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    Come l’ambiente influenza le culture

    Le differenze culturali sono uno dei fattori comunemente utilizzati per spiegare la variabilità dei comportamenti delle persone a seconda del luogo in cui vivono o sono cresciute. In alcune regioni del mondo è normale mangiare carne di animali che in altri posti è vietato mangiare. In alcuni paesi il sesso prematrimoniale è una pratica comune, mentre in altri è rarissimo. In Romania le persone estranee tra loro mantengono solitamente una distanza di oltre un metro e 20 centimetri l’una dall’altra, mentre in Bulgaria, che pure confina con la Romania per un lunghissimo tratto, la distanza interpersonale mediamente mantenuta tra sconosciuti è meno della metà.In uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B un gruppo di ricerca del dipartimento di psicologia della Arizona State University ha in parte associato le variazioni culturali nel mondo a differenze ambientali, riprendendo alcune teorie e ricerche in psicologia ed ecologia condotte in anni recenti. I fattori ambientali presi in considerazione sono per esempio la geografia fisica e la densità di popolazione, ma anche l’aspettativa di vita e il rischio di malattie infettive. E dall’analisi di questi fattori e della loro evoluzione nel tempo è emerso che popolazioni che vivono in ambienti simili, non necessariamente vicini, sviluppano in una percentuale significativa gli stessi modelli culturali.Il gruppo di ricerca ha raccolto un vasto insieme di dati che misurano variabili ambientali e culturali in 220 paesi del mondo, lo ha chiamato The Ecology-Culture Dataset e lo ha reso pubblico su Scientific Data, la rivista del gruppo Nature dedicata alla pubblicazione di set di dati rilevanti per le scienze naturali, la medicina, l’ingegneria e le scienze sociali. Tra le variabili ambientali, nove in tutto, ci sono il livello medio annuo delle precipitazioni e della temperatura, il tasso di mortalità per cause esterne, la percentuale di disoccupazione e la diseguaglianza economica (coefficiente di Gini).Le variabili culturali sono 72 in tutto – ma nello studio ne sono state utilizzate 66 – e comprendono la rigidità delle norme sociali, l’indice di corruzione, il benessere soggettivo, l’innovazione, il conformismo, l’individualismo, le caratteristiche istituzionali e la disuguaglianza di genere. Sulla base dell’analisi delle relazioni tra i due diversi gruppi di dati gli psicologi della Arizona State University hanno stimato che quasi il 20 per cento della variazione culturale umana può essere spiegata da quella ambientale.– Leggi anche: Perché alcuni cibi ci disgustano?Come spiegato dalla ricercatrice Alexandra Wormley, una delle coautrici dello studio, le stime tengono conto dei problemi noti in questo tipo di ricerche interculturali. Uno di questi è che le società vicine nello spazio o con radici storiche condivise tendono a essere simili anche per aspetti e sfumature che sfuggono alle misurazioni degli studi. Le somiglianze culturali tra la Germania meridionale e l’Austria, per esempio, possono essere spiegate dal loro patrimonio culturale e linguistico condiviso, oltre che da climi e livelli di ricchezza simili.Ma l’analisi dei dati ha permesso di scoprire anche somiglianze sorprendenti e meno facili da interpretare, come quelle tra Polonia e Perù, per esempio. Entrambi i paesi hanno aspettative di vita simili (rispettivamente 73,5 e 75,2 anni) e livelli relativamente bassi di rischio di malattie infettive, e condividono diversi valori culturali tra cui l’indipendenza e la coesione sociale. L’analisi dei dati, secondo Wormley, potrebbe anche servire a prevedere future somiglianze culturali altrimenti insospettabili, tra aree del mondo distanti fisicamente e storicamente ma accomunate per esempio da caratteristiche come la piovosità.Le correlazioni tra variabili ambientali e modelli culturali sono da diversi anni oggetto di un numero crescente di studi che si concentrano su fattori come i rischi per la sicurezza, la temperatura dell’aria e la disponibilità di risorse idriche. La psicologa statunitense Michele Gelfand si è a lungo occupata dell’opposizione tra rigidità ed elasticità delle norme sociali, definendo «culture rigide» quelle con norme sociali forti e scarsa tolleranza per le devianze, e «culture elastiche» quelle molte permissive e con norme sociali deboli.In un ampio studio pubblicato nel 2011 su Science e condotto insieme ad altri 44 ricercatori e ricercatrici di diversi paesi del mondo, Gelfand ha scoperto che la rigidità delle norme sociali in una data cultura è tendenzialmente legata alla quantità di minacce alla sicurezza che la società deve affrontare, dalle guerre ai disastri ambientali. Norme sociali più rigide possono aiutare i membri della comunità a restare uniti e cooperare di fronte a tali pericoli.– Leggi anche: Perché collaboriamoUno studio recente pubblicato sulla rivista Psychological Science e condotto in Iran dai due ricercatori Thomas Talhelm e Hamidreza Harati ha scoperto che alcune comunità con minore accesso alle risorse idriche adottano modelli culturali più orientati all’investimento a lungo termine. L’ipotesi suggerita nello studio è che la scarsità di acqua dolce renda più stringente per le popolazioni il bisogno di pianificare le azioni future in modo da non esaurirla precocemente.Anche la temperatura è considerata una variabile potenzialmente influente nelle differenze culturali tra i paesi. In uno studio del 2017 sulle distanze interpersonali, condotto su circa 9 mila persone provenienti da 42 paesi, i ricercatori e le ricercatrici hanno messo in relazione le distanze abituali con un insieme di caratteristiche individuali dei partecipanti, attributi delle diverse culture e caratteristiche ambientali. E hanno scoperto che anche queste ultime possono spiegare variazioni nei risultati: in luoghi con temperature mediamente più basse le persone sentono meno necessità di spazio personale in pubblico.Una delle ipotesi suggerite nello studio è che nei paesi più caldi e umidi la presenza di microrganismi patogeni e la maggiore diffusione di malattie infettive abbiano influenzato l’evoluzione delle distanze interpersonali. L’ipotesi si basa sul fatto che l’aumento di quelle distanze e la riduzione dei contatti fisici sono stati per secoli parte dell’adattamento comportamentale contro le epidemie. E nelle regioni storicamente più colpite da malattie infettive, come osservato in alcuni studi, le persone tendono effettivamente a essere meno estroverse. Mantenere distanze interpersonali maggiori, secondo questa ipotesi, sarebbe quindi il risultato evolutivo di un comportamento utile a ridurre il rischio di infezioni.In precedenti studi la presenza di microrganismi patogeni nell’ambiente è stata associata anche ad altre differenze culturali. In particolare è stato ipotizzato che nelle regioni con una maggiore diffusione storica di malattie infettive l’inclinazione al conformismo anziché all’individualismo e la “chiusura” verso ciò che sta fuori dalla comunità siano parte di un modello culturale influenzato dalla necessità di inibire la trasmissione degli agenti patogeni. Da questo punto di vista anche l’attenzione e l’enfasi sui modi tradizionali di fare le cose, dalla cucina alla cura della prole alle pratiche di sepoltura, potrebbero servire a disincentivare comportamenti non sicuri.