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    In Brasile e Colombia si è ridotta la distruzione delle foreste tropicali

    Caricamento playerNel 2023 sono stati abbattuti o bruciati circa 37mila chilometri quadrati di foreste tropicali, una superficie pari a quella di Toscana e Campania messe insieme, con una grave perdita per gli ecosistemi e in generale per il pianeta nel contrastare l’effetto serra. Secondo Global Forest Watch, l’iniziativa che ha diffuso i dati, il disboscamento continua a essere uno dei problemi ambientali più seri, ma ci sono stati comunque alcuni progressi, con una riduzione del 9 per cento del fenomeno tra il 2022 e il 2023, in particolare grazie ad alcune nuove politiche per la tutela delle foreste tropicali avviate in Sudamerica.
    Global Forest Watch offre una piattaforma online per tenere sotto controllo lo stato delle foreste del mondo e, insieme all’istituto di ricerca ambientale World Resources Institute, realizza periodicamente rapporti per confrontare negli anni la perdita di foresta pluviale primaria (cioè di foresta ancora incontaminata e non raggiunta dalle attività umane). Le analisi vengono fatte mettendo a confronto immagini satellitari di diversi periodi, in modo da verificare quali aree abbiano subìto attività di disboscamento anche in pochi mesi. Il sistema consente di verificare soprattutto le perdite dovute agli incendi, ma sono talvolta necessarie analisi successive per distinguere tra eventi naturali e fuochi appiccati intenzionalmente per guadagnare nuovo terreno per le coltivazioni.
    In Sudamerica si distruggono ogni anno grandi porzioni di foreste tropicali primarie per la costruzione di nuove strade e infrastrutture, oppure per rendere coltivabili i terreni. Il rapporto di Global Forest Watch segnala che nel 2023 sono stati distrutti circa 2mila chilometri quadrati di foreste tropicali in quella parte di mondo, un’area paragonabile a circa metà quella del Molise. La perdita è stata rilevante, ma inferiore del 24 per cento rispetto all’anno precedente, soprattutto grazie ai progressi raggiunti dai governi di Brasile e Colombia per limitare la distruzione delle foreste.
    Confronto tra 2022 e 2023 della perdita di foresta tropicale primaria nei dieci paesi del mondo in cui il fenomeno è più diffuso (Global Forest Watch)
    Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, rieletto nel 2022, si è impegnato a fermare completamente la deforestazione entro il 2030, un obiettivo molto ambizioso che non potrà essere raggiunto solamente attraverso l’intensificazione dei controlli. Lula ha revocato buona parte delle leggi che aveva fatto approvare il suo predecessore, Jair Bolsonaro, che di fatto avevano reso più semplice la deforestazione a scopi di sviluppo e commerciali, e ha riorganizzato l’agenzia governativa per la protezione per l’ambiente. Il presidente brasiliano intende inoltre aumentare le aree definite territorio per le popolazioni native, in modo da renderle protette e quindi rendere più difficile il disboscamento. In circa un anno sono già stati aggiunti otto nuovi territori, arrivando quasi a 500: l’intenzione è di riconoscerne altri 200 nel corso dei prossimi anni.
    In Colombia il presidente Gustavo Petro, eletto nel 2023, ha annunciato una nuova serie di politiche per ridurre la deforestazione comprese alcune campagne con contributi economici per le popolazioni locali in modo da disincentivare l’abbattimento degli alberi.
    Altri progressi sembra siano stati raggiunti in seguito ad alcune iniziative di Estado Mayor Central (EMC), il più importante gruppo dissidente delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (FARC). Il gruppo di guerriglieri controlla un’area importante dell’Amazzonia e dal 2022 impone multe dell’equivalente di svariate centinaia di euro a chi abbatte illegalmente gli alberi. Il gruppo sostiene di farlo per motivi ambientalisti, ma secondo gli osservatori l’iniziativa è uno dei modi per avere maggiori possibilità di contrattare con il governo colombiano la fine delle ostilità (nel 2016 l’EMC non aveva accettato gli accordi di pace tra governo e FARC). Stando ai dati forniti da Global Forest Watch, in Colombia nel 2023 la perdita di foresta tropicale è stata inferiore del 49 per cento rispetto al 2022.
    I progressi raggiunti in Colombia e Brasile si inseriscono comunque in un contesto ancora negativo legato alla deforestazione, se si considera che dal 2001 al 2023 in Sudamerica è andato distrutto quasi un terzo delle foreste tropicali. La perdita non implica solamente una riduzione nella capacità del pianeta di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, uno dei principali gas serra. La riduzione delle foreste porta a una marcata riduzione della biodiversità, cioè della varietà di specie che popolano un certo ambiente, con un ulteriore impoverimento di alcuni dei territori altrimenti più floridi del pianeta sia dal punto di vista della flora sia della fauna. LEGGI TUTTO

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    E se l’energia oscura stesse diminuendo?

    Una nuova dettagliatissima mappa di milioni di galassie sta facendo molto discutere i cosmologi, cioè chi si occupa di studiare l’evoluzione dell’Universo nel suo insieme, e potrebbe portare a una profonda revisione delle teorie finora formulate per spiegare il funzionamento del cosmo. “Potrebbe” è la parola chiave, perché i dati sono ancora preliminari e serviranno molte altre misurazioni, ma i primi indizi hanno comunque sorpreso gli esperti e soprattutto chi studia la cosiddetta “energia oscura”, che secondo le teorie più condivise ha un ruolo fondamentale nel fare espandere sempre più velocemente l’Universo. Gli indizi sembrano suggerire che questa misteriosa energia stia lentamente diminuendo e non sia quindi costante.La mappa è stata presentata questa settimana dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI), una importante collaborazione scientifica per misurare l’effetto dell’energia oscura sull’espansione dell’universo. Contiene un’enorme quantità di dati e dal confronto di diverse osservazioni sembra confermare che l’energia oscura sia diminuita nel corso di miliardi di anni. I gruppi di ricerca coinvolti nel progetto hanno chiarito che al momento non ci sono dati tali da affermare di avere effettuato una nuova scoperta, ma che ci sono comunque indizi a tratti sorprendenti da approfondire.
    Materia oscura ed energia oscuraPer capire le implicazioni di un eventuale ripensamento dell’energia oscura è necessario fare qualche passo indietro e ripartire dalla materia, cioè ciò di cui siamo fatti e che ci circonda: proprio perché è ciò che siamo, la vediamo di continuo al punto da non farci quasi caso. Nel nostro percepito la materia è tantissima, ma in termini cosmologici è relativamente poca: si stima che costituisca meno del 5 per cento dell’Universo conosciuto. Tutto il resto, secondo le teorie più discusse, è formato per il 25 per cento circa di materia oscura e per il 70 per cento di energia oscura.

