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    Negli Stati Uniti è stato approvato un nuovo farmaco contro l’Alzheimer precoce

    Caricamento playerMartedì la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha approvato un nuovo farmaco che dovrebbe rallentare gli effetti del morbo di Alzheimer, la malattia che causa una progressiva perdita della memoria e per cui al momento non è disponibile una cura. Il farmaco si chiama donanemab, è un anticorpo monoclonale ed è venduto negli Stati Uniti con il nome commerciale Kisunla da parte dell’azienda farmaceutica Eli Lilly.
    Il Kisunla è il terzo medicinale studiato per rallentare gli effetti dell’Alzheimer a essere approvato dalla FDA, ma come gli altri due farmaci approvati in precedenza non è una terapia risolutiva. In un test clinico che ha coinvolto 1.700 persone ed è durato 18 mesi si è dimostrato in grado di avere un’efficacia limitata: nei pazienti a cui era stato somministrato è stato rilevato un declino delle capacità cognitive del 35 per cento più lento rispetto ai pazienti con placebo, cioè una sostanza che non fa nulla.
    Attualmente i farmaci disponibili per le persone a cui è stato diagnosticato l’Alzheimer cercano di intervenire sui sintomi della malattia, ma non sono molto efficaci contro la malattia in sé, soprattutto nelle forme più avanzate. Per questo da tempo vari gruppi di ricerca stanno cercando modi per intervenire sulle cause della patologia – che non sono però ancora completamente chiare – in modo da farla progredire più lentamente.
    Più nello specifico sono state fatte ricerche sulla betamiloide, una proteina che causa un accumulo di placche nei neuroni (le cellule del cervello) rendendoli via via meno reattivi e funzionali. Questa proteina è sospettata di essere una, se non la principale, causa dell’Alzheimer, ma tenerla sotto controllo è molto difficile e ci sono ancora dubbi sul suo ruolo nella malattia.
    Nel 2021 la FDA aveva approvato l’Aduhelm (aducanumab) di Biogen tra molti dubbi della comunità scientifica: il farmaco non aveva dato i risultati sperati, per questo era stato poco usato e lo scorso gennaio è stato ritirato dal commercio. La scorsa estate invece la FDA aveva approvato un altro farmaco sviluppato da Biogen insieme a un’altra azienda, Eisai, cioè il Leqembi (lecanemab). Nel test clinico dedicato, i pazienti che avevano ricevuto il lecanemab avevano fatto rilevare un declino delle capacità cognitive del 27 per cento più lento rispetto ai pazienti con placebo.
    Sia nel caso del lecanemab che nel caso del donanemab la riduzione degli effetti dell’Alzheimer è tutto sommato poco marcata e di conseguenza medici ed esperti si chiedono se possa essere sufficiente per essere notata dai pazienti e dai loro cari. Inoltre entrambi i medicinali possono causare gravi effetti collaterali, potenzialmente mortali: nella sperimentazione sul donanemab tre persone sono morte in relazione all’assunzione del farmaco. Tuttavia secondo la commissione che ha consigliato l’approvazione dei farmaci i benefici sono superiori ai rischi.

    – Leggi anche: Perché andarci cauti sul lecanemab

    Eli Lilly non ha ancora fatto sapere quanto costeranno i trattamenti con il Kisunla, ma probabilmente saranno necessarie decine di migliaia di dollari all’anno. LEGGI TUTTO

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    A giugno non si era mai formato un uragano forte come Beryl

    Caricamento playerNelle prime ore di lunedì un uragano chiamato Beryl ha raggiunto la zona del mar dei Caraibi in cui si trovano le Isole Sopravento Meridionali, di cui fanno parte gli stati di Grenada di Saint Vincent e Grenadine. Finora non ci sono notizie di danni, ma di Beryl si è già molto discusso tra i meteorologi perché è il primo uragano di categoria 4, cioè della seconda categoria più alta nella scala Saffir-Simpson delle tempeste tropicali, a essere registrato nel mese di giugno. Tale primato è probabilmente dovuto alle recenti condizioni meteorologiche degli oceani: le temperature particolarmente alte della superficie dell’acqua dell’Atlantico da un lato e lo sviluppo del fenomeno periodico conosciuto come La Niña nel Pacifico dall’altro.
    La stagione degli uragani nell’oceano Atlantico occidentale va all’incirca dall’inizio di giugno alla fine di novembre. Da quando disponiamo di dati satellitari accurati per tutto il bacino Atlantico, cioè dal 1966, il primo uragano della stagione si è formato, in media, intorno al 26 luglio. E generalmente i primi non raggiungono la categoria 4, come ha fatto invece Beryl il 30 giugno, quando i suoi venti hanno superato la velocità di 209 chilometri orari. Finora il più precoce uragano di categoria 4 che fosse stato registrato era stato l’uragano Dennis, l’8 luglio 2005. Anche quelli di categoria 3 sono sempre stati molto rari a giugno: da quando sono disponibili dati sulla velocità del vento ce n’erano stati solo due, l’uragano Alma del 6 giugno 1966 e l’uragano Audrey del 27 giugno 1957.
    Generalmente il mese in cui si formano più tempeste tropicali e di maggiore intensità nell’Atlantico settentrionale è agosto perché è il periodo dell’anno in cui le acque superficiali dell’oceano sono più calde. La temperatura degli strati superiori dell’acqua influisce sulle tempeste perché più sono caldi, maggiore è l’evaporazione e dunque la quantità di acqua presente nell’atmosfera che si può raccogliere nelle grandi nubi coinvolte nelle tempeste. Per questo gli scienziati dicono spesso, per farsi capire, che il calore degli stati superficiali dell’oceano è il carburante degli uragani.
    Di solito a giugno e a luglio le temperature dell’oceano non sono sufficientemente alte da favorire uragani molto distruttivi, ma nell’ultimo anno nell’Atlantico sono state raggiunte temperature più alte della norma, in parte per via del più generale riscaldamento globale causato dalle attività umane, che non riguarda solo l’atmosfera, in parte per altri fattori che gli scienziati stanno ancora studiando.
    L’altro fattore che contribuisce alla formazione degli uragani insieme alla temperatura degli strati più superficiali dell’acqua sono venti deboli. Infatti, mentre se soffiano venti forti l’evaporazione diminuisce, con poco vento aumenta; l’assenza di vento inoltre non fa disperdere le grosse nubi create dall’alta evaporazione, quelle da cui poi si formano le tempeste. E attualmente nella fascia tropicale dell’Atlantico i venti sono deboli perché si sta sviluppando “La Niña”, uno dei complessi di eventi atmosferici che periodicamente influenzano il meteo di varie parti del mondo.
    La Niña avviene nell’oceano Pacifico meridionale, e come il più noto El Niño (che deve il suo nome, “il bambino” in spagnolo, al Natale) fa parte dell’ENSO, acronimo inglese di “El Niño-Oscillazione Meridionale”, un fenomeno che dipende da variazioni di temperatura nell’oceano e di pressione nell’atmosfera. La Niña è la fase di raffreddamento dell’ENSO e ha tra i suoi vari effetti lo sviluppo di siccità nell’ovest degli Stati Uniti, precipitazioni particolarmente abbondanti in paesi come il Pakistan, la Thailandia e l’Australia, e temperature più basse in molte regioni del Sudamerica e dell’Africa e in India. Un altro effetto è l’indebolimento dei venti sull’Atlantico tropicale, dunque un’intensificazione del numero delle tempeste tropicali e della loro forza.
    Già a maggio la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa degli studi meteorologici e oceanici, aveva previsto che la stagione degli uragani di quest’anno sarebbe stata più intensa della media per via delle condizioni meteorologiche. La NOAA ha stimato che si svilupperanno tra le 17 e le 25 tempeste tropicali nel 2024, di cui tra gli 8 e i 13 uragani: in media si registrano 14 tempeste tropicali in un anno nell’Atlantico. Nel 2020, in occasione dell’ultima Niña, c’erano state 30 tempeste tropicali e 14 uragani.
    All’avvicinarsi alle Isole Sopravento Meridionali e a Barbados l’uragano Beryl ha inizialmente perso intensità e la velocità dei suoi venti è diminuita al punto da rientrare nella categoria 3 della scala Saffir-Simpson (con venti di 178–208 chilometri orari); poi però si è nuovamente rafforzato, tornando alla categoria 4. In questa parte dei Caraibi era dall’uragano Ivan del 2004 che non arrivava una tempesta tanto intensa.