È un’ipotesi evolutivamente sensata, disse nel 2016 lo psicologo statunitense Michael Varnum, principale autore del recente studio della Arizona State University: «Gli agenti patogeni evocano un’intera gamma di risposte che probabilmente sono o erano adattative in qualche modo, che inducono le persone a ridurre le possibilità di infezione». Le prospettive invece cambiano, secondo questa ipotesi, negli ambienti in cui la minaccia delle malattie infettive viene progressivamente meno, privando di senso comportamenti come rimandare l’istruzione, l’esplorazione o l’impegno politico per mettere su famiglia e garantire la trasmissione dei geni prima di morire per una malattia.– Leggi anche: Il complicato rapporto tra i progressisti e la geneticaUn’altra correlazione molto forte confermata dallo studio più recente di Varnum e Wormley, già emersa in uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista Nature Human Behaviour, è quella tra l’evoluzione delle malattie infettive e l’uguaglianza di genere. La diminuzione della prevalenza delle maggiori malattie infettive è correlata a una crescita dell’uguaglianza di genere, in una relazione statistica descritta da Varnum come una delle più strette da lui mai osservate e da lui paragonata a quella tra il fumo e il cancro ai polmoni. La spiegazione ipotizzata è che il rischio inferiore di contrarre malattie infettive favorisca una generica maggiore disponibilità al cambiamento sociale, e di conseguenza apra più spazio all’intraprendenza personale e riduca la spinta a mantenere tradizioni che nella maggior parte dei casi sono patriarcali.Secondo diversi scienziati uno dei principali limiti delle ricerche come quelle sull’influenza dei tassi di malattie infettive sui modelli culturali è l’alto rischio di stabilire correlazioni spurie. Due fenomeni potrebbero cioè essere statisticamente correlati, ma senza che uno dei due influenzi necessariamente l’altro: entrambi potrebbero per esempio dipendere da una terza variabile non presa in considerazione.In uno studio pubblicato nel 2013 sulla rivista Evolution and Human Behavior da due sociologi della stessa università di Varnum e Wormley, Joseph Hackman e Daniel Hruschka, l’analisi di un insieme di dati relativi agli Stati Uniti mostrò una correlazione tra comportamenti violenti e malattie sessualmente trasmissibili, ma non altre malattie infettive. Lo studio descrisse inoltre l’età in cui le persone si sposano e hanno figli come una variabile molto più influente di qualsiasi altra legata ai tassi di malattie infettive.Il rischio di stabilire correlazioni casuali tra variabili ambientali e culturali è chiarito anche nelle conclusioni del recente studio della Arizona State University, in cui si suggerisce che i confronti siano sempre fatti con estrema cautela. Gli autori e le autrici definiscono tuttavia lo studio e l’ampio insieme di dati da loro reso pubblico come un punto di partenza per future ricerche e come strumenti utili a favorire un approccio trasversale alle basi più ampie possibili di dati statistici, necessarie per trarre relazioni plausibili e conclusioni significative. LEGGI TUTTO

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    Perché alcuni cibi ci disgustano?

    Caricamento playerNelle settimane scorse è circolato molto sui social un test online (in inglese) che cerca di misurare e classificare tramite un’autovalutazione il disgusto per alcuni cibi sulla base dei diversi fattori specifici che lo attivano. Nel test, intitolato Food Disgust Test e sviluppato da una piattaforma (IDRlabs) che pubblica quiz tratti da articoli scientifici, viene chiesto di esprimere approvazione o disapprovazione riguardo a 32 affermazioni del tipo: “Trovo disgustoso mangiare formaggio a pasta dura dalla cui superficie sia stata rimossa la muffa” e “Trovo disgustoso mangiare pesce crudo come il sushi”, ma anche “non bevo dallo stesso bicchiere da cui ha bevuto qualcun altro”.Come specificato dagli autori, il test di sensibilità al disgusto alimentare ha soltanto un valore didattico e non diagnostico (obiettivo per cui è consigliabile rivolgersi eventualmente a specialisti della salute mentale). Ha generato comunque un certo interesse ed è stato ripreso da alcuni siti di informazione per l’opportunità che offre di riflettere su una delle emozioni primarie, il disgusto, e sui condizionamenti sociali, culturali e ambientali che subisce. Questi condizionamenti contribuiscono a determinare la variabilità individuale e collettiva del disgusto alimentare e ne fanno qualcosa di molto più complesso e diverso da un meccanismo evolutivo di difesa dall’ingestione di sostanze tossiche e nocive.Il test circolato su internet si rifà a una classificazione dei fattori di disgusto basata su otto gruppi distinti, proposta nel 2018 da una ricercatrice e un ricercatore del Politecnico federale di Zurigo (ETH), Christina Hartmann e Michael Siegrist. Entrambi si occupano di comportamento dei consumatori, la disciplina che attraverso diverse branche delle scienze sociali (psicologia, sociologia, economia comportamentale, antropologia sociale e altre) studia il modo in cui le emozioni e le preferenze dell’individuo e del gruppo influenzano i comportamenti negli acquisti.Negli studi di Hartmann e Siegrist il disgusto per un certo tipo di cibi o un altro non è inteso come qualcosa che è soltanto o presente o assente, ma come una ripugnanza che può variare di intensità a seconda dei casi. Una delle scale di sensibilità al disgusto alimentare da loro descritte è il grado di sensibilità alla carne animale, che determina la tendenza a provare disgusto per la carne cruda o per le parti degli animali mangiate meno comunemente (le frattaglie, per esempio). Una persona può gradire molto il sapore e la consistenza di una certa pietanza a base di un certo taglio di carne, ma avere un intenso disgusto per pietanze a base di altre parti e tessuti dello stesso animale.Dei diversi fattori di disgusto alimentare, scrivono Siegrist e Hartmann, si ritiene che la sensibilità alla carne sia tra quelli con una più forte base culturale. Per ragioni molto radicate, che possono a loro volta essere influenzate da argomenti relativi ad aspetti religiosi e morali, un certo numero di persone in una determinata società può trovare disgustoso e inaccettabile mangiare carne di animali che invece sono parte della cucina di altri paesi in altre culture.In altri studi sul disgusto alimentare, simili fattori basati su argomenti di ordine culturale e morale sono risultati influenti anche nel caso del disgusto per i prodotti ottenuti tramite nuove biotecnologie, come gli OGM, o per quelli di origine animale considerati inappropriati, come i prodotti a base di insetti. I ricercatori suggeriscono che per molte persone influenzate da questi fattori il disgusto sia tale da renderli sostanzialmente insensibili a eventuali argomenti basati su una valutazione dei rischi e dei benefici dell’introduzione di quegli alimenti.