    – Leggi anche: Che cos’è l’energia

    Come suggerisce il nome, entrambe sono completamente invisibili sia ai nostri occhi sia agli strumenti, al punto da non sapere nemmeno di preciso che cosa siano né come funzionino. Siamo però abbastanza certi che esistano, perché in loro assenza non si potrebbero spiegare alcuni dei fenomeni che invece riusciamo a osservare e che conosciamo ormai piuttosto bene. Detta in altre parole: le teorie per spiegare come funziona l’Universo hanno bisogno sia della materia oscura sia dell’energia oscura per stare in piedi.
    Rappresentazione schematica di che cosa si intende per “materia” in rapporto alle altre forme “oscure” ipotizzate (ESA)
    Quando nel Novecento si iniziarono a calcolare le caratteristiche dell’Universo e ad applicare modelli teorici per spiegarne le peculiarità, infatti, divenne evidente che la quantità di materia che ci è visibile non era sufficiente per spiegare il modo in cui è strutturato e rimane insieme l’Universo.
    Per esempio, la quantità di materia osservabile di una galassia (cioè un grande insieme di stelle, pianeti e materiale interstellare soprattutto sotto forma di gas e polveri) è relativamente poca e non è sufficiente per far sì che le stelle che ne fanno parte restino insieme senza sparpagliarsi per l’Universo (c’è una stretta relazione tra massa e interazioni gravitazionali che tengono vicini i corpi). Uno dei modi per spiegare questa stranezza è ipotizzare che ci sia qualcos’altro dentro e intorno alle galassie che ne favorisce la coesione, qualcosa che non emette o riflette luce e che non si fa rivelare, ma che comunque esiste e aggiunge ulteriore massa: la materia oscura.
    La sua esistenza aiuta a spiegare molto, ma non tutto. Circa un secolo fa si scoprì che l’Universo si sta espandendo e circa 70 anni dopo fu anche scoperto che l’Universo è in una fase di espansione accelerata, cioè che la velocità a cui si sta espandendo aumenta nel tempo. Fu una scoperta rivoluzionaria e inattesa, perché contraddiceva alcune parti del modello teorizzato fino ad allora per descrivere l’Universo, secondo il quale la gravità avrebbe via via portato l’espansione a rallentare.
    A un quarto di secolo di distanza da quella importante scoperta, non sappiamo che cosa determini l’accelerazione, ma ci sono comunque diverse teorie. Una delle più condivise ipotizza l’esistenza dell’energia oscura, cioè di un particolare tipo di energia che contrasta in qualche modo la gravità e fa sì che l’Universo acceleri nella propria espansione. È una forma di energia ipotetica che sarebbe distribuita omogeneamente nello spazio e che come nel caso della materia oscura non riusciamo a rilevare direttamente.
    ΛLa presenza dell’energia oscura è prevista nel modello Lambda-CDM, considerato il “modello standard” della cosmologia, cioè quello attualmente più adatto e semplice per provare a spiegare il funzionamento su grande scala dell’Universo nella sua espansione accelerata. Il nome deriva dalla costante cosmologica, indicata con la lettera Λ (lambda) dell’alfabeto greco, e inizialmente inserita da Albert Einstein nelle proprie equazioni per la teoria della relatività generale ipotizzando un universo statico. Oggi la costante cosmologica ha un ruolo diverso ed è usata per provare a spiegare l’accelerazione dell’espansione dell’Universo.
    Rappresentazione schematica delle principali fasi di evoluzione dell’Universo (NASA)
    Più questo si espande, più la materia e l’energia che riusciamo a osservare diventano meno dense perché si “spalmano” in uno spazio sempre più grande. Questa riduzione della loro densità dovrebbe essere accompagnata da un rallentamento nell’espansione dell’Universo e non da una sua accelerazione, come è stato invece osservato.
    C’è però una cosa che non si diluisce con l’espansione dello spazio e questa è lo spazio stesso: se una stanza inizia a espandersi, tutto al suo interno sembra allontanarsi e quindi diluirsi, a parte lo spazio all’interno della stanza stessa. Ipotizzando che il vuoto che costituisce lo spazio abbia una propria energia, all’aumentare del vuoto aumenta l’energia e di conseguenza l’accelerazione nell’espansione. Questa energia del vuoto su scala cosmologica può fornire una spiegazione dell’energia oscura.

    – Leggi anche: Niente, un articolo sul vuoto

    Ovviamente studiare qualcosa che non è direttamente misurabile è molto difficile, ma si possono effettuare analisi indirette raccogliendo dati estremamente precisi su ciò che invece possiamo osservare e misurare, confrontandolo poi con ciò che ci si aspetta sulla base dei modelli teorici. Negli ultimi anni i sistemi di misurazione sono migliorati enormemente e questo ha permesso di avere dati molto più precisi di un tempo.
    DESITra i migliori oggi disponibili ci sono quelli delle osservazioni effettuate da DESI con il telescopio Mayall di Kitt Peak in Arizona (Stati Uniti). Il telescopio è stato attrezzato con un sistema di acquisizione basato su 5mila sensori a fibra ottica, ciascuno dei quali tiene traccia di specifiche galassie lontanissime, talmente lontane da potere osservare come si presentavano miliardi di anni fa, perché la loro luce impiega moltissimo tempo per raggiungerci. In un certo senso DESI vede quindi nel passato e soprattutto consente di confrontare lo spostamento relativo delle galassie dalle loro vicine e da noi in base all’epoca in cui effettivamente si trovano (più sono distanti più sono epoche antiche), permettendo in questo modo di calcolare come e quanto si stia espandendo l’Universo. Catalogarle in base a determinate epoche è essenziale, altrimenti si confronterebbero gli spostamenti tra galassie di epoche diverse.

    Grazie alle osservazioni compiute da DESI tra la primavera del 2021 e quella del 2022 è stato possibile mappare con grande precisione la posizione di 6mila galassie per come apparivano tra i 2 e i 12 miliardi di anni fa, sui circa 13,8 miliardi di età stimata dell’Universo. Sono state suddivise in sette grandi epoche e i gruppi di ricerca sono poi andati a vedere se ci fosse una corrispondenza tra quanto osservato e quanto previsto da Lambda-CDM, confrontando i risultati anche con quelli ottenuti da altri esperimenti.
    I confronti hanno portato a sospettare che l’energia oscura non sia costante nel tempo, ma subisca oscillazioni e che stia diminuendo. I risultati hanno però una rilevanza statistica ancora relativamente poco affidabile, a indicazione del fatto che potrebbero esserci minuscoli errori di misurazione che portano a interpretare in modo scorretto alcuni risultati. Per questo motivo i gruppi di ricerca di DESI hanno raccolto molti altri dati ancora da analizzare, che potranno poi essere confrontati con quelli raccolti da altri esperimenti che si occupano di energia oscura, come la sonda Euclid dell’Agenzia spaziale europea.
    È quindi presto per arrivare a qualche conclusione, ma l’ipotesi che l’energia oscura si stia indebolendo è affascinante perché implicherebbe che non può essere considerata una costante cosmologica. Se diminuisse a sufficienza, l’accelerazione cosmica si interromperebbe e sotto l’effetto della gravità l’espansione si trasformerebbe in una lenta contrazione: in questo caso l’Universo tornerebbe quindi a contrarsi dopo essersi espanso, come postulato da alcune teorie sulla sua ciclicità.
    Saranno necessarie molte altre misurazioni per avere qualche conferma o smentita, ma il grande fermento intorno ai primi risultati di DESI ricordano ancora una volta come siano proprio le grandi incertezze a portare a nuovi progressi nella scienza, rimettendo se necessario in discussione tutto, quando ci sono buoni dati per farlo. LEGGI TUTTO

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    Forse stiamo sottovalutando i danni dei colpi di testa nel calcio