    – Leggi anche: Le categorie per classificare gli uragani non bastano più? LEGGI TUTTO

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    La vescica è cervellotica

    Caricamento playerTra le tante massime attribuite ad Alfred Hitchcock, uno dei più importanti e famosi registi del Novecento, c’è quella secondo cui «la durata di un film dovrebbe essere commisurata alla capacità di resistenza della vescica umana». La paternità della frase è ancora oggi discussa, sembra che Hitchcock stesse a sua volta citando il drammaturgo George Bernard Shaw, ma dice comunque qualcosa non solo sulla sostenibilità dei film lunghi, ma anche sulla capacità di controllo di una cosa che facciamo tutti più volte al giorno per tutta la vita: svuotare la vescica facendo pipì. È una cosa che ci viene naturale e di cui non possiamo fare a meno, ma dietro alla sua apparente semplicità si nascondono processi articolati e in parte ancora poco esplorati.
    Per molto tempo medici e gruppi di ricerca hanno ritenuto che il controllo della vescica fosse il frutto di un riflesso elementare, una sorta di interruttore acceso/spento che rende possibile l’accumulo dell’urina e la sua espulsione in un dato momento. Gli studi condotti negli ultimi decenni hanno invece mostrato l’esistenza di processi molto più complessi che coinvolgono più aree del cervello e del resto del sistema nervoso centrale, particolari tessuti muscolari e terminazioni nervose che ci aiutano ad avere il senso dello stato interno del nostro organismo (enterocezione).
    Tutto inizia con un bicchiere d’acqua, una fetta di anguria, un piatto di insalata o praticamente qualsiasi altro alimento che ingeriamo che contiene una certa quantità di acqua. Attraverso i processi digestivi, l’acqua finisce in ogni cellula del nostro organismo, che non a caso è costituito in media al 65 per cento da questa sostanza. Abbiamo continuamente necessità di assumere acqua, perché ne perdiamo costantemente con la traspirazione e con la produzione di urina da parte dei reni, che tra i loro compiti hanno quello di pulire il sangue dalle impurità.
    Dopo essere stata prodotta, l’urina non viene eliminata immediatamente, ma si accumula in un piccolo sacchetto che si può espandere come un palloncino: la vescica. Quando è vuota appare rugosa e avvizzita, mentre quando è piena sembra tesa come una pelle di tamburo. La vescica di una persona adulta in salute arriva a contenere tra i 300 e i 500 millilitri (mezzo litro) di urina, ma ci sono casi in cui la vescica si gonfia di più arrivando a contenere anche più del doppio di quel volume. È tra gli organi più elastici del nostro organismo e arriva a espandersi più di sei volte rispetto a quando è completamente vuota.
    Questa notevole espansione è resa possibile dal detrusore, un muscolo che ricopre interamente la vescica e che si rilassa man mano che questa si riempie di urina. Alla base della vescica avviene invece il contrario: i muscoli che regolano lo sfintere dell’uretra si contraggono, così da evitare che la pipì fluisca verso l’esterno nei momenti indesiderati. È un processo che avviene di continuo: la vescica passa circa il 95 per cento della propria, e della nostra, esistenza piena o per meglio dire in fase di riempimento.
    (Wikimedia)
    Conosciamo il resto della storia. A un certo punto la vescica è piena a sufficienza da percepire l’esigenza di vuotarla, cerchiamo il luogo più opportuno in cui farlo e ci liberiamo: il detrusore si contrae, lo sfintere si rilassa e l’urina fluisce nell’uretra, l’ultimo tratto delle vie urinarie, e infine le molecole d’acqua dopo un lungo tour del nostro organismo rivedono la luce. Nella maggior parte dei casi agiamo quando lo stimolo è ancora sopportabile e la vescica contiene mediamente poco meno di 400 ml di pipì, ma ci possono essere casi in cui non ci si può liberare immediatamente e si accumula altra urina rendendo lo stimolo sempre meno sopportabile. Oltre una certa misura, che varia molto da persona a persona, scatta un meccanismo di emergenza e la vescica si svuota involontariamente.
    Non è necessario essere idraulici o ingegneri per apprezzare la semplicità del sistema nel suo risultato finale, ma ancora oggi i gruppi di ricerca faticano a mettere insieme tutti i pezzi che rendono possibile il coordinamento e la gestione delle varie attività legate alla minzione, cioè al fare pipì. Un secolo fa alcuni esperimenti su cavie di laboratorio, per esempio, fecero ipotizzare che il controllo della minzione derivasse dal “ponte”, una struttura che si trova nel tronco encefalico, la parte dell’encefalo appena al di sotto del cervello. Sarebbero però passati decenni prima di confermare l’ipotesi e soprattutto di scoprire che la regolazione della vescica deriva da meccanismi ancora più complessi.
    Man mano che si accumula l’urina, determinando l’espansione della vescica, alcune cellule specializzate che si trovano a contatto con il detrusore e con la parete interna della vescica stessa inviano un segnale alla sostanza grigia periacqueduttale, un complesso di neuroni che si trova nel mesencefalo, una parte del tronco encefalico. Il segnale raggiunge poi il lobo dell’insula, un’altra area del cervello che assolve a varie funzioni legate all’omeostasi corporea, cioè alla sua capacità di mantenere un certo equilibrio nelle attività che svolge di continuo. Più la vescica si riempie e si gonfia, più segnali arrivano all’insula che a sua volta si attiva con una grande quantità di impulsi elettrici (potenziali di azione).
    (Wikimedia)
    È a questo punto che dall’automatismo si passa alla gestione consapevole della necessità di fare pipì, che viene gestita attraverso la corteccia prefrontale, cioè l’area del cervello legata alla pianificazione e alla decisione delle azioni da compiere in base alla nostra volontà. Lo stimolo di urinare viene quindi valutato soprattutto in base alle condizioni in cui ci troviamo e a domande che ci facciamo spesso senza farci molto caso: è socialmente accettabile interrompere ciò che sto facendo per andare in bagno adesso? Lo stimolo è forte o posso reggere ancora per un po’? Tra quanto potrò raggiungere un bagno? E così via.
    Quando infine ci sono le condizioni per liberarsi, attraverso la corteccia prefrontale il segnale viene elaborato da altre aree del cervello, torna alla sostanza grigia periacqueduttale e viene indirizzato verso il ponte nel tronco encefalico (nucleo di Barrington). Il segnale arriva infine alla vescica, il detrusore si contrae, lo sfintere dell’uretra si rilassa e l’urina fluisce all’esterno.
    Il tortuoso percorso del segnale dal momento in cui la vescica inizia a essere piena a quando può vuotarsi si è arricchito in questi anni di ulteriori tappe grazie a nuove tecniche di analisi, come ha raccontato di recente alla rivista Knowable Rita Valentino, responsabile del dipartimento di neuroscienze e comportamento al National Institute on Drug Abuse negli Stati Uniti.