– Leggi anche: Le farine di insetti, spiegateIl genere di disgusto alimentare di cui si sono più occupati Hartmann e Siegrist è però quello alla base di variazioni individuali e di gruppo meno omogenee e prevedibili rispetto a quello mediato da fattori culturali più estesi e condivisi. È in particolare un disgusto attivato da segni che possono essere interpretati in modo diverso da persona a persona. La sensibilità alle muffe indicata da Siegrist e Hartmann come altro possibile fattore di disgusto, per esempio, è un esempio abbastanza chiaro di come un disgusto correlato alla possibile presenza di organismi patogeni possa emergere anche in presenza di muffe che non comportano rischi significativi per la salute.Il disgusto determinato dalla sensibilità alle muffe è un meccanismo di difesa normalmente attivo di fronte ad alimenti potenzialmente dannosi, e cioè quelli su cui si sviluppano muffe che potrebbero renderli non più buoni da mangiare. I formaggi freschi, per esempio, richiedono di essere mangiati entro poche settimane, prima che la muffa favorisca la proliferazione di batteri nocivi. In questo caso il disgusto alimentare è strettamente correlato al disgusto in quanto emozione primaria, in grado cioè di attivare un comportamento necessario alla sopravvivenza: non ingerire il cibo andato a male.– Leggi anche: Partiamo dalle BasiLo stesso disgusto può però manifestarsi anche quando la muffa non comporta concreti rischi per la salute, come nel caso di quella che a volte si forma sulla superficie di formaggi a pasta dura o semidura, come il formaggio svizzero o il cheddar. In questo caso è possibile mangiare il formaggio dopo aver rimosso la parte ammuffita, facendo attenzione a tagliarla via e non a raschiarla (azione che potrebbe aumentare il rischio di contaminare la parte non ammuffita). E ci sono poi anche alcuni tipi di muffe commestibili notoriamente utilizzate per produrre alcuni formaggi, come il Camembert, il Gorgonzola, lo Stilton o altri meno diffusi, che a seconda delle abitudini e dei gusti possono risultare deliziosi ad alcune persone ma sgradevoli ad altre.La ragione evolutiva del disgusto per questo tipo di alimenti è che il deterioramento del cibo, sia quello di origine animale che quello di origine vegetale, è spesso segnalato da cambiamenti di colore, consistenza, odore e sapore. E alimenti che presentano cambiamenti di questo tipo possono quindi indurre una reazione di disgusto, anche quando i cambiamenti non indicano necessariamente la presenza di agenti patogeni, come nel caso di un frutto la cui polpa diventa scura per effetto dell’ossidazione pur rimanendo del tutto commestibile.Un altro fattore di disgusto alimentare descritto da Siegrist e Hartmann non riguarda nemmeno dei cibi specifici bensì le condizioni igieniche relative alla loro preparazione o alla loro assunzione. Anche in questo caso il disgusto deriva da una predisposizione evolutiva a evitare o ridurre rischi di contaminazione del cibo. Ma la soglia di accettabilità delle condizioni igieniche può variare molto, sia tra una cultura e l’altra, sia da persona a persona, e quindi in presenza di pratiche e abitudini alimentari condivise (ci sono persone che non mangiano stuzzichini se sono serviti su un piatto comune, per esempio).Nella letteratura scientifica il disgusto è considerato un’emozione primaria che protegge l’organismo scoraggiando l’ingestione di cibi il cui sapore o aspetto è spesso associato alla presenza di agenti patogeni. Si è quindi evoluto in un meccanismo più complesso, che aiuta a regolare il comportamento in varie situazioni sociali e interpersonali, tenendo conto dei relativi costi e benefici nell’evitare determinati stimoli. E per questa ragione è possibile considerarla «un’emozione dei confini», come ha spiegato la dottoressa e psicoterapeuta Serena Barbieri del centro clinico Spazio FormaMentis di Milano, nel podcast del Post Le Basi, a cura di Isabel Gangitano.È un’emozione che ha originariamente a che fare con la ricerca e la disponibilità di risorse nutrienti necessarie alla sopravvivenza. Non essere abbastanza “disgustati” mentre ci si muove all’interno di un ambiente potrebbe portare a ingerire sostanze nocive. Ma esserlo troppo – non mangiare un frutto un po’ ammaccato – potrebbe limitare le opportunità di nutrimento.Come ricordato dalla neuroscienziata canadese Rachel Herz, esperta nella psicologia degli odori e autrice del libro Perché mangiamo quel che mangiamo, il disgusto è l’unica emozione di base che deve essere «appresa», calibrando la propria reazione agli stimoli sulla base di regole e risposte condivise dai genitori, dagli altri membri del gruppo e dalla cultura in generale. E questa eredità culturale subisce l’influenza dell’ambiente.– Leggi anche: Perché ci piacciono i saponi che sanno di vaniglia e cioccolatoMolti degli alimenti che possono dare disgusto sono quelli ottenuti tramite la fermentazione, il processo in cui gli enzimi di alcuni microrganismi – batteri e funghi, in particolare lieviti e muffe – scompongono lo zucchero presente in un cibo in altre sostanze. È uno dei metodi di conservazione più antichi e relativamente economici al mondo, perché non prevede l’utilizzo di sale o di spezie ma soltanto l’assenza di ossigeno e il passare del tempo.Una delle ragioni per cui alcuni alimenti significano molto per determinate comunità è che contengono qualcosa di essenziale della flora o della fauna di una certa regione, ha scritto Herz. E lo stesso vale per i microrganismi che rendono possibile la fermentazione dei cibi, che variano notevolmente da una parte all’altra del mondo. I batteri utilizzati nella produzione del Kimchi, un piatto coreano a base di cavolo e ravanelli fermentati, non sono gli stessi utilizzati per produrre il formaggio Roquefort.Il disgusto è stato condizionato nel tempo anche dalla disponibilità di nuovi metodi, tecniche e strumenti di conservazione del cibo, dalla pastorizzazione ai frigoriferi, che hanno reso certi tipi di fermentazione meno necessari e diminuito la familiarità delle persone con certi sapori.In uno studio di antropologia, biologia e psicologia pubblicato nel 2021 sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori analizzarono i comportamenti di disgusto tra gli Shuar, un popolo indigeno che abita nella regione amazzonica dell’Ecuador e del Perù. E scoprirono che i membri dei gruppi e delle famiglie meno isolate e più integrate nella moderna economia di mercato – quelli che vivevano non di agricoltura, pesca e caccia, ma con un lavoro salariato o vendendo prodotti agricoli – avevano più alti livelli di sensibilità al disgusto, più probabilità di evitare cibo avariato e un minor numero di infezioni batteriche, virali e parassitarie.– Leggi anche: Il gusto del marcio LEGGI TUTTO

