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    L’ameba mangia-cervello, parliamone

    Caricamento playerA inizio luglio nello stato indiano del Kerala un quindicenne è morto a causa di una meningoencefalite amebica primaria (PAM), una infezione causata da Naegleria fowleri soprannominata spesso “ameba mangia-cervello”. Il quindicenne era stato ricoverato per una sospetta encefalite a fine giugno e in seguito i medici avevano scoperto la causa del malessere, non riuscendo però a trattarlo. La PAM è una condizione estremamente rara, ma con un tasso molto alto di letalità, superiore al 95 per cento. È nota da circa 60 anni ed è studiata da tempo non solo per il particolare comportamento dell’ameba e del nostro sistema immunitario per provare a distruggerla, ma anche per il modo in cui si contrae l’infezione: di solito inizia tutto con un banale spruzzo d’acqua.Anche se viene chiamata ameba mangia-cervello, N. fowleri non è tecnicamente un’ameba vera e propria, ma alterna forme flagellate ad ameboidi: in sostanza ci assomiglia molto in alcuni stadi del suo ciclo vitale. Come altri suoi simili, N. fowleri è ghiotta di batteri dei quali va a caccia per spezzarli e nutrirsene. In natura vive solamente in acqua dolce e prolifera negli stagni, nei laghi, nelle fonti termali e talvolta in tratti di fiumi e torrenti dove la corrente è tranquilla. Può però essere trovata anche nelle tubature degli acquedotti, nelle fontane e nelle piscine, in particolare se l’acqua non è trattata adeguatamente per essere resa potabile attraverso l’aggiunta di cloro.N. fowleri prolifera soprattutto al caldo e per questo tende a essere più presente nell’acqua tra la fine della primavera e l’estate. Il periodo coincide con quello in cui si frequentano le piscine o si va a nuotare al lago, di conseguenza le infezioni avvengono con maggiore frequenza nella stagione calda. Si stima infatti che ogni anno milioni di persone vengano in contatto con l’ameba senza particolari problemi: se si beve accidentalmente un po’ d’acqua contaminata gli acidi dello stomaco provvedono a distruggere l’ospite indesiderata e non ci sono problemi. Se invece si inala qualche goccia d’acqua la storia cambia.In piscina o al lago ci si tuffa e si nuota, ma soprattutto si producono molti spruzzi d’acqua all’interno dei quali ci sono milioni di virus, batteri e in qualche raro caso N. fowleri. Basta inalare un po’ d’acqua perché l’ameba si ritrovi nel naso e inizi a esplorarne l’interno alla ricerca di batteri di cui nutrirsi. La mucosa nasale, che contiene sostanze che favoriscono la neutralizzazione di molti agenti esterni, non interagisce in modo significativo con N. fowleri e così nemmeno le prime difese del sistema immunitario. L’ameba passa inosservata e nella maggior parte dei casi dopo qualche tempo muore, salvo non riesca a intercettare qualcosa che l’attira moltissimo più in profondità nella cavità nasale: le cellule nervose dell’olfatto.(Wikimedia)Le cellule olfattive utilizzano diversi segnali chimici per trasmettere le informazioni che poi il nostro cervello provvederà a trasformare in sensazioni, come riconoscere il profumo di una brioche appena sfornata o quello di un gelsomino fiorito. Una delle sostanze impiegate per queste comunicazioni è l’acetilcolina, una molecola molto importante per la trasmissione nervosa e che N. fowleri è attrezzata per riconoscere. Non è ancora oggi molto chiaro come mai l’ameba abbia sviluppato questa capacità, che è poi alla base del modo in cui riesce a infettare il nostro organismo.Lo scambio di acetilcolina tra le cellule olfattive e il cervello è molto frequente e viene seguito da N. fowleri, che in questo modo riesce ad aprirsi la strada verso il cervello. Le amebe non dovrebbero esserci tra le terminazioni delle cellule olfattive e per questo la loro presenza viene notata dal sistema immunitario, che tenta un primo attacco con i granulociti neutrofili, cellule poco specializzate che mettono in atto sistemi alquanto rudimentali per distruggere gli agenti esterni. Utilizzano sostanze chimiche per provare a fare a pezzi e dissolvere le amebe, ma è una lotta impari che raramente termina con la distruzione di tutti gli invasori.N. fowleri prosegue il proprio viaggio lungo le terminazioni delle cellule olfattive e, di solito entro una decina di giorni da quando era stata inalata, riesce infine a raggiungere il cervello dove la sua attività viene ulteriormente stimolata dalla grande disponibilità di acetilcolina. Qui l’ameba produce particolari molecole che fanno a pezzi i neuroni, in modo che se ne possa nutrire. Inizia a moltiplicarsi e a trasformarsi, sviluppando minuscole ventose che si attaccano e distruggono le membrane delle cellule, nutrendosi di parte del loro contenuto.Stadi del ciclo vitale di N. fowleri, da sinistra: cisti, trofozoide e forma flagellata (Wikimedia)In questa fase il sistema immunitario tenta un nuovo attacco, sempre attraverso i granulociti neutrofili cui si aggiungono altre cellule immunitarie come quelle della microglia, responsabili della difesa immunitaria nel sistema nervoso centrale. Anche in questo caso è un attacco di prima difesa non specializzato, una sorta di bombardamento a tappeto che provoca ulteriori danni alla materia cerebrale e che ha però scarso effetto sulle amebe, che riescono a difendersi e a neutralizzare le cellule immunitarie. Il sistema immunitario non riesce nemmeno a organizzare una difesa più specifica attraverso gli anticorpi, che dovrebbero segnalare alle cellule immunitarie specializzate gli obiettivi da colpire. La risposta immunitaria porta a un’infiammazione e alla febbre, che di solito è utile per rallentare virus e batteri, ma che in questo caso può poco contro un’ameba che prolifera soprattutto al caldo.Nell’area dell’infezione iniziano ad accumularsi liquidi che comportano un aumento della pressione intracranica. È di solito in questa fase che compaiono i primi sintomi come febbre, mal di testa e nausea: sono quasi sempre lievi e tali da non suscitare grandi preoccupazioni o da spingere a cercare l’aiuto di un medico. In pochi giorni i sintomi peggiorano con la comparsa di allucinazioni, stati confusionali e una grande stanchezza. L’infiammazione prosegue con il cervello sempre più gonfio e compresso nella scatola cranica.È di solito in questa fase che un paziente arriva in ospedale, in condizioni precarie e con una diagnosi difficile da fare. L’infezione da N. fowleri è molto rara e non sempre conosciuta, di conseguenza le prime analisi sono dirette verso malattie e condizioni più comuni, come forme di meningite e di encefalite. Il tempo è un fattore importante, ma anche nel caso di una diagnosi precoce le possibilità di sopravvivenza sono molto basse. Non c’è una cura e i trattamenti sperimentati in questi anni si sono rivelati nella maggior parte dei casi inefficaci.I casi di PAM da N. fowleri vengono solitamente trattati con l’amfotericina B, un antimicotico che porta alla rottura della membrana cellulare dell’ameba e alla sua morte. Il trattamento non è però particolarmente efficace e la quasi totalità dei pazienti muore ugualmente. Negli ultimi tempi è stato anche sperimentato l’impiego della miltefosina, un antiparassitario che interviene sui processi di comunicazione cellulari, ma anche in questo caso i risultati non sono stati molto promettenti.Per quanto possa apparire spaventosa, un’infezione da N. fowleri è estremamente rara, e questo è bene ricordarlo sempre. Da quando fu scoperta negli anni Sessanta ne sono stati identificati circa 450 casi in tutto il mondo e solo sette persone sono sopravvissute. In generale, è molto più probabile morire per annegamento in acque contaminate dall’ameba che per via della sua inalazione. Anche se ogni anno qualcuno deve fare i conti con un’infezione probabilmente mortale, l’ameba non costituisce un’emergenza sanitaria.Dagli studi condotti finora sembra che N. fowleri proliferi soprattutto quando non deve competere con altri organismi che si nutrono delle sue stesse cose a cominciare dai batteri. In assenza di competizione, la concentrazione dell’ameba aumenta sensibilmente e sembra che anche in questo abbiano un ruolo le attività umane. Lo sversamento di acqua calda a valle dei processi industriali, per esempio, causa la morte di numerosi microrganismi e favorisce invece quelli che prosperano soprattutto a temperature più alte.L’interesse intorno a N. fowleri è comunque grande non solo per la ricerca di una cura davvero efficace, ma per le caratteristiche stesse dell’”ameba mangia-cervello”. Molti aspetti della sua storia evolutiva non sono ancora chiari, né sappiamo quali eventi l’abbiano resa così agguerrita e avida di cellule del nostro cervello. LEGGI TUTTO

