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    È morto l’uomo statunitense a cui a marzo era stato trapiantato un rene da un suino geneticamente modificato

    È morto negli Stati Uniti Richard Slayman, l’uomo a cui lo scorso 16 marzo era stato trapiantato con successo un rene da un maiale geneticamente modificato. L’intervento era stato svolto al Massachusetts General Hospital di Boston con una tecnica che un giorno potrebbe consentire a centinaia di migliaia di persone con gravi malattie renali di migliorare le loro condizioni di salute: in un comunicato, lo staff dell’ospedale ha fatto sapere di essere «profondamente rattristato» dalla notizia della sua morte, precisando che «non ci sono elementi» per ritenere che sia legata al trapianto.Slayman aveva 62 anni, era afroamericano e soffriva da tempo di diabete e ipertensione, due condizioni che avevano contribuito al peggioramento dei suoi reni fino alla perdita di funzionalità. Era stata la prima persona a subire un intervento di questo tipo (uno simile era stato svolto in un ospedale di New York nel 2021, ma in quel caso il rene proveniente da un maiale geneticamente modificato era stato impiantato in un uomo cerebralmente morto). Secondo i medici che lo avevano seguito, dopo l’operazione Slayman camminava da solo e stava relativamente bene.
    I trapianti di organi provenienti da altre specie da impiantare negli esseri umani sono definiti xenotrapianti. È un approccio ritenuto promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori di organi umani per effettuare i trapianti. Per dare l’idea, negli Stati Uniti le persone che hanno una malattia renale cronica terminale sono circa 800mila e quelle in lista d’attesa per il trapianto di un rene 90mila.

    – Leggi anche: Il trapianto di Richard Slayman LEGGI TUTTO

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    Inseparabili nella vita, letteralmente

    Caricamento playerQuando nacquero il 18 settembre del 1961 a West Reading in Pennsylvania (Stati Uniti), il loro medico disse che non sarebbero vissuti più di un anno. Lori e George Schappell vissero invece 62 anni, diventando una delle coppie di gemelli congiunti più longeve mai registrate. Dopo avere trascorso una vita costantemente insieme i gemelli Schappell sono morti il 7 aprile scorso in un ospedale di Philadelphia. Alternando periodi di grande riservatezza ad altri di presenza sui media, contribuirono a modo loro a far sviluppare una maggiore consapevolezza su alcune forme di disabilità e a ridurre certi casi di emarginazione.
    Il fenomeno dei gemelli che durante lo sviluppo nell’utero rimangono collegati tra loro è estremamente raro e ha un’incidenza di un caso ogni 200mila nascite (le stime variano molto anche a seconda delle aree geografiche). Circa la metà dei gemelli congiunti non sopravvive alla nascita e il restante 30 per cento muore solitamente entro le prime 24 ore, a causa di diverse complicanze. Per chi sopravvive, l’aspettativa di vita è generalmente bassa a causa delle difficoltà che insorgono nella fase dello sviluppo. Sulla durata della vita incide spesso il punto in cui un gemello è collegato all’altro: torace, addome o cranio, come nel caso degli Schappell.
    I gemelli congiunti vengono spesso chiamati “gemelli siamesi” dal caso di Chang ed Eng Bunker, due fratelli originari del Siam (il territorio che oggi chiamiamo Thailandia) che nell’Ottocento girarono il mondo diventando un’attrazione e una curiosità per chi li andava a vedere. Ebbero un notevole successo ed essendo originari del Siam divennero conosciuti come i “gemelli siamesi”, modo di dire che si applicò poi in generale a tutte le persone con la loro condizione. Oggi si tende a preferire definizioni più neutre e senza una connotazione geografica, anche perché in ambito medico la classificazione dei tipi più comuni di gemelli congiunti utilizza una nomenclatura specifica.
    Lori e George Schappell appartenevano al tipo Craniopagus: i loro teschi erano fusi insieme, mentre il resto dei loro corpi era separato. Dopo che erano sopravvissuti al primo anno di vita, il loro medico cambiò previsione e disse che non sarebbero arrivati a compiere due anni, come raccontò Lori Schappell in un’intervista nel 2002: «Disse che non avremmo vissuto oltre i due anni o che non avremmo superato i tre. Ogni anno aveva torto. Se solo ci potesse vedere oggi».
    I loro genitori avevano altri sei figli e decisero di mettere i gemelli in un istituto per persone con problemi mentali, anche se in realtà le loro funzionalità cognitive erano nella norma. Man mano che crescevano, gli venivano affidati vari compiti come aiutanti del personale dell’istituto, per esempio per rifare i letti o imboccare gli ospiti che non erano autonomi.
    Gli Schappell avevano trascorso circa vent’anni in istituto quando incontrarono Ginny Thornburgh, la moglie del governatore della Pennsylvania per buona parte degli anni Ottanta. Thornburgh aveva dedicato una parte importante della propria vita ai diritti e all’emancipazione delle persone con disabilità, aiutata dal marito che da governatore aveva provveduto a far chiudere alcune strutture nelle quali venivano spesso lasciati i bambini con problemi dello sviluppo, privandoli della possibilità di vivere e integrarsi nella società.
    Thornburgh facilitò l’uscita degli Schappell dall’istituto e la loro sistemazione in altri tipi di strutture, dove potevano vivere più liberamente. Lori ottenne un lavoro in ospedale al quale partecipava naturalmente anche George, che non poteva muoversi autonomamente a causa della spina bifida, una malformazione delle vertebre che aveva condizionato il suo sviluppo. George non poteva camminare da solo ed era molto più basso di Lori: viveva assicurato a uno sgabello con le ruote, in modo da non obbligare la sorella e rimanere chinata tutto il tempo ed era lei a portarlo in giro con sé.
    In un breve documentario realizzato nel 1997, Lori aveva detto di pensarsi come una persona completamente distinta dal fratello: «Siamo esseri umani venuti al mondo collegati in una parte del corpo. È una condizione che si verifica nel processo di nascita e le persone devono capirlo». All’epoca George si faceva chiamare Reba, dal nome della cantante country Reba McEntire che aveva scelto per sostituire quello comunque femminile che aveva ricevuto alla nascita, ma in seguito aveva intrapreso un processo di transizione perché non si sentiva a proprio agio nel genere corrispondente al proprio sesso biologico.

    Nel periodo in cui si faceva chiamare Reba, George intraprese una carriera da cantante country, vincendo alcune competizioni canore e cantando una canzone per la colonna sonora del film Fratelli per la pelle del 2003, che raccontava la storia di due gemelli congiunti interpretati da Matt Damon e Greg Kinnear. Gli Schappell avevano fatto da consulenti al film e quando i produttori avevano scoperto che Reba cantava, le proposero di inserire una delle sue canzoni nel film.
    Il film non riscosse particolare successo, ma contribuì a mostrare sotto un’ottica diversa i gemelli congiunti. I tempi erano del resto cambiati rispetto ai primi anni Sessanta e soprattutto si stava superando una fase di un certo interventismo da parte di alcuni medici, molto inclini a intervenire chirurgicamente e separare i neonati con quella condizione. In particolare tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, alcuni casi di gemelli congiunti negli Stati Uniti avevano attirato grandi attenzioni in seguito alle operazioni svolte per separarli. Gli interventi erano sperimentali e dalle conseguenze incerte: molti gemelli congiunti non potevano essere separati facilmente, per esempio perché avevano alcuni arti o organi in comune, oppure non erano completamente chiari rischi ed esiti di un intervento.
    Come ricorda S. I. Rosenbaum sull’Atlantic, un intervento condotto nel 1987 su una coppia di gemelli congiunti di sei mesi lasciò importanti conseguenze neurologiche ai pazienti, che non svilupparono mai la capacità della parola. Altri casi controversi riguardarono la separazione di gemelli nella quale solo uno dei due sarebbe potuto sopravvivere, con le difficoltà etiche e morali connesse a quella scelta. In almeno un caso un gemello fu sacrificato per dare più opportunità all’altro, che però morì poco tempo dopo senza avere mai lasciato l’ospedale.
    George e Lori Schappell dissero in più occasioni di non avere mai pensato a un’operazione per essere separati, o di avere sperato di essere nati separati. Erano convinti che non ci fosse una “vita normale”, ma che ognuno abbia la propria, vissuta con vantaggi, scocciature, difficoltà da superare e momenti di felicità. Per quanto possibile, cercavano di mantenere un po’ di privacy, per esempio usando una tenda per fare la doccia separatamente e non necessariamente nello stesso momento. George aveva l’hobby della musica country, mentre a Lori piaceva molto giocare a bowling e avere più contatti sociali. Talvolta il fatto di vivere così uniti portava a qualche strana interazione col prossimo.
    Lori raccontò che una volta un barman in un locale si rifiutò di servire da bere a George, sostenendo che sembrava troppo giovane per avere l’età minima per consumare alcolici. Paradossalmente, lo stesso barman non si fece invece problemi a servire da bere a Lori, convinto che fosse invece grande a sufficienza per poterlo fare.
    Quando Reba cantava sul palco, Lori si copriva con un telo in modo da ridurre le distrazioni per il pubblico. Lori ebbe alcune relazioni amorose e quindi ci furono occasioni in cui ebbe momenti di intimità con altre persone. Aveva raccontato che in quei momenti riusciva a dimenticarsi di essere attaccata alla testa di un’altra persona: «Per quanto riguarda qualsiasi cosa oltre a coccolarsi e darsi dei baci, non andrò oltre. Mi concederò solo la notte del mio matrimonio». Lori non si sposò mai.
    I gemelli Schappell nel 2002 (AP Photo/Brad C. Bower, File)
    Negli anni Novanta i gemelli Schappell parteciparono ad alcuni talk show trash molto famosi negli Stati Uniti come quelli di Howard Stern e di Jerry Springer. Divennero piuttosto conosciuti dal pubblico e raccontati da numerosi articoli di giornale, che utilizzavano spesso toni sensazionalistici o carichi di retorica e di pietà nei loro confronti. Cose che gli Schappell non cercavano necessariamente, visto che cercavano di far passare il messaggio di vivere una loro normalità. Anche per questo non si impegnarono mai direttamente nelle iniziative per far aumentare sensibilità e consapevolezza nei confronti delle persone con disabilità, ma secondo diversi osservatori la loro presenza in televisione contribuì comunque al dibattito e al confronto sull’opportunità di cambiare approcci, terapie e percorsi di cura e assistenza.
    Lori e George Schappell sono morti a inizio aprile; le cause non sono state comunicate dalla famiglia. A seconda del punto in cui sono uniti, i gemelli congiunti condividono organi o specifiche funzionalità, di conseguenza la morte di uno dei due determina anche la morte dell’altro. Rispondendo a una domanda sulla possibilità di essere separati chirurgicamente in un’intervista del 1997, Lori aveva detto: «Il nostro punto di vista è no, decisamente no. Perché mai vorresti farlo? Per tutti i soldi del mondo, perché mai? Rovineresti due vite nel farlo. E sentiremmo orribilmente la mancanza se uno dei due dovesse morire». LEGGI TUTTO