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    Ogni giorno facciamo un sacco di cose senza pensarci

    Quando si visita una città per la prima volta, percorrendone le strade a piedi, è abbastanza normale aiutarsi consultando una mappa sul proprio smartphone o seguendo cartelli e altre indicazioni. E imboccare una via anziché un’altra, in casi del genere, è solitamente un’azione guidata da un pensiero cosciente. La maggior parte delle azioni di tutti i giorni non sono di questo tipo: lavarsi i denti, preparare la moka o raggiungere l’ufficio sono azioni prese in carico da una specie di pilota automatico. Sono involontarie, in un certo senso: il risultato di decisioni prese per abitudine e senza che ne siamo coscienti.Le decisioni di questo secondo tipo coinvolgono principalmente quella che in psicologia cognitiva viene definita memoria implicita (o procedurale), un insieme di processi della memoria a lungo termine che utilizza le nostre esperienze passate per permettere l’esecuzione di movimenti e operazioni senza che ce ne rendiamo conto, come andare in bicicletta, suonare uno strumento musicale o usare una tastiera senza dover osservare i tasti. Sono decisioni che si distinguono da quelle coscienti anche sul piano neuro-anatomico: coinvolgono cioè aree del cervello specifiche, diverse rispetto a quelle più coinvolte quando invece cerchiamo, per esempio, di mimare il titolo di un film o risolvere un cruciverba.Comprendere come funziona la memoria quando svolgiamo determinate azioni per abitudine, senza farci caso, è utile a capire cosa succede nei casi patologici in cui particolari traumi o malattie compromettono quei processi. Ma è utile in generale a capire come fa il cervello a gestire ogni giorno migliaia di decisioni inconsce, normalmente, e come e perché azioni che inizialmente richiedono un certo grado di coscienza possono diventare azioni del tutto automatiche e portare ad abitudini molto difficili da cambiare.– Leggi anche: Quelli che vedono i suoniLa memoria implicita è uno dei due tipi principali di memoria a lungo termine: l’altra, quella esplicita (o dichiarativa), serve a richiamare ricordi coscienti di fatti del passato, o anche la data di un compleanno o l’orario di un appuntamento. Quella implicita è invece inconscia e non richiede sforzi, ma dura comunque a lungo: giorni, anni o decenni, a seconda dei casi. Un modo abituale di distinguere i due diversi tipi di memoria a lungo termine, come suggerito dall’esperta psichiatra statunitense Sara Jo Nixon, è ricordarsi che quella esplicita serve a «sapere cosa» e quella implicita a «sapere come».Attraverso la memoria implicita costruiamo ricordi che, una volta formati, è difficile rimuovere – dimenticare come si va in bicicletta, appunto – ed è molto facile richiamare: avviene di fatto, a livello inconscio, ogni volta che eseguiamo determinate azioni in modo automatico. Quando impariamo ad andare in bicicletta acquisiamo varie capacità motorie e di coordinazione necessarie per mantenere l’equilibrio, pedalare, sterzare e controllare l’andatura, tutto nello stesso momento. E succede più o meno la stessa cosa anche quando impariamo a guidare: sono tutte abilità che vengono memorizzate nella memoria implicita, in modo da non dover impiegare ogni volta che le mettiamo in pratica tutte le risorse mentali e la concentrazione richieste la prima volta.In un certo senso, come ha scritto la ricercatrice australiana Gina Cleo sul sito The Conversation, le abitudini e le azioni automatiche permettono di svolgere centinaia di attività mentre il cervello elabora tutte le altre informazioni che riceve ogni secondo. Ciascuno dei due diversi sistemi – quello dell’attività consapevole e quello delle decisioni inconsce – coinvolge inoltre aree diverse del cervello, sebbene nessun tipo di memoria sia del tutto autonomo ed esistano molte interdipendenze funzionali tra le varie parti del cervello.Sulla base di diversi studi di neurofisiologia e neuropsicologia si ipotizza che la parte più coinvolta nelle attività di organizzazione e pianificazione dei comportamenti e delle azioni volontarie sia la corteccia prefrontale. È la parte anteriore del lobo frontale del cervello, ed è responsabile dei processi decisionali: quelli che implicano un’intenzione. Permette di formare nuove connessioni nel cervello quando acquisiamo nuove conoscenze o apprendiamo una nuova abilità, per esempio, e richiede un certo sforzo cognitivo e cosciente.– Leggi anche: Pat Martino diventò un grande chitarrista per due volteUn’area strettamente connessa alla corteccia prefrontale ma distinta è quella dei gangli della base, un insieme di centri nervosi alla base del cervello, legati al controllo dei movimenti, alle emozioni e alla formazione delle abitudini. Sono strutture evolutivamente primordiali, tra le prime a formarsi nel cervello umano, e poiché funzionano in modo riflessivo e automatico non richiedono uno sforzo cognitivo.Quando in un contesto che tende a ripetersi eseguiamo una certa azione più volte e per un periodo di tempo abbastanza lungo, un comportamento inizialmente guidato da un’intenzione può progressivamente diventare un’abitudine. In questo caso l’intenzione viene meno e un impulso a mettere in atto un certo comportamento emerge in automatico perché ci troviamo in un contesto che ha stimolato quel comportamento altre volte in passato. Questo funzionamento spiega peraltro perché quest’area del cervello – in cui si trovano grandi quantità di dopamina, il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – sia la stessa area responsabile, tra le altre cose, dei comportamenti legati alle dipendenze patologiche.Alterazioni patologiche nei gangli della base, causate da fattori non ancora chiari, sono state riscontrate in diverse malattie neurologiche tra cui il morbo di Parkinson, in cui la ridotta produzione di dopamina provoca gradualmente gravi disfunzioni nella regolazione dei movimenti.In alcuni casi non patologici, in condizioni di particolare stress e in presenza di altri fattori come i cambiamenti nella routine quotidiana o la mancanza di sonno, può capitare che strutture primordiali del cervello come i gangli della base, responsabili dei comportamenti abitudinari, prendano il sopravvento sulle strutture superiori, responsabili delle attività coscienti. Si ipotizza che sia questa, per esempio, la spiegazione fisiologica delle tragiche dimenticanze che portano alcune persone a lasciare i bambini in macchina senza rendersene conto, esattamente come è possibile che accada con lo smartphone o le chiavi di casa.