    Martedì il quotidiano sportivo francese L’Équipe ha intervistato il difensore del Manchester United Raphaël Varane, 30 anni, anche lui francese. Era però un’intervista diversa dal solito, perché focalizzata interamente sul tema delle commozioni cerebrali nel calcio, sui cui rischi (soprattutto a lungo termine) si è cominciato a discutere solo di recente. In questi anni sono usciti diversi studi che hanno provato ad analizzare le conseguenze dei colpi di testa sulla salute dei calciatori, sia quelli che danno abitualmente al pallone durante le partite che i colpi alla testa subiti in scontri di gioco. Ultimamente alcune federazioni, per ora poche, hanno deciso di limitare o sconsigliare la ripetizione di questo gesto a livello giovanile.L’intervista di Varane è importante perché è una delle prime volte che parla del tema un calciatore di così alto livello (Varane è uno dei giocatori più vincenti della sua generazione, campione del mondo con la Francia nel 2018 e quattro volte vincitore della Champions League con il Real Madrid). All’Équipe ha raccontato di aver subìto diverse commozioni cerebrali nella sua carriera, alcune dovute a traumi specifici alla testa (per esempio scontri con altri giocatori), altre che ipotizza essere legate alle tantissime volte in cui ha colpito il pallone con la testa, in allenamento e in partita.
    Nel calcio il colpo di testa è un gesto tecnico abbastanza comune, viene fatto sia in attacco, per cercare di fare gol quando arriva un pallone alto vicino alla porta avversaria, sia soprattutto in difesa, per allontanare i palloni alti dall’area di rigore; ma anche a centrocampo, quando spesso i calciatori vanno a contrasto tra loro, come si dice, per colpire di testa sui lanci lunghi. «Anche se non provocano traumi immediati, sappiamo che, a lungo termine, i ripetuti colpi di testa rischiano di avere effetti dannosi. Personalmente non so se vivrò fino a cent’anni, ma so di aver danneggiato il mio corpo», ha detto Varane.
    (AP Photo/Alastair Grant)
    I danni di cui parla Varane sono stati in parte documentati da alcuni studi, che però non hanno prodotto risultati definitivi, perché si sono tutti scontrati con limiti quali lo scarso numero di partecipanti, l’assenza di controlli periodici dopo i primi risultati e soprattutto la difficoltà nello stabilire in maniera netta il rapporto tra causa ed effetto. Pur con questi limiti, comunque, diverse ricerche hanno fornito indizi sul fatto che i calciatori abbiano maggiori possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative, malattie cioè del sistema nervoso centrale che portano a una perdita o al malfunzionamento di neuroni (le cellule che costituiscono il nostro sistema nervoso) e che possono comportare problemi come deficit cognitivi e demenza.
    Nel 2021 uno studio uscito su JAMA Neurology ha analizzato l’incidenza di queste patologie in un campione di 7.676 ex calciatori scozzesi, nati tra il 1900 e il 1977, confrontandola con quella di 23.028 persone comuni. I risultati hanno mostrato che i calciatori avevano, mediamente, il quadruplo delle possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative rispetto al campione di controllo, cioè alle persone comuni. Tra i calciatori, i rischi erano più bassi per gli ex portieri (che colpiscono raramente il pallone di testa), mentre erano più alti per i difensori, lo stesso ruolo di Varane, il più esposto ai colpi di testa. Sempre secondo questo studio, inoltre, chi aveva avuto una carriera più lunga aveva maggiori possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative rispetto a chi aveva giocato per meno tempo.
    Un altro studio, uscito sulla rivista scientifica The Lancet Public Health nel 2023 e basato su 6.007 calciatori con almeno una presenza nel massimo campionato svedese e 56.168 persone comuni, ha dato risultati simili: i calciatori hanno più possibilità di avere, negli anni, malattie come l’Alzheimer, un tipo di demenza progressiva che provoca problemi con la memoria, il pensiero e il comportamento.
    Nell’intervista all’Équipe, Varane ha raccontato anche di aver giocato due delle sue peggiori partite in carriera (i quarti di finale tra Francia e Germania ai Mondiali 2014, e gli ottavi di finale di Champions League tra Real Madrid e Manchester City nel 2020, quando giocava per il Real) pochi giorni dopo aver avuto un trauma cranico, e che probabilmente se tornasse indietro chiederebbe allo staff medico di non giocarle.
    I calciatori, ha detto il difensore francese, parlano ancora troppo poco dei rischi legati a colpire continuamente la palla di testa e in generale dei colpi che subiscono, anche perché una commozione cerebrale è meno evidente di altri infortuni e non sempre è facile da diagnosticare. Secondo Varane, dire di non voler giocare perché ci si sente affaticati o si ha mal di testa (due sintomi tipici della commozione cerebrale) potrebbe essere visto come una scusa in un ambiente molto competitivo come il calcio professionistico, dove si è cominciato solo da poco a discutere di commozioni cerebrali. In altri sport più traumatici, come il football americano e il rugby, è un tema dibattuto già da anni.
    Varane ai tempi del Real Madrid, con Cristiano Ronaldo (Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images)
    Varane ha detto di aver sentito parlare di questi temi per la prima volta in questa stagione, quando alcuni specialisti hanno incontrato la sua squadra, il Manchester United, per parlare di traumi cerebrali. «Ci hanno consigliato di non fare più di dieci colpi di testa ad allenamento». Limitare il numero dei tiri di testa, o vietarli del tutto, è una soluzione già adottata da alcune federazioni a livello giovanile: l’anno scorso la FA, la federazione calcistica del Regno Unito, ha avviato una sperimentazione in cui sono stati vietati i colpi di testa nelle partite under 12 (questo divieto, dal 2024-2025, potrebbe essere reso permanente).
    Prima ancora, nel 2015, la US Soccer Federation aveva vietato i colpi di testa per le bambine e i bambini sotto i 10 anni e li aveva limitati per quelli tra gli 11 e i 13, dopo una causa intentata da un gruppo di genitori. Nel settembre del 2021, sempre nel Regno Unito, per sensibilizzare sulle malattie neurodegenerative associate allo sport, fu organizzata una partita amichevole tra ex giocatori in cui non si poteva colpire la palla di testa. In Italia, invece, per il momento non esistono regole sul tema.
    Varane ha detto di essere favorevole a colpire meno la palla di testa in allenamento, mentre farlo in partita, secondo lui, rientra nei rischi del mestiere, come quelli che corre un pilota di Formula 1 in una gara. Già oggi, in ogni caso, il numero di colpi e di gol di testa all’interno di una partita è in continua diminuzione: non tanto per i rischi alla salute, ma anche per lo sviluppo tecnico e tattico che ha avuto il calcio negli ultimi anni, sempre più legato a giocare con la palla per terra e meno con i lanci lunghi e i palloni alti, che comportano più colpi di testa.
    Difficilmente si arriverà a un calcio senza colpi di testa, ma soprattutto con i più giovani si sta andando verso una sempre maggiore limitazione del gesto tecnico: «Quando ero piccolo, facevo interi allenamenti sui colpi di testa: non è normale. A mio figlio di 7 anni, che gioca a calcio, ho consigliato di non colpire mai la palla di testa», ha detto Varane.
    Una soluzione che aiuterebbe quantomeno a ridurre i rischi di commozioni cerebrali potrebbe essere quella di far indossare a tutti i calciatori dei caschetti o delle fasce protettive. Oggi protezioni simili sono abbastanza diffuse nel rugby, mentre nel calcio le usano solamente i calciatori che hanno subìto traumi specifici e particolarmente gravi.
    Il difensore rumeno Cristian Chivu con la maglia dell’Inter nella stagione 2010-2011 (Claudio Villa/Getty Images)
    Sono molto rari, e infatti gli appassionati se li ricordano. C’erano per esempio il portiere ceco ex delle squadre inglesi Chelsea e Arsenal Petr Čech, che cominciò a indossare il caschetto dopo essersi fratturato il cranio a causa di una ginocchiata di un attaccante avversario, o il difensore rumeno Cristian Chivu, che ha giocato in Italia nella Roma e nell’Inter e nel 2010 subì un infortunio simile a quello di Čech in uno scontro aereo con un avversario. LEGGI TUTTO