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    Forse con la sordità di Beethoven c’entrava il vino

    Caricamento playerIl 7 maggio di 200 anni fa Ludwig van Beethoven, uno dei più grandi compositori nella storia della musica, salì sul palco del Kärntnertortheater di Vienna per condurre la sua Sinfonia n. 9 che aveva da poco terminato di comporre. Tra il pubblico c’erano grande curiosità e attesa. Beethoven non appariva su un palco da dodici anni e le sue precarie condizioni di salute erano note da tempo: era completamente sordo, beveva molto ed era sempre più debole. Sarebbe morto tre anni dopo quell’esibizione, cinquantaseienne, senza che fossero mai chiarite le cause della sua sordità emersa quando aveva meno di trent’anni. Ora alcuni sviluppi su una ricerca in corso da anni sembrano suggerire una intossicazione da piombo.
    Oltre a ricordare e celebrare le composizioni di Beethoven – come la Sinfonia n. 9, il cui “Inno alla gioia” è l’inno ufficiale dell’Unione Europea – da quasi due secoli storici, medici e semplici appassionati di musica classica si chiedono da sempre che cosa determinò la sordità del compositore, diventata un elemento centrale anche della sua esperienza creativa. Beethoven compose infatti alcune delle proprie opere più famose quando non riusciva più a percepire i suoni, potendoli immaginare solo nella propria mente.
    Negli anni sono circolate molte ipotesi su ciò che causò la sordità e gli altri problemi di salute di Beethoven. Oltre ad avere perso l’udito, Beethoven aveva spesso forti crampi addominali, accompagnati da flatulenze e diarrea che lo lasciavano molto debilitato e periodicamente privo di energie. È stato ipotizzato che avesse la sindrome del colon irritabile, oppure che avesse avuto la sifilide o una forte insufficienza renale forse accompagnata da una forma di diabete. La causa della sordità sarebbe potuta derivare da una malattia degenerativa come l’osteite deformante, che porta a una formazione eccessiva e anomala di materiale osseo, incidendo in alcuni casi anche sull’udito (l’orecchio interno è formato da piccole ossa).
    Le ipotesi derivano per lo più dalle testimonianze dell’epoca di chi aveva vissuto con Beethoven e lo aveva assistito soprattutto negli ultimi anni della malattia, ma i resoconti variano molto e talvolta possono essere fuorvianti. Per questo motivo da diverso tempo alcuni gruppi di ricerca seguono un approccio diverso: analizzare alcuni campioni prelevati dal suo corpo. Le analisi si sono concentrate in particolare su alcune ciocche di capelli, prelevate in varie epoche compreso il periodo intorno al momento della morte di Beethoven da alcuni amici e conoscenti.
    Ci sono diversi musei e collezionisti in giro per il mondo che sostengono di possedere alcune ciocche di Beethoven, ma verificarne l’autenticità non è semplice. I campioni devono essere confrontati con altri certamente appartenuti al compositore, attraverso esami del DNA e di particolari composti eventualmente presenti nei capelli. Lo scorso anno, per esempio, erano emersi dubbi intorno all’autenticità di alcune ciocche proprio in seguito agli esami condotti confrontando capelli in alcune collezioni.
    Grazie alla collaborazione dei collezionisti, un gruppo di ricerca della Mayo Clinic negli Stati Uniti ha di recente ottenuto alcune ciocche autentiche di Beethoven e le ha esaminate per cercare eventuali accumuli di metalli pesanti, che avrebbero potuto spiegare alcuni dei problemi di salute riscontrati dal compositore compresa la sua sordità. Come spiegano in una lettera pubblicata lunedì sulla rivista scientifica Clinical Chemistry, i ricercatori hanno rilevato una concentrazione di 258 microgrammi di piombo per grammo in una ciocca di capelli e 380 microgrammi per grammo in un’altra. Normalmente, la concentrazione è di meno di 4 microgrammi per grammo.
    Secondo il gruppo di ricerca, Beethoven fu esposto con ogni probabilità ad alte concentrazioni di piombo, un metallo che ha importanti effetti tossici per l’organismo. Analisi condotte in precedenza non avevano portato a rilevare livelli così alti di piombo, ma la nuova ricerca più approfondita e portata avanti con altre tecniche ha permesso di calcolare con maggior precisione la concentrazione di piombo e di altri elementi come mercurio e arsenico, rispettivamente 13 e 4 volte superiori ai valori solitamente rilevati.
    Il piombo in alte concentrazioni può avere vari effetti dannosi sul sistema nervoso e potrebbe avere causato, o peggiorato, la sordità di Beethoven. È invece più difficile stabilire se l’intossicazione da piombo fosse tale da rivelarsi mortale, come era stato ipotizzato in passato. È più probabile che Beethoven avesse rimediato l’intossicazione da una delle sue più grandi passioni dopo la musica: il vino.
    Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento non era insolito che al vino, come ad altri alimenti, venisse aggiunto del sale di piombo (dietanoato di piombo), impiegato come dolcificante per migliorare il sapore del vino di bassa qualità. Inoltre, diversi altri strumenti impiegati per la vinificazione contenevano piombo compresi i turaccioli, che venivano trattati in alcuni casi con il sale di piombo per migliorare la loro tenuta come chiusura delle bottiglie.
    Dai resoconti e dai racconti dell’epoca, sappiamo che Beethoven aveva sviluppato nel tempo una certa dipendenza dal vino e che beveva più di una bottiglia al giorno. Era convinto che lo aiutasse a stare meglio e fino agli ultimi giorni della propria vita continuò a bere, sorbendo piccole quantità con un cucchiaino quando ormai non aveva più le forze e le sue capacità digestive erano compromesse.
    L’intossicazione da piombo potrebbe non essere stata comunque l’unica causa della sua sordità. Beethoven iniziò ad accorgersi di sentire sempre meno quando non aveva ancora trent’anni e attraversò periodi psicologicamente molto difficili, con la preoccupazione di non potersi più dedicare alla composizione. Anche per questo motivo consultò decine di medici per provare a trovare un rimedio contro la sordità progressiva, ma senza ottenere benefici dalle terapie che gli venivano prescritte. Molti dei preparati realizzati all’epoca contenevano a loro volta piombo, che avrebbero potuto contribuire a un ulteriore peggioramento delle sue condizioni.
    Nonostante le difficoltà e i problemi di salute il 7 maggio del 1824 a Vienna, 200 anni fa, Beethoven volle partecipare personalmente alla conduzione della prima della sua Sinfonia n. 9. Lo fece insieme a Michael Umlauf, compositore e direttore d’orchestra austriaco che aveva la responsabilità della musica nel teatro (“maestro di cappella”) e che diede istruzioni all’orchestra e ai cantanti di ignorare il più possibile le indicazioni di Beethoven, viste le difficoltà che avrebbe incontrato nel dirigere senza poter sentire la musica.