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    Come funziona il “digiuno intermittente”, se funziona

    Complici alcune dichiarazioni di personaggi famosi e la pubblicazione di libri che se ne occupano, negli ultimi mesi è tornato di moda ed è diventato molto discusso il cosiddetto “digiuno intermittente”. Secondo chi lo pratica, non solo aiuterebbe a perdere peso velocemente, ma anche a mantenersi in salute e in generale a sentirsi meglio. Di recente l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto di avere «perso 6 chili grazie al digiuno intermittente», aggiungendosi alla lista piuttosto lunga di persone che hanno detto di essere dimagrite seguendo questa pratica. In precedenza se ne era parlato molto in seguito ad alcune dichiarazioni di Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze Biomediche all’Università di Padova, molto presente in televisione negli ultimi anni come esperta di cose intorno alla pandemia da coronavirus.Il digiuno intermittente ha ottenuto un certo successo perché viene spesso presentato come una soluzione per perdere rapidamente peso, con minori sacrifici rispetto a quelli richiesti dalle classiche diete. Chi lo pratica difficilmente si consulta prima con una persona che ha studiato nutrizione, ritenendo di dovere applicare solo qualche semplice regola per iniziare a dimagrire. È un approccio che può comportare qualche rischio, soprattutto per le persone con particolari problemi di salute, magari legati proprio al loro metabolismo e dei quali non sono pienamente consapevoli.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” sul digiuno intermittenteA digiunoLa percezione di dover seguire regole molto semplici deriva probabilmente dal fatto che di per sé digiunare non è complicato: consiste nello smettere di mangiare e in alcuni casi di bere per un certo periodo di tempo. È una pratica che viene seguita da millenni, per motivi culturali e religiosi a seconda delle popolazioni e dei contesti interessati. Nell’antica Grecia si digiunava prima di consultare gli oracoli, mentre nello sciamanesimo in varie culture africane era praticato prima di poter “comunicare” con gli spiriti. Il digiuno è inoltre visto come una via per avere esperienze mistiche, come per esempio nel buddhismo. In molte religioni è un modo per fare penitenza, per meditare e per concentrarsi su necessità diverse da quelle terrene: durante il mese del Ramadan, centinaia di milioni di persone musulmane nel mondo digiunano nelle ore di sole. In un digiuno prolungato consiste anche lo sciopero della fame, forma di protesta adottata spesso dalle persone detenute.Uno degli effetti del digiuno prolungato è inevitabilmente il dimagrimento, perché in mancanza del cibo il nostro organismo prova a compensare utilizzando ciò di cui dispone, come le riserve di grasso e le proteine presenti nei tessuti muscolari. Partendo da questo presupposto, già all’inizio del Novecento alcuni gruppi di ricerca iniziarono a chiedersi se una versione attenuata con brevi periodi di digiuno potesse essere impiegata per trattare l’obesità. Erano i primi esperimenti e tentativi in genere poco sistematici e strutturati, che portarono a pochi studi e non molto rilevanti. Le cose cambiarono a partire dagli anni Sessanta, quando iniziarono a essere pubblicate ricerche un poco più estese e articolate.Nelle prime esperienze documentate, erano previsti periodi di digiuno che variavano da un giorno a un paio di settimane a seconda dei casi. Già all’epoca si potevano trovare articoli entusiastici sul digiuno intermittente anche se non c’erano molti elementi per determinarne efficacia e sicurezza. Sperimentare e studiare le diete è sempre molto difficile, sia perché ogni persona è fatta diversamente e reagisce in modo diverso a trattamenti e terapie, sia perché seguire per lungo tempo un numero ragionevole di persone per determinare l’efficacia di una dieta richiede grandi risorse e soprattutto una certa dedizione da parte dei partecipanti allo studio. Questo spiega perché, a distanza di quasi un secolo dai primi studi, ancora oggi non ci sono elementi chiari sull’utilità del digiuno intermittente, come del resto è avvenuto per molti altri tipi di diete.I digiuni intermittentiNon esiste del resto un solo tipo di digiuno intermittente: ci sono più varianti e ognuno finisce col personalizzare le proprie abitudini alimentari come meglio crede, talvolta con qualche rischio per la salute. In linea generale, il digiuno intermittente consiste nell’astenersi dal cibo e dalle bevande caloriche per un certo periodo di tempo nel corso della giornata o della settimana. Frequenza e durata dei cicli di digiuno variano molto a seconda dei casi, ma si possono identificare due grandi categorie.La prima è quella delle diete a “digiuno periodico” nelle quali si alternano giornate intere di digiuno, o comunque di forte restrizione calorica, e giorni in cui si mangia normalmente. La seconda è la categoria delle diete con alimentazione a restrizione oraria: si mangia solo in alcune ore della giornata.In questi due filoni si inseriscono numerose diete che combinano fasi di digiuno alla normale alimentazione, in modi talvolta creativi e che ricordano un poco la regolazione del traffico a targhe alterne. C’è il digiuno a giornate, che prevede un giorno in cui si digiuna alternato a uno in cui si mangia; c’è la dieta 5:2 con due giorni di digiuno e cinque liberi; c’è la dieta “mima digiuno” dove viene consigliato il consumo soprattutto di verdure e che ha una durata di cinque giorni, nei quali si riduce progressivamente l’apporto calorico. Altri sistemi prevedono di mangiare in un intervallo di 8-10 ore e di digiunare per le restanti 16-14 ore: sono tra quelli più seguiti, semplicemente perché è relativamente più immediato saltare un pasto e sfruttare il sonno durante il quale già normalmente si digiuna.Roditori e umaniChi promuove il digiuno intermittente fa spesso riferimento agli studi effettuati su topi e altri roditori negli ultimi anni, dove si segnala come l’alimentazione a giorni alterni mantenga questi animali magri e più sani secondo alcuni parametri, per esempio con un aumento della durata della loro vita. Non è ancora completamente chiaro perché ciò avvenga, ma si ipotizza che in mancanza di nutrienti introdotti con l’alimentazione, l’organismo passi a utilizzare in modo più intensivo le risorse di glicogeno, una delle principali riserve energetiche dell’organismo, e il grasso corporeo.Negli esseri umani è più difficile replicare le medesime condizioni ottenute con i roditori e di conseguenza non ci sono elementi chiari per sostenere che il digiuno intermittente sia più efficace, o più sicuro e sano, rispetto alle classiche diete. Lo scorso anno un gruppo di ricerca aveva diviso 139 persone con obesità in due gruppi per sottoporle a due diversi tipi di diete: una di restrizione calorica classica, mangiando meno ai soliti pasti, e una di digiuno intermittente con pasti consentiti solo tra le otto del mattino e le quattro del pomeriggio. Per entrambi i gruppi era prevista nel complesso l’assunzione di 1500-1800 chilocalorie al giorno per gli uomini e di 1200-1500 chilocalorie per le donne.Al termine della sperimentazione durata circa un anno, il gruppo di ricerca ha riscontrato valori simili di perdita di peso tra i due gruppi, così come ha riscontrato dati paragonabili nella riduzione del grasso corporeo, della pressione sanguigna e dei livelli di glucosio nel sangue. I due regimi calorici avevano in sostanza dato i medesimi risultati, suggerendo che non ci siano particolari differenze tra i due approcci e soprattutto che il digiuno intermittente non comporti miglioramenti significativi nella perdita di peso rispetto a una dieta normale.Mangiare menoCi sono vari elementi per ritenere che il digiuno intermittente funzioni solo quando porta a una riduzione delle calorie assunte ogni giorno rispetto alle proprie abitudini. È del resto una conclusione piuttosto intuibile, che sfata però uno dei miti o delle convinzioni di molte persone che seguono un digiuno intermittente, sostenendo di mangiare ciò che vogliono e nelle quantità che preferiscono nelle ore “consentite”, immaginando che in qualche modo il metabolismo cambi e provveda al dimagrimento nel resto delle ore della giornata.In realtà, se si verificano le dichiarazioni di chi sostiene il digiuno intermittente, per esempio tra persone con una certa visibilità pubblica, si nota che il principale motivo del dimagrimento è la riduzione della quantità di cibo assunta e che questa è molto più rilevante rispetto al periodo della giornata in cui si mangia o si digiuna. Renzi ha per esempio detto di avere ripreso a correre con maggiore assiduità, mentre Viola ha spiegato di avere eliminato quasi del tutto il consumo di bevande alcoliche, che sono particolarmente caloriche. In entrambi i casi ci sono stati cambiamenti nelle abitudini che vanno al di là dei giorni in cui si mangia o meno.Per molte persone il digiuno intermittente funziona meglio di altre diete perché si deve rispettare un programma orario rigido che riduce le possibilità di sgarrare, fare eccezioni o cedere a qualche tentazione. Gli orari di alcune versioni del digiuno intermittente favoriscono inoltre il salto o la riduzione di alcuni pasti, come la cena: se si deve fare l’ultimo pasto entro le 16 è probabile che si abbia meno fame essendo ancora sazi dal pranzo e che si vada a dormire prima che venga nuovamente fame, per esempio. Il numero inferiore di pasti aiuta ovviamente a mangiare meno ed è un’ulteriore dimostrazione che il digiuno intermittente è paragonabile a una dieta.Un dimagrimento sano passa di solito da una relativa riduzione delle calorie che si introducono con gli alimenti ogni giorno e dal praticare attività fisica. Diete con una marcata riduzione delle calorie dovrebbero essere seguite sotto la supervisione di medici e mediche, che a seconda dei casi possono raccomandare esami e accertamenti di vario tipo prima di prescrivere una dieta. LEGGI TUTTO

