate più favorevoli all’impegno pubblico per il contrasto del cambiamento climatico. In cinque grandi paesi (Australia, Canada, Francia, Germania e Stati Uniti) la differenza di genere era tra i 10 e i 17 punti percentuali.

    – Leggi anche: Il cambiamento climatico, le basi

    Infine una domanda del sondaggio riguarda la responsabilità dei paesi più ricchi e con economie più sviluppate (che sono principalmente i paesi europei e gli Stati Uniti) nei confronti di quelli più poveri, che non hanno avuto la possibilità di industrializzarsi quando c’erano molte meno regole sull’inquinamento, e che in molti casi sono i più esposti agli effetti negativi del cambiamento climatico. A livello globale il 79 per cento degli intervistati ha detto che i paesi ricchi dovrebbero aiutare di più i paesi in via di sviluppo.
    Da anni questo tema è tra quelli al centro delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP).
    Alla COP28 di Dubai del 2023 i paesi con economie sviluppate si sono impegnati per la prima volta a versare circa 380 milioni di euro in un fondo di compensazione per i danni e le perdite causate dal cambiamento climatico nei paesi più in difficoltà: si tratta di una cifra molto piccola, vista l’entità dei possibili danni. I paesi che hanno preso un impegno maggiore sono quelli dell’Unione Europea, mentre un contributo più piccolo è stato promesso dagli Stati Uniti, che non apprezzano che alcuni paesi, specialmente la Cina che è fra i principali produttori di combustibili fossili al mondo, vogliano ancora definirsi paesi in via di sviluppo.
    Proprio negli Stati Uniti il 64 degli intervistati si è detto favorevole all’aumento degli aiuti ai paesi poveri, mentre il 28 per cento ha sostenuto che i paesi ricchi debbano aiutare meno di quanto non lo stiano facendo adesso; nella media globale, solo il 6 per cento pensa che gli aiuti debbano diminuire. In altri paesi occidentali come la Francia, la Germania e il Regno Unito le persone che sostengono che i paesi ricchi dovrebbero fornire più aiuti sono le stesse degli Stati Uniti, ma quasi nessuno pensa che gli aiuti dovrebbero diminuire: un terzo degli intervistati sostiene piuttosto che dovrebbero rimanere uguali a quelli attuali. In questo quadro l’Italia si trova invece più d’accordo con i paesi in via di sviluppo, dato che oltre il 90 per cento degli intervistati è d’accordo con l’idea che i paesi ricchi forniscano più aiuti; solo il 5 per cento sostiene che questi debbano rimanere invariati e nessuno degli intervistati è d’accordo con una loro diminuzione.

    – Leggi anche: I paesi più ricchi aiuteranno gli altri ad affrontare i danni del cambiamento climatico?

    Secondo la direttrice della sezione dell’UNDP che si occupa dei cambiamenti climatici, Cassie Flynn, i dati sulla volontà di abbandonare l’uso di combustibili fossili sono notevoli, ma in generale questo largo consenso non dovrebbe stupirci: «Gli eventi estremi fanno già parte della nostra vita quotidiana», ha detto Flynn. «Dagli incendi boschivi in Canada alla siccità in Africa orientale, fino alle inondazioni negli Emirati Arabi Uniti e in Brasile, le persone vivono la crisi climatica», ha aggiunto. Proprio in queste settimane per esempio migliaia di persone stanno morendo a causa del caldo in diversi paesi del mondo, specialmente in India, che sta attraversando una delle peggiori ondate di calore della sua storia da oltre un mese, e in Arabia Saudita, dove si è appena concluso lo Hajj, il consueto pellegrinaggio annuale dei fedeli dell’Islam verso la Mecca.