    Insieme ai propri colleghi, Valentino ha misurato l’attività elettrica dei neuroni in vari siti del sistema nervoso, identificando per esempio il particolare comportamento dei neuroni nel “locus coeruleus”, un nucleo nel tronco encefalico coinvolto nei meccanismi legati ad attenzione, stress e panico. Pochi secondi prima di iniziare a urinare, i neuroni in quest’area iniziano a produrre ritmicamente segnali indirizzati verso la corteccia. L’ipotesi è che ciò determini un maggiore stato di allerta in un momento in cui dobbiamo agire velocemente e siamo al tempo stesso vulnerabili.
    Le ricerche come quelle svolte da Valentino possono anche offrire spunti importanti per affrontare i problemi di salute legati alla minzione. Alcuni derivano da eventi traumatici, come lesioni spinali che rendono impossibile il controllo diretto della vescica, mentre altri subentrano con l’età e sono legati per lo più a problemi di incontinenza e di perdite.
    Eliminare l’urina è essenziale per l’organismo e per questo nelle prime fasi di vita questa funzione è svolta senza un diretto coinvolgimento del cervello. Subito dopo la nascita e fino ai 3-4 anni di vita, la minzione viene gestita da un riflesso spinale quando la vescica è piena. In seguito, le aree del cervello che usiamo per gestire alcune funzioni si sviluppano a sufficienza per controllare anche la minzione, riducendo i casi in cui si verifica il riflesso. Se a causa di un incidente si interrompono le vie di comunicazione tra il cervello e la vescica, il riflesso può riemergere e lo svuotamento della vescica avviene senza un controllo diretto.
    Anche in questo caso non tutti i meccanismi sono chiari, ma comprenderli meglio insieme a quelli che coinvolgono il cervello potrebbe offrire nuove opportunità per il trattamento di alcune condizioni come la sindrome da vescica iperattiva. Porta a una necessità improvvisa di urinare che non può essere rinviata nel tempo e che si ripete più volte al giorno, sia quando si è svegli sia quando si va a dormire. Stimare la diffusione di questa sindrome è molto difficile e i dati variano molto, con alcune ricerche che indicano una prevalenza del 15,6 per cento tra gli uomini e del 17,4 per cento tra le donne in Europa. In generale, la sindrome tende a presentarsi con maggiore frequenza tra le donne sopra i 60 anni e nel periodo successivo all’inizio della menopausa.
    (Sara D. Davis/Getty Images)
    Le cause della sindrome da vescica iperattiva sono ancora oggetto di studio. Un probabile fattore è una eccessiva reattività del detrusore, che porta a rapide contrazioni facendo arrivare al cervello segnali sbagliati su quanto sia effettivamente piena la vescica. Alcuni trattamenti prevedono l’impiego di farmaci per provare a ridurre gli spasmi, in modo da evitare l’attivazione dei meccanismi legati alla minzione. Calibrare correttamente le dosi non è però semplice: se il dosaggio è più basso del dovuto non ci sono benefici, se invece è troppo alto ci sono rischi di bloccare il sistema con la conseguente impossibilità di urinare.
    Diagnosticare la sindrome da vescica iperattiva richiede tempo e in alcuni casi non porta a identificare una causa precisa, per esempio se non vengono osservati spasmi anomali del detrusore. Per questo motivo alcuni gruppi di ricerca si stanno dedicando allo studio dell’urotelio (o epitelio di transizione), il rivestimento interno della vescica e delle vie urinarie. Gli strati cellulari che lo costituiscono assolvono a varie funzioni, oltre a quella di isolare l’urina dal resto dell’organismo, e sono molto importanti nel rilevare il grado di dilatazione della vescica su cui si basa poi l’attività del sistema nervoso.
    L’analisi dell’urotelio ha portato a scoprire il ruolo di una particolare proteina (PIEZO2) solitamente coinvolta nelle risposte agli stimoli sensoriali. Un trattamento potrebbe quindi mirare a regolare diversamente quella proteina, ma farlo non è semplice perché la stessa proteina è coinvolta in numerosi altri processi in altre parti del corpo che potrebbero essere compromessi.
    Ci sono poi fattori psicologici che possono condizionare la frequenza con cui si sente la necessità di vuotare la vescica, tali da rendere ancora più difficile una diagnosi. Alcune persone pensano più spesso di altre al dover fare pipì e questa condizione di assiduo “ascolto” della loro vescica fa sì che percepiscano più di frequente la necessità di vuotarla. Le cause possono essere molteplici e a volta dettate dalle circostanze.
    Alcune persone arrivate fino a questo punto leggendo un lungo articolo interamente dedicato all’argomento potrebbero avvertire un certo stimolo, o una strana sensazione di maggiore consapevolezza della loro vescica rispetto al solito. Altre avvertono l’esigenza di dover fare pipì non appena infilano la chiave nella porta per rientrare a casa, con una crescente urgenza man mano che si avvicina la possibilità di andare in bagno (è la “sindrome della toppa della chiave di casa”). Un certo condizionamento può avere temporaneamente qualche effetto e non è preoccupante, ma se circostanze di questo tipo si presentano di frequente possono essere un sintomo da non sottovalutare.
    Tra le cause di una maggiore frequentazione del bagno negli uomini di solito oltre i 50 anni c’è l’iperplasia prostatica benigna, cioè un naturale ingrossamento della ghiandola prostatica che si trova alla base della vescica, intorno all’uretra. L’aumento delle dimensioni fa sì che la prostata spinga verso l’alto la vescica riducendo la sua possibilità di espandersi: questo, insieme ad altri fattori, fa sì che la vescica si riempia più velocemente e di conseguenza che ci sia la necessità di urinare più di frequente. Le persone affette da diabete o da cistite e le donne incinte hanno anche di solito una minore autonomia prima di dovere andare in bagno.
    Rappresentazione schematica dell’iperplasia prostatica benigna e dei suoi effetti sul volume della vescica (Wikimedia)
    Anche il consumo di alcune sostanze può stimolare una maggiore produzione di urina. Il caffè e varie bibite contengono caffeina, che ha effetti diuretici piuttosto marcati. Anche l’alcol induce una maggiore attività renale e favorisce la disidratazione, portando a produrre più pipì. Periodi di particolare stress possono influire sulla frequenza con cui si va in bagno, perché alcuni neurotrasmettitori come l’adrenalina influiscono sull’attività renale. E può accadere di dovere andare più di frequente in bagno quando fa freddo: la normale traspirazione è ridotta, perché l’organismo prova a mantenere stabile la propria temperatura interna, di conseguenza c’è una minore sudorazione e maggiori quantità di acqua possono essere espulse tramite l’urina. Può succedere in una fredda giornata invernale o d’estate in una gelida sala di un cinema con l’aria condizionata.
    E per Hitchcock gli eventuali problemi di vescica per i suoi spettatori erano una preoccupazione ricorrente. In un’intervista del 1966, confidò di avere ben presente che con un film un regista chiede a una persona di starsene seduta per diverse ore e che: «Man mano che la storia procede verso la fine, il pubblico potrebbe iniziare a essere – come dire – fisicamente distratto, quindi devi aumentare le cose interessanti che succedono sullo schermo per distogliere il loro pensiero da quella cosa». Il film più lungo diretto da Hitchcock dura due ore e sedici minuti. LEGGI TUTTO

