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    La musica e i ricordi

    Quando Laura Nye Falsone ebbe il primo figlio, nel 1996, stava avendo un grande successo il disco dei Wallflowers “Bringing down the horse”: «Mi basta sentire le prime note di One Headlight e mi ritrovo a ballare con mio figlio appena nato in braccio», dice: «ogni volta mi riempie il cuore di gioia».Quando l’Alzheimer precoce di Carol Howard, una biologa marina morta nel 2019, peggiorò, spesso non riusciva neanche a riconoscere suo marito. Una volta le successe di presentarlo a qualcuno come suo padre. Lui ora racconta che però se solo sua moglie sentiva una canzone di Simon e Garfunkel degli anni Sessanta poteva cantarne ogni parola senza sforzo.La capacità della musica di evocare ricordi così vividi è un fenomeno già ben conosciuto dai ricercatori. Può innescare accesi ricordi degli anni passati – per molti più intensamente che ogni altro senso come il gusto o l’odorato – e quelle esperienze possono provocare emozioni profonde. «La musica può aprire porte dimenticate sulla memoria», dice Andrew Budson, primario di neurologia cognitiva e comportamentale, responsabile dello staff di formazione e direttore del Centro per le Neuroscienze Cognitive e Traslazionali all’Ospedale per gli Affari dei Veterani di Boston. «Può portarti indietro nel tempo, nello stesso modo in cui una scossa di elettricità può attivare il tuo cervello e farlo funzionare», continua: «abbiamo avuto tutti l’esperienza familiare di tornare nella nostra città, passare accanto al nostro liceo e sentire affiorare i ricordi. La musica può fare la stessa cosa. Fornisce una cornice auditiva ed emotiva che ci permette di rivivere quei ricordi».Gli scienziati che studiano i forti effetti che la musica ha sul cervello dicono che le nuove conoscenze possono migliorare le terapie per malattie come la demenza e altri disturbi della memoria, l’ansia, lo stress e la depressione, la difficoltà di apprendimento e anche molte patologie fisiche come il dolore cronico, il cancro e il Parkinson.Ci sono prove che la musica porti alla produzione di neurotrasmettitori del cervello, come la dopamina, un trasmettitore chimico che si occupa del sistema cerebrale di ricompensa. Altri studi hanno mostrato che la musica riduce il cortisolo, l’ormone che produce lo stress, e aumenta la secrezione di ossitocina, che ha un ruolo durante il travaglio e il parto, e nel legame, nella fiducia e nell’attaccamento romantico neonato-genitore.«La musica attiva diverse parti del cervello», e questo la rende uno strumento particolarmente versatile, spiega Amy Belfi, ricercatrice di scienze psicologiche all’Università della Scienza e della Tecnologia del Missouri e ricercatrice principale nel laboratorio di Cognizione ed Estetica della Musica. «Ne facciamo uso per migliorarci l’umore, per aiutarci a studiare, per legare con altre persone. Diventa parte della nostra identità, colonna sonora delle nostre vite, il che spiega perché è così efficace nello stimolare e far rivivere i ricordi».Alcuni esperti vedono anche la musica – che può alleviare l’agitazione nei soggetti affetti da demenza – come un’alternativa ai sedativi, per esempio, o come un mezzo che permette a queste persone di evitare i ricoveri. Frank Russo, professore di psicologia alla Metropolitan University di Toronto, pensa che sia un obiettivo raggiungibile. È direttore scientifico di un’azienda che sta sviluppando un lettore musicale che usa l’intelligenza artificiale per produrre una playlist ad hoc progettata per guidare il paziente da uno stato di ansia a uno di calma.