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    Non fa male sapere che bere alcol fa male

    Caricamento playerNegli ultimi mesi il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida ha in più occasioni difeso il consumo degli alcolici, e in particolare del vino, criticando la scelta del governo irlandese di introdurre etichette sulle bevande alcoliche con avvisi sui loro effetti nocivi per la salute, come avviene già sui pacchetti delle sigarette. Lollobrigida ha per esempio sostenuto che in Irlanda il vino «non sanno nemmeno consumarlo con moderazione come è giusto fare» e che un’etichetta che indica pericoli gravi per la salute «racconta una cosa distorta», nonostante tutte le più importanti istituzioni sanitarie a cominciare dall’Organizzazione mondiale della salute dicano da tempo che «nessuna quantità di consumo di alcol è sicura per la salute».Questo succede, peraltro, proprio nei giorni in cui il governo si sta esprimendo in varie modalità contro il consumo di altre sostanze stupefacenti, quelle a cui ci si riferisce normalmente come droghe: è da poco uscito un discusso spot istituzionale, finanziato dal Dipartimento politiche antidroga, in cui l’allenatore della Nazionale di calcio maschile Roberto Mancini ripete numerose volte che «tutte le droghe fanno male». Né in questa né in comunicazioni simili, tuttavia, viene quasi mai incluso esplicitamente l’alcol, nonostante diversi riconosciuti studi lo indichino come molto più pericoloso della maggior parte, se non tutte, delle sostanze che intendiamo normalmente quando ci riferiamo alle droghe. Una discussione analoga si è sviluppata attorno alla proposta di riforma del codice della strada del ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che contiene alcune misure ancora poco chiare che però sembrano irrigidire l’approccio verso i consumatori di sostanze psicotrope, compresa la marijuana.La legge irlandese richiede l’applicazione degli avvisi sulla salute entro due anni su tutti i prodotti alcolici venduti nel paese, birra compresa, la principale bevanda alcolica bevuta nel paese – ed elemento importantissimo dell’economia nazionale – e non è quindi indirizzata esclusivamente ai vini. Nel caso dell’Italia, il dibattito sulla scelta dell’Irlanda si è concentrato sul vino semplicemente perché il nostro paese ne produce ed esporta molto, più di altre bevande a base di alcol. Qualcosa di analogo si è verificato in Spagna e in Francia, altri paesi che producono ed esportano molto vino, con associazioni di categoria ed esponenti politici che hanno accusato il governo irlandese di «fare terrorismo» sul consumo di vino.Si è parlato di demonizzazione e di proibizionismo, nonostante l’Irlanda non abbia vietato in alcun modo il consumo di vino e delle altre bevande alcoliche. Come ha spiegato il governo irlandese, le etichette con gli avvisi sui pericoli per la salute hanno l’obiettivo di rendere i consumatori di alcol più consapevoli dei rischi in un contesto dove si beve molto, con numerose implicazioni sociali e per la salute pubblica. Bere alcol è una scelta come molte altre che spetta ai singoli, sulla base delle loro preferenze e dei loro gusti, e proprio per questo è importante sapere quali implicazioni può avere.AlcolL’etanolo (o alcol etilico, quello che comunemente chiamiamo “alcol”) è una sostanza prodotta attraverso la fermentazione degli zuccheri e degli amidi da parte dei lieviti. Nelle birre è di solito presente in concentrazioni inferiori al 10 per cento, mentre nei vini può raggiungere il 20 per cento, percentuali più alte riguardano soprattutto i liquori e i distillati, dove la parte alcolica della bevanda può arrivare al 70 per cento. A parità di porzione, gli effetti a breve termine di una birra sono naturalmente diversi da quelli di un distillato, semplicemente perché si assume una quantità inferiore di alcol, ma i rischi per la salute sono presenti in entrambi i casi perché non c’è una soglia entro la quale il consumo di alcol è definibile “sicuro”.Quando beviamo un bicchiere di vino, una birra o un cocktail, l’alcol contenuto nella bevanda viene assorbito molto rapidamente dallo stomaco e dall’intestino tenue: si distribuisce nell’organismo e il compito di smaltirlo spetta in particolare al fegato, che trasforma l’etanolo in acetaldeide e successivamente in acido acetico. È un’attività intensa e il fegato può smaltire solo una certa quantità di alcol in un certo periodo di tempo: una persona adulta di medio peso (intorno ai 70 chilogrammi) riesce a smaltire circa 8 grammi di alcol all’ora. In un bicchiere di vino di media gradazione ci sono circa 10-12 grammi di etanolo, di conseguenza il tempo per smaltirlo per quella persona è di poco più di un’ora. Se si bevono più bicchieri o bevande con una gradazione alcolica più alta, il tempo per smaltire l’etanolo aumenta molto.Il lavoro molto intenso per il fegato può portare a infiammazioni e a un ispessimento dei tessuti, con la formazione di lesioni e cicatrici (cirrosi) che riducono in generale la capacità del fegato di svolgere le proprie funzioni molto importanti per il metabolismo. Il consumo di alcol riduce l’attività del sistema immunitario e può avere effetti sul sistema cardiocircolatorio. L’alcol deprime alcune attività dei neuroni ed è tossico per il sistema nervoso centrale, con riduzione delle capacità cognitive e danni che possono diventare permanenti. L’alcol è inoltre un fattore causale di circa 200 tra malattie e tipologie di infortuni.– Leggi anche: Come mai bere alcol di giorno sembra dare un effetto diversoCancro e alcolL’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Ciò non significa che se si consuma alcol allora ci si ammala sicuramente di cancro: la classificazione serve per indicare una sostanza che se assunta può aumentare il rischio di ammalarsi di un determinato tipo di tumore durante l’intera propria vita. Allo stesso modo non consumare alcol non dà la certezza di non ammalarsi di un determinato tumore, ma è un comportamento che espone a un rischio diverso.Nel suo uso corretto, come quello della IARC, la parola “cancerogeno” indica qualcosa che causa un certo tipo di cancro, in sostanza: una sostanza è cancerogena o non lo è. La classificazione dello IARC, che prevede vari gruppi, non indica quali sostanze sono “più” o “meno” cancerogene, ma semplicemente esprime quanto si è sicuri che una sostanza sia davvero cancerogena. Per le sostanze nel “Gruppo 1”, quello dell’alcol, la certezza è ormai consolidata, per quelle comprese nel “Gruppo 2A” il livello di certezza è minore e così via. Man mano che si accumulano nuovi studi e conoscenze le cose possono cambiare, con lo spostamento di alcune sostanze da un gruppo all’altro (difficilmente quelle comprese nel “Gruppo 1” saranno riclassificate, considerato il livello di certezza sui loro effetti).Ogni agente cancerogeno agisce in modo diverso e ciò determina anche gli effetti sull’organismo. Nel “Gruppo 1” oltre all’alcol ci sono gli insaccati e il fumo, per esempio, il cui consumo ha effetti diversi ed è l’eventuale causa di particolari tipi di tumore.Il consumo di alcol può causare almeno sette diversi tipi di cancro, anche nel caso in cui se ne assumano quantità minime. Le aree più interessate sono: bocca e gola, laringe, esofago, colon-retto, fegato e seno (nelle donne). Gli effetti su altri organi non sono necessariamente legati al cancro, ma sono stati accertati rischi e danni a carico di: cervello, cuore, polmoni, stomaco, pancreas, colecisti, reni, vescica e apparato riproduttivo.I rischi derivanti dal consumo di più sostanze cancerogene si possono sommare, come nel caso del bere sostanze alcoliche e del fumo. È stato rilevato che le persone che bevono e fumano hanno un rischio più alto di sviluppare tipi di cancro come quelli al cavo orale, alla laringe e all’esofago, rispetto alle persone che o fumano o consumano alcol.Il famoso bicchiere di vino rosso al giornoCome segnalano studi e istituzioni scientifiche, compresa l’OMS, il mito secondo il quale “un bicchiere di vino rosso al giorno fa bene al cuore” non ha prove scientifiche convincenti. Le ricerche che lo hanno ipotizzato si sono basate per lo più su esperienze osservazionali (dove i gruppi di ricerca si limitano a osservare i fenomeni) senza tenere in considerazione condizioni di salute preesistenti.Anche nel caso in cui ci fossero benefici, questi non sarebbero comunque tali da superare i danni che causa il consumo di alcol. Il consenso nella letteratura scientifica è che qualsiasi quantità di alcol consumata fa aumentare i rischi per la salute. «Il dibattito sui possibili e cosiddetti “effetti protettivi” dell’alcol distoglie l’attenzione dal più grande contesto dei danni causati dall’alcol; per esempio, anche se è ormai chiaro che l’alcol può causare il cancro, questo fatto non è ancora ampiamente noto alle persone nella maggior parte dei paesi», dice l’OMS.Un mondo di alcolTra molti c’è la percezione che la maggior parte delle persone consumi alcol, ma in realtà si stima che il 57 per cento della popolazione mondiale non lo faccia. Questa maggioranza è quasi sempre sottorappresentata, sia a causa delle massicce campagne pubblicitarie che invitano a bere, sia per la presenza degli alcolici in numerosi prodotti culturali (serie tv, film, libri, fumetti, per citarne alcuni). C’è anche una certa pressione sociale nei confronti di chi non beve alcol o vorrebbe provare a smettere, che spesso viene trascurata e sottostimata.– Leggi anche: Beviamo da un pezzoL’idea che un consumo moderato di alcol comporti pochi rischi deriva spesso dalle leggi, per esempio quelle che impongono un limite massimo di alcol nel sangue per poter guidare, o dalle pubblicità dei produttori di bevande alcoliche che ricordano di “bere responsabilmente”. Segnali e messaggi di questo tipo non mettono in evidenza i rischi per la salute, e soprattutto la loro esistenza a prescindere dalla quantità di alcol consumato.La legge in Irlanda con le indicazioni su rischi e danni causati dall’alcol è un primo tentativo nella direzione indicata dalle istituzioni sanitarie per rendere più consapevoli i consumatori di bevande alcoliche, in modo da fornire più elementi sui rischi e la pericolosità di alcuni comportamenti. Una ricerca condotta nello Yukon, nel nord-ovest del Canada, ha rilevato che l’aggiunta delle etichette di avvertimento ha fatto ridurre le vendite dei prodotti alcolici del 7 per cento rispetto alle aree del paese dove non sono impiegati gli avvertimenti sulle confezioni. Sull’efficacia di questo approccio mancano comunque studi più ampi e strutturati, benché ci siano dati più attendibili sugli effetti positivi che ha comportato l’introduzione delle etichette sui prodotti del tabacco in molti paesi.Alcol e altre drogheProprio perché ogni sostanza agisce diversamente sul nostro organismo, e in modo ancora diverso da persona a persona (siamo fatti tutti diversamente e ci comportiamo in modo diverso), è molto difficile stabilire quali droghe abbiano possibili effetti negativi per la salute più di altre. Uno studio che viene spesso citato risale al 2007 e fu pubblicato sulla rivista medica The Lancet, quando un gruppo di ricerca provò a stimare gli effetti negativi sia in termini di dipendenza sia di danno fisico di numerose sostanze che solitamente chiamiamo “droghe”, alcol compreso. Dallo studio era emerso che alcuni anabolizzanti, cannabis, LSD ed ecstasy possono avere effetti negativi inferiori rispetto all’alcol.Una valutazione sulla pericolosità relativa delle droghe effettuata nell’Unione Europea nel 2015 segnalò che in generale la sostanza più dannosa è l’alcol con un punteggio di 72 su 100 nella scala di pericolosità. L’alcol era prima dell’eroina (55) e del crack (50). Le altre 17 sostanze considerate avevano ottenuto un punteggio pari o inferiore a 38, cioè quello assegnato alla cocaina. Il punteggio del tabacco era superiore a quello della cannabis, e ancora minori erano i punteggi dell’MDMA e dell’LSD. È bene comunque ricordare che più le sostanze sono diverse più è difficile metterle a confronto e valutare i relativi fattori di rischio.CostiCosì come si tende a pensare che ci siano più consumatori di alcol che persone che si astengono, c’è anche una percezione alquanto diffusa sul fatto che i danni causati dall’alcol siano dovuti a un gruppo minoritario di forti bevitori. In realtà gli effetti negativi principali dell’alcol (cancro, infortuni e violenza) sono distribuiti ampiamente nella popolazione, anche tra chi consuma dosi relativamente basse di alcolici, come spiega l’Istituto superiore di sanità:Anche se i forti consumatori di alcol sono indubbiamente ad alto rischio di danni alcol-correlati, contribuiscono solo in minima parte al totale delle vittime di alcol ma rappresentano comunque per l’industria il target di consumatori dai quali deriva gran parte del profitto. Di conseguenza, anche la riduzione dei consumatori a rischio e dannosi non è un obiettivo realisticamente supportato o supportabile da un approccio mirato a trarre il massimo profitto dalla commercializzazione del prodotto. In questo “paradosso della prevenzione”, la maggior parte dei danni correlati all’alcol si verifica tra i consumatori di alcol a rischio da basso a moderato semplicemente perché sono più numerosi nella popolazione.ItaliaSecondo l’ultimo rapporto sul consumo di alcol realizzato nel 2020 dall’ISTAT con dati riferiti all’anno precedente, il 66,8 per cento della popolazione maggiore di 11 anni ha consumato almeno una bevanda alcolica all’anno. La quantità di consumatori di alcolici abituali (almeno una porzione al giorno) è pari al 20,2 per cento, in riduzione rispetto a dieci anni prima quando era il 27 per cento. La quota di persone che consumano occasionalmente alcol è invece passata dal 41,5 per cento del 2009 al 46,6 per cento del 2019.È stato calcolato che in media ogni giorno in Europa muoiono 800 persone per cause riconducibili al consumo di alcol. In Italia ogni giorno muoiono in media 48 persone a causa dell’alcol, circa 17mila ogni anno.***Il Telefono Verde Alcol (TVAl) 800 632000 è un servizio nazionale di ascolto per il contrasto al consumo rischioso e dannoso di bevande alcoliche, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 16. Il servizio è anonimo e gratuito sotto la responsabilità del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità. LEGGI TUTTO