    – Leggi anche: A New Delhi manca l’acqua e fa caldissimo

    Il sondaggio è stato svolto dall’UNDP in collaborazione con l’Università di Oxford, nel Regno Unito, e la società internazionale di sondaggi GeoPoll. I ricercatori dell’Università di Oxford hanno stilato una lista di 15 domande da porre durante le interviste e hanno poi elaborato le risposte, ponderando il campione per renderlo rappresentativo dei profili di età, genere e istruzione della popolazione dei paesi coinvolti. GeoPoll ha condotto le interviste tramite chiamate telefoniche randomizzate al cellulare, ampliando quindi più possibile le persone raggiungibili. La maggior parte dei paesi è rappresentata da un gruppo di intervistati che va dalle 800 alle 1.000 persone (in Italia sono state 900). Il numero di intervistati non è relativo alla grandezza dello stato, dato che per esempio la Cina, con una popolazione di 1,4 miliardi di persone, è rappresentata da 921 persone, circa cento in meno del Buthan, dove la popolazione si aggira intorno alle 790mila persone.
    Secondo gli autori le stime a livello nazionale hanno margini di errore non superiori ai 3 punti percentuali in più o in meno, che diventano molto più bassi quando si tratta di stime globali.
    Un problema piuttosto comune dei sondaggi di questo tipo è il fatto che a rispondere al telefono e ad accettare di partecipare alla ricerca siano spesso persone con un alto livello di istruzione e che sono già più informate della media sul tema. L’UNDP ha però tenuto a specificare in questo caso che oltre il 10 per cento del campione totale comprendeva persone che non sono mai andate a scuola. Di questi 9.321 intervistati, 1.241 erano donne over 60 che non avevano mai neanche frequentato le scuole elementari, uno dei gruppi più difficili da raggiungere.
    Una prima edizione del sondaggio, che aveva coinvolto 50 paesi, era stata realizzata nel 2021 ma le persone erano state raggiunte attraverso annunci pubblicitari in famose app di gioco per cellulari, che escludevano intere fasce della popolazione anche solo per il fatto che per usare queste app bisognava essere connessi a internet. I dati delle due ricerche non sono quindi comparabili. LEGGI TUTTO