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    Dopo due anni, quest’inverno non c’è stata carenza di neve in Italia

    Grazie alle nevicate di febbraio e marzo la quantità d’acqua che si è accumulata sulle montagne italiane sotto forma di neve nell’inverno appena concluso è superiore alla mediana degli ultimi 12 anni. Significa che dopo due inverni in cui c’era stata una grossa carenza di neve sulle montagne, che aveva molto contribuito alla grave siccità del Nord Italia durata dall’inizio del 2022 all’estate del 2023, attualmente ce n’è un surplus, che sarà un’importante fonte d’acqua per i mesi estivi. Tuttavia se il bilancio è positivo per le Alpi, non lo è per gli Appennini, dove c’è ancora una situazione di scarsità d’acqua.A dirlo è l’ultima analisi della Fondazione CIMA, Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, un ente di ricerca nelle scienze ambientali che è stato fondato e collabora con il dipartimento di Protezione civile. Da quattro anni la Fondazione CIMA raccoglie dei dati sul territorio e dai satelliti per stimare un parametro chiamato snow water equivalent (in italiano “equivalente idrico nivale”) e indicato con la sigla “SWE”, che indica la quantità d’acqua contenuta nella neve.
    Il parametro SWE può essere calcolato a livello nazionale, ma anche per singoli bacini fluviali, perché le montagne del paese possono essere suddivise in base al fiume principale che riforniscono d’acqua quando tra la primavera e l’estate la neve si scioglie.

    L’attuale abbondanza di neve avrà un effetto positivo soprattutto per i fiumi del Nord Italia e in particolare il Po, il più lungo fiume italiano. La Fondazione CIMA ha stimato che secondo i dati aggiornati al primo aprile il bacino idrografico del Po può contare su una quantità d’acqua dovuta alla neve che è superiore del 29 per cento rispetto alla mediana (il valore centrale, non la media) del periodo 2011-2022. Per quanto riguarda l’Adige, un altro importante fiume del Nord Italia e il secondo più lungo del paese, il valore dello SWE è inferiore alla mediana (del 4 per cento) ma è comunque doppio rispetto a quello di inizio aprile dello scorso anno.
    La situazione è molto diversa per il Centro e il Sud Italia. Sugli Appennini si sono registrate temperature parecchio alte quest’inverno (a marzo anche superiori di 2,5 °C rispetto ai valori mediani dello scorso decennio) e per questo anche la neve che c’era si è fusa. Per quanto riguarda il bacino del Tevere, il terzo fiume italiano per lunghezza, che scorre in Toscana, Umbria e Lazio, la Fondazione CIMA ha stimato un deficit dell’80 per cento rispetto alla mediana di riferimento al primo aprile.
    Anche al Nord comunque ci sono dei rischi per le risorse d’acqua dei prossimi mesi, molto importanti sia per la produzione agricola che per le centrali elettriche. «Se e quanto l’acqua ora finalmente presente nel bacino del Po sotto forma di neve potrà sostenere i mesi primaverili ed estivi, però, dipende dalle temperature», ha spiegato Francesco Avanzi, idrologo di Fondazione CIMA: «Le temperature elevate possono ancora causare, anche sulle Alpi, fusioni precoci: perché sia davvero utile nei periodi in cui l’acqua ci è più necessaria, la neve deve restare tale ancora per alcune settimane».
    In ogni caso per questa stagione le nevicate dovrebbero essere finite. Generalmente in Italia il picco della quantità di neve sulle montagne si registra a marzo e da aprile inizia il periodo di fusione. LEGGI TUTTO

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    Dobbiamo decidere che ora è sulla Luna

    Una delle cose che bisogna fare per procedere con il programma spaziale Artemis, pensato per riportare gli esseri umani sulla Luna, è stabilire che ora è sul nostro satellite naturale. È una questione più complicata di quanto possa sembrare e la NASA, l’Agenzia spaziale europea (ESA) e altre agenzie spaziali internazionali ci stanno lavorando da tempo. Sui giornali se ne riparla in questi giorni perché il 2 aprile il governo statunitense ha diffuso una circolare che riassume le ragioni per cui serve decidere un orario lunare standard entro la fine del 2026, indirizzata alla NASA stessa e a tutte le altre agenzie federali coinvolte.Sulla Luna la forza di gravità è inferiore a quella della Terra perché la Luna ha una massa inferiore a quella del nostro pianeta. La Teoria generale della relatività, formulata da Albert Einstein nel 1915, mette in relazione gravità, spazio e tempo, e comporta che il tempo misurato da due orologi scorre diversamente se sperimentano una attrazione gravitazionale diversa come quella della Terra e della Luna. Per un osservatore sul nostro pianeta, un orologio lunare va più veloce per via della differenza di gravità.
    Più specificamente un orologio sulla Luna inizialmente sincronizzato con uno sulla Terra sarebbe avanti di circa 56 microsecondi (cioè di 56 milionesimi di secondo) dopo 24 ore, di 112 dopo 48 ore e così via. Per la vita quotidiana sulla Terra durate nell’ordine dei microsecondi sono piuttosto trascurabili, ma si tratta di differenze che possono dare problemi quando bisogna programmare lanci di astronavi, allunaggi e orbite satellitari tra agenzie spaziali di 36 paesi diversi e aziende private. Sono tutte attività che necessitano estrema precisione.
    Per le missioni Apollo, che portarono esseri umani sulla Luna tra il 1969 e il 1972, la NASA utilizzò come indicazione temporale il fuso orario centrale degli Stati Uniti, perché l’agenzia spaziale aveva il proprio centro di controllo a Houston, in Texas. Ma si servì contemporaneamente anche del tempo trascorso dal lancio (mission elapsed time, abbreviato con MET) per evitare fraintendimenti con gli astronauti.
    Il programma Artemis però ha ambizioni maggiori rispetto alle missioni Apollo, tra cui la realizzazione di Gateway, una piccola base orbitale che sarà assemblata intorno alla Luna, e quella di un’eventuale base sul suolo lunare, e, sul lungo periodo, le basi per future missioni verso Marte. La misura del tempo serve per trasmettere informazioni sulle localizzazioni di oggetti in movimento, che nel caso di Artemis coinvolgeranno altre agenzie spaziali e aziende oltre alla NASA, e per tutte queste ragioni è necessario fissare un orario lunare standard di cui si tenga conto nelle comunicazioni tra Terra, satelliti, basi lunari e astronauti.
    Per stabilire questo orario, il “tempo coordinato lunare” (LTC), ci sono vari aspetti da tenere in considerazione, menzionati anche nella circolare del governo statunitense.
    Uno è che l’orario lunare dovrà essere riconducibile al tempo coordinato universale (UTC), il fuso orario usato come riferimento globale per la Terra, quello che fa da punto di partenza per calcolare tutti gli altri – ad esempio attualmente in Italia siamo nel fuso orario formalmente indicato come UTC+2, due ore avanti rispetto allo UTC. A certificare l’ora esatta nello UTC è l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU), una delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, grazie a una rete di orologi atomici, dispositivi estremamente precisi che sfruttano i livelli di energia (orbitali) degli elettroni all’interno degli atomi per calcolare il tempo con un margine di errore molto basso.
    Per decidere il tempo coordinato lunare la NASA, l’ESA e le altre agenzie spaziali coinvolte nel programma Artemis stanno considerando l’ipotesi di installare degli orologi atomici in punti diversi della Luna. Ne servirebbero almeno tre per ottenere una misura del tempo precisa che tenga conto di tutti gli effetti relativistici, dovuti principalmente alla gravitazione.
    Attualmente l’ora esatta dello UTC viene periodicamente trasmessa dalla Terra ai satelliti e alle sonde nello Spazio, in modo che siano sincronizzati con il fuso orario di riferimento. Avere degli strumenti che misurino il tempo in maniera affidabile e in autonomia direttamente sulla Luna ridurrebbe sensibilmente la necessità di sincronizzare di continuo l’orario dalla Terra, un’attività che richiede antenne terrestri potenti e un costante lavoro di aggiornamento, dunque un grande dispendio di energia per la trasmissione dei dati.
    Secondo i piani della NASA più aggiornati il primo allunaggio umano di Artemis avverrà nel settembre del 2026, mentre nel settembre del 2025 partirà una missione che porterà in orbita attorno alla Luna e poi di nuovo sulla Terra senza mettere piede sul satellite quattro astronauti. Anche la Cina progetta di portare delle persone sulla Luna: entro il 2030. L’India vorrebbe farlo entro il 2040.
    Come dice la recente circolare del governo statunitense, per definire il tempo coordinato lunare serviranno degli accordi internazionali tra i paesi coinvolti all’interno di Artemis (la Cina, così come la Russia, non lo è), e gli enti che già oggi si occupano degli standard di misura.

