A inizio luglio nello stato indiano del Kerala un quindicenne a causa di una meningoencefalite amebica primaria (PAM), una infezione causata da Naegleria fowleri soprannominata spesso “ameba mangia-cervello”. Il quindicenne era stato ricoverato per una sospetta encefalite a fine giugno e in seguito i medici avevano scoperto la causa del malessere, non riuscendo però a trattarlo. La PAM è una condizione estremamente rara, ma con un tasso molto alto di letalità, superiore al 95 per cento. È nota da circa 60 anni ed è studiata da tempo non solo per il particolare comportamento dell’ameba e del nostro sistema immunitario per provare a distruggerla, ma anche per il modo in cui si contrae l’infezione: di solito inizia tutto con un banale spruzzo d’acqua.
Anche se viene chiamata ameba mangia-cervello, N. fowleri non è tecnicamente un’ameba vera e propria, ma alterna forme flagellate ad ameboidi: in sostanza ci assomiglia molto in alcuni stadi del suo ciclo vitale. Come altri suoi simili, N. fowleri è ghiotta di batteri dei quali va a caccia per spezzarli e nutrirsene. In natura vive solamente in acqua dolce e prolifera negli stagni, nei laghi, nelle fonti termali e talvolta in tratti di fiumi e torrenti dove la corrente è tranquilla. Può però essere trovata anche nelle tubature degli acquedotti, nelle fontane e nelle piscine, in particolare se l’acqua non è trattata adeguatamente per essere resa potabile attraverso l’aggiunta di cloro.
N. fowleri prolifera soprattutto al caldo e per questo tende a essere più presente nell’acqua tra la fine della primavera e l’estate. Il periodo coincide con quello in cui si frequentano le piscine o si va a nuotare al lago, di conseguenza le infezioni avvengono con maggiore frequenza nella stagione calda. Si stima infatti che ogni anno milioni di persone vengano in contatto con l’ameba senza particolari problemi: se si beve accidentalmente un po’ d’acqua contaminata gli acidi dello stomaco provvedono a distruggere l’ospite indesiderata e non ci sono problemi. Se invece si inala qualche goccia d’acqua la storia cambia.
In piscina o al lago ci si tuffa e si nuota, ma soprattutto si producono molti spruzzi d’acqua all’interno dei quali ci sono milioni di virus, batteri e in qualche raro caso N. fowleri. Basta inalare un po’ d’acqua perché l’ameba si ritrovi nel naso e inizi a esplorarne l’interno alla ricerca di batteri di cui nutrirsi. La mucosa nasale, che contiene sostanze che favoriscono la neutralizzazione di molti agenti esterni, non interagisce in modo significativo con N. fowleri e così nemmeno le prime difese del sistema immunitario. L’ameba passa inosservata e nella maggior parte dei casi dopo qualche tempo muore, salvo non riesca a intercettare qualcosa che l’attira moltissimo più in profondità nella cavità nasale: le cellule nervose dell’olfatto.
Le cellule olfattive utilizzano diversi segnali chimici per trasmettere le informazioni che poi il nostro cervello provvederà a trasformare in sensazioni, come riconoscere il profumo di una brioche appena sfornata o quello di un gelsomino fiorito. Una delle sostanze impiegate per queste comunicazioni è l’, una molecola molto importante per la trasmissione nervosa e che N. fowleri è attrezzata per riconoscere. Non è ancora oggi molto chiaro come mai l’ameba abbia sviluppato questa capacità, che è poi alla base del modo in cui riesce a infettare il nostro organismo.
Lo scambio di acetilcolina tra le cellule olfattive e il cervello è molto frequente e viene seguito da N. fowleri, che in questo modo riesce ad aprirsi la strada verso il cervello. Le amebe non dovrebbero esserci tra le terminazioni delle cellule olfattive e per questo la loro presenza viene notata dal sistema immunitario, che tenta un primo attacco con i granulociti neutrofili, cellule poco specializzate che mettono in atto sistemi alquanto rudimentali per distruggere gli agenti esterni. Utilizzano sostanze chimiche per provare a fare a pezzi e dissolvere le amebe, ma è una lotta impari che raramente termina con la distruzione di tutti gli invasori.