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    Quanto è comune una gravidanza naturale dopo una fecondazione in vitro

    Una ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Human Reproduction ha provato a valutare quanto siano comuni le gravidanze naturali tra le donne che in precedenza avevano avuto un figlio con tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) – in particolare in vitro (FIV) – rilevando una frequenza maggiore rispetto al previsto. Lo studio ha stimato che un concepimento per via naturale possa avvenire in un caso su cinque dopo avere avuto un bambino con la PMA, ma ci sono comunque numerosi fattori da tenere in considerazione e che potrebbero avere condizionato le conclusioni della ricerca.Il lavoro è stato svolto presso l’University College of London, nel Regno Unito, ed è una revisione sistematica e una meta-analisi di ricerche svolte in precedenza per valutare le gravidanze successive a quelle ottenute con la FIV e altre tecniche. Una meta-analisi può essere considerata “uno studio di studi”, nel senso che si occupa di mettere insieme le conoscenze in un determinato ambito maturate nel tempo con più ricerche e di tirare le somme su cosa si è scoperto, utilizzando dati e metodi statistici per renderli comparabili. Le meta-analisi sono considerate tra i tipi di ricerche più affidabili, specialmente in ambito medico, ma possono avere comunque difetti dovuti soprattutto alla difficoltà di mettere insieme dati eterogenei ottenuti nel tempo con metodologie e pratiche diverse.Il gruppo di ricerca ha identificato nella letteratura scientifica 1.108 studi sull’argomento e li ha poi scremati, in base ai dati che offrivano e alla possibilità di essere confrontati tra loro. Alla fine della selezione sono rimasti 11 studi realizzati in varie parti del mondo e che nel complesso avevano interessato 5.180 donne. Le ricerche erano di «qualità moderata» e avevano seguito la storia clinica delle partecipanti da 2 a 15 anni dopo la gravidanza ottenuta con tecniche di fecondazione in vitro. Confrontando i dati è stato poi possibile calcolare l’incidenza di una gravidanza naturale dopo avere avuto un figlio con PMA in una donna su cinque.Annette Thwaites, una delle autrici dello studio, ha detto: «Ciò che abbiamo scoperto suggerisce che una gravidanza naturale dopo avere avuto un figlio con la FIV non sia un evento così raro. Ciò è in contrasto con le opinioni ampiamente diffuse – da parte delle donne e degli operatori sanitari – e con quelle comunemente espresse nei media, secondo le quali si tratta di un evento altamente improbabile».Non tutte le partecipanti ai vari studi avevano scelto la PMA a causa di problemi di infertilità, ma per altri motivi come essere in una relazione con una persona del proprio stesso sesso o l’essere single. Nell’analisi sono stati presi in considerazione vari altri fattori come l’età delle partecipanti, il periodo di tempo intercorso tra la gravidanza con PMA e la successiva gravidanza naturale e altre variabili. Derivare un dato unico e valido per tutte le persone non è comunque possibile, proprio a causa della grande quantità di variabili, che comprendono anche come è fatta ciascuna persona.Le tecniche di fecondazione in vitro negli ultimi anni sono migliorate sensibilmente, portando al successo in circa la metà dei casi nelle donne al di sotto dei 35 anni: nel 1995 il tasso di successo medio era intorno al 22 per cento, mentre nel 2003 era del 33 per cento. Due degli studi utilizzati dalla meta-analisi comprendono dati su partecipanti che avevano fatto ricorso alla PMA quasi 30 anni fa, una differenza tenuta in considerazione dal gruppo di ricerca.Secondo Thwaites: «Sapere ciò che è possibile potrebbe dare alle donne il controllo dei loro progetti familiari e aiutarle a prendere decisioni più consapevoli su successivi trattamenti per la fertilità o per la contraccezione». Immaginando di avere problemi di fertilità è infatti probabile che alcune donne scelgano di non utilizzare mezzi di contraccezione, ritenendo improbabile se non impossibile una nuova gravidanza per via naturale dopo averne avuta una con la PMA. Se confermata, la maggiore incidenza segnalata dalla ricerca potrebbe indurre il personale medico a suggerire maggiori cautele alle pazienti a seconda delle loro aspettative.Il gruppo di ricerca ricorda che lo studio è un primo passo nell’analisi di un ambito molto ampio e ancora poco studiato in questi termini, ma che proprio per questo merita di essere approfondito considerata la diffusione delle tecniche per la procreazione medicalmente assistita. LEGGI TUTTO