  • in

    Perché alcuni avanzi sono più buoni dopo qualche giorno

    Caricamento playerC’è chi non fa complimenti e non concepisce che possano avanzare porzioni di lasagne e chi è felice di lasciarne un po’ per il giorno dopo “perché diventano più buone”. Migliora la loro consistenza e i sapori hanno tempo di amalgamarsi e fondersi insieme, dicono i conservatori di lasagne. È una teoria condivisa anche da appassionati di altre pietanze, dalle zuppe alla parmigiana, e ha effettivamente una qualche base scientifica legata al modo in cui le sostanze presenti negli ingredienti interagiscono tra loro. Ci sono insomma casi in cui il cibo mangiato il giorno dopo è più buono, e non solo perché non si deve fare la fatica di prepararlo.
    In Italia più del 99 per cento delle famiglie possiede un frigorifero: è l’elettrodomestico più diffuso nelle case, seguito a poca distanza dalla lavatrice (98 per cento) e dalla televisione (97 per cento). Il frigorifero divenne via via più diffuso nelle abitazioni a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale e, come in altri paesi, cambiò profondamente il nostro rapporto con il cibo e il suo consumo. La sua introduzione rese più semplice la conservazione degli alimenti, contribuì a ridurre i rischi di intossicazioni dovute al consumo di cibo avariato e rese più comune il consumo degli avanzi dei pasti precedenti.
    Proprio grazie alla refrigerazione, tendiamo a pensare che la trasformazione degli alimenti si concluda nel momento in cui abbiamo finito di cucinarli, e che quindi le loro caratteristiche non cambino più di tanto nei giorni in cui li lasciamo in frigorifero. In realtà, anche dopo la cottura e il raffreddamento, i processi fisici e chimici continuano ad avvenire con l’interazione di una enorme quantità di sostanze.
    I costituenti di carboidrati, grassi e proteine si modificano, perdono o assorbono acqua e si verificano reazioni con la produzione di gas, che a lungo andare contribuiranno al deperimento degli alimenti. Il processo è rallentato dalla bassa temperatura del frigorifero, che lascia qualche margine in più alla possibilità che alcune preparazioni migliorino, per lo meno per le sensazioni che lasciano a chi le consuma.
    Accade spesso che zuppe, ragù e preparazioni simili risultino più buone e gradevoli dopo qualche giorno dalla loro preparazione, se conservate nel modo giusto in frigorifero. Non è solo un modo di dire: c’entrano soprattutto i grassi (lipidi) e le spezie utilizzate più comunemente in cucina come il pepe, la noce moscata o le miscele impiegate per preparare il curry. Le molecole che danno profumo e sapore a queste spezie sono “liposolubili”, cioè si sciolgono facilmente nei grassi. Più tempo trascorrono lipidi e spezie insieme, più aumenta la diffusione dei loro aromi all’interno delle molecole di grasso, che a loro volta si distribuiranno nel resto della preparazione.
    Questo processo di fusione è favorito dal calore utilizzato per cucinare una zuppa o un ragù, ma avviene comunque anche nelle fasi successive quando la pietanza si raffredda e viene poi riposta in frigorifero. L’olio aggiunto a una minestra, la pancetta a una zuppa di legumi o ancora la panna a una crema di verdure costituiscono la base grassa nella quale si distribuiscono più facilmente i composti aromatici e contribuiscono a migliorare la consistenza della preparazione.
    Qualche tempo fa la rivista Cook’s Illustrated fece un esperimento offrendo a un gruppo di persone del chili di carne, una crema di pomodoro e cipolle e una zuppa di fagioli nelle loro versioni fresche e conservate in frigorifero per un paio di giorni. I partecipanti scelsero nella maggior parte dei casi la versione del frigorifero, segnalando di aver trovato le pietanze più saporite e ben amalgamate.