«Uno degli aspetti più impegnativi per i “caregiver” è la gestione dell’ansia e dell’agitazione», dice Russo, le cui ricerche si concentrano sull’intersezione tra neuroscienza e musica. «Una grande quantità di persone finisce in case di cura che ricorrono a sedativi e antipsicotici. La musica è una grande opportunità in questi casi».Melissa Owen, terapista musicale alla Clinica universitaria del Commonwealth in Virginia, ha già avuto a che fare con casi come questi nel suo lavoro. «Rimango ancora a bocca aperta di fronte alla capacità della musica di cambiare in meglio i comportamenti, le emozioni e anche i rapporti tra gli operatori sanitari e i loro pazienti, anche solo per la durata di una specifica canzone», dice. Fornisce «un momento di normalità quando molto sembra già perduto».Per comprendere gli effetti che la musica ha sul cervello, si studiano i diversi tipi di memoria che vengono coinvolti. Gli scienziati dicono che per esempio quando suoniamo, a differenza di quando semplicemente ascoltiamo, usiamo la memoria “procedurale”, un tipo di memoria “implicita” a lungo termine, che fornisce la capacità inconscia di ricordarci delle abitudini o delle routine di tutti i giorni, come scrivere con le dita su una tastiera, andare in bicicletta o lavarci i denti, senza doverci pensare.Questo tipo di memoria si differenzia da quella “episodica”, un tipo di memoria a lungo termine ed “esplicita”, che fornisce ricordi coscienti ed è quella che usiamo per ricordarci, per esempio, cosa ci eravamo segnati di dover comprare al supermercato.(Sia la memoria implicita che quella esplicita sono tipi di memoria a lungo termine – la prima inconscia e senza necessità di sforzi, la seconda bisognosa dello sforzo conscio di volersi ricordare). La memoria episodica ha origine nell’ippocampo, la regione del cervello che è la prima a smettere di funzionare quando sopraggiunge la demenza, dice Budson. «L’Alzheimer attacca per primo e soprattutto l’ippocampo», aggiunge, spiegando perché invece la memoria procedurale continui a fornire ai pazienti la capacità di ricordare i testi ed eseguire i brani: «è un sistema di memoria completamente diverso».Nei soggetti con un cervello sano, «la memoria episodica dà la possibilità di sentirsi trasportati indietro nel tempo» a uno specifico evento o periodo «quando ascolti un brano musicale», dice Budson, mentre la capacità di cantare o suonare musica appartiene alla memoria procedurale, il che significa che non c’è bisogno di pensare intenzionalmente a quello che si sta facendo. Un esempio noto è quello del celebre cantante Tony Bennett, di 96 anni, che anche durante le sofferenze dell’Alzheimer poteva continuare a cantare le sue canzoni più famose.Budson dice che comunque i pazienti affetti da Alzheimer possono fare esperienza del fenomeno di “tornare indietro nel tempo” grazie alla musica tramite la memoria episodica, anche dopo che la malattia ha intaccato il loro ippocampo, quando questi ricordi episodici hanno più di due anni. «Questi ricordi sono stati ‘consolidati’, e una volta consolidati possono essere accessibili anche se l’ippocampo è stato distrutto».«Il processo di consolidamento inizia nella notte dopo la quale un ricordo viene formato, e può durare fino a due anni», spiega Budson. Quando si crea un ricordo, non viene archiviato subito nell’ippocampo. I diversi aspetti di un ricordo – le immagini, i suoni, gli odori, le emozioni e i pensieri – sono rappresentati da uno schema di attività neuronale in diverse parti della corteccia, la superficie esterna del cervello, dove avvengono la vista, l’udito, l’odorato, l’emozione e il pensiero».Per capire il concetto, suggerisce, pensate ai ricordi come piccoli palloncini che fluttuano in diverse aree del cervello. «Quando un nuovo ricordo si forma è come se l’ippocampo cercasse di legare insieme i fili dei palloncini, proprio come se stesse tenendo tutti i fili di diversi palloncini nella sua mano», continua. «Se l’ippocampo venisse distrutto, i palloncini si dividerebbero, volerebbero via e il ricordo sarebbe eliminato». Ma dopo che il ricordo viene consolidato, «i diversi palloncini si legano l’un l’altro autonomamente tramite spesse corde e non c’è più bisogno dell’ippocampo perché il ricordo rimanga intatto. È per