    – Approfondisci: Che ora è sulla Luna? LEGGI TUTTO

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    Il caso di influenza aviaria in un umano contagiato da un bovino

    A inizio settimana negli Stati Uniti è stato segnalato il primo caso di influenza aviaria in un essere umano trasmessa da un bovino, che probabilmente era stato in precedenza contagiato da pollame infetto o da un uccello. Il contagio è avvenuto in Texas e la persona interessata non ha sviluppato particolari sintomi fatta eccezione per un lieve arrossamento degli occhi (congiuntivite), ma la notizia ha comunque portato ad alcuni titoli e articoli allarmati sulla vicenda che si inserisce nell’ampio filone delle notizie intorno all’epidemia da influenza aviaria in corso in molti paesi da quasi cinque anni.Il probabile doppio salto di specie conferma la capacità dei virus aviari di evolvere molto rapidamente, ma per ora non indica che ci siano maggiori rischi rispetto a quelli già indicati dalle autorità sanitarie negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e in altre aree del mondo. I rischi per la popolazione generale legati all’influenza aviaria sono ancora molto bassi, per quanto ci sia grande attenzione sulla diffusione della malattia soprattutto negli allevamenti, dove un focolaio può causare gravi danni economici e qualche rischio di contagio in più tra chi ci lavora.
    Con “influenza aviaria” viene indicata una malattia che interessa principalmente gli uccelli e che viene causata da un’ampia varietà di virus, per quanto imparentati tra loro. Quello che suscita maggiore interesse da qualche anno è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta. Più in generale, i virus aviari sono comuni e interessano da moltissimo tempo gli uccelli selvatici. Le versioni meno aggressive vengono definite LPAI (dall’inglese “low-pathogenic avian influenza”, cioè “influenza aviaria a bassa patogenicità”) e non sono solitamente rischiose per gli animali.
    In alcuni casi, però, un virus LPAI riesce a passare dagli uccelli selvatici agli allevamenti di pollame, finendo in un contesto in cui ci sono migliaia di animali che vivono a stretto contatto e dove sono molto più probabili i contagi. In poco tempo il virus si replica producendo nuove generazioni che contengono mutazioni, dovute per lo più a errori del tutto casuali nella trasmissione del suo materiale genetico, tali da renderlo più letale per gli animali. Questo passaggio fa sì che il virus diventi più contagioso e rischioso e per questo viene definito HPAI, per indicare una forma ad alta patogenicità.
    Gli HPAI possono causare in poco tempo grandi focolai negli allevamenti di pollame, rendendo necessario l’abbattimento di migliaia (in alcuni casi di milioni) di polli per evitare che il contagio prosegua e che generazione dopo generazione i virus coinvolti acquisiscano nuove capacità diventando per esempio ancora più contagiosi. L’attuale forma di aviaria è particolare e osservata con attenzione perché, oltre a causare molti contagi tra gli uccelli e il pollame, mostra una spiccata capacità di trasmettersi anche a specie molto diverse come alcuni mammiferi.
    In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.
    In questi due anni sono stati segnalati passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno del 2022 era inoltre emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.
    Il 2022 era stato un anno particolarmente complesso soprattutto per gli allevamenti di pollame negli Stati Uniti, dove vengono allevate insieme grandi quantità di polli a stretto contatto e di conseguenza con un alto rischio di contagi. Si era reso necessario l’abbattimento di decine di milioni di tacchini e galline da uova, con conseguenze sulla disponibilità e i prezzi di queste ultime in molte aree degli Stati Uniti. La situazione era migliorata nel corso del 2023 negli allevamenti, ma i virus aviari avevano continuato comunque a diffondersi non solo tra gli uccelli, ma anche tra i mammiferi.
    (Jamie McDonald/Getty Images)
    Nell’ultimo anno sono stati confermati casi di aviaria nel bestiame e in particolare negli allevamenti di bovini in Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho e Texas. È probabile che i bovini abbiano contratto il virus da specie selvatiche di uccelli o dal pollame allevato nelle loro vicinanze, ma al momento non ci sono molti elementi concreti per avere qualche certezza in più. Le autorità di controllo negli Stati Uniti non escludono inoltre che i contagi nel bestiame siano molto più diffusi di quanto emerso finora, ma che i casi passino inosservati perché raramente gli animali si ammalano.
    È in questo contesto che è avvenuto il contagio in Texas da bovino a essere umano. Stando alle informazioni fornite dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) degli Stati Uniti, la persona sarebbe stata contagiata mentre lavorava in un allevamento per la produzione del latte e di prodotti caseari (il latte pastorizzato può essere consumato senza correre rischi). Era risultato positivo all’aviaria dopo alcuni controlli dovuti alla congiuntivite che aveva sviluppato, unico sintomo evidente della malattia. Oltre a essere stato messo sotto controllo, il paziente ha iniziato una terapia con farmaci antivirali per ridurre la capacità del virus di continuare a replicarsi nell’organismo, in modo da favorire la guarigione.
    È il primo caso di un passaggio da bovino a essere umano a essere segnalato negli Stati Uniti, ma in precedenza c’era già stato un caso di contagio che aveva invece riguardato un passaggio dal pollame a un operatore che lavorava in un allevamento. Anche in quella circostanza la persona interessata non aveva sviluppato particolari sintomi e si era ripresa dopo qualche giorno.
    Nel corso dell’attuale epidemia alcune decine di persone, in particolare in Asia, sono risultate positive ai virus aviari più diffusi dopo essere state a stretto contatto con animali che avevano l’infezione. Nella maggior parte dei casi non sono stati segnalati sintomi preoccupanti, ma ci possono essere casi in cui si sviluppano complicazioni che in rari casi portano alla morte.
    Un’infezione virale da un certo tipo di H5N1 in una persona non implica comunque che questa sia contagiosa, anzi: è altamente improbabile che in un singolo passaggio il virus acquisisca la capacità di diventare contagioso tra esseri umani. È inoltre probabile che i casi pollame-umani si siano verificati in seguito all’esposizione ad alte quantità del virus nell’ambiente in cui lavoravano. Alcuni virus hanno comunque mostrato una certa capacità nell’effettuare sporadicamente salti di specie e non è un particolare da trascurare.
    I virus influenzali mutano velocemente e spesso in modi poco prevedibili, per esempio se nell’organismo che infettano incontrano altre tipologie di virus dai quali possono prendere in prestito parti di materiale genetico. Un virus che passa da un uccello a un mammifero, come un bovino, potrebbe in questo modo sviluppare la capacità di replicarsi più facilmente nel nuovo ospite e di diventare anche più contagioso. Mutazioni del tutto casuali potrebbero poi far sì che qualcosa di analogo avvenga nel caso di contagio in un essere umano, portando infine a un virus che riesce a circolare con maggiore facilità nella nostra specie.
    Il rischio che ciò avvenga è attualmente considerato basso, ma ci sono studi e ricerche in corso sulle caratteristiche degli HPAI e sui fattori che potrebbero renderli più pericolosi. Il contenimento delle infezioni, per esempio con l’abbattimento del pollame infetto, serve proprio a evitare che ci siano ulteriori contagi che potrebbero fare aumentare la probabilità di nuove mutazioni e salti di specie. Più si riducono i casi di passaggio da specie aviarie a mammiferi, minori sono i rischi anche per gli esseri umani.
    Nel suo ultimo rapporto sull’influenza aviaria, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che tra dicembre 2023 e marzo 2024 i casi di HPAI rilevati negli uccelli sono stati inferiori rispetto ai periodi precedenti. In Europa non sono stati inoltre segnalati finora casi di passaggio dei virus coinvolti negli esseri umani, anche grazie alle pratiche di contenimento effettuate negli allevamenti. Le principali cause di contagio del pollame derivano comunque dal passaggio di uccelli selvatici contagiosi, che entrando in contatto con gli animali negli allevamenti causano poi la diffusione dei virus. Per l’ECDC anche in Europa «il rischio di infezione rimane basso per la popolazione in generale». LEGGI TUTTO