    Gli esperti consultati dalla rivista spiegarono che nel tempo trascorso in frigorifero il lattosio nei prodotti a base di latte impiegati per la zuppa e per la crema si era trasformato in glucosio, così come avevano fatto alcuni carboidrati delle cipolle, dando un sapore più dolce e uniforme alle due preparazioni. Nel caso del chili, oltre ai grassi presenti nella carne che avevano favorito il diffondersi delle spezie, le proteine si erano probabilmente separate negli aminoacidi – i loro componenti di base – come il glutammato, un sapore cui siamo particolarmente sensibili.
    Altre ricerche hanno inoltre segnalato come il collagene, la principale proteina che negli animali fa da impalcatura per gli altri tessuti molli, viene rilasciato in parte dalla carne durante la cottura e fa da collante per gli altri ingredienti. Questo è uno dei motivi per cui le lasagne diventano più compatte e morbide dopo un certo periodo in frigorifero: c’entrano il collagene che torna a solidificarsi producendo una sostanza gelatinosa e i grassi presenti nella carne e negli altri ingredienti, che a loro volta si solidificano.
    (Michael Loccisano/Getty Images for NYCWFF)
    La variazione della consistenza di alcuni avanzi nei giorni dopo la preparazione dipende inoltre da un’altra sostanza, un carboidrato che ha un ruolo centrale nella cucina: l’amido. È presente in alimenti come pasta, riso, pane e patate e forma molecole molto lunghe che contribuiscono a tenere insieme i composti, per questo motivo viene utilizzato come addensante per esempio per regolare la consistenza di una zuppa venuta troppo liquida. A differenza dei grassi e delle proteine, l’amido non sempre favorisce il miglioramento degli avanzi.
    Lo strato d’acqua torbida, non proprio attraente, che talvolta si osserva sopra a del purè conservato per qualche giorno in frigorifero è dovuto alla retrogradazione dell’amido, un processo che porta l’amido a tornare alla propria struttura originaria dopo che questa era stata modificata con la cottura portando alla gelatinizzazione.
    Nelle patate, così come nel riso o nei cereali (usati per produrre pane e pasta) l’amido è presente in una forma simile a granuli che derivano dal modo in cui crescono le piante e producono il glucosio attraverso la fotosintesi. Quando vengono riscaldati in acqua, i granuli si gonfiano e rilasciano l’amido contenuto al loro interno. Al termine della cottura, quando il cibo inizia a raffreddarsi, si attiva la retrogradazione e l’amido cerca di tornare alla struttura originaria cambiando la distribuzione delle molecole d’acqua, che quindi riaffiorano causando la formazione dello strato di liquido torbido sopra al purè. La presenza dello strato in superficie non indica che l’avanzo sia andato a male e l’acqua può essere mischiata nuovamente al resto, anche se non tornerà più a disperdersi allo stesso modo a livello molecolare come aveva fatto durante la cottura. È soprattutto per questo motivo che difficilmente il purè vecchio di qualche giorno è soffice e cremoso come quello appena fatto.
    Anche in questo caso i grassi possono venire in aiuto, perché come abbiamo visto contribuiscono a dare omogeneità alle preparazioni e ad arricchirne il sapore. Le molecole di grasso possono rendere più morbida la struttura che forma l’amido quando si riorganizza, come sa chi prepara purè particolarmente burrosi o con l’aggiunta di formaggi.
    La retrogradazione dell’amido è del resto il processo alla base della formazione del pane raffermo, che tende a seccare più velocemente rispetto ad altri prodotti da forno che contengono più grassi. Se conservati da cotti e senza condimento, riso e pasta tendono a tornare duri e non sempre si riesce a farli rinvenire con l’aggiunta di un po’ di acqua calda. Nel caso delle lasagne la presenza del condimento, dei grassi e delle altre sostanze (nel ragù e nella besciamella) prevengono questo effetto. Le sostanze grasse hanno inoltre un maggiore tempo di permanenza nel palato e ciò fa sì che si percepiscano meglio gli aromi delle sostanze finite al loro interno.