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    Le creme solari, spalmate bene

    Questa estate nei Paesi Bassi la crema solare sarà offerta gratuitamente alla popolazione, attraverso distributori collocati nei parchi cittadini, nelle aree sportive, intorno agli ospedali e in diversi altri luoghi pubblici. Vari comuni si sono organizzati nell’ambito di un’iniziativa per sensibilizzare sull’importanza del proteggersi dai raggi dannosi del Sole, che possono causare numerosi problemi di salute a cominciare dai tumori della pelle. I Paesi Bassi negli ultimi anni hanno rilevato un sensibile aumento dei casi di tumore riconducibili all’esposizione solare, come del resto vari altri paesi in Europa.– Ascolta anche: La puntata speciale di “Ci vuole una scienza” sulle creme solariL’impiego delle creme solari è consigliato dai dermatologi non solo perché permette di evitare le scottature, ma anche perché il loro uso corretto consente di ridurre sensibilmente il rischio di sviluppare un tumore della pelle. Il problema è che in pochi fanno un “uso corretto” delle protezioni solari, applicandone la giusta quantità e ripetendo le applicazioni più volte nel corso della giornata, come indicato sulle confezioni e soprattutto nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e di diverse altre istituzioni sanitarie.PelleLa pelle è la barriera più importante di protezione tra il nostro organismo e ciò che abbiamo intorno. Per tutta la vita è sottoposta a sollecitazioni fisiche e chimiche, compresa l’esposizione ai raggi solari che ne possono cambiare le caratteristiche, per esempio facendola disidratare e arrossare. Una eccessiva e prolungata esposizione ai raggi ultravioletti (UV), emessi dal Sole e che non vediamo a occhio nudo, è tra i fattori di rischio più importanti nell’insorgenza del melanoma e di altri tumori della pelle.UVA e UVBIn generale, la crema solare serve a ridurre la quantità di raggi ultravioletti che arrivano sulla nostra pelle. Gli UVB sono filtrati in buona parte dallo strato di ozono atmosferico, ma la quantità che arriva al suolo è comunque sufficiente per crearci qualche problema. Sono i principali responsabili delle scottature e anche per questo motivo sono quelli su cui ci si era concentrati più a lungo in passato, mentre emergevano ricerche e dati più chiari sugli effetti di un altro tipo di raggi ultravioletti: gli UVA.A differenza degli UVB, gli UVA hanno la capacità di penetrare in profondità nella pelle, stimolando la produzione di radicali liberi, atomi o molecole estremamente reattive che interagiscono con ciò che incontrano creando spesso danni. Possono per esempio deteriorare il collagene, una sostanza molto importante per la pelle, e accelerandone l’invecchiamento, oppure possono aumentare il rischio di tumore.Gli UVB sono di solito schermati dal vetro, per esempio dal parabrezza di un’automobile, mentre gli UVA no. Le creme solari moderne proteggono sia dagli UVA sia dagli UVB, ma è sempre opportuno controllare l’etichetta per accertarsi della protezione.AbbronzaturaLa pelle si scurisce al Sole come meccanismo di difesa per contrastare i raggi ultravioletti. Quando ci esponiamo alla luce solare si attivano i melanociti, cellule specializzate che producono melanina, una sostanza che si trova in vari tessuti del nostro organismo compresa la pelle.L’attivazione avviene sempre, anche in pieno inverno, ma la produzione di melanina aumenta quando ci si espone per lunghi periodi al Sole. È in questa circostanza che la pelle si scurisce e diventa abbronzata, ma la sua colorazione non è in alcun modo l’indicazione di essere “più in salute”: semplicemente, è il segno che l’organismo si è attivato per provare a proteggerci dai raggi solari. La capacità di protezione è però molto limitata e deriva da come si è fatti, cioè dal proprio fototipo.FototipoIl principale riferimento per determinare il fototipo fu elaborato a metà degli anni Settanta da Thomas B. Fitzpatrick della Harvard School of Medicine negli Stati Uniti. Formulò uno schema di classificazione per il colore della pelle umana in base alla risposta di diverse persone agli UV. Il sistema fu poi modificato e integrato una decina di anno dopo e raggruppa le persone in sei categorie: dal fototipo I in cui sono comprese le persone che si scottano e non si abbronzano, solitamente con capelli e occhi chiari, al fototipo VI in cui sono comprese le persone che non subiscono scottature e hanno la pelle più scura.IngredientiNell’Unione Europea le creme solari sono molto normate, pur essendo comprese nel grande gruppo dei cosmetici (che hanno regole diverse dai farmaci, per esempio). I filtri solari, cioè le molecole che hanno il compito di assorbire/riflettere gli UV, autorizzati per il commercio sono 28: ogni crema solare ha un componente di assorbimento e uno di riflessione, con proporzioni che variano a seconda dei prodotti e delle esigenze. Tra i componenti più diffusi c’è il biossido di titanio, che arriva a costituire un quarto del contenuto della crema solare, cui si aggiungono poi gli altri filtri: nel complesso le creme sono quindi molto concentrate, anche quando non è segnalato in etichetta (“concentrato” è uno di quei termini usati molto dal marketing).Fattore di protezione solare – SPFIl numero indicato sulle confezioni delle creme solari indica la capacità di proteggere la pelle dal Sole. Viene determinato sperimentalmente con test che vengono effettuati su una ventina di volontari, la cui schiena viene esposta a una lampada che emette raggi ultravioletti imitando quelli solari. Una parte della schiena rimane senza protezione mentre l’altra viene coperta dalla crema solare.La lampada è tarata per produrre una quantità di UV che porti a un eritema sulla pelle non protetta di ogni soggetto, poi si passa all’area con la crema solare aumentando via via la dose di raggi UV. Trascorse alcune ore, si valutano le differenze tra le varie aree e si calcola il rapporto fra la dose minima di UV necessaria per produrre un eritema sulla pelle protetta dalla crema e per la pelle senza protezione. Da questo calcolo deriva infine l’SPF, il numero che viene indicato sulle confezioni.(Getty Images)Per esempio: se serve una dose di UV cinquanta volte maggiore per far sviluppare l’eritema sulla pelle protetta dalla crema rispetto a quella non protetta, significa che la crema ha un SPF uguale a 50.La procedura viene effettuata per gli UVB, mentre per gli UVA il sistema è più complesso e rende necessario l’impiego di altri test. La sigla UVA-PF seguita da un numero indica il fattore di protezione per questi raggi ultravioletti, ma di solito sulle confezioni viene solo indicata la presenza della protezione UVB. I produttori possono metterlo sulle creme solo se l’UVA-PF nella crema è almeno un terzo dell’SPF, altrimenti non possono indicare nulla nell’etichetta.Quanto proteggono le creme solariUn SPF 10 lascia passare 1/10 degli UVB, di conseguenza ne ferma il 90 per cento, un SPF 20 lascia passare 1/20, quindi ne ferma il 95 per cento e così via. Questi sono i valori che si trovano solitamente sulle confezioni e la relativa percentuale di efficacia nel bloccare i raggi solari:SPF 10: 1/10 → 90%SPF 20: 1/20 → 95%SPF 30: 1/30 → 97%SPF 50: 1/50 → 98%SPF 100: 1/100 → 99%.Una protezione “totale” non esiste e nel caso dell’Unione Europea ai produttori viene consigliato di non usare numeri oltre l’indicazione “50+”, proprio per non indurre a pensare che con il numero di SPF più alto si abbia una protezione totale. In più occasioni si è anche discusso di eliminare l’indicazione numerica e di lasciarne una più generica che indichi protezione bassa, media, alta e molto alta, ma ci sono interessi (soprattutto commerciali) a mantenere l’indicazione numerica.Quanta crema solare si deve mettereIl numero di SPF dà la protezione corrispondente solo se la crema solare viene usata nel modo corretto, applicandone la giusta quantità e cioè 2 milligrammi ogni centimetro quadrato di pelle: utilizzandone meno si riduce notevolmente l’effetto protettivo. Servono più o meno 30 grammi di crema per tutto il corpo, circa un sesto di una normale confezione. Non è necessario essere precisi al decimo di grammo e per questo dermatologi e dermatologhe consigliano di abituarsi a usare l’equivalente della capacità di un cucchiaino di caffè (3 grammi) per viso e collo, altrettanto per ogni braccio e un cucchiaio da minestra (6 grammi) rispettivamente per ciascuna gamba, per la schiena, per il petto e per l’addome.Mettere metà della crema necessaria non fa semplicemente dimezzare il numero di SPF come credono in molti: la riduzione è pari alla radice quadrata del fattore di protezione di partenza. Un SPF 30 diventa quindi poco più di 5.(Olaf Kraak/Getty Images)Quando si mette la crema solareLa crema solare va applicata prima di esporsi al Sole, quindi è consigliabile spalmarsela prima di uscire all’aperto, per esempio per andare in spiaggia o in generale a fare una passeggiata. Ripetere l’applicazione periodicamente non serve solamente a ridurre il rischio di lasciare aree della pelle non protette, ma anche a ripristinare lo strato di crema che col passare delle ore tende a ridursi e rimuoversi.Ciò che dà protezione è infatti lo strato di crema solare stesso: funziona fino a quando è presente. Soprattutto d’estate, la sudorazione è una delle principali cause della sua rapida riduzione, così come qualsiasi altra azione meccanica sulla pelle, come infilarsi e sfilarsi degli abiti. Alcuni produttori indicano ancora sulle confezioni la capacità della crema di resistere all’acqua, ma dimostrarlo non è sempre semplice e per questo è consigliabile riapplicare la crema solare dopo un bagno. Anche l’azione dei granelli di sabbia può portare via parzialmente la protezione, comunque.E i vestiti?Esistono molti tessuti diversi tra loro e di conseguenza alcuni filtrano meglio di altri i raggi UV. Il denim dei jeans, per esempio, ha una buona capacità di bloccare i raggi ultravioletti, mentre tessuti più leggeri come il cotone delle magliette non fanno molto. Da qualche tempo si trovano comunque costumi da bagno, abiti da trekking e altri indumenti realizzati con tessuti tecnici con un alto fattore di protezione, solitamente indicato nell’etichetta. Questi prodotti devono essere lavati con attenzione e utilizzando detersivi specifici per ridurre l’usura dello strato che protegge dai raggi solari.Livello di abbronzaturaC’è la convinzione piuttosto diffusa che usando la crema solare “ci si abbronza di meno”. In realtà usando le creme solari ci si abbronza più lentamente, perché come abbiamo visto l’abbronzatura è un meccanismo di difesa della pelle: i filtri solari fanno parte di quel lavoro di protezione. Alla fine ci si abbronza ugualmente perché come abbiamo visto le creme solari non riescono a proteggere totalmente.Il livello di abbronzatura è comunque commisurato al proprio fototipo e in generale a come si è fatti. Arrivati al massimo possibile, non ci si abbronza ulteriormente. Non usare o usare poca crema solare mette sotto forte stress la pelle e può essere molto rischioso per la salute. LEGGI TUTTO