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    Dilettante, scienziata, attivista, simbolo

    Caricamento playerJane Goodall, una delle scienziate più conosciute al mondo, ha compiuto oggi 90 anni. Ne sono da poco passati sessanta da quando su Nature uscì il suo articolo che fece sapere al mondo che gli scimpanzé sono capaci di usare strumenti, un’abilità che fino a quel momento era considerata una prerogativa umana. La scoperta ottenne una grande attenzione anche oltre la comunità scientifica grazie alla rivista divulgativa National Geographic, che nel 1965 pubblicò in copertina una fotografia di Goodall insieme a un gruppo di scimpanzé. La celebrità iniziata con quell’immagine è stata poi sfruttata da Goodall per proseguire i suoi studi e, dal 1986 in poi, per finanziare numerose forme di attivismo per la salvaguardia degli ambienti naturali e il benessere dei primati.

    La carriera di Goodall è stata piuttosto straordinaria e irripetibile per varie ragioni. Fino alla seconda metà del Novecento le grandi scimmie antropomorfe non umane, come appunto gli scimpanzé, non erano ancora state studiate nel loro ambiente naturale e Goodall fu una delle prime a farlo. Fu anche una delle prime donne a portare avanti questo tipo di ricerche sul campo, cominciando in un periodo in cui le scienziate erano ancora pochissime in generale – lei stessa iniziò da dilettante, si può dire, senza aver fatto studi universitari di biologia o materie affini. Anche per questo negli ultimi decenni Goodall è diventata una specie di simbolo, sia per le donne che si occupano di scienza, sia per chiunque si impegni per la difesa degli ambienti naturali.
    Goodall è inglese ed è cresciuta a Bournemouth, una città affacciata sul canale della Manica, che tuttora frequenta nonostante i suoi numerosissimi impegni in giro per il mondo. Ha più volte raccontato che il suo interesse per l’Africa e i suoi animali si sviluppò quando era ancora bambina, leggendo Il dottor Dolittle di Hugh Lofting e i romanzi della saga di Tarzan di Edgar Rice Burroughs. Finite le scuole superiori nel 1952, non poté studiare all’università per ragioni economiche e seguì un corso formativo per lavorare come segretaria, un mestiere all’epoca molto comune per le giovani donne.
    Nel 1956, quando Goodall aveva 22 anni, le capitò l’occasione che successivamente le avrebbe cambiato la vita: una ex compagna di scuola la invitò ad andarla a trovare in Kenya, dove la sua famiglia aveva una fattoria. Goodall risparmiò per cinque mesi per permettersi il viaggio e poi partì insieme a sua madre, Myfanwe Joseph.
    A quei tempi il Kenya era una colonia britannica (il paese sarebbe diventato indipendente nel 1963) ma la comunità bianca di Nairobi era relativamente poco numerosa e così Goodall ebbe l’occasione di conoscere Louis e Mary Leakey, una coppia di paleoantropologi che in quegli anni stavano cercando, trovando e studiando resti fossili di specie progenitrici di quella umana. Louis Leakey offrì a Goodall un lavoro nel museo di Storia naturale locale, di cui era curatore, e la coinvolse nelle operazioni di scavo archeologico, dove servivano persone disposte a passare molte ore a rimuovere pezzi di roccia e pulirne altri dalla terra.
    Tra le altre cose Leakey voleva provare a dimostrare un’ipotesi enunciata il secolo precedente da Charles Darwin, e cioè che gli umani e gli scimpanzé discendevano da antenati comuni (è effettivamente così). Per questo voleva organizzare una missione di ricerca sulla vita degli scimpanzé, il cui comportamento all’epoca era stato osservato solo in cattività, mai nelle foreste in cui vivevano: riteneva che comprendendo meglio questi animali si sarebbe potuto scoprire qualcosa anche sugli antenati comuni.
    Dopo qualche anno che la conosceva, Leakey propose a Goodall di svolgere lei questi studi, e di farlo in una foresta sulla riva orientale del lago Tanganica, nell’attuale Tanzania. Lei accettò e arrivò nel luglio del 1960 in quello che oggi è il Gombe Stream National Park. Leakey poi avrebbe fatto qualcosa di analogo con Dian Fossey, la primatologa nota per lo studio dei gorilla, e Birute Galdikas, che invece si dedicò agli oranghi: le tre donne sono state soprannominate “Trimates”, un gioco di parole tra “trio” e “primati”, o “Leakey’s Angels”.
    Uno scimpanzé del Gombe Stream National Park, in Tanzania, il 26 agosto 2022 (Sandra Weller / Anzenberger)
    Nei primi mesi nella foresta Goodall non riuscì ad avvicinare più di tanto gli scimpanzé, ma a un certo punto riuscì a far tollerare la propria presenza a un maschio dominante, che lei chiamò David Greybeard: gli altri scimpanzé che vivevano con lui di conseguenza la “accettarono” a loro volta.
    Già quattro mesi dopo il suo arrivo a Gombe, Goodall aveva assistito all’uso di uno strumento da parte di David Greybeard: la prima volta lo vide usare un lungo filo d’erba per estrarre delle termiti da un nido nel terreno. Questo e altri comportamenti simili furono poi descritti da Goodall nel suo importante articolo del 1964. Già nell’Ottocento si sapeva che gli scimpanzé sapevano usare delle pietre per rompere il guscio di alcuni frutti, ma fino a quel momento tale informazione (per quanto menzionata pure da Darwin) era stata ignorata dalla comunità scientifica. Successivamente Goodall avrebbe scoperto altre cose sugli scimpanzé che prima non si sapevano: che cacciano e mangiano carne, oltre a frutta e altri vegetali, che possono scontrarsi con grande violenza tra gruppi rivali per un territorio, e che hanno complessi rapporti sociali tra loro.