    Una scena dal film All of Us Strangers di Andrew Haigh (Searchlight Pictures)
    Che siano gli ingredienti di partenza o il piatto finale, molti alimenti subiscono l’effetto dell’ossigeno presente nell’aria e si ossidano velocemente. È l’effetto per cui dopo qualche minuto una fetta di mela inizia ad annerire, così come può avvenire con una banana, una carota o diversi altri alimenti comprese le carni. Soprattutto con queste ultime l’effetto dell’ossidazione è poco gradevole, perché si producono molecole volatili – quindi percepibili dal nostro olfatto e in parte dal gusto – che modificano la resa di una fetta di carne o di un trancio di pesce.
    I processi di ossidazione sono tra i principali responsabili del “sapore di riscaldato” che assume spesso la carne già cotta, quando viene scaldata nuovamente per consumarla come avanzo. Accade soprattutto nel caso di tagli particolarmente grassi, perché lo sviluppo di quelle sostanze volatili avviene con l’ossidazione dei grassi. Quel particolare sapore non implica che la carne sia avariata, ma rende il suo consumo poco gradevole. L’aggiunta di sostanze antiossidanti alla ricetta può ridurre il problema: si possono per esempio utilizzare alcune erbe come rosmarino e timo, non a caso impiegati spesso nella preparazione delle carni compresi alcuni tipi di insaccati (a livello industriale si usa spesso l’acido ascorbico, cioè la vitamina C).
    In generale è comunque importante ricordare che gli avanzi dovrebbero essere consumati entro 3-4 giorni dal momento in cui sono stati messi in frigorifero, o entro 3-4 mesi nel caso in cui siano messi nel freezer. Il congelamento domestico non è però molto efficace nel mantenere le caratteristiche dei piatti, perché avviene lentamente e porta alla formazione di cristalli di ghiaccio di dimensioni tali da danneggiare la struttura di molti alimenti. Il surgelamento a livello industriale avviene a temperature più basse e permette di ridurre la formazione di cristalli di grandi dimensioni, preservando meglio i prodotti.
    Gli avanzi tendono a mantenere una qualità migliore se vengono conservati il prima possibile in frigorifero, evitando di lasciarli per troppo tempo a temperatura ambiente. Il periodo massimo di conservazione su un ripiano della cucina varia molto, ma in media è consigliabile non superare le due ore per la maggior parte delle preparazioni. Se la zuppa appena preparata e avanzata è troppo calda per trasferirla nel frigorifero, la si può distribuire in più contenitori larghi e bassi, in modo che si raffreddi più velocemente e possa essere inserita in frigorifero in tempi rapidi. Questa soluzione permette inoltre di raffreddare più uniformemente una preparazione, rispetto a quanto avverrebbe con un unico contenitore profondo.
    Ogni avanzo dovrebbe essere inoltre conservato separato da tutto il resto, quindi in contenitori ermetici, ed è importante che i prodotti cotti non siano a contatto con quelli ancora crudi, sia che si tratti di verdure sia di carne e pesce. C’è infatti il rischio di contaminare i cibi già preparati con batteri e altri microrganismi provenienti dagli alimenti crudi, e molto interessati a colonizzare le lasagne avanzate appena messe nel frigorifero.
    L’impiego di contenitori ermetici e un consumo entro pochi giorni riducono inoltre il rischio di trovare spiacevoli sorprese, come uno strato di muffa bianca, grigia o verdastra. Anche se comporta un certo sacrificio, in questo caso è inutile e pericoloso resistere: le muffe in superficie producono lunghi e sottilissimi filamenti in profondità negli alimenti, quindi non è sufficiente rimuovere lo strato superficiale ammuffito per non correre rischi. Non c’è modo di capire a occhio se una muffa sia “buona” o “cattiva”, per precauzione quindi: se c’è la muffa, si butta. LEGGI TUTTO