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    Cosa ci può dire il cranio di un Neanderthal con disabilità vissuto fino a sei anni

    Caricamento playerVissuti tra 600mila e 40mila anni fa (le stime sono dibattute), i Neanderthal furono l’ultima specie nota del genere Homo a convivere sul pianeta con la nostra (Homo Sapiens), per alcune decine di migliaia di anni. Tra le specie estinte di ominini è in assoluto la più conosciuta e studiata, da quando nel 1856 i primi fossili furono scoperti in una cava nella valle di Neander, in Germania.
    Il 26 giugno la rivista Science Advances ha pubblicato in un articolo i risultati di un’approfondita analisi condotta sul fossile di un Neanderthal da un gruppo di ricerca guidato dalla paleoantropologa spagnola Mercedes Conde-Valverde, insegnante dell’università di Alcalá, in Spagna. L’analisi del fossile, composto da parti del cranio di un individuo di circa sei anni di età, indicherebbe la presenza di una patologia congenita all’orecchio interno comunemente associata alla sindrome di Down e probabilmente debilitante al punto da richiedere le cure e le attenzioni di più adulti. Il fatto che l’individuo sia sopravvissuto fino ai sei anni, secondo le autrici e gli autori dello studio, proverebbe la diffusione di «comportamenti prosociali altamente adattivi» e di una stabile e disinteressata collaborazione di gruppo tra i Neanderthal.
    Sebbene siano stati immaginati, descritti e raffigurati per lungo tempo – e in parte lo siano ancora – come esseri rozzi e non civilizzati, i Neanderthal condividevano con i Sapiens molte caratteristiche. Alcune sono dibattute, come la capacità di costruire strumenti musicali e dipingere, ma molte altre sono assodate, come la sepoltura dei morti, l’uso di strumenti in pietra e indumenti, e del fuoco per cuocere il cibo, scaldarsi e difendersi dai predatori. Diversi studi pubblicati negli ultimi decenni, che hanno contribuito a rivedere precedenti valutazioni del divario socioculturale con i Sapiens, hanno inoltre suggerito che i Neanderthal collaborassero abitualmente e si prendessero cura gli uni degli altri.
    L’idea che fossero anche capaci di provare compassione è dibattuta da tempo, perché diversi studiosi sostengono che la collaborazione avvenisse tra individui in grado di ricambiare il favore, o in ogni caso con fini utilitaristici e con l’aspettativa di un beneficio reciproco, più che per benevolenza. Lo studio pubblicato su Science Advances, secondo il gruppo di ricerca guidato da Conde-Valverde, accresce tuttavia le prove a sostegno dell’esistenza di un sentimento di altruismo disinteressato tra i Neanderthal, esteso oltre la cerchia di familiari più stretti dell’individuo con la disabilità congenita.

    – Leggi anche: Di sicuro i Neanderthal non erano grandi conversatori, ma forse si parlavano