    Beethoven teneva il tempo e dirigeva come poteva l’orchestra, anche se diverse testimonianze raccontano che fosse più il compositore a seguire l’orchestra che viceversa. Si racconta che durante lo scherzo alla fine del secondo movimento – uno dei più movimentati, creativi e iconici della sinfonia – l’orchestra fu interrotta da un lungo applauso tributato a Beethoven, che però dando le spalle al pubblico non si era accorto di nulla. Beethoven continuò quindi a dare indicazioni all’orchestra anche se ormai fuori tempo, fino a quando intervenne la contralto Caroline Unger che fece girare verso il pubblico Beethoven, che in quel momento vide la grande manifestazione di affetto e apprezzamento per il suo lavoro. LEGGI TUTTO

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    Forse diamo troppa importanza alla “buona postura”

    Caricamento player“Stai dritto con la schiena” è probabilmente una delle raccomandazioni che si sono sentite dire molte persone da piccole, con toni affettuosi o marziali a seconda dei casi e dei contesti. Come per molto di ciò che ci viene detto da bambini, il concetto di tenere la schiena dritta e in generale mantenere una “buona postura” (qualsiasi cosa voglia dire) si è radicato nel nostro immaginario al punto da ricordarlo periodicamente a noi stessi, magari quando ci sediamo scomposti, e naturalmente al prossimo. Eppure, per quanto la raccomandazione di stare dritti sia diffusa, non ci sono molti elementi sulla sua effettiva utilità per vivere meglio o senza dolori come il mal di schiena, al punto da far ipotizzare ad alcuni specialisti che la postura non sia poi così importante se non si hanno particolari problemi di salute.
    Anche in seguito a cosa si sentono dire da giovani, molte persone tendono ad associare una buona postura a una migliore forma fisica, e di conseguenza a migliori condizioni di salute. In realtà la parte fondamentale della schiena, cioè la colonna vertebrale, non è dritta nel senso stretto del termine. Appare allineata se la si osserva frontalmente in una radiografia, ma è sufficiente osservarla lateralmente per accorgersi che ha una forma sinuosa che ricorda quella delle “S”. La parte cervicale è convessa verso la parte frontale del torso, quella toracica verso la parte posteriore, quella lombare nuovamente in avanti e quella del sacro-coccige verso il posteriore.
    (Wikimedia)
    La schiena non è quindi fisiologicamente dritta e per buoni motivi: se lo fosse, buona parte del peso graverebbe sulle vertebre e sui muscoli della fascia lombare, soprattutto nella parte che raggiunge l’osso sacro, sottoponendola a forze eccessive tali da renderla meno mobile. La forma a “S” permette di scaricare le forze più uniformemente, anche se inevitabilmente le maggiori sollecitazioni riguardano quasi sempre le vertebre lombari: è il prezzo da pagare per avere guadagnato una postura completamente eretta nel corso dell’evoluzione.
    L’idea della schiena perfettamente dritta deriva quindi più da questioni culturali che prettamente anatomiche. Già nell’antica Grecia veniva valorizzata la postura che prevedeva di mantenere le spalle indietro, il petto protruso in avanti e di conseguenza la schiena il più possibile in linea. Le statue prodotte nel periodo, la cui estetica avrebbe fortemente influenzato l’arte di altre culture, dimostrano come nella ricerca della perfezione del corpo venisse attribuita una grande importanza allo stare in piedi in un certo modo.
    Una postura di quel tipo non era comunque un’esclusiva della Grecia antica e si trovano illustrazioni di persone in pose simili in diverse altre culture. Mantenere la schiena dritta, e di conseguenza la testa lievemente rivolta verso l’alto, dà del resto l’impressione di una maggiore imponenza, un modo di apparire che poteva tornare utile nei contesti in cui molti problemi si risolvevano con l’uso della forza. Ancora oggi associamo una buona postura a una certa idea di prestanza fisica, tanto da essere portata ai suoi estremi in ambito militare.
    (Kevin Frayer/Getty Images)
    Se però si abbandonano le abitudini culturali e si assume un punto di vista medico, i presunti benefici per la salute nel mantenere schiena dritta, spalle indietro e mento rivolto verso l’alto vacillano. Nella letteratura scientifica non si trovano molti elementi a sostegno dell’importanza della buona postura o di una sua diretta relazione con minori dolori di schiena, al collo o agli arti. Una revisione sistematica di revisioni sistematiche (in pratica uno studio di studi) pubblicata nel 2020 non aveva per esempio rilevato indizi su nessi di causalità tra postura e lombalgia, una delle forme più diffuse di mal di schiena. In alcuni studi era emersa la presenza di entrambi i fattori, ma i dati non avevano comunque permesso di trovare un nesso causale.
    Nel 2021 un’altra revisione effettuata su oltre 650 ricerche si era occupata in particolare della postura spesso poco naturale che si assume alla guida, quando ci si appoggia al volante o si tende comunque a mantenere la schiena inarcata in avanti. Anche in quel caso non era stato possibile determinare un nesso con il dolore lombare.
    Uno studio pubblicato nel 2017 era invece consistito nell’analisi delle abitudini posturali di due gruppi di persone con o senza male alle spalle. Dalla ricerca non erano emerse particolari differenze nelle pose tenute dai partecipanti, ma lo studio aveva riguardato poco meno di 150 persone, quindi non era molto rappresentativo. In un altro studio pubblicato nel 2021 un gruppo di ricerca aveva invece raccontato di avere selezionato cento persone in salute chiedendo loro come valutassero la loro postura abituale. Da seduta, la maggior parte dei partecipanti aveva nei fatti una postura rilassata e lievemente inclinata in avanti, ma se veniva chiesto loro di adottarne una che ritenessero ottimale allora si sedevano con la schiena molto più dritta. Secondo il gruppo di ricerca, il diverso comportamento dimostrava come ci sia una forte differenza nella percezione di una buona postura e il modo in cui molte persone stanno normalmente sedute.
    Nel 2021 fu invece pubblicato uno studio che fece abbastanza discutere tra gli esperti, perché aveva tra gli obiettivi una valutazione nel lungo termine della postura. Ricercatrici e ricercatori avevano selezionato quasi 700 diciassettenni, suddividendoli in gruppi a seconda del modo in cui tenevano il collo da seduti: dritto come il resto del busto, inclinato in avanti con il busto dritto o inclinato, inclinato lievemente come il resto del busto. La posizione veniva rilevata da una serie di sensori applicati ai partecipanti in modo da non modificare le loro abitudini attraverso domande o altri tipi di misurazione.
    Dopo cinque anni, il gruppo di ricerca aveva contattato i partecipanti e aveva chiesto loro se nell’anno precedente avessero avuto problemi al collo per un periodo superiore a tre mesi. Emerse che per i maschi partecipanti la postura assunta a 17 anni non costituiva un fattore di rischio per problemi di cervicale a 22 anni. Tra le femmine emerse invece che quelle abituate a mantenere collo e busto dritto a 17 anni erano più a rischio di avere problemi di cervicale nell’età adulta, rispetto alle diciassettenni abituate ad assumere una posizione più rilassata. Il gruppo di ricerca ipotizzò che una delle cause derivasse dal maggiore impegno dei muscoli della cervicale per mantenere la postura dritta, tale da incidere nel lungo periodo sulla flessibilità e sulla mobilità del collo.
    Non tutti furono convinti dallo studio e la difficoltà di replicarlo, come spesso avviene con le ricerche che riguardano salute e abitudini, spiega perché ancora oggi la questione della postura dritta sia discussa. Rispetto a un tempo, tra chi si occupa di queste cose per professione – come i fisioterapisti – c’è comunque una maggiore tendenza a consigliare il mantenimento di una postura che sia bilanciata, quindi confortevole e tale da non sottoporre a maggiore stress una metà del corpo rispetto all’altra.
    Il consiglio vale per le persone in salute e senza particolari problemi ortopedici, muscolari e di mobilità: chi ha una postura fortemente asimmetrica, magari derivante da specifici problemi di salute come la scoliosi, deve sottoporsi a terapie e ginnastica correttiva per migliorare le cose e ridurre il rischio di avere ulteriori problemi con la crescita e l’invecchiamento. E non preoccuparsi troppo della postura non significa nemmeno ignorare le posizioni che si assumono sul posto di lavoro, in particolare per professioni che richiedono un forte sforzo fisico o il mantenimento per diverse ore di una medesima posizione. Imparare a fare i giusti movimenti è importante per fare prevenzione e anche per questo rientra nella sicurezza sul lavoro.
    Secondo gli esperti i rischi maggiori derivano dai lavori che richiedono di mantenere per molte ore al giorno la stessa posizione. È il motivo per cui una persona che suona il piano di professione, trascorrendo ore alla tastiera, rischia di sviluppare col tempo una marcata cifosi, cioè la curvatura della parte alta della colonna vertebrale in avanti, quella che volgarmente viene chiamata “gobba”. Per ridurre questo rischio nei posti di lavoro dove è possibile si organizzano turni su postazioni diverse, in modo che chi lavora possa cambiare posizione e movimenti per un certo numero di volte al giorno.
    In alcune professioni, come quelle che richiedono di lavorare per molte ore al computer, difficilmente c’è la possibilità di spostarsi visto che la posizione di lavoro è sempre alla scrivania. In questo caso è quindi previsto l’uso di schermi, tastiere, mouse, sedie e altri dispositivi per mantenere una postura adeguata e ridurre il rischio di cifosi. L’effetto che si vuole ottenere non è quello di mantenere una postura completamente dritta, la preferita da alcuni zelanti insegnanti a scuola, ma una posizione confortevole e con meno vincoli di movimento rispetto per esempio all’utilizzo di un computer portatile.
    Cambiare posizione più volte nel corso della giornata, così come alzarsi dalla scrivania e fare qualche passo a intervalli regolari, è ritenuto più importante del mantenimento di una postura “corretta”, anche perché non ce n’è una che vale per tutti allo stesso modo: siamo tutti diversi, anche nella schiena. Fare regolarmente esercizio fisico aiuta a non rinunciare alle proprie posizioni laocoontiche preferite: possono essere sufficienti una passeggiata a passo veloce e un po’ di allungamento. LEGGI TUTTO