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    Gli Stati Uniti non lasciano in pace i limuli

    Negli Stati Uniti continuano a essere estratte grandi quantità di sangue blu dai limuli per effettuare test di sicurezza sui prodotti farmaceutici, nonostante sia disponibile ormai da tempo un’alternativa sintetica impiegata soprattutto in Europa. L’alta domanda del sangue dei limuli – che sono imparentati più con scorpioni, zecche e ragni che con i granchi – ha un forte impatto sulla popolazione di questi animali e sugli ecosistemi marini, anche perché la loro pesca non è sempre regolamentata a sufficienza.L’utilità del sangue dei granchi in ambito farmaceutico fu scoperta nella seconda metà degli anni Cinquanta dal ricercatore statunitense Frederik B. Bang, che spiegò come la sostanza fosse utile per immobilizzare i batteri, senza ucciderli. Nel sangue del limulo c’è infatti un composto chimico che rende possibile l’identificazione dei batteri: la sostanza si aggrega intorno a loro e crea una sorta di barriera, evitando che si formi una colonia batterica più grande. Per questo il composto viene solitamente indicato come “coagulogen” e negli anni è diventato sempre più importante per le aziende farmaceutiche, perché rende possibile l’identificazione di contaminazioni batteriche nelle sostanze che dovranno entrare in contatto con il nostro organismo, come per esempio un vaccino. Se nella soluzione da testare si forma un coaugulo dopo avere inserito il coagulogen, significa che questa è contaminata e che deve essere scartata.Gli Stati Uniti sono tradizionalmente tra i principali produttori di sangue blu, anche perché per molto tempo i limuli abbondavano lungo la costa orientale del paese, quella che dà sull’oceano Atlantico. Gli animali vengono raccolti a mano dalle spiagge, oppure pescati dai fondali utilizzando le reti. Dopo essere stati ammassati a centinaia, vengono trasportati agli impianti che si occupano di effettuare il prelievo del loro sangue. In ogni limulo viene inserito un lungo ago fino al suo cuore e viene avviata l’estrazione, con gli animali ancora vivi. La procedura porta a estrarre circa la metà del sangue in circolazione in ogni limulo.Al termine dell’estrazione, gli animali vengono restituiti ai pescatori, che hanno il compito di metterli nuovamente in mare. In altri casi, i limuli vengono venduti per essere uccisi e utilizzati come esche. Il tutto avviene nel contesto di una grande area grigia, perché molte regole adottate per tutelare gli animali in altri processi industriali non si applicano strettamente ai limuli. Vengono pescati, ma non per essere mangiati; sono impiegati per il settore farmaceutico, ma non negli iper regolamentati test clinici; sono sì animali, ma non a sangue caldo, di conseguenza non sono soggetti a molte leggi per la tutela dell’impiego degli animali in ambito sanitario.(Insider Business via YouTube)Secondo i dati raccolti da NPR, la radio pubblica statunitense, solo nel 2021 cinque aziende sulla costa orientale hanno estratto sangue blu da oltre 700mila limuli, il dato più alto registrato dal 2004 quando si è iniziato a tenere traccia delle attività intorno a questo animali. Si stima che il sangue estratto venga impiegato in media in 80 milioni di test effettuati in giro per il mondo. Il settore ha dunque continuato a espandersi, ma non è stato regolamentato e soprattutto non sono state introdotte iniziative per usare il metodo alternativo, che si ottiene attraverso processi di clonazione e senza disturbare i limuli.Un primo test alternativo fu reso disponibile nel 2003, ma la sua adozione era progredita molto a rilento anche in attesa di ricerche sulla sua affidabilità. Nel 2020 l’azienda farmaceutica statunitense Eli Lilly fu tra le prime ad adottarlo, in concomitanza con la pandemia da coronavirus e la necessità di verificare la sicurezza dei propri prodotti a base di anticorpi. La società dovette però richiedere una particolare autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale che tra le altre cose si occupa di farmaci, perché il test non era e non è ancora presente nella Farmacopea degli Stati Uniti, il codice farmaceutico contenente regole comuni per la qualità delle medicine.In Europa le cose erano andate diversamente perché già nell’estate del 2020 la Farmacopea europea aveva autorizzato e aggiunto il nuovo test, definendolo utile per avere un’alternativa e soprattutto per ridurre l’impatto sui limuli del prelievo di sangue blu, e in generale sugli ecosistemi marini. Un comitato di esperti dell’organizzazione omologa statunitense decise invece di non cambiare le cose, sostenendo che fossero necessari ulteriori approfondimenti. Due anni dopo il comitato fu sciolto, ma i membri di quello successivo non cambiarono orientamento e ancora oggi non ci sono notizie su una revisione delle regole per riconoscere in maniera più ampia e diffusa la sostanza alternativa al sangue blu dei limuli.Le aziende farmaceutiche hanno comunque margini per cambiare i metodi con cui svolgono i loro test, con le adeguate autorizzazioni come avvenuto nel 2020 con Eli Lilly. La grande azienda farmaceutica Roche ha iniziato a utilizzare la versione alternativa in alcuni processi di produzione e ha detto di volere estendere i test in altri ambiti, in modo da ridurre la dipendenza dal sangue blu. Molte altre società del settore preferiscono invece proseguire con il vecchio metodo, come dimostrato anche dall’aumento dei limuli coinvolti nei prelievi degli ultimi anni.A differenza del nostro, il loro sangue non è rosso ma quasi trasparente e assume una colorazione azzurro-blu appena entra in contatto con l’aria. Il fenomeno è dovuto all’ossidazione del rame presente nel loro sangue (nel nostro c’è il ferro, da qui il colore diverso). Dopo il prelievo vengono effettuati alcuni trattamenti per estrarre il coagulogen vero e proprio, che sarà poi utilizzato per i test. Non è chiaro quanto sia traumatico il prelievo per questi animali, che sembrano comunque riprendersi del tutto a pochi giorni di distanza dalla procedura. Alcune ricerche hanno indicato però che i prelievi rendono meno reattivi i limuli con evidenti conseguenze sulle loro capacità di riprodursi.Il sistema circolatorio dei limuli ricorda molto quello dei ragni ed è quindi diverso dal nostro. I limuli hanno ampie cavità che mettono direttamente in contatto il sangue con i tessuti, varchi ideali per i batteri che si trovano nella sabbia e che sono alla ricerca di un ospite da colonizzare. Il coagulogen evita che questo possa avvenire, incapsulando immediatamente i batteri formando il coagulo. Questa condizione ha permesso ai granchi di crescere in ambienti ricchi di batteri senza particolari problemi e di esistere da circa mezzo miliardo di anni.(AP Photo/Kathy Willens)Ora le loro popolazioni lungo la costa orientale degli Stati Uniti rischiano di ridursi sensibilmente, a quanto sembra non tanto per la pratica in sé dei prelievi, ma per il modo in cui i limuli vengono catturati sulle spiagge o rigettati in mare. Secondo documenti e registrazioni raccolte da NPR che riguardano le aziende che se ne occupano, gli operatori prendono i limuli soprattutto dalla coda, perché è più pratico e rapido, ma è sconsigliato perché può causare danni. Se si feriscono alla coda, questi animali sono più a rischio di non riuscire a girarsi, nel caso in cui si ribaltino trovandosi con le zampe all’aria. Il ribaltamento è una circostanza che si può verificare soprattutto quando le femmine si spostano dal fondale per deporre le loro uova.Maneggiarli in modo scorretto fa quindi aumentare il rischio che i limuli si riproducano di meno, peggiorando ulteriormente la situazione. I regolamenti su come trattarli sono decisi a livello statale, di conseguenza cambiano molto a seconda dei luoghi di raccolta così come cambiano le eventuali sanzioni nei confronti di chi non li rispetta.La minore disponibilità di limuli ha inoltre effetti sulle popolazioni di altri animali, come il piovanello maggiore (Calidris canutus, un uccello migratore diffuso in molte aree del mondo, ma che negli Stati Uniti è stato indicato come specie minacciata). Circa il 94 per cento di questi uccelli è scomparso negli ultimi 40 anni, in parte anche a causa della mancanza di quantità sufficienti di uova dei limuli, una importante fonte di energia per le loro migrazioni verso l’Artico.In una fase storica in cui si parla molto di sostenibilità e di impatto ambientale delle attività industriali, secondo i naturalisti sarebbe opportuno stimolare il dibattito anche intorno ai limuli e alle conseguenze del prelievo del loro sangue blu. L’alternativa altrettanto efficace per i test dovrebbe essere promossa soprattutto dalle istituzioni, in modo da indurre un cambiamento in un settore essenziale legato alla salute di tutti. LEGGI TUTTO