    Il fossile della ricerca uscita su Science Advances, codificato con la sigla CN-46700, è composto dal frammento di un osso temporale destro (la parte laterale inferiore della scatola cranica) e fa parte di un insieme di resti scoperti nel 1989 nel sito archeologico della caverna di Cova Negra nella provincia di Valencia, in Spagna, un’area occupata dai Neanderthal tra 273mila e 146mila anni fa. Per costruire un modello tridimensionale dell’osso completo il gruppo di ricerca ha utilizzato delle microtomografie computerizzate ai raggi X, una tecnica che permette, come le TAC, di ottenere sezioni trasversali di un oggetto fisico senza bisogno di distruggerlo.
    La ricostruzione di un individuo adulto esposta nel museo dei Neanderthal a Mettmann, in Germania (AP Photo/Martin Meissner)
    L’analisi ha mostrato che l’osso apparteneva a un individuo che aveva poco più di sei anni, soprannominato “Tina” dal gruppo di ricerca, sebbene non sia possibile stabilirne il genere. L’osso temporale è una struttura di grande importanza perché contiene e protegge la coclea e altri organi responsabili non soltanto dell’udito ma anche dell’equilibrio. Una serie di anomalie morfologiche riscontrate nel fossile, in attesa di un eventuale futuro esame del DNA che permetta di confermare un’anomalia cromosomica, suggerisce che Tina presentasse deficit invalidanti di vario tipo e critici per la sopravvivenza, tra cui deficit cognitivi, una ridotta capacità di suzione e una mancanza di coordinazione motoria e di equilibrio.
    Considerando lo stile di vita impegnativo e l’intensa mobilità dei Neanderthal, scrive il gruppo di ricerca, è difficile immaginare che la madre di Tina sarebbe stata in grado di fornirle da sola le cure necessarie e nel frattempo svolgere per un periodo di tempo prolungato le normali attività quotidiane tipiche dei gruppi di cacciatori-raccoglitori. È molto più probabile che abbia ricevuto continuamente aiuto da altri membri del gruppo sociale di cui lei e sua figlia facevano parte. «È la spiegazione più semplice per il fatto sorprendente che un individuo con sindrome di Down sia sopravvissuto per almeno sei anni in epoca preistorica», ha detto Conde-Valverde al Washington Post.
    I risultati delle analisi condotte su altri fossili in precedenti studi avevano già sostenuto l’ipotesi che i Neanderthal si prendessero cura dei membri fragili e vulnerabili del gruppo. Una ricerca pubblicata nel 2018 da un gruppo di archeologi e antropologi della University of York, nel Regno Unito, e della Australian National University, a Canberra, analizzò diversi fossili di individui con lesioni traumatiche guarite. Il gruppo concluse che le cure mediche e l’assistenza sanitaria tra i Neanderthal fossero pratiche abituali diffuse, non distintamente diverse da quelle tipiche di contesti sociali successivi, e probabilmente motivate dall’investimento nel benessere dei membri del gruppo.

    – Leggi anche: I modi in cui abbiamo disegnato i Neanderthal dicono più cose di noi che di loro

    Un esempio noto e molto citato di assistenza e collaborazione tra i Neanderthal è uno dei fossili scoperti alla fine degli anni Cinquanta nella grotta Shanidar, nel Kurdistan iracheno, e denominato Shanidar 1. È composto dai resti di un individuo con segni di deformazioni degli arti associate a gravi lesioni traumatiche al cranio subite in giovane età e poi guarite, che probabilmente avevano provocato problemi di vista e di udito. Le analisi del fossile mostrarono che l’individuo era sopravvissuto fino all’età di circa 40 anni: un periodo di tempo che diversi ricercatori si spiegano soltanto ammettendo l’assistenza e le cure consapevoli da parte di un gruppo sociale.
    Conde-Valverde ha spiegato alla rivista Science che la scoperta della probabile disabilità dell’individuo ricostruito a partire dal fossile CN-46700 è importante «perché finora nel dibattito sull’assistenza tra i Neanderthal avevamo soltanto individui adulti». L’ipotesi formulata per spiegare la sopravvivenza di Tina fino ai sei anni dimostrerebbe che il valore attribuito dai Neanderthal agli individui fosse esteso ai membri di ogni fascia d’età. Suggerisce inoltre che l’accudimento e la genitorialità collaborativa facessero parte di un complesso adattamento sociale molto simile a quello dei Sapiens, e con origini probabilmente molto antiche all’interno del genere Homo.
    Altri studiosi sostengono che la compassione e l’altruismo incondizionato dei Neanderthal non siano deducibili con certezza sulla base delle analisi dei fossili. Analisi simili svolte in passato su resti scoperti in tre diversi siti nell’Europa del Nord hanno permesso tra l’altro di ricavare prove di cannibalismo tra i Neanderthal, come concluso in uno studio nel 2016. Il che non è comunque incompatibile con l’ipotesi della solidarietà e dell’assistenza abituale agli individui vulnerabili, dal momento che non esistono prove che il cannibalismo fosse una pratica comune (è più probabile che fosse associato, come del resto anche nella storia umana, a periodi di estrema scarsità di cibo).
    L’archeologa spagnola Sofia C. Samper Carro, insegnante all’Australian National University ed esperta di comportamento dei Neanderthal, ha detto al Washington Post che in generale il legame tra le lesioni o le patologie e le relazioni di assistenza tra gli individui è difficile da dimostrare negli studi sui fossili. Ma ha aggiunto che lo studio pubblicato su Science Advances fornisce prove sufficienti per dimostrare un chiaro legame tra una disabilità infantile e un impegno nelle cure da parte di individui adulti.
    Anche se probabilmente non saremo in grado di dimostrare inequivocabilmente che i Neanderthal avessero questa capacità, «studi come questo sono certamente un passo avanti nella giusta direzione per demistificare la nostra unicità e il presunto comportamento meno “umano” dei Neanderthal», ha detto Samper Carro. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Qualche anno fa in Sudafrica è stato avviato un progetto sperimentale che prevede di iniettare un materiale radioattivo nei corni dei rinoceronti, che consentirebbe di individuare più facilmente le parti di corno che vengono asportate dagli animali e trafficate illegalmente (rilevandole in appositi sensori installati ad esempio negli aeroporti ai confini nazionali), nella speranza di limitare il fenomeno. Tra le foto di animali della settimana c’è un rinoceronte nella zona del Limpopo a cui è stato appena effettuato il procedimento. Poi orsi che fanno la doccia – questi sono in uno zoo, ma sapreste cosa fare se ne incontraste uno? –, il salto di una megattera, due procioni che si fanno cercare, un cane brutto e uno famoso sui social network. LEGGI TUTTO

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    Cosa fare se si incontra un orso