– Leggi anche: Perché ci è difficile ricordare le cose successe durante la pandemiaIn circostanze normali, ha scritto Cleo, le abitudini sono invece «scorciatoie della mente» che ci permettono di destinare la nostra concentrazione e la nostra capacità di ragionamento ad altre attività e pensieri nella vita quotidiana. Se per varie ragioni le abitudini smettono di produrre benefici o portano a risultati ritenuti controproducenti, può essere utile o necessario interromperle: cosa solitamente molto difficile da fare.Secondo lo psicologo inglese Benjamin Gardner, docente alla University of Surrey nel Regno Unito e autore di decine di studi scientifici e libri sul comportamento abitudinario, non esiste un approccio ideale per eliminare un’abitudine (in parte diversa dalla dipendenza, che presenta più fattori biologici e neurologici interdipendenti). Molto dipende dal comportamento che si vuole interrompere e dall’individuo che ne ha necessità. Ma i tre modi principali sono: smettere direttamente di fare una certa cosa, evitare lo stimolo ambientale che attiva un certo comportamento, oppure associare a quello stimolo un nuovo comportamento altrettanto soddisfacente.Seguendo un esempio posto da Gardner, se volessimo interrompere la nostra abitudine di mangiare popcorn appena mettiamo piede in un cinema, avremmo sostanzialmente tre possibilità. Potremmo dire a noi stessi «niente popcorn» ogni volta che andiamo al cinema, e quindi non comprarlo. Oppure potremmo smettere del tutto di andare al cinema, evitando il fattore scatenante. O infine potremmo sostituire il popcorn con qualcos’altro da mangiare, che si adatti meglio al nostro budget o alle nostre esigenze nutrizionali. LEGGI TUTTO

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    Quelli che vedono i suoni

    Passeggiare di sera lungo il marciapiede di una strada trafficata è un’esperienza associata, con molta probabilità e per la maggior parte delle persone, alla percezione di stimoli comuni come il suono del clacson di una macchina o il colore della luce di un lampione. Ma per alcune persone la percezione è diversa, più dettagliata: osservano la luce blu del lampione, per esempio, e sentono un sapore di liquirizia in bocca. È un fenomeno psichico noto come “sinestesia”, che si verifica quando uno stimolo di un certo tipo – uditivo, visivo, olfattivo, tattile o gustativo – provoca un’esperienza percepita tramite un senso non correlato a quello stimolo.Le stime della prevalenza della sinestesia, a cui peraltro corrisponde l’omonima figura retorica che unisce parole riferite a sensi diversi (“verde tiepido”, per esempio), variano notevolmente. Secondo alcuni studi interessa una persona su 2.000, più le donne che gli uomini, e secondo altri è ancora più frequente: una persona su 200. Questa variabilità dipende in parte dalle differenze nei criteri di definizione del fenomeno e in parte dalla specificità di ciascuno studio: alcuni si concentrano su determinate sinestesie e non altre (ne esistono decine di varianti, a seconda della combinazione di sensi coinvolti).Ma un altro motivo per cui la sinestesia è un fenomeno difficile da definire con precisione è il fatto che i processi che lo inducono interessano, in una certa misura, qualsiasi persona. Gli studi degli ultimi decenni sul funzionamento delle percezioni sensoriali indicano che i diversi organi di senso, per quanto autonomi, producono un insieme di informazioni che si integrano, si combinano e si influenzano a vicenda in molti modi. La nostra percezione del sapore, per esempio, è il risultato di un processo che coinvolge i recettori olfattivi e le papille gustative, ma anche la vista, il tatto e l’udito: è la ragione per cui per molte persone il sapore di una certa pietanza può cambiare, per esempio, a seconda che sia servita su un piatto nero e squadrato o su un altro celeste e circolare.– Leggi anche: L’olfatto è un misteroSi parla di sinestesia in senso proprio, non come esperienza comune, quando uno stimolo induce sia una percezione associata al senso direttamente stimolato, sia un’altra che apparentemente c’entra poco o niente. È una condizione che può verificarsi a seguito di danni cerebrali, per esempio, o essere indotta tramite l’uso di sostanze o tramite ipnosi. Ma per alcune persone è un’esperienza del tutto abituale, non riconducibile ad altri eventi o azioni particolari.A chi sperimenta questa condizione può capitare, per esempio, di ascoltare un suono e – anche senza vederne la sorgente – percepire uno stimolo visivo chiaro e definito. Oppure – come in uno dei casi più conosciuti e studiati, la sinestesia grafema-colore – può capitare di percepire in un insieme di lettere o numeri sia il colore con cui sono effettivamente stampati, sia un altro diverso specificamente associato a ciascuna lettera o numero.L’associazione tra il lampione e la liquirizia è una delle molte sinestesie che capitano abitualmente alla storica statunitense ed esperta di storia dell’alimentazione Julia Skinner, che ne ha scritto sulla rivista Atlanta.Una delle prime attestazioni storiche di una condizione riconducibile alla sinestesia risale al Settecento. Nel suo Saggio sull’origine del linguaggio, del 1772, il filosofo tedesco Johann Gottfried Herder scrisse che alcune persone associavano «immediatamente» un certo fenomeno a una sensazione con cui non aveva alcuna relazione, o un certo colore a un certo suono. Descrisse con altre parole quella che oggi è generalmente definita “cromestesia”, l’associazione tra colori e percezioni sensoriali di vario tipo (uditivo, olfattivo, gustativo).Il fisiologo francese Alfred Vulpian fu poi uno dei primi a utilizzare la parola “sinestesia” in ambito medico, nel 1860, riferendosi a casi di tosse e starnuti provocati da stimoli sensoriali apparentemente non correlati, come la luce. Dopo una ventina d’anni due studiosi svizzeri, Eugen Bleuler e Karl Bernhard Lehmann, documentarono sei diversi tipi di sinestesia, tra cui «sensazioni di luce, colore e forma suscitate tramite l’udito», «sensazioni sonore tramite la vista» e «sensazioni cromatiche tramite percezioni gustative».