    – Leggi anche: Dian Fossey, e i suoi gorilla

    Intanto Leakey si preoccupò di far ottenere a Goodall un titolo di studio che le permettesse di essere riconosciuta come studiosa dalla comunità scientifica internazionale, e nel 1962 la mandò all’Università di Cambridge, in Inghilterra. Garantì per lei in modo che potesse fare un dottorato pur senza essere laureata. L’iniziativa non fu presa benissimo dagli studenti e dai professori di Cambridge, in particolare dopo che nel 1969 la National Geographic Society (che finanziava sia le ricerche di Leakey che quelle sugli scimpanzé) pubblicò il primo libro di Goodall, My Friends the Wild Chimpanzees: il professore con cui stava facendo il dottorato si indignò perché era un libro divulgativo e per poco non le tolse la borsa di studio.
    La situazione e la reputazione di Goodall nel contesto accademico, all’epoca prevalentemente maschile, risentivano del fatto che avesse cominciato i propri studi da dilettante e in un certo senso da autodidatta, ma anche semplicemente che fosse una donna, peraltro giovane e di bell’aspetto – caratteristiche che anche a suo dire contribuirono all’attenzione mediatica ricevuta dal suo lavoro.
    Tra le altre cose Goodall fu anche accusata di aver “antropomorfizzato” gli scimpanzé, cioè di aver interpretato il loro comportamento con criteri umani, una pratica considerata antiscientifica. Tale accusa era dovuta al fatto che Goodall aveva dato dei nomi agli animali che studiava (invece di identificarli con dei numeri) e che ne descriveva i comportamenti e le relazioni usando parole che indicano emozioni e sentimenti umani.
    Ancora oggi gli etologi devono impegnarsi a non “antropomorfizzare” gli animali non umani che studiano, ma nel tempo parte degli approcci di Goodall, una delle prime scienziate a fare studi sul campo, è stata adottata anche da altri esperti. E le sue osservazioni e intuizioni sulle strutture sociali degli scimpanzé sono considerate non solo corrette, ma un riferimento anche per lo studio di altre specie. Approfondendo i suoi studi comunque Goodall rivide alcune delle sue scelte iniziali, come quella di dare da mangiare agli scimpanzé che studiava, per non influenzarne il comportamento.
    Jane Goodall e Hugo van Lawick, un fotografo del National Geographic che poi sarebbe diventato suo marito, nel gennaio del 1974 (AP Photo)
    Anche grazie agli studi condotti a Cambridge, Goodall ottenne vari finanziamenti per continuare le sue ricerche, non solo dalla National Geographic Society ma anche dall’Università di Stanford, negli Stati Uniti. Grazie a questi fondi aprì un proprio centro di ricerca a Gombe. Nel 1967 fu dimostrato che gli scimpanzé e i bonobo sono le specie animali viventi più vicine a quella umana e nel 1970 Goodall fondò il Jane Goodall Institute, la sua ong che si occupa di salvaguardia ambientale e della difesa dei primati, e che ha anche una divisione italiana.
    Intanto la sua fama di divulgatrice continuava a crescere nel mondo: fu una dei primi scienziati a dimostrarsi efficaci comunicatori per un pubblico vasto, e ispirò molte persone, comprese tante donne, a studiare gli animali.
    Negli anni Settanta e nella prima metà degli anni Ottanta Goodall continuò a lavorare come scienziata, ma poi divenne sempre di più un’attivista. Nel 1986, durante un convegno di primatologi a Chicago, si rese conto che ogni nuova ricerca presentata segnalava una riduzione degli habitat dei primati a causa della deforestazione. La stessa cosa stava succedendo anche agli scimpanzé di Gombe perché sempre più villaggi si stavano sviluppando nella zona, di fatto spezzettando la foresta.
    Dagli anni Novanta Goodall di fatto lasciò la ricerca scientifica per promuovere attività di sensibilizzazione di vario genere, contro la deforestazione e in favore di uno sviluppo sostenibile per le popolazioni dei paesi poveri in cui si trovano foreste tropicali, con l’idea che solo con la collaborazione e il consenso delle comunità umane locali si possano mantenere. Anche per questo suo grande impegno, tuttora in corso a 90 anni di età, Goodall è diventata una specie di simbolo tanto che un paio di anni fa Mattel ha addirittura prodotto una bambola Barbie con le sue fattezze.

    Attualmente Goodall è impegnata in una serie di incontri in giro per il mondo organizzati dal Jane Goodall Institute proprio in occasione del suo 90esimo compleanno, per raccogliere fondi e finanziare attività di vario genere per la difesa delle foreste e dei primati. LEGGI TUTTO

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    Mangiamo sempre la stessa banana

