Per comprendere i rapporti della Cina con l’Iran, potremmo partire dalla scontata condanna verso l’azione israeliana da parte del rappresentante cinese alle Nazioni Unite. Tuttavia, così capiremmo solo una piccola parte della prospettiva cinese.
Invece, può essere più utile partire da Huawei, e da un momento lontano nel tempo: il viaggio del fondatore dell’azienda, Ren Zhengfei, nella delegazione diretta in Iran a inizio 2001 e guidata da Hu Jintao, allora vicepresidente cinese. Già nel 2000, Huawei competeva per progetti in Iran con altre aziende allora più grandi, indicando quel mercato come un’importante opportunità commerciale su cui fare leva per la crescita delle sue ambizioni internazionali. L’Iran rimase così una questione aperta, e mai del tutto chiusa, nella storia dello sviluppo del campione tecnologico cinese. La connessione più importante e controversa è emersa poi con Skycom Tech, società accusata di essere utilizzata da Huawei per il commercio con l’Iran. La direttrice finanziaria di Huawei e figlia del fondatore, Meng Wanzhou, aveva un ruolo in questa connessione, come ipotizzato dalla stampa internazionale fin dal 2013. Proprio il coinvolgimento di Meng Wanzhou con l’Iran, con la violazione delle sanzioni, divenne il punto centrale delle accuse di estradizione negli Stati Uniti che portarono al suo arresto in Canada nel 2018. È un grande caso del nostro tempo, il caso che ha acceso la miccia della guerra tecnologica tra Pechino e Washington e che ha evidenziato i rischi del commercio più o meno nascosto della Cina con Teheran. Allo stesso tempo, ha messo in luce l’importanza, per chi si colloca in un altro campo rispetto a quello degli Stati Uniti, di trovare sistemi alternativi rispetto all’imperio del dollaro e del sistema finanziario ad esso collegato. Più facile a dirsi che a farsi, se non per quanto riguarda il crescente ruolo dell’oro.
Oggi la connessione di Pechino con l’Iran passa senz’altro, come è scontato, dall’energia. L’Iran esporta circa il 90% del suo petrolio in Cina e il commercio sino-iraniano deve sempre considerare i rischi e le implicazioni delle sanzioni, per il sistema finanziario e le operazioni marittime. A maggio, i flussi di petrolio iraniano verso la Cina sono diminuiti di circa il 20% rispetto all’anno scorso e i costi di trasporto sono aumentati in modo consistente. In risposta ai più recenti conflitti del Medio Oriente, Pechino ha adottato un approccio più prudente verso l’Iran rispetto a quello tradizionale, rispondendo all’evidente fragilità di Teheran, esposta dalle azioni militari e di intelligence di Israele. Nel suo lessico diplomatico, la Cina ha parlato in precedenza di «fermo sostegno» agli iraniani, per poi passare alla «profonda preoccupazione» e restare su questo registro. Vedremo se altri attacchi israeliani alle strutture energetiche cambieranno la posizione di Pechino.
L’immagine del caos mediorientale che la Cina guarda con più attenzione è quella del ritiro statunitense dall’Afghanistan del 2021: vicenda che ha mostrato le contraddizioni della leadership degli Stati Uniti, secondo la narrazione più gradita a Pechino. Si potrebbe sostenere che, in un mondo di liberi tutti, la Cina possa trovare un terreno più fertile per un’azione violenta verso Taiwan, ma quello che conta per Pechino, nel breve termine, è anzitutto l’immagine di un mondo dove gli Stati Uniti non sanno più portare ordine. Né all’esterno del suolo statunitense, né all’interno, affinché si realizzi la profezia del più influente intellettuale del Partito comunista cinese, Wang Huning: America contro America.
Infine, un altro aspetto tutt’altro che banale, considerato con attenzione dalla Cina, riguarda i successi dell’intelligence israeliana nell’infiltrazione della classe
dirigente iraniana. È un elemento che, in una contesa così profonda come quella tra Washington e Pechino, interessa alla Cina sia per la vulnerabilità del suo avversario sia per la sua difesa dalle capacità degli Stati Uniti.