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«Se penso che il centrosinistra per colpa di Conte ha rifiutato Italia Viva… Finirà per qualche centinaio di voti. E dire che solo Renzi alle Europee ha preso in Liguria 6.500 voti di preferenza. E Paita altri 4.200. Che follia». In serata, quando il testa a testa tra Marco Bucci e Andrea Orlando già pende dalla parte della vittoria del sindaco di Genova candidato dal centrodestra, è Francesco Bonifazi, fedelissimo di Matteo Renzi, a punzecchiare il Pd per la decisione di tenere fuori Italia Viva dall’alleanza di centrosinistra per obbedire al diktat di Giuseppe Conte. In quei giorni il presidente del M5s dichiarava addirittura la morte del “campo largo” con il Pd e gli altri alleati. E, si sa, gli elettori di entrambe le coalizioni non gradiscono le liti e i veti (anche in Basilicata, ad aprile, la rottura del campo largo per mano di Conte e le continue polemiche con il Pd e i centristi hanno finito per dare la volata alla riconferma del forzista Vito Bardi). «Oggi perde chi mette veti, perde Conte e chi ha messo veti su noi», rincara la dose a risultato consolidato lo stesso Renzi.
I veti incrociati tra alleati e la guerra tra Conte e Grillo tra i motivi della sconfitta
C’è poi un elemento tutto interno al M5s, impegnato nel processo costituente che a fine novembre cambierà lo statuto e forse anche il nome e il simbolo: la guerra quasi quotidiana tra Conte il fondatore e garante Beppe Grillo, che per inciso è genovese e che proprio in Liguria ha lanciato quindici anni fa la sua avventura a 5 Stelle. E che sabato, alla vigilia del voto, ha voluto lanciare il suo anatema contro un M5s ormai «evaporato» e contro i candidati regionali del campo progressista «catapultati dall’alto». Per poi non recarsi alle urne. È molto probabile che le parole del fondatore abbiano suscitato sconcerto in una parte dell’elettorato pentastellato, che in Liguria ha effettivamente accentuato la tendenza all’“evaporazione”: il M5s – che alle europee aveva preso in regione il 10% e alle scorse regionali del 2020 quasi l’8% – si è fermato sotto il 5%, superato da Alleanza Verdi/Sinistra che ha confermato il buon trend delle europee superando il 6%. Spicca, tra il flop del principale alleato, l’ottimo risultato del Pd: primo partito con oltre il 28%, quasi doppia Fratelli d’Italia e cresce rispetto alle europee (26,3%). Non solo. Orlando ha preso più di 12mila voti in più rispetto alle liste che lo sostenevano, segno che la candidatura era solida. Insomma, «il Pd la sua parte l’ha fatta», per usare l’espressione dell’ex sindaco di Firenze ora eurodeputato Dario Nardella: «Il tema riguarda gli alleati del Pd».
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La crisi del M5s fattore di destabilizzazione del “campo largo” anche in prospettiva
Ora gli occhi sono puntati su Emilia Romagna e Umbria, dove si vota il 17 e 18 novembre e dove le coalizione di centrosinistra si presenta nella formazione extralarge (i renziani hanno rinunciato a presentare il simbolo di Italia Viva ma sono candidati nelle liste civiche a sostegno del presidente). Se il risultato dovesse essere favorevole al centrosinistra non solo a Bologna, dove è più scontato, ma anche a Perugia, sarà il chiaro segno che solo tutte assieme le opposizioni possono essere competitive. Certo, la crisi continua e verticale di consensi del M5s, crisi che va avanti almeno dalle europee, rischia di essere un fattore di destabilizzazione anche in prospettiva: Conte ha dimostrato, con la caduta del governo Draghi e con le conseguenti elezioni politiche in solitaria del settembre 2022, di non temere la rottura dell’asse con il Pd se a vantaggio dei consensi per il suo M5s. E se la conseguenza del calo di consensi si riverbererà anche, come è naturale che sia, sulla sua ambizione di essere il candidato premier della coalizione i rischi dell’esplosione del campo delle opposizioni aumenteranno. Al Pd per ora non resta che continuare a tessere la tela del “testardamente unitari”, che significa continuare a far gravitare anche i centristi – compreso Renzi – nell’orbita dem.