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    Non bisogna allarmarsi per le zanzare che possono trasmettere la malaria trovate in Puglia

    Lo scorso settembre in alcune aree rurali della provincia di Lecce è stata fatta un’indagine scientifica per verificare la presenza di zanzare appartenenti a specie capaci di trasmettere la malaria. I risultati dello studio, condotto dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata e dall’Istituto Superiore di Sanità insieme all’ASL di Lecce, sono stati pubblicati il 10 aprile sulla rivista scientifica Parasites & Vectors: di 216 zanzare e larve di zanzara catturate, 20 appartenevano alla specie Anopheles sacharovi, una di quelle che possono fare da vettore agli organismi unicellulari che causano la malaria.Questo non significa che la malaria sia tornata in Italia, dunque non bisogna allarmarsi. Le zanzare in questione non erano parassitate dagli organismi unicellulari (per la precisione protozoi del genere Plasmodium) che causano la malattia, e inoltre erano poche. Per le autorità sanitarie è però importante prendere in considerazione i rischi legati alla presenza delle zanzare Anopheles. Nell’ultimo decennio in Italia sono stati segnalati centinaia di casi di malaria, quasi tutti relativi a persone che avevano viaggiato all’estero: se una zanzara Anopheles succhiasse il sangue di una persona infettata in questo modo, potrebbe poi diffondere la malattia. Dunque per prevenire un’eventuale reintroduzione della malaria le autorità sanitarie devono sorvegliare la presenza di queste zanzare, peraltro favorita dal cambiamento climatico.
    Nel 2022 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che ci siano stati 249 milioni di infezioni da malaria, quasi sempre a causa delle zanzare che sono portatrici sane della malattia (e che sono solo alcune tra le numerose specie di zanzare esistenti). Se curato subito, un paziente riesce a guarire senza particolari problemi, ma la malaria può portare alla morte se non si riceve un’assistenza sanitaria adeguata: in Africa, dove si registra più del 90 per cento dei casi e delle morti per malaria, continua a succedere.

    – Leggi anche: A gennaio è iniziata la prima campagna di vaccinazione al mondo contro la malaria

    In Italia la malaria era una malattia endemica fino alla prima metà del Novecento: è di fatto scomparsa negli anni Cinquanta, dopo decenni di bonifiche, uso di insetticidi (principalmente il DDT, poi vietato per i danni che faceva) e progressi di vario genere nel miglioramento delle tecniche agricole e nel contrasto alla povertà.
    Delle specie di zanzare che sono in grado di trasmettere la malattia, l’Anopheles sacharovi non era stata rilevata in Puglia nell’ultima indagine sui vettori della malaria, fatta alla fine degli anni Sessanta. La ricerca condotta lo scorso anno in provincia di Lecce è stata decisa a causa del ritrovamento di una singola zanzara Anopheles nel settembre del 2022 e ha confermato che questi insetti sono tuttora presenti nella regione.
    Gli autori dello studio ritengono che le iniziative di contrasto alla malaria del secolo scorso abbiano grandemente ridotto la presenza di questa specie, ma che alcune popolazioni residue siano rimaste nelle aree rurali meno antropizzate. Pensano inoltre che di recente il loro numero potrebbe essere aumentato – fino a farcene accorgere – a causa del progressivo abbandono delle zone di campagna e dell’aumento di condizioni climatiche favorevoli.
    L’Anopheles sacharovi non è la sola specie di zanzara capace di trasmettere la malaria che sia stata trovata negli ultimi anni nel Sud Italia, in particolare lungo le zone costiere. Finora la loro presenza non ha causato particolari problemi perché, come nota lo studio pubblicato su Parasites & Vectors, la loro «densità non risulta sufficientemente rilevante, dal punto di vista epidemiologico, da costituire una minaccia per la salute». Vanno però tenute sotto controllo con ulteriori indagini, anche in altre regioni del Sud.

    – Leggi anche: Come l’Italia si liberò dalla malaria, raccontato da Antonio Pascale LEGGI TUTTO

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    Perché si discute di bloccanti per la pubertà e transizione di genere nei più giovani