    Caricamento playerSi stima che in Italia ci siano circa 139 orsi liberi: 98 orsi bruni in Trentino e 41 orsi bruni marsicani tra Abruzzo, Lazio e Molise. Dato che i boschi in cui vivono sono attraversati da strade e confinano con paesi, case e altre strutture usate dalle persone, e visto che possono essere frequentati da escursionisti, capita ogni tanto che qualcuno incontri un orso. Nella maggior parte dei casi noti non ci sono state conseguenze negative per le persone, ma nel 2023 per la prima volta c’è stata un’aggressione mortale in Trentino.
    Per evitare ogni forma di scontro con gli orsi sia la provincia autonoma di Trento che il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise danno una serie di raccomandazioni su cosa fare in caso di incontri con uno o più orsi, disponibili online e riportate su cartelli e altro materiale informativo nel territorio in cui gli orsi possono trovarsi. In Trentino sono in corso di installazione più di 680 nuovi cartelli che segnalano la possibile presenza di orsi in aree frequentate dagli escursionisti e circa 80 cartelli che riportano tutte le principali norme di comportamento. Sono anche state stampate 150mila brochure da distribuire per informare residenti e turisti.
    Le “regole di coesistenza” della provincia di Trento, su cui si basano le indicazioni in questo articolo, sono validate dall’International Association for Bear Research and Management (IBA), una ong di esperti di orsi di 45 paesi del mondo.
    PremesseLa premessa fondamentale è che salvo eccezioni gli orsi bruni europei, che sono animali onnivori ma mangiano prevalentemente vegetali, temono le persone e tendono a evitarle. Possono però comportarsi in modo aggressivo se percepiscono una minaccia per sé o per i propri piccoli, nel caso delle orse. Per questo gli incontri a distanza ravvicinata, che possono spaventare gli orsi, devono essere evitati. Quando si passeggia in montagna in zone dove vivono gli orsi è una buona precauzione parlare a voce alta o fare altri rumori per segnalare la propria presenza: sentendo dei rumori un eventuale orso nelle vicinanze si allontanerà spontaneamente.
    Un’altra buona abitudine è spostarsi in gruppi di persone, che sono più rumorosi (e odorosi): per gli animali è più facile notarli e tenersene alla larga. Per chi fa delle escursioni insieme a uno o più cani, è fondamentale tenerli legati al guinzaglio, per evitare che possano avvicinarsi a un orso e poi spingerlo ad avvicinarsi.
    Le interazioni tra una persona e un orso sono comunque rare in Italia e nella maggior parte dei casi l’orso si dimostra indifferente o si allontana. L’ultimo Rapporto Grandi Carnivori della provincia di Trento dice che dal 2008 al 2023 sono state registrate 213 «interazioni uomo-orso»: nel 71 per cento dei casi l’orso si è allontanato o si è mostrato indifferente; nel restante 29 per cento dei casi (62 episodi in 15 anni) ha avuto un comportamento aggressivo. Sempre secondo la provincia il numero di interazioni in cui l’orso si allontana spontaneamente è probabilmente maggiore: in questi casi spesso si ritiene superfluo segnalare gli incontri alle autorità. Anche tra i comportamenti aggressivi comunque rientrano cose diverse: solo nel 10 per cento dei casi di comportamenti aggressivi gli orsi hanno inseguito le persone e solo nel 13 per cento dei casi di comportamenti aggressivi c’è stato un contatto fisico.
    Cosa fare in caso di incontro con un orso1. Se l’orso non ci ha visti, torniamo silenziosamente e lentamente sui nostri passi, senza perderlo di vista. Se l’orso è un piccolo, è probabile che nelle vicinanze ci sia la madre, quindi bisogna fare maggiore attenzione. Non bisogna avvicinarsi, né gridare per chiamare qualcun altro o fermarsi per fotografare l’orso.
    2. Se l’orso nota la nostra presenza e si allontana (è il caso più comune), aspettiamo prima di proseguire sul nostro cammino, evitando di muoverci nella sua stessa direzione. Non bisogna seguirlo (nemmeno in automobile).
    3. Se l’orso nota la nostra presenza e si alza sulle zampe posteriori, rimaniamo fermi e parliamo con tono di voce calmo. Gli orsi non si alzano sulle zampe posteriori per aggredire, ma per capire meglio cos’hanno davanti: il loro senso della vista non è particolarmente sviluppato, a differenza dell’olfatto, e alzandosi hanno una percezione migliore di ciò che li circonda.
    Uno dei cartelli che spiegano cosa fare in caso di incontro con un orso installati in Trentino nel giugno del 2024 (Ufficio stampa della Provincia autonoma di Trento)
    4. Se l’orso resta fermo, allontaniamoci lentamente, senza correre e senza perdere di vista l’animale, parlando sempre con tono di voce calmo. Non ha senso rifugiarsi su un albero perché gli orsi sono molto abili ad arrampicarsi.
    5. Se l’orso ci segue mentre ci stiamo allontanando, continuiamo a retrocedere lentamente senza voltargli le spalle, parlando con tono calmo.
    6. Se l’orso mostra segni di aggressività attraverso vocalizzi, soffi o zampate a terra, vuole farci allontanare. Anche in questo caso retrocediamo lentamente senza perdere di vista l’animale, senza correre.
    7. Se però l’orso ha un atteggiamento aggressivo e si avvicina, anche correndo, restiamo fermi, senza gridare.
    8. Se avviene un attacco con contatto fisico (un’eventualità molto rara), stendiamoci al suolo a faccia in giù, con le dita delle mani intrecciate dietro il collo e le braccia a proteggere la testa, restando immobili finché l’orso interrompe l’azione e si allontana. Non gridiamo e non tentiamo di colpire l’orso. Se indossiamo uno zaino, non tentiamo di liberarcene, potrebbe essere utile per proteggersi.
    9. La provincia di Trento raccomanda di avvisare le autorità dell’incontro con l’orso appena possibile, chiamando il numero di emergenza 112.
    Le raccomandazioni cambiano con altri orsi?In Nord America vivono orsi diversi da quelli europei, gli orsi neri (Ursus americanus) e varie sottospecie di orsi bruni, tra cui la più numerosa è quella dei grizzly (Ursus arctos horribilis). Il National Park Service degli Stati Uniti raccomanda di chiedere istruzioni su come comportarsi in caso di incontro con un orso alle autorità del parco che si sta visitando, perché i comportamenti degli orsi possono variare in base al territorio. In linea generale dà indicazioni analoghe a quelle italiane.
    L’unica differenza rilevante riguarda l’atteggiamento da tenere nel raro caso in cui si sia attaccati da un orso nero, la specie di dimensioni minori e più diffusa negli Stati Uniti: non bisogna sdraiarsi a terra e fingersi morti ma tentare di scappare, o reagire all’attacco se non è possibile allontanarsi.

    – Leggi anche: L’uomo che sparò all’orsa Amarena è accusato di uccisione di animali aggravata dalla crudeltà LEGGI TUTTO

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    Forse sull’isola di Pasqua non ci fu un “ecocidio”