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    Come mai bere alcol di giorno sembra dare un effetto diverso

    Con l’inizio della stagione calda aumentano le probabilità di bere bevande alcoliche nelle ore centrali della giornata, tra un aperitivo anticipato e una birra per rinfrescarsi a pranzo o a metà pomeriggio. Chi lo fa segnala spesso di avere una sensazione diversa da quella del consumo di alcolici la sera, come se bere nelle ore diurne sortisse maggiori effetti e lasciasse più inebriati, se non proprio brilli. Non ci sono molte ricerche scientifiche per confermare o smentire questa impressione, ma ci sono comunque alcuni indizi che riguardano sia le nostre abitudini quando beviamo sia il modo in cui smaltiamo l’alcol, comunque dannoso per il nostro organismo.Che cosa ci fa l’alcolIn generale, l’ubriachezza deriva dall’effetto tossico dell’alcol (etanolo), per questo si parla spesso di “intossicazione da alcol” o “avvelenamento da alcol” per i casi gravi, nei quali la concentrazione di questa sostanza nel sangue diventa molto alta. Quando beviamo un bicchiere di vino, un cocktail o una birra, l’alcol contenuto nella bevanda viene rapidamente assorbito dallo stomaco e in seguito dall’intestino tenue, finendo con il distribuirsi nell’organismo. Il compito di smaltirlo spetta soprattutto al fegato che trasforma l’etanolo in acetaldeide e successivamente in acido acetico.È un lavoro molto intenso e il fegato riesce a smaltirne solo una certa quantità in un intervallo di tempo, pari a circa 8 grammi all’ora per una persona adulta di medio peso (intorno ai 70 chilogrammi). In un bicchiere di vino di media gradazione – quindi 12° – ci sono circa 10-12 grammi di etanolo, di conseguenza il tempo per smaltirlo nel nostro esempio è di poco più di un’ora, ma se si bevono più bicchieri o bevande con una gradazione alcolica più alta il tempo per smaltire l’etanolo aumenta molto.Oltre a far lavorare di più il fegato, circostanza che se si ripete spesso può portare a infiammazioni e malattie dell’organo come la cirrosi, l’alcol in generale fa aumentare il rischio di cancro. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti e solidi per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Nel medesimo gruppo ci sono anche l’amianto, il fumo e gli insaccati, per esempio.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” su vino e rischio tumoriIl senso di ebbrezza che si ha dopo una bevuta dipende soprattutto dagli effetti dell’alcol sul sistema nervoso centrale. La sua presenza comporta una depressione di alcune attività dei neuroni e ha un effetto rilassante e ansiolitico, accompagnato da una disinibizione del comportamento. Ci sono effetti a carico del sistema cardiocircolatorio, con un aumento del flusso sanguigno, una maggiore perdita di calore (si ha l’impressione di avere più caldo, ma in realtà la termoregolazione diventa meno efficiente, quindi d’inverno una grappa non “scalda”) e una maggiore attività cardiaca, a volte accompagnata da aritmie e pressione sanguigna più alta. Nel caso dei bevitori cronici, tutti questi effetti possono avere gravi conseguenze a lungo termine, determinando un forte peggioramento della salute.Cibo e alcolCome abbiamo visto, l’assorbimento dell’alcol avviene in particolare a livello dello stomaco. Se beviamo qualcosa di alcolico a stomaco vuoto, il senso di ebbrezza potrà arrivare prima perché il passaggio dell’etanolo attraverso le pareti dello stomaco e dell’intestino tenue sarà pressoché immediato. Le cose di solito cambiano nel caso in cui si abbia lo stomaco pieno: l’assorbimento dell’alcol avverrà comunque, ma richiederà più tempo perché questo viene diluito nel cibo che è stato ingerito e ridotto in poltiglia con la masticazione. L’ebbrezza arriverà più gradualmente e se ne noteranno meno gli effetti, almeno all’inizio e a seconda di cosa e quanto si sta bevendo.Molto dipende anche dal cibo ingerito: alcuni alimenti come i carboidrati facilitano questo rallentamento rispetto ad altri. L’effetto è inoltre altamente soggettivo, perché siamo fatti tutti diversamente e ci sono componenti congenite e legate alle abitudini che determinano quanto ciascuno di noi regge il consumo di alcol (che dà comunque assuefazione).Sera e giornoDi sera è più probabile che si beva a stomaco pieno, per esempio perché si sta cenando o si è da poco finito di mangiare. In questo caso il senso di ebbrezza si manifesta più lentamente e ci si sente di avere più controllo di sé di quanto avviene per una birra bevuta in giornata a varie ore di distanza dall’ultimo pasto.L’effetto arriva prima e tendiamo a notarlo di più perché di solito di giorno dobbiamo svolgere più attività che richiedono concentrazione, rispetto a quanto avviene quando si esce a bere nelle ore serali e notturne dove il principale obiettivo è trovare la via da percorrere a piedi per tornare a casa o un taxi (mettersi alla guida dopo avere bevuto è rischioso per sé e per gli altri, oltre a essere vietato sopra una certa concentrazione di alcol nel sangue).Inoltre di giorno nella stagione calda si suda e ci si disidrata velocemente. Sopra un certo livello di disidratazione, l’effetto dell’intossicazione da alcol è più forte e ha maggiori conseguenze sul sistema nervoso centrale. È anche per questo motivo che dopo avere bevuto qualche bicchiere quando fa caldo il senso di ebbrezza è maggiore ed è spesso accompagnato da sensazioni poco gradevoli, come stordimento, capogiri e una generale sensazione di affaticamento. La minore quantità di acqua fa sì che siano in circolazione pochi minerali con ulteriori conseguenze sulle normali funzioni dell’organismo. L’alcol ha un effetto diuretico che porta a perdere ancora più velocemente i fluidi.Al di là di queste variabili, non ci sono molti elementi scientifici per sostenere che il nostro organismo gestisca diversamente l’alcol tra il giorno e la notte. Se dopo avere bevuto qualche bicchiere di giorno si iniziano ad avere i segni tipici del dopo sbornia (hangover), come mal di testa e di stomaco che di solito emergono il mattino dopo la bevuta, è semplicemente perché si è iniziato a bere prima del solito e l’organismo ha già smaltito una parte dell’alcol con tutte le conseguenze del caso.Quando si beve molto la sera, il successivo senso di malessere viene in parte stemperato dal fatto di andare a dormire. Il distaccamento dalla coscienza e dalla volontà dura svariate ore nelle quali l’organismo continua a smaltire l’alcol senza che ce ne rendiamo conto, ma al risveglio faremo comunque i conti con le conseguenze della disidratazione e dello scarso riposo. Interferendo con le attività del sistema nervoso centrale, l’alcol modifica le fasi del sonno, causa una maggiore quantità di microrisvegli e rende più difficile il recupero che ci consente al mattino di non sentire più la stanchezza.Tra l’ultimo bicchiere e il momento in cui si va a dormire viene di solito consigliato di attendere tra le tre e le quattro ore, ricordandosi di bere molta acqua nel frattempo o di fare un pasto. Il consiglio di bere acqua vale anche nel corso della giornata, evitando di provare a togliersi la sete con le bevande alcoliche.***Il Telefono Verde Alcol (TVAl) 800 632000 è un servizio nazionale di ascolto per il contrasto al consumo rischioso e dannoso di bevande alcoliche, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 16. Il servizio è anonimo e gratuito sotto la responsabilità del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità. LEGGI TUTTO