questo che le persone con la malattia di Alzheimer continuano ad avere ricordi della propria infanzia ma non di cosa hanno mangiato a pranzo o di chi hanno incontrato il giorno prima».Tutti conoscono l’effetto “macchina del tempo” di quando si ascolta una canzone della propria gioventù. «Andavo al liceo negli anni Ottanta e oggi, quando sento una canzone di Blondie o dei Depeche Mode, ho quella sensazione di essere in giro con i miei amici, indipendente dai miei genitori, quando stavo cominciando a sentirmi un adulto; è davvero intensa», spiega Budson. «Non ascoltiamo le canzoni solo una volta. Abbiamo nel tempo diverse opportunità di registrare quel ricordo. La musica che è profondamente consolidata in noi può sbloccare dei ricordi fotografici. Riusciamo a ricordarci dettagli più vividi del passato quando sentiamo la musica». Le ricerche hanno dimostrato che questo effetto è più forte di quando vediamo dei volti familiari o di quando ci troviamo di fronte ad altri stimoli.Belfi ha condotto una ricerca specifica su questo aspetto. Durante uno studio, trenta partecipanti (di età tra i 15 e i 30 anni) ascoltavano quindici secondi estratti da canzoni che erano popolari quando erano più giovani. Dopo aver ascoltato questi spezzoni, guardavano alcune foto di volti di persone famose appartenenti allo stesso periodo, tra cui politici, atleti e attori: ma non musicisti, per evitare confusioni. Gli scienziati chiedevano quindi ai partecipanti di descrivere ogni ricordo “autobiografico” che era stato ispirato loro dall’esposizione a questi stimoli. «La musica provocava ricordi molto più dettagliati di quanto facessero i volti», dice Belfi. «Abbiamo concluso che la musica tende ad associarsi a ricordi personali della vita». In un altro breve studio ha detto di aver chiesto ai partecipanti – 39 giovani adulti dai 18 ai 34 anni e 39 adulti più anziani dai 60 ai 77 anni – di tenere un diario per un lasso di tempo di quattro giorni nel quale registrare le loro reazioni sia alle canzoni che sentivano sia al cibo che mangiavano, cucinavano e vedevano nei supermercati o nei programmi TV di cucina. «La musica evocava più frequentemente ricordi personali, una percentuale maggiore di ricordi involontari, e ricordi considerati più personali in confronto a quelli provocati dal cibo».Questo non sorprenderebbe Falsone, una responsabile di laboratorio del Centro per la ricerca ambientale Smithsonian. Il bambino che teneva in braccio mentre ballava ora ha ventisei anni, e lei ha avuto altri due figli e una figlia. Tutti loro conoscono il suo aneddoto sui “Wallflowers”.«Quando ne parlo, loro alzano gli occhi al cielo e dicono, ‘Sì, mamma, lo sappiamo. Ti piace questa canzone’», dice, «ma sorridono».© 2023, The Washington PostSubscribe to The Washington Post(traduzione di Emilia Sogni) LEGGI TUTTO

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    Perché non sappiamo prevedere i terremoti

    Caricamento playerLe case sono crollate e palazzi sono andati in polvere in pochi secondi, dopo che un terremoto di magnitudo 7.8 ha colpito Turchia e Siria lunedì mattina, lasciando i soccorritori nell’affannosa ricerca di qualcuno ancora in vita, tra i tanti morti. Una distruzione così improvvisa e così orribile da chiedersi: com’è possibile che nessuno sapesse che era in arrivo un terremoto?La risposta non è semplice. Fino a oggi gli scienziati non sono stati in grado di prevedere con esattezza dove e come si verificherà un terremoto, sebbene la posta in gioco sia molto alta. Stime dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) attribuiscono ai terremoti all’incirca la metà delle morti causate da disastri naturali negli ultimi due decenni. Molti geologi ritengono pressoché impossibile prevedere un evento sismico con precisione, a causa dell’estrema complessità che l’analisi dell’intera crosta terrestre richiede. Altri credono che saranno piuttosto alcune nuove tecnologie – tra cui l’intelligenza