– Leggi anche: Quelli che non visualizzano le coseUno degli studi recenti più citati sulla sinestesia fu condotto nel 2001 da due neuroscienziati dell’Università della California, Vilayanur S. Ramachandran ed Edward Hubbard, secondo i quali l’origine della sinestesia potrebbe essere in parte genetica. Secondo la loro ipotesi, l’inclinazione di alcune persone – più diffusa tra artisti e poeti – a percepire collegamenti tra sensazioni apparentemente non correlate sarebbe determinata da una «iperconnettività» tra diverse aree del cervello.Come disse allo Smithsonian il neurologo statunitense della George Washington University Richard Cytowic, che ci siano molteplici connessioni incrociate tra le varie parti del cervello è una condizione che riguarda qualsiasi cervello: «Semplicemente, in quello di chi ha sinestesie, ce ne sono di più». Le ricerche sulla sinestesia sono spesso citate anche in relazione al cosiddetto effetto bouba/kiki, un esperimento psicologico condotto da Ramachandran e Hubbard, tra gli altri, e originariamente attribuito allo psicologo tedesco Wolfgang Köhler, che studiò questo effetto negli anni Venti.L’esperimento prevede di mostrare due figure geometriche affiancate, una tondeggiante e l’altra spigolosa, e chiedere ai partecipanti a quale delle due figure abbinerebbero la parola “bouba” e a quale la parola “kiki”, due parole che non significano niente. La grandissima maggioranza delle persone associa “bouba” alla figura tondeggiante e “kiki” a quella più spigolosa, come confermato anche da Ramachandran e Hubbard, che utilizzarono questo esperimento per il loro studio del 2001. Lo condussero sia su un gruppo di studenti americani che su un gruppo di studenti indiani di lingua tamil, provando che la lingua parlata non era un fattore rilevante.Sia negli studi che se ne occupano che nei documenti storici in cui è citata o descritta, la sinestesia è generalmente intesa come una condizione rara, spesso difficile da definire, ma non un disturbo. Il fatto che sia una sorta di variante estrema di un processo normale di «elaborazione multisensoriale» delle informazioni, come disse al sito LiveScience il neuroscienziato e psicologo statunitense David Brang, lo rende inoltre un fenomeno utile da studiare per comprendere meglio il funzionamento del cervello in generale e quello delle persone più creative in particolare. LEGGI TUTTO

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    Perché ci è difficile ricordare le cose successe durante la pandemia

    Negli ultimi tre anni, soprattutto nel 2020 e nel 2021, le condizioni eccezionali determinate dalla pandemia e dalle misure adottate per contrastarla hanno fornito a ricercatori e ricercatrici di tutto il mondo l’opportunità di raccogliere e analizzare enormi quantità di dati e informazioni. Diverse ricerche di psicologia e neuroscienze hanno permesso di approfondire le conoscenze sui sogni, per esempio, o sulle reazioni agli eventi traumatici e alla sovraesposizione alle notizie.Una parte delle ricerche si è concentrata anche sulla percezione distorta del tempo durante la pandemia e su come il normale funzionamento della memoria sia stato condizionato da molti fattori relativi alle routine atipiche di quel periodo. Un’impressione comune e molto condivisa è che sia piuttosto faticoso rievocare e distinguere con chiarezza i ricordi delle cose successe durante le fasi di isolamento. E che sia difficile associare con precisione un determinato evento a un particolare momento della pandemia anziché un altro: dire se quell’evento sia avvenuto nell’autunno del 2020 o del 2021, per esempio.Questa sensazione largamente condivisa è stata interpretata e descritta dagli studiosi che se ne sono occupati come un fenomeno del tutto normale, molto utile a spiegare per contrasto come funziona la memoria in circostanze normali. Le nostre giornate sono solitamente scandite da eventi – spostamenti in macchina o appuntamenti a cena, per esempio – che forniscono «punti di riferimento temporali», scriveva già alla fine del 2020 un gruppo di ricercatori canadesi della Université Laval, a Québec, in uno studio sulla percezione del tempo durante la pandemia pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology.Quando quei punti di riferimento vengono meno, non solo la nostra percezione del tempo cambia ma cambia anche il modo in cui memorizziamo le informazioni. Non avere molti ricordi chiari e contestualizzati delle cose successe durante la pandemia non è quindi l’effetto di una successiva rimozione o perdita della memoria di quegli eventi, in questo caso, ma piuttosto del fatto che in quel periodo non abbiamo “immagazzinato” informazioni nel modo in cui lo facciamo abitualmente.Per codificare nuovi ricordi e recuperare quelli vecchi il nostro cervello utilizza i cambiamenti nel contesto e i confini degli eventi come una specie di sostegno: stimoli che attivano una diversa attenzione alle circostanze. E tanto più forti e fuori dall’ordinario sono gli stimoli, tanto è più probabile la formazione dei ricordi di quegli eventi. Dopo l’impatto iniziale con la straordinarietà della pandemia – e molti infatti ricordano bene cosa facevano e dove si trovavano nei primissimi giorni – la vita di moltissime persone nel mondo si è svolta invece in un contesto di eccezionale monotonia.– Leggi anche: La pandemia noiosaL’ambiente ripetitivo e privo di stimoli vari in cui le persone hanno trascorso grandissima parte del loro tempo in isolamento è un tipo di ambiente «cognitivamente scarso», ha detto alla rivista canadese The Walrus la neuropsicologa e scienziata cognitiva canadese Morgan Barense della University of Toronto. E questa condizione comporta inevitabilmente una serie di conseguenze.Il cosiddetto doomscrolling, la pratica di scorrere ininterrottamente le notizie (perlopiù drammatiche e deprimenti) sugli smartphone, è stato per molte persone un tentativo del tutto spontaneo di arricchire la memoria a breve termine in momenti della giornata che prima della pandemia erano destinati ad altre attività. Ricevere meno stimoli nuovi significa anche stimolare di meno la memoria in generale: una carenza che si riflette sia in una ridotta formazione di nuovi ricordi, sia in una diminuzione degli stimoli necessari a rafforzare i ricordi di esperienze passate correlate a stimoli di quello stesso tipo.Percorrere ogni giorno in macchina una certa strada da casa all’ufficio, per esempio, è un’attività routinaria che in quanto tale generalmente non attiva un’attenzione diversa da quella di tutti i giorni lungo quello stesso tragitto. Il percorso fornisce però una serie di stimoli – passare da un certo negozio o da una scuola, o incrociare un amico – che possono in molti casi, anche in modo molto indiretto, funzionare come segnali di recupero di esperienze già vissute e rafforzarne il ricordo.Aver formato meno ricordi durante la pandemia è un fenomeno direttamente associato anche alle alterazioni nella normale percezione del tempo, e cioè la sensazione che scorra troppo lentamente o troppo velocemente, o l’incapacità di distinguere un giorno feriale da uno festivo: distorsioni conosciute nella letteratura psichiatrica