    Caricamento playerNella prima metà di marzo delegati da tutto il mondo si sono riuniti a Roma per parlare di banane, uno dei frutti più consumati e con un impatto importante sull’alimentazione di miliardi di persone. Rappresentanti del settore, responsabili delle principali aziende produttrici e agronomi hanno partecipato ai numerosi incontri del World Banana Forum dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), arrivando in più sessioni alla medesima conclusione: il mercato delle banane è esposto a grandi rischi derivanti quasi tutti dall’avere impostato l’intero commercio mondiale praticamente su una sola varietà di banana, nonostante ne esistano diverse centinaia se non addirittura un migliaio.
    Il problema è noto da tempo ed è una costante fonte di preoccupazione per chi lavora con il frutto esotico più esportato in assoluto, con un fatturato annuo intorno ai 10 miliardi di euro. Coltivare e trasportare le banane dai paesi per lo più tropicali in cui crescono in mezzo mondo richiede un grande impegno logistico, soprattutto nella gestione dei tempi per assicurarsi che i frutti siano messi in vendita al giusto punto di maturazione. Più si impiegano standard e sistemi condivisi, più si riescono a ottimizzare i processi di produzione e distribuzione ed è per questo che in Occidente e altre parti del mondo mangiamo tutti le stesse identiche banane.
    La varietà più coltivata è diffusa è la Cavendish, che produce frutti relativamente lunghi e dalla polpa compatta fino agli ultimi stadi di maturazione, quando diventa invece molto morbida e più dolciastra. La Cavendish è uno dei tanti ibridi ottenuti nel tempo dall’incrocio delle specie Musa acuminata e Musa babisiana per ottenere frutti con quantità sufficienti di polpa. Gli incroci resero infatti possibile la coltivazione di specie senza semi, che nelle banane selvatiche occupano un grande spazio all’interno del frutto.
    Banana selvatica tagliata a metà: è evidente la differenza della polpa rispetto alle banane abitualmente consumate (Wikimedia)
    Nel farlo si ottennero però varietà che non possono essere riprodotte utilizzando i loro semi, ma semplicemente tramite propagazione: da una pianta si ottengono altre piante, che sono di fatto cloni della pianta di partenza. Le Cavendish, come molte altre varietà di banane, non hanno quindi la capacità di evolversi attraverso incroci con piante con materiale genetico diverso. Sono di conseguenza più esposte a malattie e parassiti, perché ci sono meno mutazioni casuali che attraverso la selezione potrebbero favorire la loro sopravvivenza a particolari agenti esterni. Le conseguenze di queste monocolture possono essere devastanti, come dimostra la storia delle banane.
    Quando nella seconda metà dell’Ottocento furono avviate le esportazioni su grande scala, si affermò la varietà Gros Michel: una banana resistente e con tempi di maturazione tali da potere essere trasportata per lunghi viaggi senza il rischio che andasse velocemente a male. Nel secondo dopoguerra la Gros Michel aveva permesso ai produttori di espandere enormemente il mercato delle banane, ma in pochi anni un imprevisto decimò le coltivazioni: un fungo aveva attaccato le piante, che essendo pressoché tutte identiche non avevano difese contro l’infezione. L’epidemia fu definita “malattia di Panama” e interessò tutte le principali piantagioni nell’America Centrale e in Sudamerica.
    Da risorsa stabile e resistente, in poco tempo la Gros Michel era diventata fragile e inaffidabile, poco adatta per fare affari. I produttori si diedero quindi da fare per trovare un’altra varietà e scoprirono che la Cavendish, nota già da tempo ma meno coltivata, aveva il pregio di resistere al fungo e di conseguenza convertirono le loro piantagioni. Ciò permise di evitare il collasso del settore, anche se le Cavendish erano meno saporite delle Gros Michel. Furono adottate le medesime strategie di coltivazione senza prevedere una maggiore differenziazione per evitare che in futuro la nuova varietà potesse avere i problemi che avevano decimato la precedente.
    Ancora oggi le Cavendish sono le banane più diffuse al mondo, ma proprio come era accaduto con le Gros Michel iniziano a essere esposte ad alcune forme della malattia di Panama. I primi indizi risalgono a una quindicina di anni fa, quando in Malaysia e a Sumatra furono segnalati i primi casi di infezione. La causa fu in seguito ricondotta a uno specifico tipo di fungo (Fusarium tropical race 4 – TR4), che attacca i banani sottraendone le energie e privandoli della capacità di crescere e sopravvivere.
    Grandi coltivazioni di piante pressoché identiche rendono più difficile l’isolamento di quelle infette: il fungo si diffonde con facilità e non esistono trattamenti efficaci per ridurne gli effetti. Le Cavendish sono inoltre esposte ad altri rischi legati a malattie virali che possono sviluppare i banani, che portano alla morte delle piante e a importanti danni economici per i raccolti.
    (Jack Taylor/Getty Images)
    Durante il World Banana Forum di Roma, il direttore generale della FAO Qu Dongyu ha ricordato che si stima ci siano circa mille varietà di banane (le stime variano molto) eppure in quasi tutto il mondo se ne consuma una sola, la Cavendish. Diversificare la produzione potrebbe avere grandi benefici per ridurre i rischi legati alla coltivazione di un’unica varietà, ma c’è storicamente una certa resistenza da parte dei produttori sia per motivi logistici, sia per la percezione da parte dei consumatori in particolare in Occidente.
    Per la maggior parte delle persone che acquistano banane al mercato o al supermercato, la Cavendish è la banana per antonomasia. Ogni frutto ha pressoché lo stesso sapore, il medesimo aspetto e gli stessi tempi di maturazione. Questi ultimi sono essenziali per gli esportatori, che hanno necessità di consegnare miliardi di banane ancora acerbe e di lasciare che maturino poi nelle fasi di distribuzione al dettaglio.
    La Gros Michel secondo molti esperti era in questo la banana perfetta, molto meno delicata della Cavendish che deve essere trasportata con maggiori cautele e richiede spesso di essere refrigerata per rallentarne la maturazione. Il passaggio fu inevitabile, ma pochi produttori sembrano essere interessati a differenziare il loro mercato sia per le molte variabili in più che si aggiungerebbero sia per la percezione da parte dei consumatori, che in ultima istanza sono abituati a un solo tipo di banana.
    Nonostante se ne discuta da anni, al momento non sembrano esserci grandi soluzioni praticabili. Le notizie sulle infezioni fungine sono ormai una costante e riguardano le monocolture in Asia, Africa, Australia e da qualche tempo nell’America centrale e in Sudamerica. La diffusione della malattia di Panama tra i principali produttori nell’America Latina e nei Caraibi potrebbe avere un forte impatto sul mercato, considerato che la maggior parte delle banane consumate nei paesi economicamente più sviluppati arriva da quelle zone.
    Come contromisura alcuni gruppi di ricerca stanno lavorando allo sviluppo di piante geneticamente modificate in modo da essere resistenti al TR4. Interventi di questo tipo potrebbero introdurre una maggiore diversità genetica, che non viene ormai raggiunta a causa di generazioni e generazioni di banani originati dalle stesse piante di partenza. Non in tutti i paesi è però consentito il commercio di organismi geneticamente modificati, di conseguenza per ora i produttori sono restii a introdurre frutti OGM. Le cose potrebbero cambiare nei prossimi anni grazie alle nuove tecniche di modifica del DNA, come Crispr/CAS9, che permettono di cambiare parte del materiale genetico di un organismo senza introdurne di nuovo proveniente da altri organismi.
    Una diversificazione nella coltivazione di banane viene comunque auspicata da esperti e organizzazioni per la conservazione dell’ambiente, in particolare per favorire la biodiversità, cioè la varietà di specie che vivono in una certa zona. Piante tutte uguali tra loro (non necessariamente cloni come nel caso delle banane) riducono la possibilità per altri organismi di vivere e prosperare, portando a un impoverimento degli habitat.
    I benefici ambientali sarebbero importanti, ma trovare varietà di banane adatte al commercio globale potrebbe rivelarsi difficile, soprattutto nel mantenimento dei costi. Nonostante sia un frutto che deve di solito attraversare mezzo mondo per arrivare sulle nostre tavole, una banana costa spesso meno di 50 centesimi di euro, meno di molti altri frutti nostrani. I prezzi più alti legati alla diversificazione potrebbero influire sulla domanda, con forti implicazioni per un settore che si basa quasi esclusivamente sulle esportazioni.
    Tra le tante varietà di banane, diffuse per lo più localmente o comunque disponibili in pochi paesi ci sono le banane rosse, le banane Latundan, le Pisang Raja, le banane thailandesi, le banane “mille dita” e le banane Blue Java. Nella maggior parte dei casi si tratta di banane dalle dimensioni più contenute rispetto alla classica Cavendish e con sapori e consistenze lievemente diversi, legati alla maggiore o minore concentrazione di zuccheri e al loro svilupparsi dall’amido nella fase di maturazione. Impongono spesso tempi di consumo più stretti o comunque diversi da quelli delle banane cui siamo abituati e anche per questo c’è una certa ritrosia alla produzione da parte dei grandi esportatori.
    Il mercato delle banane è controllato da alcune grandi aziende che determinano di fatto i successi delle varietà in circolazione, e che sono molto affezionate alle Cavendish, le più richieste dai loro clienti. L’Unione Europea è il principale importatore di banane e si stima che nel 2023 ne abbia importati circa 5 milioni di tonnellate, pari al 27 per cento delle importazioni totali seguita da Stati Uniti (22 per cento) e Cina (10 per cento). LEGGI TUTTO