Sabato scorso, la Corte Penale Internazionale ha emesso, con il voto favorevole della maggioranza, un mandato d’arresto per il generale libico Almasri (dando seguito alla richiesta avanzata lo scorso 2 ottobre dal procuratore dell’organismo) per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella prigione di Mittiga, vicino Tripoli, dal febbraio 2011. Njeem è stato localizzato a Torino il 19 gennaio ed è stato arrestato. Gli atti sono stati inviati alla Corte d’Appello di Roma, l’autorità competente per la cooperazione tra l’Italia e la Corte Penale Internazionale.
Nei tribunali di Roma è però emerso un cavillo che ha impedito di proseguire con l’arresto. Per la Corte d’Appello, infatti, la polizia italiana aveva agito in base alle norme sugli arresti estradizionali, ma in questo caso avrebbero dovuto essere applicate altre due leggi che regolano la cooperazione con la Corte dell’Aja. Queste leggi prevedono che, prima di procedere, sia necessaria “un’interlocuzione tra il ministro della Giustizia e la Procura generale della Corte d’Appello di Roma”. In sintesi, la polizia non avrebbe potuto arrestare Almasri senza l’autorizzazione del ministro della Giustizia, che avrebbe dovuto ricevere una richiesta ufficiale dai magistrati della Corte Penale Internazionale. Quando la Corte d’Appello ha rilevato l’irregolarità e ha chiesto chiarimenti, il procuratore generale ha ritenuto l’arresto “irrituale”, ma non illegittimo, e ha chiesto al ministero della Giustizia come procedere. A quel punto, il ministro Carlo Nordio avrebbe potuto risolvere la questione autorizzando il proseguimento dell’arresto in base alla richiesta della Corte Internazionale. Ma Nordio non ha risposto al procuratore generale, lasciando che i magistrati procedessero alla scarcerazione di Almasri, poiché non c’erano i presupposti legali per convalidare l’arresto
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