artificiale, che può contribuire a una maggior precisione e rapidità nelle capacità predittive, e gli smartphone, che possono inviare notifiche istantanee alle persone in pericolo – che potranno aiutare a salvare molte vite, in futuro.Tuttavia, anche il migliore degli sforzi tecnologici offre un preavviso di solo pochi secondi – minuti, in rari casi – in ogni caso troppo poco per dare il tempo di evacuare. Gli esperti ammettono che un futuro in cui la tecnologia in nostro possesso diventi in grado di prevedere con esattezza il luogo, l’attimo e l’intensità di un evento sismico sia lontano da venire. E si corre il rischio che previsioni errate possano provocare più danni che vantaggi. «I terremoti si verificano in maniera molto, molto rapida», spiega Christine Goulet, direttrice dell’U.S. Geological Survey Earthquake Science Center (USGS). «È corretto dire che, allo stato attuale, non abbiamo alcuna capacità di prevedere un evento sismico».Il movimento delle placche tettoniche all’origine dei terremoti avviene con estrema lentezza, mentre le rotture si generano in modo istantaneo, dando origine a terremoti che, senza alcun preavviso, provocano caos e distruzione. Anche le scosse più forti registrate di recente – per esempio il terremoto di Haiti del 2010 – si sono presentate del tutto inattese. Per evitare previsioni errate, i geologi hanno iniziato a dare maggior rilievo al calcolo delle probabilità che un evento sismico si verifichi, piuttosto che cercare di prevedere le singole scosse. Gli scienziati utilizzano misurazioni geologiche, dati dei sismometri e rilevazioni storiche per individuare aree ad alto rischio. Tramite modelli statistici, sono quindi in grado di stimare la possibilità che un terremoto si verifichi in futuro.– Leggi anche: Il terremoto che arriveràMa a differenza delle previsioni meteorologiche – divenute più precise grazie al miglioramento dei sistemi di calcolo, dei modelli matematici e dell’avvento di droni e satelliti – la capacità di prevedere i terremoti non è stata in grado di fare simili progressi. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, gli scienziati hanno cercato di prevedere i sismi con diversi metodi, ma sempre senza successo. Negli anni Settanta e Ottanta, la ricerca si concentrò su quali siano i segnali che precedono un evento sismico, attingendo a un vario miscuglio di indizi che comprendeva il comportamento degli animali, le emissioni di radon e le possibili alterazioni dei campi elettromagnetici. Capitava, a volte, di arrivare a qualche risultato, ma nulla che potesse ottenere il vaglio della comunità scientifica, racconta John Rundle, professore di fisica e geologia all’Università della California di Davis.Negli anni Ottanta, gli scienziati si convinsero che un segmento della faglia di Sant’Andrea nei pressi di Parkfield, in California, avesse superato la “data di scadenza per un terremoto”. Analizzarono cumuli di dati storici per cercare di individuare una data precisa. Decisero dunque che l’anno della scossa successiva sarebbe stato il 1993, ma il sisma non si verificò fino al 2004, e travolse la California centrale senza alcun preavviso. Fu un errore che Rundle descrive come una “sorta di campana a morto” per la previsione dei terremoti. Da quel momento, molti scienziati si indirizzarono piuttosto verso modelli statistici e calcoli di probabilità, allontanandosi da un’idea di previsione più simile a quella del meteo.Con l’avanzamento della tecnologia, tuttavia, ci sono stati degli sviluppi nei sistemi di preallarme. Ovvero reti che utilizzano i sismografi per individuare e valutare i primi tremiti, e che inviano un segnale di allarme direttamente alle persone, con qualche secondo di anticipo sull’emergere del terremoto. ShakeAlert, un sistema creato dall’USGS, riesce a inviare un messaggio sul cellulare di un utente con un preavviso che va dai venti secondi a un minuto prima dell’arrivo del sisma.I dati