N. fowleri prosegue il proprio viaggio lungo le terminazioni delle cellule olfattive e, di solito entro una decina di giorni da quando era stata inalata, riesce infine a raggiungere il cervello dove la sua attività viene ulteriormente stimolata dalla grande disponibilità di acetilcolina. Qui l’ameba produce particolari molecole che fanno a pezzi i neuroni, in modo che se ne possa nutrire. Inizia a moltiplicarsi e a trasformarsi, sviluppando minuscole ventose che si attaccano e distruggono le membrane delle cellule, nutrendosi di parte del loro contenuto.
In questa fase il sistema immunitario tenta un nuovo attacco, sempre attraverso i granulociti neutrofili cui si aggiungono altre cellule immunitarie come quelle della , responsabili della difesa immunitaria nel sistema nervoso centrale. Anche in questo caso è un attacco di prima difesa non specializzato, una sorta di bombardamento a tappeto che provoca ulteriori danni alla materia cerebrale e che ha però scarso effetto sulle amebe, che riescono a difendersi e a neutralizzare le cellule immunitarie. Il sistema immunitario non riesce nemmeno a organizzare una difesa più specifica attraverso gli anticorpi, che dovrebbero segnalare alle cellule immunitarie specializzate gli obiettivi da colpire. La risposta immunitaria porta a un’infiammazione e alla febbre, che di solito è utile per rallentare virus e batteri, ma che in questo caso può poco contro un’ameba che prolifera soprattutto al caldo.
Nell’area dell’infezione iniziano ad accumularsi liquidi che comportano un aumento della pressione intracranica. È di solito in questa fase che compaiono i primi sintomi come febbre, mal di testa e nausea: sono quasi sempre lievi e tali da non suscitare grandi preoccupazioni o da spingere a cercare l’aiuto di un medico. In pochi giorni i sintomi peggiorano con la comparsa di allucinazioni, stati confusionali e una grande stanchezza. L’infiammazione prosegue con il cervello sempre più gonfio e compresso nella scatola cranica.
È di solito in questa fase che un paziente arriva in ospedale, in condizioni precarie e con una diagnosi difficile da fare. L’infezione da N. fowleri è molto rara e non sempre conosciuta, di conseguenza le prime analisi sono dirette verso malattie e condizioni più comuni, come forme di meningite e di encefalite. Il tempo è un fattore importante, ma anche nel caso di una diagnosi precoce le possibilità di sopravvivenza sono molto basse. Non c’è una cura e i trattamenti sperimentati in questi anni si sono rivelati nella maggior parte dei casi inefficaci.
I casi di PAM da N. fowleri vengono solitamente con l’amfotericina B, un antimicotico che porta alla rottura della membrana cellulare dell’ameba e alla sua morte. Il trattamento non è però particolarmente efficace e la quasi totalità dei pazienti muore ugualmente. Negli ultimi tempi è stato anche sperimentato l’impiego della , un antiparassitario che interviene sui processi di comunicazione cellulari, ma anche in questo caso i risultati non sono stati molto promettenti.
Per quanto possa apparire spaventosa, un’infezione da N. fowleri è estremamente rara, e questo è bene ricordarlo sempre. Da quando fu scoperta negli anni Sessanta ne sono stati identificati circa e solo sette persone sono sopravvissute. In generale, è molto più probabile morire per annegamento in acque contaminate dall’ameba che per via della sua inalazione. Anche se ogni anno qualcuno deve fare i conti con un’infezione probabilmente mortale, l’ameba non costituisce un’emergenza sanitaria.
Dagli studi condotti finora sembra che N. fowleri proliferi soprattutto quando non deve competere con altri organismi che si nutrono delle sue stesse cose a cominciare dai batteri. In assenza di competizione, la concentrazione dell’ameba aumenta sensibilmente e sembra che anche in questo abbiano un ruolo le attività umane. Lo sversamento di acqua calda a valle dei processi industriali, per esempio, causa la morte di numerosi microrganismi e favorisce invece quelli che prosperano soprattutto a temperature più alte.
L’interesse intorno a N. fowleri è comunque grande non solo per la ricerca di una cura davvero efficace, ma per le caratteristiche stesse dell’”ameba mangia-cervello”. Molti aspetti della sua storia evolutiva non sono ancora chiari, né sappiamo quali eventi l’abbiano resa così agguerrita e avida di cellule del nostro cervello.