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    Non riuscire a capire i colori

    Una ciliegia rossa. Per la maggior parte delle persone sono sufficienti poche parole per immaginare un frutto con una particolare forma e soprattutto con un colore specifico, quello che del resto associamo nel nostro immaginario alle ciliegie mature al punto giusto. Eppure ci sono persone che a causa dei loro problemi di visione non sanno che cosa sia il rosso, o qualsiasi altro colore. Hanno una rara condizione che si chiama “agnosia per il colore” e non riguarda problemi di percezione o il daltonismo, ma è piuttosto una incapacità di capire il colore.Studiare queste persone è importante non solo per provare ad alleviare i loro problemi, ma anche per capire meglio come funziona il nostro cervello, come distingue i colori e come organizza le informazioni che derivano dalla loro presenza per dare un senso a ciò che abbiamo intorno.L’agnosia per il colore è nota da tempo, ma ha ricevuto particolari attenzioni negli ultimi vent’anni soprattutto grazie a un paziente chiamato MAH dai ricercatori per tutelarne la privacy. È una delle pochissime persone che a quanto pare ha ereditato questo condizione, invece di svilupparla in seguito a un evento traumatico come un ictus. Solitamente sono infatti episodi di questo tipo a danneggiare le aree del cervello deputate alla visione, che smettono di funzionare come dovrebbero, mentre è estremamente raro che l’agnosia per il colore sia trasmessa per linea familiare.La storia di MAH è particolare. Aveva una quarantina di anni quando ebbe un ictus, che non gli lasciò particolari conseguenze. Aderì a un programma di riabilitazione e fu in quell’occasione che i neurologi che lo seguivano notarono qualcosa di strano quando si trattava di sottoporlo ai test che riguardavano i colori. Era restio a svolgere prove sul riconoscimento di un colore dall’altro e si sbagliava spesso. Inizialmente i medici avevano pensato che quelle stranezze fossero dovute all’ictus: MAH però aveva poi confidato di avere da sempre problemi con i colori.MAH riusciva a vederli normalmente tutti, non era daltonico quindi, e riusciva a svolgere vari test, come quelli in cui si devono raggruppare oggetti dello stesso colore. Se però gli veniva chiesto di ordinare in una certa sequenza degli oggetti colorati, non riusciva a superare il test. Non era in grado di associare il concetto di rosso a un oggetto rosso e nemmeno di immaginare il colore di oggetti a lui familiari, come quello della sua automobile. Se gli veniva mostrato il disegno di un frutto di un colore diverso da quello che avrebbe dovuto avere non notava nulla di strano.Gli esiti dei test avevano lasciato perplessi i medici: la spiegazione più logica era che MAH avesse subìto un danno cerebrale, ma dagli esami non erano emersi elementi per ritenerlo. Lo stesso MAH, oltre a confermare di avere avuto sempre quella condizione, aveva spiegato che anche sua madre soffriva di agnosia per il colore, e così anche la sua figlia più grande. Era il primo caso osservato di agnosia per il colore di tipo familiare, o “dello sviluppo” come sarebbe stata in seguito definita dai gruppi di ricerca.Come racconta all’Atlantic, il neuroscienziato J. Peter Burbach ha trascorso gli ultimi anni alla ricerca di altre persone con la medesima condizione, cercando di distinguerle da quelle che hanno invece sviluppato l’agnosia per il colore in seguito a un evento traumatico. Burbach dice che finora è stato «un compito pressoché impossibile». È impensabile che la famiglia di MAH sia l’unica, ma trovare altre persone non è semplice perché chi è nato con quella condizione vive una normalità diversa e non è detto che ne abbia consapevolezza. Anche per questo motivo è difficile fare una diagnosi, che avviene solo nel caso in cui un medico insista mentre sta conducendo la visita per altri problemi neurologici più evidenti.L’agnosia per il colore non deve essere confusa con l’acromatopsia cerebrale, altra condizione che porta chi ne soffre a vedere il mondo sostanzialmente in tonalità di grigio a causa dell’incapacità del cervello di elaborare correttamente i colori. Non dipende insomma da parti del sistema visivo come occhi e nervo ottico, che inviano correttamente i segnali sulla presenza del colore al cervello.Le condizioni neurologiche intorno ai colori sono del resto numerose e non sempre semplici da distinguere e diagnosticare. Un altro tipo di disturbo impedisce per esempio alle persone di dare un nome al colore che vedono, ma non gli impedisce di indicarne uno richiesto tra una serie di opzioni disponibili.Marlene Behrmann, una ricercatrice che si occupa di visione all’Università di Pittsburgh (Stati Uniti) ha detto sempre all’Atlantic che le persone con agnosia per il colore riescono a percepire il rosso o il verde, per esempio, ma «hanno in un certo senso perso il concetto stesso di colore». Non riescono a costruire e mantenere nella loro mente l’idea di un determinato colore e per questo non trovano particolarmente strano il disegno di una ciliegia viola.Trovare altre persone con una forma di agnosia per il colore come quella di MAH potrebbe aiutare i gruppi di ricerca a portare avanti le conoscenze sulla visione in generale, un meccanismo altamente complesso. Il confronto tra queste persone e il resto della popolazione vedente potrebbe inoltre offrire spunti importanti per comprendere in generale come vediamo e interpretiamo le cose che abbiamo intorno.Un maggior numero di persone con la forma di agnosia per il colore che ha MAH consentirebbe inoltre di effettuare studi genetici alla ricerca delle mutazioni che lo determinano. Il gene o i geni interessati potrebbero influenzare altri meccanismi legati allo sviluppo cerebrale, tali da offrire nuove opportunità di studio. La ricerca non è semplice, ma i ricercatori confidano che facendo conoscere più diffusamente questa condizione alcune persone interessate si sentano incentivate a mettersi in contatto con loro. LEGGI TUTTO