provengono dai sensori delle stazioni sismografiche dell’USGS, che misurano l’intensità delle vibrazioni del terreno. Quando questi percepiscono l’arrivo di un terremoto, i computer sono in grado di calcolare la direzione della scossa sismica nell’arco di cinque secondi. Le compagnie telefoniche possono a quel punto diffondere la notifica di allarme tra gli utenti presenti nell’area. È un sistema che funziona perché sia il segnale internet sia la rete cellulare si muovono alla velocità della luce, molto più rapidamente di quanto una scossa sismica possa farsi strada nel suolo.Riuscire a fornire un preavviso che non sia solo di una manciata di secondi è però questione ben più ardua, a detta di molti. Prevedere un terremoto con precisione richiede una mappatura e un’analisi dettagliata della crosta terrestre che indichino in quali punti la probabilità di rottura è maggiore. Gli esperti ribadiscono inoltre un elemento di assoluta casualità nei tempi con cui un terremoto si verifica, terremoto che può talvolta presentarsi senza alcun preavviso. Sebbene la tecnologia ci induca a sperare in un miglioramento, sono in molti a temere che, senza il necessario rigore scientifico, un fallimento di questi nuovi sistemi possa generare un senso di sfiducia nei confronti della tecnologia stessa. «I falsi allarmi hanno conseguenze quasi peggiori delle previsioni corrette», spiega Rundle. «Perché è così che la gente perde fiducia nel sistema».I ricercatori si stanno inoltre interessando all’intelligenza artificiale e ai software di machine learning, in grado di gestire enormi quantità di dati ed individuare andamenti e modelli. La speranza è che una capacità di analisi più rapida rispetto a quella umana aiuti gli scienziati a capire cosa accade prima di un evento sismico, in modo da poter individuare eventuali segnali di allarme. Per esempio, aggiunge Rundle, c’è chi sta sviluppando modelli di “nowcasting”, ovvero di previsione a brevissimo termine, ispirati al modo in cui la Federal Reserve effettua pronostici sullo stato di salute dell’economia americana. Gli scienziati inseriscono nei software di machine learning grandi quantità di dati, dalle misurazioni sismografiche alle indicazioni dei radar relative alle deformazioni della superficie terrestre, così da migliorare la capacità di ipotizzare il luogo e il momento in cui il terremoto successivo si verificherà.Anche a fronte di un miglioramento della tecnologia, è però improbabile che si raggiungerà mai un livello eccezionale di precisione. Nel migliore dei casi tra qualche anno gli scienziati potranno prevedere il luogo in cui si verificherà un terremoto in un area di mille chilometri per mille circa, e per giunta nel giro di alcuni anni. Aspettarsi un livello di dettaglio maggiore è al momento inverosimile perché non abbiamo una quantità di dati soddisfacente sui terremoti passati, spiega Rundle. «Abbiamo dati sismici in formato digitale solo per gli ultimi 25-30 anni. Tutto ciò che è successo prima, o ci manca o è fortemente incompleto».Di recente sono emerse teorie predittive alternative, a cui gli scienziati però guardano con scetticismo. Un metodo alquanto contestato si affida allo studio dell’allineamento dei pianeti. Un ricercatore olandese è diventato virale su Twitter lunedì scorso per aver apparentemente utilizzato questo metodo per prevedere con precisione i dettagli del terremoto in Turchia, con parecchi giorni di anticipo. Christine Goulet spiega che di metodi di previsione di eventi sismici senza alcuna base scientifica ne esistono in quantità, e che se i risultati fossero analizzati su un periodo di tempo più esteso, perderebbero all’istante qualsiasi elemento di credibilità. «Non conosco nessuno che abbia mai azzeccato una previsione per più di una volta», aggiunge: «se fosse davvero così facile, lo faremmo anche noi».© 2023, The Washington PostSubscribe to The Washington Post(traduzione di Laura Mangano) LEGGI TUTTO