come «disintegrazione temporale» e associate a vari disturbi della salute mentale.Per uno studio longitudinale, cioè che misura le variazioni nel tempo, pubblicato nel 2022 su una rivista della American Psychological Association (la più importante associazione di psicologi negli Stati Uniti), un gruppo di ricercatori della University of California Irvine condusse due sondaggi su 5.661 persone all’inizio e alla fine dei primi sei mesi della pandemia. Circa due terzi degli intervistati riferirono di aver avuto una percezione distorta del tempo. I ricercatori conclusero che le distorsioni nella percezione del tempo erano molto comuni e associate a diversi fattori tra cui la salute mentale e i livelli di stress prima della pandemia, e l’esposizione a eventi traumatici durante la pandemia.Nel caso delle esperienze traumatiche l’alterazione dei ricordi e della percezione del tempo ha ragioni diverse dalla povertà degli stimoli e dalla monotonia dell’ambiente, e riguarda piuttosto una difficoltà nella rielaborazione degli eventi.– Leggi anche: Vi capita di ricordare in terza persona?Come spiegava sul New York Times in un articolo del 2022 il neurologo statunitense Scott A. Small, noto per le sue ricerche sull’Alzheimer e sull’invecchiamento cognitivo, i neuroni contengono quelle che a volte sono definite «nanomacchine» dedicate alla formazione di nuovi ricordi, ma anche nanomacchine completamente diverse che servono allo scopo opposto: smantellare accuratamente – e quindi dimenticare – le parti dei nostri ricordi immagazzinati.In una certa misura, l’oblio determinato da questa attività neurologica – da non confondere con la rimozione nella psicoanalisi – è un fenomeno normale. E non dovrebbe essere considerato un malfunzionamento della memoria, secondo Small, ma una parte «sana e adattiva» del normale funzionamento del cervello. Memoria e oblio, in altre parole, sono parti di uno stesso processo e in un equilibrio fondamentale per la nostra salute mentale: dipendiamo dalla memoria per «registrare, imparare e ricordare» gli eventi, e dall’oblio per «compensare, scolpire e soffocare i nostri ricordi».La mancanza di questo equilibrio è particolarmente evidente, per esempio, nei casi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). In circostanze normali l’oblio agisce come una protezione dall’ansia debilitante, ha scritto Small, perché non cancella i ricordi ma ne riduce la potenza emotiva. Che è un meccanismo del cervello in funzione sempre, anche quando i ricordi sono associati a emozioni più ordinarie: dimenticare nel senso di mettere da parte dolore o risentimento, per esempio, è spesso una condizione necessaria a preservare relazioni sociali e amicizie. E non vuole dire che il ricordo in sé sia scomparso dalla memoria.Nei pazienti con disturbo post-traumatico da stress l’area del cervello che immagazzina ricordi che generano ansia e paura è molto attiva, e appare invece molto diminuita la capacità dell’individuo di ridurre la potenza emotiva di quei ricordi. Semplificando i termini ma con cautela, ha scritto Small, è possibile pensare al disturbo post-traumatico da stress come a un disturbo contraddistinto da un eccesso di memoria e un difetto di oblio nel senso di «dimenticare in modo sano» un’esperienza traumatica.Di disturbo post-traumatico da stress si è parlato anche in relazione a particolari reazioni alla pandemia, da alcuni associate per tipologia di sintomi a forme lievi di PTSD. Lo stress cronico e l’incertezza sulla propria sopravvivenza sperimentate da molte persone durante la pandemia, secondo Barense, ha provocato in loro un’ansia prolungata e condizionato negativamente la loro memoria e la salute mentale, anche in assenza di una diagnosi di disturbo d’ansia.– Leggi anche: Cosa può insegnare un incidente aereo sulle nostre reazioni alla pandemiaIn alcuni casi, ha detto a The Walrus lo psicologo canadese della University of Toronto Scarborough Steve Joordens, persone che hanno temuto per la loro vita anche in funzione di particolari vulnerabilità – persone immunodepresse o in precarie condizioni di salute – hanno avuto attacchi di panico o altre reazioni emotive incontrollate al momento di tornare a uno stile di vita normale.Casi di questo tipo possono succedere per il modo in cui sono fatti i nostri cervelli, che si sono evoluti per prevedere minacce immediate – i predatori, per esempio – e riconoscere segnali già associati in precedenza a esperienze pericolose, ha ricordato Joordens. Quei segnali attivano a loro volta sensazioni di paura, ma in alcuni casi lo fanno anche in assenza di un pericolo concreto. Vivere l’esperienza di trovarsi in un bar poco prima di una sparatoria, per esempio, potrebbe portare una persona a sentirsi in pericolo in futuro anche solo ascoltando il rumore della macinatura del caffè, associato all’evento traumatico (che è il funzionamento classico del disturbo post-traumatico da stress).Nel caso delle persone che hanno avuto difficoltà a tornare alla normalità dopo i lunghi periodi di isolamento durante la pandemia, il cervello ha tracciato una serie di associazioni tra determinati stimoli – gli assembramenti, per esempio – e una profonda sensazione di paura. In alcuni casi particolarmente problematici le persone hanno avuto bisogno dell’aiuto di specialisti.Per la maggior parte delle persone il ritorno alla normalità invece non è stato difficile, e ha determinato anzi una scarica molto intensa di stimoli nuovi e per lungo tempo assenti. Questa condizione particolare, ha detto Barense, può in molti casi portare anche a diversi tipi di miglioramento improvviso della memoria negli adulti. È un fenomeno noto nella letteratura scientifica come «picco di reminiscenza», e si verifica – a volte a seguito di un cambiamento significativo nella vita – quando le persone sperimentano un miglioramento dei ricordi della prima infanzia o dell’adolescenza.– Leggi anche: A che età risalgono i nostri primi ricordi LEGGI TUTTO

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    Sui figli unici circolano tanti pregiudizi