  • in

    Il Sole sta invertendo il suo campo magnetico

    Caricamento playerL’aurora boreale e i fenomeni collegati dello scorso maggio osservati a basse latitudini, anche in Italia, sono stati gli indizi più visibili dell’attività solare ormai prossima al proprio massimo, ma chi studia la nostra stella sta attendendo con interesse un altro fenomeno che porterà il Sole a invertire il proprio campo magnetico. Non è un evento insolito o preoccupante e non avrà effetti catastrofici per la Terra, ma è forse il miglior promemoria su quante cose ancora ci sfuggono sul funzionamento della più grande fonte di energia di tutto il sistema solare, da cui dipendono le nostre esistenze.
    I ritmi del Sole sono ciclici, per quanto non molto regolari: in media ogni 11 anni la nostra stella raggiunge un massimo di attività per poi tranquillizzarsi fino a raggiungere un minimo, dopo il quale il ciclo ricomincia. In linea di massima, quando il Sole è più attivo c’è una maggiore frequenza e intensità di alcuni fenomeni, come le tempeste magnetiche, l’emissione di grandi quantità di particelle e le eruzioni solari, esplosioni altamente energetiche. Le cause di questa ciclicità non sono completamente chiare, ma in secoli di osservazioni è stato possibile identificare particolari andamenti e indizi che permettono di calcolare l’andamento di ogni ciclo, le sue caratteristiche e le conseguenze per la Terra, che si trova in media a 150 milioni di chilometri dal Sole.
    Gli indizi più evidenti, tanto da essere stati osservati per la prima volta due millenni fa, sono le “macchie solari”, cioè punti della superficie solare più freddi rispetto a ciò che li circonda: se mediamente il Sole ha una temperatura superficiale di circa 5.500 °C, le macchie solari raggiungono al massimo una temperatura intorno ai 3.600 °C. La quantità di macchie solari tende a cambiare nel corso del tempo e proprio osservando il loro andamento si è concluso che compaiono in gran numero quando il Sole raggiunge il massimo della propria attività.
    Macchie solari osservate nell’ottobre del 2014 (NASA)
    L’ipotesi più condivisa è che le macchie solari siano una conseguenza di ciò che avviene nella “zona convettiva” del Sole, uno strato interno e non osservabile direttamente nel quale l’energia termica prodotta dalla stella raggiunge la superficie. In questa zona il plasma (un gas estremamente caldo e carico elettricamente) che si trova verso l’esterno è più freddo e denso, di conseguenza tende a ricadere verso l’interno dove si scalda e torna verso la superficie cedendo energia.
    Le quantità di energia coinvolte nel processo sono tali da portare anche alla formazione di forti campi magnetici, che nelle fasi di alta attività solare possono diventare instabili portando alla formazione delle macchie sulla superficie della stella. Ogni macchia ha un proprio campo magnetico che viene perturbato dai flussi di plasma indebolendolo o rafforzandolo a seconda dei casi. Dalle zone in cui emergono, di solito sopra o sotto l’equatore del Sole, i flussi si spostano verso i poli e tendono ad avere un campo magnetico orientato in senso opposto rispetto a quello solare in quel momento.
    Il Sole in sezione: sotto la superficie è visibile la zona convettiva (NASA)
    Nelle fasi di massima attività solare, i campi magnetici provenienti dalle macchie solari sono talmente tanti e intensi da annullare la polarità normalmente presente ai poli del Sole e sostituirla con una nuova opposta a quella di partenza. Questo processo fa sì che in media ogni 11 anni il Sole inverta il proprio campo magnetico.
    Nel 2004, per esempio, il polo sud solare aveva una polarità negativa, quasi completamente scomparsa nel 2013 e sostituita completamente da una polarità positiva negli anni seguenti. Il processo di inversione del campo magnetico non è infatti repentino, ma richiede diverso tempo e dal momento in cui il cambiamento è più evidente trascorrono circa due anni prima che sia completo. Il Sole non è comunque molto puntuale e in alcuni cicli sono stati necessari fino a cinque anni prima che si completasse l’inversione.
    Le condizioni iniziali del polo sud solare nel 2004 (a) e la progressiva inversione della polarità iniziata nel 2013 (b) e conclusa nel 2017 (c), in una elaborazione basata sui dati dell’attività del Sole (J. Space Weather Space Clim.)
    Il modo in cui è orientato nel suo complesso il campo magnetico del Sole può avere qualche conseguenza per la Terra, costantemente esposta alle particelle cariche che arrivano dalla stella e dalle quali si protegge grazie al proprio campo magnetico. Nei periodi in cui la polarità è negativa al polo nord solare ed è positiva al polo sud, il campo che si genera è opposto a quello della Terra e ci possono essere conseguenze sull’intensità delle tempeste solari, che possono causare forti interferenze nei sistemi di telecomunicazioni sia satellitari sia al suolo, oltre a effetti più scenografici come le aurore.

    Per questo l’attività solare viene osservata con grande attenzione e negli ultimi anni ci sono stati importanti progressi nella raccolta di dati, grazie allo sviluppo di nuove sonde. Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea è stato lanciato nel 2020 per studiare le zone polari del Sole, in modo da prevedere i prossimi cicli solari e la loro intensità. Un paio di anni prima la NASA aveva messo in servizio Parker Solar Probe, una sonda che si sta avvicinando il più possibile al Sole, con l’obiettivo di compiere un passaggio ravvicinato ad appena (in termini astronomici) 6 milioni di chilometri dalla superficie solare. Altri telescopi sulla Terra sono invece utilizzati per mappare le macchie solari e produrre immagini ad alta risoluzione della superficie della nostra stella.
    Studiare il Sole non serve solamente a capire come funzioni la più importante fonte di energia per la nostra esistenza. Il Sole è una stella relativamente comune, come miliardi di altre stelle simili solo nella Via Lattea, la nostra galassia. Comprenderne il funzionamento rende possibile lo studio più accurato di sistemi solari diversi dal nostro e consente di fare confronti con altri tipi di stelle e capire se possano creare condizioni compatibili per la vita, su mondi lontani e che per ora nemmeno immaginiamo. Per quanto sia a 150 milioni di chilometri da noi, il Sole è la cavia perfetta per farlo. LEGGI TUTTO