    Caricamento playerIl National Health Service (NHS) dell’Inghilterra, uno dei quattro sistemi sanitari pubblici del Regno Unito, ha avviato una profonda revisione dei trattamenti per la cosiddetta “disforia di genere” nei pre-adolescenti e negli adolescenti che non si sentono a proprio agio nel genere corrispondente al sesso biologico o che manifestano il desiderio di identificarsi in un genere diverso. Il ripensamento e la limitazione di alcuni interventi sono la conseguenza della pubblicazione di un atteso rapporto – basato sul lavoro di quattro anni e su un’ampia analisi della letteratura scientifica disponibile – dal quale sono emerse importanti lacune nelle conoscenze scientifiche sugli effetti di alcune terapie che vengono avviate per accompagnare e affrontare l’incongruenza di genere in un periodo estremamente delicato per lo sviluppo fisico e mentale.
    La pubblicazione della Revisione indipendente dei servizi di identità di genere per bambini e giovani, che informalmente viene chiamato “rapporto Cass” dal nome della sua autrice, la pediatra britannica Hilary Cass, ha suscitato grande interesse e qualche polemica nella comunità medica e tra chi si occupa di identità di genere, sia per i suoi effetti pratici nei servizi offerti dall’NHS alla popolazione sia per alcune conclusioni che contraddicono almeno in parte studi svolti in passato.
    La questione è del resto estremamente delicata e si può prestare a strumentalizzazioni, soprattutto a livello politico e decisionale, come riconosciuto dallo stesso rapporto che secondo Cass ha cercato il più possibile di mantenersi sugli aspetti prettamente scientifici. Per comprendere l’importanza del rapporto e le conseguenze che probabilmente avrà, non solo nel Regno Unito ma nei molti altri paesi in cui sono previsti trattamenti per la disforia di genere, è opportuno partire dalle basi.
    Pubertà e sviluppoLa pubertà (tra i 9 e i 14 anni circa) e il periodo che la precede sono fasi molto importanti per la crescita e lo sviluppo dell’organismo, sia in termini fisici sia mentali. In generale, le differenze evidenti tra bambini e bambine prima della pubertà sono limitate all’apparato genitale, per quanto ancora con poche funzionalità. Le cose cambiano con la maturazione sessuale e l’adolescenza, un periodo in cui intervengono importanti trasformazioni fisiche, neuronali e psichiche che portano il corpo di un bambino a diventare il corpo di una persona adulta in grado di riprodursi. Vari tipi di ormoni sono coinvolti in questo processo e portano allo sviluppo non solo di tratti più evidenti e distintivi, come peluria e modifica della voce, ma anche di alcune aree del cervello.
    È un periodo delicato che può accompagnarsi a fasi di incertezze, insicurezze e a un certo disagio nel constatare che il proprio corpo sta cambiando in modi magari inattesi e non in linea con le proprie aspettative e aspirazioni. Per la maggior parte delle persone è una fase transitoria, ma può accadere che a volte un bambino o una bambina manifestino un senso di insoddisfazione nei confronti dei loro genitali, dell’avvento delle mestruazioni, dell’abbassamento della voce o della crescita della barba.
    Quel senso di disagio può manifestarsi ancora prima della pubertà, negli anni in cui bambini e bambine iniziano a essere consapevoli del proprio sesso biologico, del genere corrispondente a quel sesso e delle aspettative di chi hanno intorno sul modo in cui lo esprimono. Bambini e bambine non hanno sempre gli strumenti per riflettere profondamente sul non sentirsi a proprio agio nel genere che viene loro attribuito, ma lo possono manifestare in vari modi: per esempio esprimendo il desiderio di indossare abiti socialmente associati al genere opposto, oppure di preferire colori o giochi diversi da quelli che ci si aspetterebbe. Con l’arrivo della pubertà, e quindi di una maggiore consapevolezza di sé, quel senso di disagio può scomparire, ma anche aumentare, e secondo pediatri e psicologi infantili è importante che venga affrontato.
    Disforia e incongruenzaLa disforia di genere è indicata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), mentre nella Classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) si usa la categoria diagnostica di “incongruenza di genere”, ritenuta una definizione più neutra. Negli ultimi anni tra chi si occupa professionalmente della salute delle persone trans è prevalsa comunque l’indicazione “varianza di genere”, più ampia e che aiuta a descrivere un approccio con maggiori complessità rispetto al modello medico tradizionale più orientato a considerare gli aspetti patologici.
    L’accompagnamento delle esperienze di varianza di genere durante l’infanzia e l’adolescenza si è orientato verso due approcci: il cosiddetto “watchful waiting”, cioè di attesa vigile, e il modello affermativo. Il primo consiste nell’osservare con attenzione l’identità di genere che viene dichiarata dalla giovane persona, riducendo le difficoltà e gli ostacoli che dall’esterno potrebbero turbare il naturale sviluppo della stessa identità di genere; il secondo prevede un intervento sul contesto sociale in cui vive la persona che manifesta una varianza di genere in modo che questa venga riconosciuta.
    In alcuni casi il percorso di transizione comprende anche l’impiego di particolari farmaci, la maggior parte a base di ormoni, che hanno la funzione di ritardare il periodo della pubertà o di orientare in modo diverso lo sviluppo sessuale. Si impiegano particolari farmaci (analoghi dell’ormone di rilascio delle gonadotropine, GnRH) che in altri contesti vengono usati per il trattamento della pubertà precoce centrale, cioè di quella condizione che porta a entrare nel periodo di pubertà prima degli 8 anni di età nelle bambine e dei 9 anni nei bambini.
    Le cause della pubertà precoce non sono completamente note e non sempre è necessario intervenire, per esempio se questa si manifesta non troppo prima della media. Nel caso in cui venga diagnosticata si procede con la somministrazione di farmaci come la Triptorelina che ritardano la progressione dello sviluppo, lasciando in questo modo all’organismo il tempo di proseguire con la crescita per esempio dell’apparato osseo che altrimenti rallenterebbe prima del dovuto. La terapia prosegue fino a quando la bambina o il bambino non raggiungono la normale età, con il processo della pubertà che ricomincia dai 6 ai 12 mesi dopo la sospensione della terapia (questo scarto viene tenuto in considerazione sul finire del trattamento).
    Primi trattamentiNelle persone con diagnosi di pubertà precoce, in linea di massima la terapia è ben tollerata e non ci sono particolari ripercussioni a distanza di anni dal trattamento. Partendo da queste considerazioni alcuni medici e gruppi di ricerca che si occupano dello sviluppo si erano chiesti se gli stessi trattamenti non potessero essere usati nei casi di disforia di genere tra i bambini, in modo da ritardare l’avvento della pubertà e dare loro qualche tempo in più per esplorare la propria identità prima di affrontare eventualmente il successivo percorso, che coinvolge l’impiego di altri tipi di ormoni per effettuare il percorso di transizione vero e proprio.
    Alcune delle prime esperienze in questo senso furono svolte nei Paesi Bassi negli anni Novanta, con la somministrazione di farmaci per il trattamento della pubertà precoce in adolescenti e pre-adolescenti che avevano manifestato il desiderio persistente di identificarsi in un genere diverso. La pratica, basata sull’esperienza con 70 adolescenti, fu raccontata in una ricerca scientifica pubblicata nel 2011. Lo studio segnalava come i farmaci bloccanti della pubertà avessero portato, insieme alla terapia psicologica, a importanti benefici per i partecipanti riducendo alcuni dei sintomi più ricorrenti a cominciare dal forte senso di depressione, ansia, scarsa stima di sé e un maggiore rischio di suicidio nell’età adulta.
    L’esperienza clinica dei Paesi Bassi divenne negli anni un importante punto di riferimento nei paesi dove iniziavano a essere organizzate strutture dedicate alla disforia di genere. La maggiore conoscenza della questione tra pediatri e medici contribuì a fare aumentare le segnalazioni e l’invio di pazienti verso i centri specializzati. L’aumento dei casi gestiti fu significativo in alcuni paesi, per quanto con numeri relativamente contenuti rispetto alla popolazione dei minori di 14 anni. In Svezia si passò da 50 casi nel 2014 a oltre 350 nel 2022, mentre in Inghilterra l’aumento fu lievemente più marcato con un passaggio da 470 a 3.600 nello stesso periodo di tempo.
    DubbiCon questi incrementi ci fu anche un aumento della varietà dei casi, spesso sensibilmente diversi rispetto a quelli raccontati nello studio del 2011 nei Paesi Bassi. Molte delle nuove persone coinvolte non avevano per esempio mostrato forme di disagio legate al genere fino al periodo della pubertà e c’erano più casi di particolari condizioni come forme di depressione e di autismo. Alcuni medici iniziarono a mettere in dubbio le pratiche seguite in alcuni ospedali o cliniche, visto che alcuni dei presupposti derivavano soprattutto da quello studio ritenuto datato e non sempre rappresentativo.
    I dubbi sollevati dagli esperti, alcuni coinvolti direttamente nelle cliniche specializzate, portarono tra il 2020 e il 2022 alcuni paesi come Finlandia e Svezia a rivedere alcune delle pratiche legate soprattutto ad alcune tipologie di trattamenti ormonali. Nel 2023 un documentario della televisione pubblica dei Paesi Bassi portò nuovi elementi di confronto e dibattito, che all’inizio di quest’anno sono sfociati nella richiesta da parte del parlamento di avviare una ricerca per mettere a confronto i metodi utilizzati nei Paesi Bassi con quelli di altri paesi europei. La decisione ha suscitato polemiche ed è arrivata pochi mesi dopo la vittoria dell’estrema destra alle elezioni politiche del paese.
    La decisione di avviare un’indagine medico-scientifica nel Regno Unito era nata sulla scia dei medesimi dubbi, espressi da alcuni medici della Gender Identity Development Service di Tavistock, l’unica clinica dell’Inghilterra dedicata alle esperienze di varianza di genere durante l’infanzia e l’adolescenza. Nel 2018 una decina di medici presentò una segnalazione formale, dicendo di lavorare in un contesto che nei fatti portava ad approvare velocemente i trattamenti con i bloccanti per la pubertà anche nel caso di persone con problemi mentali più gravi. La loro preoccupazione è condivisa da chi lavora in cliniche di questo tipo con capacità insufficiente per accogliere le richieste, con la conseguenza di un forte carico di lavoro e di lunghe liste di attesa non compatibili con i tempi della fase dello sviluppo. La possibilità che la delicata fase della diagnosi possa essere affrettata è anche uno dei fattori che può portare una famiglia di bambini e adolescenti trans a preoccuparsi che la disforia di genere possa essere sovrastimata nel caso che la riguarda.