    Caricamento playerSecondo il più recente rapporto Istat sulla natalità della popolazione residente in Italia, nel 2020 il numero medio di figli per donna è sceso a 1,24: nel biennio 2008-2010 era 1,44. I dati più recenti indicano inoltre che i nuclei familiari con un solo figlio sono la tipologia prevalente: circa il 47 per cento del totale dei nuclei con figli. E tendenze simili a queste sono registrate da tempo anche in altri paesi.Nonostante la presenza di figli unici nelle famiglie sia quindi tutt’altro che un’anomalia statistica, sia in Italia che in altri paesi occidentali è ancora molto diffuso un luogo comune secondo cui sarebbe meglio per un bambino o per una bambina crescere in compagnia di almeno un fratello o una sorella. Questa affermazione – peraltro rafforzata nel 2020 dalla diffusa impressione che l’isolamento durante la pandemia causasse maggiori disagi ai figli unici – non è tuttavia sostenuta da solide prove scientifiche.La letteratura esistente su questo argomento, ripresa dai vari studiosi e professionisti che se ne sono occupati negli ultimi anni, non mostra differenze significative tra figli unici e figli con sorelle o fratelli nell’ambito delle abilità e competenze misurabili. E smentisce gli stereotipi negativi e positivi esplicitamente o implicitamente attribuiti da molti ai figli unici: l’idea che siano destinati a diventare persone viziate, insicure, eccentriche o prepotenti, per esempio, oppure insolitamente precoci e geniali.– Leggi anche: Il calo delle nascite è un bene o un male?Piuttosto si verifica un altro fenomeno, ha scritto recentemente l’Atlantic: che questi pregiudizi siano talmente radicati nel lessico quotidiano, e così strettamente associati all’espressione linguistica «figlio unico», da circolare già tra i bambini stessi – compresi i figli unici – e condizionare gran parte delle osservazioni e riflessioni che si fanno sui bambini senza fratelli né sorelle.Storicamente, la ricerca scientifica considerata pertinente a questo argomento si è concentrata su due diversi aspetti della questione: quello economico e quello sociale. Un’ipotesi presa in considerazione dagli economisti che si sono occupati direttamente o indirettamente del tema dei figli unici è che una famiglia più numerosa implichi meno risorse da investire per ciascun figlio, in teoria: e cioè meno tempo o denaro per l’istruzione e per altri tipi di formazione, oltre che per i beni di prima necessità. Questa disponibilità o meno di risorse dovrebbe pertanto riflettersi in una qualche differenza tra i figli unici e quelli con fratelli e sorelle.Confrontare le differenze tra bambini figli unici e bambini con fratelli e sorelle – relativamente a dati misurabili come risultati scolastici o test del quoziente intellettivo – può tuttavia essere insufficiente o comunque problematico, come scrisse sul New York Times l’economista Emily Oster: perché le famiglie differiscono l’una dall’altra in molti altri aspetti, sia misurabili che non misurabili, a parte il fatto di avere uno o più figli.Una serie di studi e analisi condotte negli anni Duemila sulle famiglie norvegesi è tuttavia considerata significativa, perché fondata su informazioni ritenute particolarmente affidabili e complete per via di un dettagliato lavoro di raccolta e rendicontazione dei dati da parte del governo. E quei dati indicano che il numero di bambini in un nucleo familiare è scarsamente rilevante nel determinare il livello di istruzione o il quoziente intellettivo di quei bambini.I figli unici non hanno inoltre né più né meno probabilità di altri di trovare lavoro o di avere salari più alti. E hanno le stesse probabilità degli altri di diventare genitori adolescenti, un risultato che i ricercatori tendono a classificare come indesiderato. Nel complesso, secondo Oster, «quando si tratta di ciò che gli economisti definiscono “successo”, avere fratelli e sorelle – o non averli – proprio non sembra avere importanza».– Leggi anche: Il complicato rapporto tra i progressisti e la geneticaQuanto all’aspetto sociale della questione, come scrisse il Washington Post in un articolo del 2019, molti dei pregiudizi riguardo ai figli unici sembrano derivare in parte anche dai limiti di alcune ricerche dell’Ottocento e del Novecento nell’ambito delle scienze sociali.In un influente studio di psicologia del 1896 condotto su oltre mille bambini, un ricercatore della Clark University in Massachusetts scriveva che i figli unici «hanno amici immaginari», «non vanno d’accordo con gli altri bambini» e «hanno una cattiva salute, nella maggior parte dei casi». Il punto trascurato nello studio, come spiegò al Washington Post la psicologa sociale statunitense Susan Newman, è che molti di quei bambini vivevano in fattorie a enormi distanze l’una dall’altra e lavoravano ogni giorno per molte ore: una condizione di isolamento probabilmente più penalizzante per i figli unici, e in ogni caso certamente diversa dalle attuali condizioni di vita della maggior parte dei bambini nelle città.Quelle conclusioni furono la base di altri stereotipi che circolarono molto nei decenni successivi, al punto da stimolare un’articolata narrazione sulla «sindrome del figlio unico». Furono largamente respinte dalla comunità scientifica soltanto nella seconda metà del Novecento, e in particolare dopo la pubblicazione di un importante studio di revisione di 141 ricerche da parte delle psicologhe sociali statunitensi Toni Falbo e Denise Polit, nel 1987. Dalle loro ricerche non emersero differenze significative di personalità, socialità, intelligenza e risultati scolastici tra i bambini figli unici e quelli con fratelli e sorelle.L’opinione condivisa dalla maggior parte degli studiosi che si sono occupati dei pregiudizi sui figli unici è che avere fratelli o sorelle può sì determinare benefici significativi, come dimostrano tra l’altro alcuni studi che mettono in relazione la felicità durante la vecchiaia con la presenza di rapporti familiari solidi e sani tra fratelli e sorelle.Le innumerevoli variabili che condizionano l’infanzia a livello individuale rendono tuttavia particolarmente difficile trarre conclusioni chiare sulle differenze tra bambini figli unici e bambini con fratelli e sorelle. Che non vuol dire che quelle differenze non esistano, sostengono gli studiosi: soltanto che le ricerche esistenti non mostrano significative differenze misurabili, o mostrano differenze che tendono a svanire e uniformarsi in età adulta.– Leggi anche: In Asia il calo delle nascite non è più un problema solo del GiapponeAltre relazioni differenti da quelle tra fratelli e sorelle possono svolgere le stesse funzioni, aggiunge l’Atlantic, citando informazioni aneddotiche riferite da Falbo riguardo alle capacità dei bambini figli unici di sentirsi più a loro agio nelle interazioni con gli adulti e gli insegnanti rispetto ai loro coetanei con fratelli e sorelle.Come dato scientifico a sostegno di possibili differenze tra figli unici e persone con fratelli e sorelle, da approfondire, l’Atlantic cita infine i risultati di uno studio longitudinale, cioè una ricerca che effettua ripetute osservazioni dello stesso fenomeno in un lungo periodo di tempo, solitamente decenni. Pubblicato negli anni Settanta e intitolato Project Talent, lo studio mise insieme interviste effettuate a oltre 400 mila adolescenti nel 1960, e poi condotte sullo stesso campione altre tre volte: uno, cinque e undici anni dopo il diploma. Lo studio concluse che, tra gli intervistati, i figli unici erano più interessati ad attività solitarie e meno inclini a partecipare ad attività di gruppo. LEGGI TUTTO