    Caricamento playerL’isola di Pasqua (Rapa Nui), che si trova a circa 3.600 chilometri dalla costa del Cile nell’oceano Pacifico meridionale, è famosa per almeno due cose: i “moai”, i grandi busti in pietra alti fino a 10 metri che spuntano dal terreno, e la brutta fine che fece la popolazione che li costruì. Si ipotizza infatti che secoli fa gli isolani commisero un ecocidio: sfruttarono a fondo le risorse dell’isola, abbattendo tutti gli alberi ed esaurendo le risorse del suolo rendendolo poco fertile, al punto da patire carestie che li decimarono portando la popolazione da 25mila abitanti a poche migliaia.
    L’ipotesi è discussa da tempo, ma non tutti sono convinti e nel tempo sono stati pubblicati vari studi che provano a spiegare in modo diverso l’ascesa e il declino dell’isola di Pasqua. Una ricerca da poco pubblicata sulla rivista Science Advances, per esempio, ha segnalato che probabilmente gli isolani disponevano di meno terreni da coltivare rispetto a quanto ipotizzato in precedenza. Secondo il gruppo di ricerca la quantità di abitanti fu quindi sempre contenuta sull’isola e non ci fu mai un suo calo drastico dopo un certo periodo di tempo a causa di un consumo non sostenibile delle risorse dell’isola.
    Le popolazioni della Polinesia si stabilirono sull’isola di Pasqua circa mille anni fa, ma non ci sono molte testimonianze per ricostruire la loro storia nei primi secoli di vita sull’isola. Rapa Nui è di origine vulcanica e in poco tempo i nuovi arrivati si dovettero confrontare con le difficoltà nel coltivarla e sulla quantità ridotta di sorgenti di acqua dolce. Per avere una resa migliore dei campi, per lo meno per la coltivazione dei tuberi, gli abitanti perfezionarono una tecnica che si era già rivelata utile altrove: ricoprivano i campi con frammenti di pietre, in modo da mantenere il suolo più fresco di giorno e caldo di notte, favorendo l’accumulo dell’umidità necessaria per far crescere le piante.
    Nel diciottesimo secolo sull’isola di Pasqua arrivarono gli europei e vi trovarono una popolazione di circa 3mila persone, il primo dato affidabile sulla quantità di isolani. Partendo da quel censimento, alcuni studi conclusero che secoli prima dell’arrivo degli europei l’isola potesse avere avuto tra i 17mila e i 25mila abitanti. Per arrivare a quella stima, a lungo condivisa in ambiente accademico, era stato stimato che fino al 20 per cento dei terreni dell’isola di Pasqua fosse coltivabile, seppure con qualche difficoltà. Quelle stime avevano portato alcune ricerche a concludere che la popolazione fosse stata decimata prima dell’arrivo degli europei, forse a causa di un uso eccessivo del suolo per l’agricoltura.
    La nuova ricerca mette però in dubbio le stime sui terreni coltivabili dell’isola di Pasqua fatte in precedenza, segnalando come nei calcoli furono comprese zone coperte da frammenti di pietra che non erano però effettivamente usate come campi. Il gruppo di ricerca ha provato a censire i terreni analizzando varie immagini satellitari e mettendole a confronto con sistemi di intelligenza artificiale. Dalle analisi è emerso che solo un quinto dei terreni delle stime più conservative fatte in precedenza era effettivamente impiegato per l’agricoltura. Anche tenendo in considerazione altre risorse alimentari, derivanti dalla pesca e dalla caccia ad alcuni uccelli, sembra improbabile che sull’isola di Pasqua potessero vivere così tante persone come ipotizzato in precedenza.
    Mappa delle aree urbanizzate e agricole in relazione alla densità calcolata degli orti rocciosi (Science Advances)
    Dylan Davis, uno degli autori della ricerca, ha detto al Guardian: «Il nostro studio conferma che l’isola non avrebbe potuto sostenere più di qualche migliaio di persone. Di conseguenza, a differenza della versione sull’ecocidio, la popolazione presente all’arrivo degli europei non era ciò che restava della società di Rapa Nui, ma era più probabilmente la società al proprio picco, che viveva a un livello sostenibile per le risorse dell’isola».
    La nuova ricerca ha aggiunto elementi a una questione che viene dibattuta da tempo e sulla quale non c’è ancora un consenso scientifico. Secondo alcuni esperti lo studio ha sottostimato l’effettiva quantità di campi di cui potevano disporre gli abitanti dell’isola secoli fa, arrivando di conseguenza a una stima troppo conservativa della popolazione. Altri hanno segnalato come sia difficile fare una stima precisa sul numero di abitanti in una certa fase storica solo sulla base dei campi che si ritiene avessero utilizzato, visto che le tracce di quelli più antichi sono difficili da confermare.
    Dopo l’arrivo degli europei la popolazione dell’isola di Pasqua dovette affrontare molte difficoltà legate alla diffusione di malattie contro cui non era immune, che contribuirono a decimare la popolazione. Nella seconda metà dell’Ottocento molti abitanti furono deportati nell’ambito delle ricerche di nuovi schiavi da parte del Perù e ci furono poi grandi flussi migratori verso altre isole come Tahiti. Verso la fine dell’Ottocento a Rapa Nui viveva solo un centinaio di persone di discendenza polinesiana.
    L’isola di Pasqua fu annessa dal Cile nel 1888, ma solo nel 1966 gli abitanti dell’isola ottennero la cittadinanza cilena e maggiori garanzie di assistenza economica da parte del paese. Dal 2007 l’isola è un “territorio especial” con proprie autonomie e ha una popolazione complessiva di circa 7.800 persone. LEGGI TUTTO