    Alla segnalazione si era aggiunta nel 2021 una ricerca svolta nella clinica inglese e che aveva coinvolto 44 bambini ai quali erano stati prescritti farmaci bloccanti per la pubertà. Lo studio aveva portato a risultati diversi dalla ricerca del 2011, non facendo emergere esiti rilevanti sulle funzioni psicologiche delle persone interessate. Inoltre, 43 partecipanti su 44 decisero in seguito di avviare i trattamenti con ormoni (testosterone o estrogeni), facendo sollevare qualche dubbio sull’effettiva utilità nel ritardare il periodo della pubertà per valutare se procedere o meno con la transizione.
    Sia la ricerca del 2011 sia quella del 2021 presentavano comunque alcuni limiti, come del resto spesso avviene negli studi che riguardano lo stato mentale delle persone. È infatti molto difficile creare condizioni sperimentali che permettano di capire se un dato esito sia dipeso o meno da una terapia, soprattutto in un contesto in veloce evoluzione come nel caso di persone nella loro fase di sviluppo tra inizio della pubertà e adolescenza.
    Il rapporto CassNel 2020 sempre in Inghilterra era stata intanto incaricata Hilary Cass di effettuare una analisi indipendente delle pratiche e degli studi scientifici pubblicati negli anni sull’argomento. Cass è una medica molto rispettata e ha avuto numerosi incarichi di rilievo nella sanità pubblica britannica e nel panorama accademico. Tra il 2012 e il 2015 è stata presidente del Royal College of Paediatrics and Child Health, il più importante organismo professionale dei pediatri nel Regno Unito e in precedenza era stata responsabile di alcuni ospedali pediatrici e della Scuola di pediatria di Londra. Nel 2015 per le proprie attività in ambito pediatrico ha ricevuto una delle più alte onorificenze del Regno Unito (OBE, Officer of the Order of the British Empire).
    Come avrebbe raccontato in seguito, Cass pensò che il lavoro potesse essere svolto in qualche mese: invece avrebbe richiesto quasi quattro anni per essere completato, sia per la complessità dell’argomento sia per la necessità di valutare nel modo più accurato possibile la letteratura scientifica.
    Poco dopo avere ricevuto l’incarico, Cass chiese all’Università di York di effettuare una serie di analisi degli studi esistenti, non solo per confrontare i loro risultati, ma anche per capire metodologie e approcci seguiti per svolgerli. Quel lavoro che ha coinvolto decine di ricercatrici e ricercatori ha portato alla produzione di alcune ricerche scientifiche che sono state comprese nel rapporto e che coinvolgono diversi aspetti della questione: sono per lo più revisioni analisi degli studi già prodotti su un determinato argomento nel tempo, sottoposte poi a processi di revisione da parte di altri esperti indipendenti (“peer review“).
    Linee guidaDue ricerche sono dedicate alla qualità e al modo in cui sono messe in pratica le linee guida e le raccomandazioni per gestire la disforia di genere nei giovani fino a 18 anni di età. Il lavoro si è concentrato su 23 linee guida pubblicate in vari paesi tra la fine degli anni Novanta e il 2022 ed è emerso che la maggior parte non offre un approccio «indipendente e basato sulle prove scientifiche» e informazioni adeguate sul modo in cui sono state realizzate. Le due ricerche hanno anche segnalato la mancanza di trasparenza sul modo in cui sono state sviluppate alcune raccomandazioni e l’assenza di revisioni sistematiche (in sostanza analisi di analisi) delle prove empiriche utilizzate.
    Per l’Italia è stato preso in considerazione uno studio svolto nel 2014 che aveva coinvolto diversi esperti del settore in quello che era stato definito dagli stessi autori: «Un approfondito brainstorming sull’applicazione delle linee guida internazionali nel contesto italiano». I centri di riferimento in Italia sono ancora relativamente pochi, uno dei più conosciuti è presso l’ospedale Careggi di Firenze, di recente sottoposto ad accertamenti da parte del ministero della Salute. Le analisi svolte all’Università di York avevano lo scopo di fare una valutazione generale sulle linee guida, di conseguenza non ci sono riferimenti o confronti specifici tra diversi paesi.
    Entrambe le ricerche hanno comunque messo in evidenza la mancanza di dati attendibili e la necessità di riempire molte lacune, in modo da offrire un servizio migliore a persone che si trovano in una fase critica del loro sviluppo. Partendo da questi risultati, nell’introduzione al proprio rapporto Cass ha scritto che solitamente in ambito medico si è molto cauti nell’adottare nuove scoperte ma che «nel campo dell’assistenza di genere per i bambini è avvenuto il contrario».
    BloccantiPer quanto riguarda i bloccanti per la pubertà, un altro studio effettuato sempre per il rapporto dall’Università di York ha preso in considerazione 50 ricerche sugli effetti di questo tipo di farmaci nei bambini e nelle bambine con disforia di genere. Il gruppo di ricerca ha concluso che un solo studio conteneva dati affidabili e di alta qualità, mentre 25 ne contenevano di «qualità moderata». I restanti 24 studi sono stati invece scartati dopo una prima analisi, perché ritenuti inconsistenti.
    Lo studio ha segnalato che in molti casi le ricerche si erano concentrate sull’efficacia dei trattamenti per fermare la pubertà e sugli effetti collaterali, senza però valutare se i farmaci avessero portato ai benefici attesi in termini di benessere e serenità delle persone coinvolte. Il gruppo di ricerca di York ha trovato indizi «molto limitati» sul fatto che i bloccanti per la pubertà migliorino le condizioni mentali e nel complesso ha scritto che non si possono trarre conclusioni sul loro impatto sulla disforia di genere. Per quanto riguarda gli eventuali effetti dopo i trattamenti, il gruppo di ricerca ha segnalato la presenza di qualche indizio sul peggioramento della salute dell’apparato osseo, in una fase in cui termina il proprio sviluppo.
    OrmoniUna quarta ricerca svolta sempre all’Università di York si è invece occupata dei trattamenti a base di ormoni, molto importanti per la transizione di genere e utilizzati dagli adulti transgender da molto tempo (la loro assunzione può portare a problemi di salute, ma i benefici per chi vive un disagio legato al genere atteso superano abbondantemente i rischi). Negli ultimi anni è diventata più frequente l’assunzione – sotto controllo medico – degli ormoni anche da parte degli adolescenti, dopo che hanno terminato l’assunzione dei farmaci per bloccare la pubertà. È uno degli aspetti più discussi e ha subìto spesso strumentalizzazioni di tipo politico, specialmente (ma non unicamente) dagli ambienti conservatori, e ha portato a limitazioni negli accessi alle terapie in alcuni paesi.
    In questo caso la ricerca ha riguardato l’analisi di 53 studi per verificare quale sia a oggi lo stato delle conoscenze su benefici, rischi ed eventuali effetti indesiderati dei trattamenti ormonali nelle persone di giovane età. A parte uno studio che effettivamente indagava gli effetti indesiderati, tutti gli altri sono stati valutati di qualità bassa o moderata a seconda dei casi, rendendo quindi impossibili conclusioni affidabili su questo tipo di trattamenti per lo meno sugli effetti per l’organismo.
    L’analisi ha trovato qualche indizio sul fatto che questi trattamenti possano comunque portare qualche beneficio dal punto di vista della salute mentale nelle persone trans di giovane età. Cinque studi tra quelli esaminati hanno indicato un miglioramento negli adolescenti con depressione, ansia e altre condizioni a un anno di distanza dall’inizio dei trattamenti. È però difficile stabilire quale sia stato di preciso il ruolo degli ormoni e se non si potessero ottenere i medesimi risultati in altro modo.
    Conclusioni e controversieIl rapporto Cass raccomanda che sia avviato uno studio più ampio sui bloccanti per la pubertà (in Inghilterra dovrebbe essere avviato entro fine anno), che siano svolte ricerche più approfondite sugli aspetti psicologici e legati alle linee guida impiegate e una maggiore raccolta di dati sui trattamenti a base di ormoni.
    La diffusione del rapporto, che era stata anticipata da alcune versioni provvisorie e dai risultati degli studi, è stata accolta con interesse ed è vista come la possibilità di ampliare il confronto su un tema già fortemente dibattuto e spesso polarizzante. Cass ha detto di essere consapevole che le conclusioni del suo lavoro avranno effetti diretti su alcune persone, per le quali ci saranno maggiori limitazioni, ma ritiene che questi effetti siano la dimostrazione della necessità di arrivare a qualcosa di meglio per loro: «Le abbiamo deluse perché le ricerche non sono valide a sufficienza e perché abbiamo pochi dati. La tossicità del dibattito è dovuta agli adulti, e questo non è corretto nei confronti dei bambini e delle bambine coinvolti».
    La scarsa disponibilità di ricerche di alta qualità dipende da numerosi fattori, anche molto diversi tra loro a seconda dei paesi e delle circostanze in cui vengono svolte. La quantità di casi relativamente contenuta, per esempio, rende più difficile avere dati a sufficienza per fare valutazioni ampie e arrivare a conclusioni affidabili. Le risorse finanziarie destinate a questo tipo di esperienze sono talvolta insufficienti, con poco personale medico che può occuparsene e che abbia poi anche il tempo e le opportunità per produrre studi e rapporti sulle pratiche seguite. È un problema comune a diversi ambiti dell’assistenza medica, in particolare in settori che per lungo tempo sono stati messi in secondo piano come quelli della salute mentale per il benessere complessivo di ogni persona.
    Il personale sanitario si muove in questo contesto non sempre ideale per prendere decisioni che avranno importanti conseguenze sulla vita dei loro pazienti. Decidere e avviare un trattamento, al meglio delle conoscenze acquisite in ambito scientifico (per quanto parziali), in alcuni casi è sentito come una necessità sia per la veloce evoluzione del fisico nella fase di sviluppo che richiede di intervenire in tempi rapidi, sia per ridurre il rischio di depressione e suicidi in età più matura.
    Si discuterà ancora a lungo del rapporto Cass soprattutto perché a oggi comprende alcuni degli studi scientifici più completi nella revisione delle ricerche prodotte in questi anni sui trattamenti per gestire la disforia di genere. Alcuni gruppi e associazioni che lavorano sulle questioni di genere hanno segnalato il rischio che il rapporto possa essere strumentalizzato, portando alla perdita di alcuni dei progressi raggiunti in questi anni per accompagnare e assistere i minorenni con varianza di genere. LEGGI TUTTO