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    Che cosa sono OGM e TEA

    Caricamento playerLa distruzione di una piccola coltivazione sperimentale di riso ottenuto con “tecniche di evoluzione assistita” (TEA), avvenuta la settimana scorsa in provincia di Pavia, ha riportato una certa attenzione sui sistemi utilizzati in agricoltura per intervenire sul materiale genetico delle piante, seppure con qualche confusione. Nel corso degli anni sono state introdotte sigle e categorie per differenziare le nuove tecniche da quelle meno recenti, in un tentativo di mettere ordine e fare distinzioni soprattutto a livello legislativo per rendere possibile la sperimentazione e l’impiego di nuove soluzioni che nei prossimi anni avranno un forte impatto sulla produzione agricola.
    La sigla OGM, che sta per “organismi geneticamente modificati”, è sicuramente la più conosciuta e quella che viene più spesso in mente quando si pensa alle modifiche genetiche nelle coltivazioni. Eppure, l’umanità modifica praticamente da sempre le piante anche intervenendo sul loro materiale genetico. Lo ha fatto per millenni in modo inconsapevole, selezionando le varietà di piante più resistenti o che per esempio producevano più frutti, o che ancora si rivelavano più adatte a crescere in un determinato ambiente. In seguito, lo ha fatto in modo sempre più mirato, attuando incroci di vario tipo, e infine nel Novecento con interventi diretti sul DNA.
    Per diverso tempo si sono per esempio utilizzate sostanze chimiche e radiazioni, in modo da indurre mutazioni nel materiale genetico di certe piante selezionando poi quelle rese più produttive o resistenti. In seguito si è passati all’uso di manipolazioni per aumentare il numero dei cromosomi o per far fondere l’intero materiale genetico (il genoma) da più fonti.
    Le tecniche divennero via via più raffinate fino ai grandi progressi alla fine del Novecento, quando furono sviluppate tecniche di ingegneria genetica che consentono di intervenire sul DNA in modo estremamente mirato. I progressi furono tali da rendere necessaria una regolamentazione di queste tecniche, creando una nuova categoria: gli OGM. Nell’Unione Europea le regole furono formalizzate all’interno della Direttiva 2001/18/CE, soprattutto per quanto riguardava la diffusione nell’ambiente degli organismi geneticamente modificati.
    La direttiva indica formalmente come OGM i prodotti derivanti da una sola tecnica, che prevede di estrarre un pezzo di DNA da un genoma e di inserirlo in un altro (ci sono ulteriori complessità, spiegate estesamente qui). È quindi una definizione prettamente giuridica e non scientifica: ciò che oggi viene definito OGM potrebbe non esserlo domani e viceversa, a seconda di come si interviene sulla legge stessa.
    Al centro di quella definizione di OGM c’è una tecnica che consiste nell’inserire in un organismo un gene proveniente da un altro, più o meno distante sul piano evolutivo. Secondo la direttiva europea, chi vuole vendere prodotti transgenici deve offrire garanzie di sicurezza aggiuntive e deve segnalare nelle proprie etichette la presenza di OGM. All’epoca le regole sugli organismi geneticamente modificati fecero molto discutere, soprattutto a causa di una certa diffidenza nei confronti di coltivazioni contenenti “pezzi di DNA a loro estranei”, come venivano spesso definite da associazioni e attivisti contrari agli OGM. Il dibattito fu molto sentito in Italia e portò a recepire la direttiva europea in modo molto restrittivo vietando del tutto la coltivazione commerciale degli OGM e limitando fortemente la ricerca nel settore.
    In Italia non è formalmente vietato fare ricerca sugli OGM, perché questi possono essere sviluppati in laboratorio e possono essere poi sperimentati in serre isolate. È invece molto più difficile effettuare sperimentazioni in campo aperto, quindi alle condizioni in cui solitamente cresce una pianta esposta ai parassiti e alle intemperie, perché sono previste procedure molto complicate con numerose limitazioni. In circa venti anni nessun centro di ricerca italiano ha quindi potuto fare sperimentazione in campo di un certo rilievo, rendendo difficile lo sviluppo di nuovi filoni di ricerca per rendere per esempio le piante più resistenti a particolari parassiti senza dover ricorrere a grandi quantità di fitofarmaci.
    Negli ultimi vent’anni la ricerca a livello globale non si è però fermata e ha portato allo sviluppo di nuove tecniche di modifica del materiale genetico, ormai molto diverse da quella identificata dalla direttiva del 2001 che aveva portato alla definizione di OGM. I progressi più importanti sono stati raggiunti con lo sviluppo di CRISPR/Cas9, una tecnica di editing genomico che nel 2020 è valsa il Premio Nobel per la Chimica alle ricercatrici Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, le due principali sviluppatrici del sistema.
    CRISPR/Cas9 è uno strumento molto versatile con grandi potenzialità in molti ambiti della medicina, in agricoltura e non solo. Il sistema dà la possibilità di intervenire con precisione su specifiche sezioni del DNA e di modificarle, con un taglia/copia e incolla simile a quello che si fa quando si scrive un documento su un software per comporre testi. In questo modo possono essere per esempio “spenti” specifici geni della pianta, senza dover attendere che ciò avvenga (ammesso che succeda) in natura in tempi molto più lunghi attraverso la selezione delle piante come abbiamo fatto per millenni.
    Oltre a CRISPR/Cas9 esistono diverse tecniche per ottenere questi risultati, alcune più esplorate di altre, che vengono generalmente ricondotte nella definizione di “nuove tecniche genomiche” con la sigla NGT. In Italia si è scelto di chiamarle “tecniche di evoluzione assistita”, cioè TEA, per evitare riferimenti diretti alla genetica che avrebbero potuto generare qualche confusione rispetto alla classica definizione di OGM. Si è ritenuto inoltre che in questo modo potesse essere evitato lo stigma che gli OGM si sono a lungo portati dietro a causa del dibattito molto polarizzato sul tema alla fine degli anni Novanta.
    TEA non è comunque una definizione scientifica, anche se probabilmente sarà via via utilizzata nelle ricerche scientifiche, e soprattutto a livello europeo si parla quasi sempre di NGT. E se ne sta parlando molto perché da più di un anno nell’Unione Europea si discute e ci si confronta sulla necessità di fare una revisione dei regolamenti finora adottati, visto che si devono regolamentare le nuove tecniche genomiche emerse nell’ultimo periodo.
    Lo scorso 7 febbraio il Parlamento europeo ha votato una proposta di revisione presentata dalla Commissione a luglio 2023 che, tra le altre cose, prevede che se il prodotto ottenuto con le NGT è indistinguibile da un prodotto presente anche “in natura” o con le precedenti tecniche di modifica genetica allora quel prodotto rientra nel gruppo NGT di tipo 1 e non deve essere considerato un OGM. Nel caso in cui invece sia distinguibile, il prodotto ricade nel tipo 2 e viene classificato come OGM, soggetto quindi a tutte le verifiche e maggiori limitazioni previste dal 2001. La proposta è ancora in fase di discussione e potrebbe subire ulteriori modifiche prima di essere approvata.
    In Italia dalla scorso anno è consentita la sperimentazione in campo aperto a scopo di ricerca delle TEA, con una riduzione delle complicazioni rispetto a quanto era avvenuto in precedenza con gli OGM. Non è una liberalizzazione totale e incondizionata: devono comunque essere seguiti protocolli molto rigidi, con il rispetto di regole severe per evitare “contaminazioni” di piante vicine mentre è in corso la sperimentazione. È stato grazie a questa modifica delle regole che l’Università di Milano ha potuto avviare la sperimentazione in campo del “RIS8imo”, il riso le cui piantine sono state distrutte la scorsa settimana. Erano state ottenute con sistemi di editing genetico per renderle resistenti al brusone, un fungo che causa una grave malattia della pianta, riducendo in questo modo il ricorso a fitofarmaci.
    E quindi?È difficile stabilire un confine netto tra gli OGM e gli NTG/TEA, al di là delle definizioni giuridiche attuali e di quelle che dovrebbero essere adottate a breve. Ciò deriva dall’estrema varietà di risultati che si possono ottenere con NGT/TEA: in alcuni casi le differenze rispetto ai prodotti non modificati sono minime, mentre in altri possono essere molto marcate. Nel primo caso i prodotti sono pressoché identici a quelli ottenuti con i normali metodi di miglioramento genetico (selezione, incrocio, mutagenesi), nel secondo sono marcatamente diversi come potrebbe esserlo un prodotto ottenuto con le tecniche di modifica genetica usate in precedenza (cioè gli OGM transgenici). Le nuove regole in fase di approvazione sono orientate a dare maggior peso al risultato finale, più che alle tecniche realizzate per ottenerlo e che potranno ancora cambiare con i progressi nella ricerca. LEGGI TUTTO