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    Il caso di influenza aviaria in un umano contagiato da un bovino

    A inizio settimana negli Stati Uniti è stato segnalato il primo caso di influenza aviaria in un essere umano trasmessa da un bovino, che probabilmente era stato in precedenza contagiato da pollame infetto o da un uccello. Il contagio è avvenuto in Texas e la persona interessata non ha sviluppato particolari sintomi fatta eccezione per un lieve arrossamento degli occhi (congiuntivite), ma la notizia ha comunque portato ad alcuni titoli e articoli allarmati sulla vicenda che si inserisce nell’ampio filone delle notizie intorno all’epidemia da influenza aviaria in corso in molti paesi da quasi cinque anni.Il probabile doppio salto di specie conferma la capacità dei virus aviari di evolvere molto rapidamente, ma per ora non indica che ci siano maggiori rischi rispetto a quelli già indicati dalle autorità sanitarie negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e in altre aree del mondo. I rischi per la popolazione generale legati all’influenza aviaria sono ancora molto bassi, per quanto ci sia grande attenzione sulla diffusione della malattia soprattutto negli allevamenti, dove un focolaio può causare gravi danni economici e qualche rischio di contagio in più tra chi ci lavora.
    Con “influenza aviaria” viene indicata una malattia che interessa principalmente gli uccelli e che viene causata da un’ampia varietà di virus, per quanto imparentati tra loro. Quello che suscita maggiore interesse da qualche anno è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta. Più in generale, i virus aviari sono comuni e interessano da moltissimo tempo gli uccelli selvatici. Le versioni meno aggressive vengono definite LPAI (dall’inglese “low-pathogenic avian influenza”, cioè “influenza aviaria a bassa patogenicità”) e non sono solitamente rischiose per gli animali.
    In alcuni casi, però, un virus LPAI riesce a passare dagli uccelli selvatici agli allevamenti di pollame, finendo in un contesto in cui ci sono migliaia di animali che vivono a stretto contatto e dove sono molto più probabili i contagi. In poco tempo il virus si replica producendo nuove generazioni che contengono mutazioni, dovute per lo più a errori del tutto casuali nella trasmissione del suo materiale genetico, tali da renderlo più letale per gli animali. Questo passaggio fa sì che il virus diventi più contagioso e rischioso e per questo viene definito HPAI, per indicare una forma ad alta patogenicità.
    Gli HPAI possono causare in poco tempo grandi focolai negli allevamenti di pollame, rendendo necessario l’abbattimento di migliaia (in alcuni casi di milioni) di polli per evitare che il contagio prosegua e che generazione dopo generazione i virus coinvolti acquisiscano nuove capacità diventando per esempio ancora più contagiosi. L’attuale forma di aviaria è particolare e osservata con attenzione perché, oltre a causare molti contagi tra gli uccelli e il pollame, mostra una spiccata capacità di trasmettersi anche a specie molto diverse come alcuni mammiferi.
    In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.
    In questi due anni sono stati segnalati passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno del 2022 era inoltre emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.
    Il 2022 era stato un anno particolarmente complesso soprattutto per gli allevamenti di pollame negli Stati Uniti, dove vengono allevate insieme grandi quantità di polli a stretto contatto e di conseguenza con un alto rischio di contagi. Si era reso necessario l’abbattimento di decine di milioni di tacchini e galline da uova, con conseguenze sulla disponibilità e i prezzi di queste ultime in molte aree degli Stati Uniti. La situazione era migliorata nel corso del 2023 negli allevamenti, ma i virus aviari avevano continuato comunque a diffondersi non solo tra gli uccelli, ma anche tra i mammiferi.
    (Jamie McDonald/Getty Images)
    Nell’ultimo anno sono stati confermati casi di aviaria nel bestiame e in particolare negli allevamenti di bovini in Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho e Texas. È probabile che i bovini abbiano contratto il virus da specie selvatiche di uccelli o dal pollame allevato nelle loro vicinanze, ma al momento non ci sono molti elementi concreti per avere qualche certezza in più. Le autorità di controllo negli Stati Uniti non escludono inoltre che i contagi nel bestiame siano molto più diffusi di quanto emerso finora, ma che i casi passino inosservati perché raramente gli animali si ammalano.
    È in questo contesto che è avvenuto il contagio in Texas da bovino a essere umano. Stando alle informazioni fornite dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) degli Stati Uniti, la persona sarebbe stata contagiata mentre lavorava in un allevamento per la produzione del latte e di prodotti caseari (il latte pastorizzato può essere consumato senza correre rischi). Era risultato positivo all’aviaria dopo alcuni controlli dovuti alla congiuntivite che aveva sviluppato, unico sintomo evidente della malattia. Oltre a essere stato messo sotto controllo, il paziente ha iniziato una terapia con farmaci antivirali per ridurre la capacità del virus di continuare a replicarsi nell’organismo, in modo da favorire la guarigione.
    È il primo caso di un passaggio da bovino a essere umano a essere segnalato negli Stati Uniti, ma in precedenza c’era già stato un caso di contagio che aveva invece riguardato un passaggio dal pollame a un operatore che lavorava in un allevamento. Anche in quella circostanza la persona interessata non aveva sviluppato particolari sintomi e si era ripresa dopo qualche giorno.
    Nel corso dell’attuale epidemia alcune decine di persone, in particolare in Asia, sono risultate positive ai virus aviari più diffusi dopo essere state a stretto contatto con animali che avevano l’infezione. Nella maggior parte dei casi non sono stati segnalati sintomi preoccupanti, ma ci possono essere casi in cui si sviluppano complicazioni che in rari casi portano alla morte.
    Un’infezione virale da un certo tipo di H5N1 in una persona non implica comunque che questa sia contagiosa, anzi: è altamente improbabile che in un singolo passaggio il virus acquisisca la capacità di diventare contagioso tra esseri umani. È inoltre probabile che i casi pollame-umani si siano verificati in seguito all’esposizione ad alte quantità del virus nell’ambiente in cui lavoravano. Alcuni virus hanno comunque mostrato una certa capacità nell’effettuare sporadicamente salti di specie e non è un particolare da trascurare.
    I virus influenzali mutano velocemente e spesso in modi poco prevedibili, per esempio se nell’organismo che infettano incontrano altre tipologie di virus dai quali possono prendere in prestito parti di materiale genetico. Un virus che passa da un uccello a un mammifero, come un bovino, potrebbe in questo modo sviluppare la capacità di replicarsi più facilmente nel nuovo ospite e di diventare anche più contagioso. Mutazioni del tutto casuali potrebbero poi far sì che qualcosa di analogo avvenga nel caso di contagio in un essere umano, portando infine a un virus che riesce a circolare con maggiore facilità nella nostra specie.
    Il rischio che ciò avvenga è attualmente considerato basso, ma ci sono studi e ricerche in corso sulle caratteristiche degli HPAI e sui fattori che potrebbero renderli più pericolosi. Il contenimento delle infezioni, per esempio con l’abbattimento del pollame infetto, serve proprio a evitare che ci siano ulteriori contagi che potrebbero fare aumentare la probabilità di nuove mutazioni e salti di specie. Più si riducono i casi di passaggio da specie aviarie a mammiferi, minori sono i rischi anche per gli esseri umani.
    Nel suo ultimo rapporto sull’influenza aviaria, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che tra dicembre 2023 e marzo 2024 i casi di HPAI rilevati negli uccelli sono stati inferiori rispetto ai periodi precedenti. In Europa non sono stati inoltre segnalati finora casi di passaggio dei virus coinvolti negli esseri umani, anche grazie alle pratiche di contenimento effettuate negli allevamenti. Le principali cause di contagio del pollame derivano comunque dal passaggio di uccelli selvatici contagiosi, che entrando in contatto con gli animali negli allevamenti causano poi la diffusione dei virus. Per l’ECDC anche in Europa «il rischio di infezione rimane basso per la popolazione in generale». LEGGI TUTTO

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    Davvero ci servono tutte queste proteine?

    Caricamento playerYogurt ad alto contenuto proteico, succo di frutta con proteine, passato di verdura proteico, cracker con aggiunta di proteine, gelato e dessert proteici, merendine e cereali per la colazione con proteine e perfino acqua proteica. Negli ultimi anni è aumentata enormemente la quantità di prodotti alimentari promossi per il loro contenuto di proteine, spesso con scritte molto evidenti sulle confezioni. Il messaggio che provano a trasmettere è che gli alimenti con maggiori quantità di proteine facciano bene alla salute, anche se in realtà con una normale dieta equilibrata si assumono già le giuste dosi di questi nutrienti. È una comunicazione prettamente di marketing che nel tempo è riuscita a cogliere e ad accrescere un certo interesse verso le proteine, magari contrapposte ad altri nutrienti meno apprezzati come i carboidrati e i grassi.
    Successo commercialeIl mercato dei prodotti proteici è del resto molto fiorente negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali, compresa l’Italia. Un’indagine di mercato ha rilevato che tra giugno 2022 e giugno 2023 le indicazioni a scopo promozionale sulla presenza delle proteine erano stampate sulle confezioni di oltre 3.200 prodotti alimentari. Nello stesso periodo le vendite erano aumentate del 4,5 per cento rispetto all’anno precedente, con un valore di mercato intorno agli 1,7 miliardi di euro. La domanda era quindi in aumento, nonostante i problemi legati all’inflazione e il fatto che in media i prodotti proteici – o che si vendono come tali – siano più costosi e talvolta senza che ce ne sia veramente motivo.
    A causa di alcune diete di moda, della pubblicità e delle indicazioni promozionali praticamente su qualsiasi prodotto, le proteine sono sempre più viste come qualcosa di sano o per lo meno innocuo rispetto ad altre sostanze nutrienti. C’è in molte persone la percezione che possano essere consumate senza problemi e soprattutto che possano sostituire altri nutrienti, oppure che siano fondamentali per avere più energie o aumentare la massa muscolare, soprattutto tra chi fa sport. Mediche ed esperti osservano con preoccupazione questa nuova mania per il proteico, che potrebbe avere conseguenze sulla salute delle persone.
    Le proteine, da capoLe proteine furono descritte scientificamente in modo esteso per la prima volta alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento dal chimico olandese Gerardus Johannes Mulder e da un suo collega, il chimico svedese Jöns Jacob Berzelius, che decise di chiamarle così dalla parola greca πρώτειος (proteios), che significa “primario”. E in effetti le proteine hanno un ruolo fondamentale nella nostra esistenza e in generale in quella degli esseri viventi.
    Fanno praticamente qualsiasi cosa: costituiscono l’impalcatura degli organismi, rendono possibile l’attività cellulare e l’esistenza degli organi e sono anche in buona parte responsabili delle loro funzioni. Dopo l’acqua, le proteine sono i costituenti biologici più abbondanti negli organismi e sono presenti in tutte le cellule, tanto da formarne il 50 per cento del peso (una volta tolta l’acqua). Ne esiste una sterminata varietà e ciascun tipo ha una funzione particolare in base alla sua forma: è sufficiente una minima differenza nel modo in cui è disposta nello spazio perché la sua funzione cambi enormemente.
    Le proteine sono formate da catene di amminoacidi, una grande famiglia di molecole organiche quindi comprendenti carbonio, azoto, ossigeno e idrogeno. Le catene si avvolgono su loro stesse in modi diversi e insieme danno una forma e di conseguenza una funzione alle proteine. Esistono centinaia di amminoacidi che combinati tra loro formano varie proteine, ma quelli necessari per far funzionare il corpo umano sono una ventina e si dividono tra:
    • non essenziali, che il nostro organismo può produrre da sé;• condizionatamente essenziali, che un organismo poco in salute ha più difficoltà a produrre;• essenziali, che non possono essere prodotti dall’organismo e devono essere quindi assunti con l’alimentazione.
    Gli amminoacidi essenziali sono nove e sono presenti in moltissimi alimenti, ma naturalmente nella forma più complessa di proteine. Con il passaggio nello stomaco e nella sezione subito successiva, il duodeno, i succhi gastrici e gli enzimi provvedono a scomporre le proteine che abbiamo assunto mangiando qualcosa e a ridurle nei loro componenti elementari, gli amminoacidi appunto. Alcuni di questi rimangono in zona per rendere possibile la produzione di nuovi enzimi che procederanno alla scomposizione delle proteine in arrivo col prossimo pasto, altri invece finiranno attraverso l’intestino nella circolazione sanguigna e saranno trasportati in altre parti dell’organismo.
    Gli amminoacidi servono infatti alle cellule per produrre nuove proteine. Le istruzioni per farlo sono contenute nel DNA: a seconda dell’ordine e degli amminoacidi, saranno prodotte proteine specifiche necessarie per assolvere ad alcune funzioni per esempio per il trasporto dell’ossigeno attraverso il sangue, oppure per svolgere compiti strutturali e di sostegno come nel caso della produzione del collagene.
    Fai-da-teIl collagene è la proteina più abbondante nei mammiferi e, oltre a costituire circa il 6 per cento del peso corporeo di una persona, è il classico esempio di come si faccia spesso fatica a capire come funzionano le proteine. Molti integratori a base di collagene fanno intendere, in modo più o meno esplicito, che assumendoli si possa aumentare le quantità di questa proteina che fa per esempio da impalcatura della pelle, migliorandone l’aspetto e riducendo gli effetti del suo invecchiamento come rughe e segni di espressione.
    Mangiare un “integratore al collagene” (ammesso che contenga veramente collagene) implica che la sostanza venga scomposta negli amminoacidi, che saranno poi utilizzati dall’organismo per produrre le proteine di cui ha bisogno e non necessariamente più collagene del solito. Gli amminoacidi che costituiscono il collagene sono inoltre presenti in molti alimenti e di conseguenza con una normale dieta si assumono già le proteine necessarie per produrlo. Senza contare che le fiale e le bottigliette di questi integratori contengono millilitri e talvolta centilitri di prodotto, un apporto limitato se consideriamo che una persona di 75 chilogrammi ha circa 4,5 chilogrammi di collagene.
    Integratori e quantitàLa stessa cosa vale per gli integratori che promettono di favorire la crescita muscolare perché contengono specifiche proteine, riconducibili in qualche modo a quelle che costituiscono i nostri muscoli e che li fanno funzionare. Negli anni sono state prodotte molte ricerche sull’effetto degli integratori proteici come barrette e polveri, senza però trovare prove convincenti per definire con esattezza gli eventuali benefici portati dalla loro assunzione.
    Più in generale, una persona in salute che segua una dieta equilibrata (nella maggior parte dei casi si riduce a mangiare un po’ di tutto con moderazione ) non ha necessità di assumere più proteine di quante già ne introduca attraverso l’alimentazione. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) consiglia di assumere quotidianamente 0,8 grammi di proteine per ogni chilogrammo di peso corporeo. Una persona che pesa 75 chilogrammi dovrebbe quindi assumerne circa 60 grammi al giorno. La quantità può variare in base all’età e ad altri fattori legati per esempio a quanta attività fisica si conduce (l’assunzione in questo caso tende ad aumentare per buona parte dei nutrienti, quindi anche per carboidrati e grassi).
    Gli effetti di un’assunzione eccessiva di proteine non sono ancora completamente chiari, anche se ci sono indizi per ritenere che non costituisca un particolare pericolo per le persone in salute e che sia più che altro uno spreco. A differenza dei carboidrati e dei grassi, che sotto varie forme vengono accumulati dal nostro organismo per essere utilizzati gradualmente nel tempo, gli amminoacidi in eccesso e che non vengono quindi utilizzati sono smaltiti dall’organismo. Lo smaltimento avviene per lo più attraverso l’attività del fegato e dei reni e per questo alcune ricerche si sono concentrate sul lavoro, molto intenso, che devono effettuare per indagare eventuali effetti per la salute.
    Per queste ragioni un’assunzione oltre il necessario di proteine è uno spreco, sia dal punto di vista metabolico (cioè di come funziona l’organismo e gestisce le proprie energie) sia economico nel caso in cui si utilizzino prodotti più cari che promuovono il loro alto contenuto in proteine.
    “Più proteine”Fino a qualche tempo fa l’indicazione sulle confezioni riguardava spesso prodotti specifici per gli sportivi, come barrette e polveri ad alto contenuto proteico, mentre ora le indicazioni sono presenti su moltissimi prodotti di largo consumo come latticini, minestre e legumi.
    Le aziende che realizzano molti di questi prodotti in realtà non hanno nemmeno cambiato gli ingredienti rispetto a un tempo (cioè quando non mettevano la scritta “più proteine” in bella vista sulle confezioni), ma hanno semplicemente scelto di dare maggiore evidenza alla presenza di proteine nei loro prodotti. Per accorgersene è spesso sufficiente consultare la tabella nutrizionale, che indica i valori per 100 grammi di prodotto, e confrontarla con quella di prodotti analoghi che non riportano indicazioni promozionali sulle proteine: quasi sempre la percentuale di proteine è la medesima.
    Come si nota osservando gli scaffali nei supermercati, negli ultimi anni c’è stato inoltre un certo passaggio dalle indicazioni sulla presenza di proteine in prodotti facilmente associabili a questi nutrienti, come quelli a base di carne, ad altri come appunto i legumi e i derivati del latte. Intorno al consumo di carne inizia a esserci una maggiore sensibilità, sia per questioni di salute sia legate all’impatto ambientale della sua produzione, di conseguenza i produttori hanno preferito spostare l’attenzione verso prodotti percepiti come meno controversi. Nel farlo hanno però quasi sempre scelto di mettere in evidenza il concetto di “proteine in più” rispetto a quello della possibilità di alimentarsi in modo diverso, riducendo o eliminando del tutto il consumo di carne.
    I nove amminoacidi essenziali sono disponibili in quantità sufficienti nelle proteine derivate dagli animali, come carne di vario tipo, latticini e uova. La soia, molto utilizzata nelle preparazioni vegetariane e vegane, contiene tutti questi amminoacidi, mentre molti altri alimenti vegetali ne contengono alcuni in alte quantità e altri in basse dosi a seconda dei casi. Il loro consumo in combinata permette di solito di ottenere tutti gli amminoacidi necessari, anche se per alcuni vegetali è necessario un consumo lievemente più alto rispetto a quello dei prodotti derivanti in qualche modo dagli animali. Un pacco di edamame (i fagioli acerbi della soia) che mette in bella evidenza la scritta “proteine” sta comunque promuovendo qualcosa di ovvio e naturale, difficilmente un tipo di edamame più proteico di quello dei concorrenti.
    Un più alto consumo di proteine, in alcuni casi molto al di sopra delle linee guida, può rendersi necessario nel caso di particolari problemi di salute. Ci sono per esempio persone che hanno problemi di assorbimento dei nutrienti e devono quindi aumentare alcune dosi per compensare.
    Il maggior successo dei prodotti che promuovono le proteine viene osservato con attenzione dagli esperti e dalle istituzioni sanitarie, visto che come tutte le mode legate al cibo potrebbe avere conseguenze sul modo in cui si nutre una parte importante della popolazione soprattutto nei paesi più ricchi. In questi anni ci si è anche interrogati sul successo delle proteine dal punto di vista commerciale. L’ipotesi più condivisa è che fossero le candidate ideali per avere successo nella ristretta famiglia dei macronutrienti, che oltre alle proteine comprendono i grassi e i carboidrati,
    Il nostro organismo non può fare a meno di queste sostanze, ma dopo avere demonizzato prima i grassi e poi i carboidrati, indicati come i principali responsabili del sovrappeso e dell’obesità, le proteine sono diventate il macronutriente ideale da promuovere come qualcosa di sano e desiderabile per sentirsi meglio. E tutto questo nonostante negli alimenti non ci siano solamente le proteine, ma anche i carboidrati e i grassi in proporzioni diverse a seconda dei casi, come è evidente dalle schede nutrizionali sul retro delle confezioni che promettono un mondo bellissimo fatto di proteine. LEGGI TUTTO